Io `giuridico` tra formule del diritto e morfologia della giustizia

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CIRO PALUMBO*
Io ‘giuridico’ tra formule del diritto
e morfologia della giustizia
« …esiste una vera e propria vocazione a vivere senza il
diritto… ».
S. SATTA, Il mistero del processo
« …persona… si identifica con l’unità del flusso di coscienza. Questa unità viene spesso chiamata anche “io”».
R. INGARDEN, Sulla responsabilità
1. Presenza ed apparenza del diritto. Forma, persona e responsabilità
La giornata di studi1 su Il diritto tra forma e formalismo si è rivelata coinvolgente e formativa per ogni contributo scientifico,
come scelto ed affrontato; ciò va riconosciuto unicamente alla coordinatrice prof. Luisa Avitabile che, con inconfondibile cura e
contestuale metodicità, è riuscita ad instaurare prima il clima della
ricerca e poi una sua possibilità di confronto nel dibattito filosofico, incessante ed aperto, che si schiude dall’entusiasmo della passione del filosofo del diritto e mai si chiude, concedendo lo
spiraglio nella possibilità di nuove prospettive, rimandando la riflessione ad altro appuntamento.
Quest’anno l’opportunità di confronto e lo spazio espositivo
*
Università degli Studi di Roma ‘Sapienza’.
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino, 30 Giugno 2010.
1
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mi sono stati aperti ancora una volta e li ricevo con ogni gratitudine, certo del privilegio concessomi.
Con questo intervento affronto la discussione sul diritto tra
forma e formalismo secondo la prospettiva dei miei studi; in questa occasione intendo entrare, però, proprio attraverso uno studio
della forma2, anche nel vivo dei ‘luoghi’ dove il diritto, appunto, ha
‘vita esteriore’.
La forma introduce una possibile argomentazione intorno a
ciò che è e ciò che appare: la sfera dell’essere, che si tenta di congegnare ad una origine del diritto e quella del suo esistere realmente, in quelle modalità di esternazione3, che si colgono nelle
manifestazioni di diritto, norme, luoghi4, etc.; seppur nella consapevolezza che vivere ed essere non possono eguagliarsi, propongo solo per ogni spunto riflessivo un punto di partenza
secondo il quale il Dasein5 non potrebbe conservare alcuna traduzione fedele nella nostra lingua: appare speculare, ormai, quella
di essere, anche nell’espansione di esser-ci o la loro approssimativa combinazione, che qui, con ogni riserva riflessiva, propongo
rinvenibile in vivere. Dasein, però, sembrerebbe restare convertibile (solo) in da-sein. Ciò non vuol dire che non è traducibile, ma
semplicemente che il concetto sotteso alla lingua tedesca, su cui si
fonda il Dasein, è confinabile in una sfera dell’intelligibile. Ponendo la domanda di Heidegger «cos’è l’essere?» come mutuabile alla domanda «cos’è il diritto?», si individua la ricerca di
senso intorno all’essere. In questa domanda possiamo individuare
un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e
un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è il fon2
Cfr. B. ROMANO, Due studi su forma e purezza del diritto, Torino, 2008,
spec. pp. 30-31.
3
Cfr. F. MODUGNO, La dottrina del diritto in Carlo Esposito, Padova, 2008.
4
Cfr. N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001.
5
Per un itinerario fenomenologico sul Dasein, cfr. P. RICOEUR, Studi di fenomenologia. Verso il formalismo giuridico?, Saggi raccolti e presentati da Mariano Cristaldi, Torino, 2009, pp. 195 e ss.
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damento originario ed autentico del diritto (l’essere), il nostro ricercato è il senso dell’essere, l’interrogato non può che essere un
ente, in quanto l’essere è sempre di un ente; questo ente è l’esserci (Dasein) dell’uomo, nella sua forma e presenza, poiché è costitutivamente apertura all’essere. In questo orizzonte esistenziale si
affaccia il fenomeno costitutivo della relazione, la regola6, che rimanda alle domande sul senso originario del suo stesso eventocreazione: esso avviene nella relazione intersoggettiva perché
l’uomo, nella singolarità, non conserva propriamente una qualche
esternazione regolante.
Ciò accade per una esigenza-richiesta esistenziale dell’uomo di
conferire forma al circostante, tra cui l’altro, ricercando in questi
la propria forma, prima ancora di riconoscerlo dialogicamente
come un Tu. Interrogare l’esser-ci, dell’io e dell’altro, significa studiare le strutture del suo modo d’essere, cioè l’esistenza intesa
come vita, una forma inconfondibile del vivere.
Così accade per il diritto, calato nell’esistenza dell’uomo, fenomenologicamente tangibile nelle forme della sua manifestazione
reale, insidiosamente svelabile nella sua costitutività di giustizia
universalmente esistenziale. Questa ricerca di senso e di forma si
registra solo nell’uomo; invece «i viventi non-umani non istituiscono un sistema di regole, destinate ad incidere nella formazione
della storia» perché sono privi della volontà di forma, non vivono
nel nominare l’altro e non creano forme, non conducono una ricerca di senso nella comprensione delle altre specie viventi; non
chiamano e non riconoscono l’uomo, né gli attribuiscono una
forma come vivente del non-animale, come non la attribuiscono
tra le stesse specie animali; gli animali, per di più, «si trovano ad
avere una forma e non si impegnano in creazioni di forme scelte
dalla volontà di senso, che orienta la qualità delle relazioni secondo
la volontà di forma»7.
6
7
Cfr. B. ROMANO, Ortonomia della relazione giuridica, Roma-Bari, 1997.
B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, Torino, 2010, p. 163.
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In queste riflessioni il riferimento cade ancora sulla presenza
del diritto che differisce dalla sua essenza, qualificandosi strutturalmente come atto della forma che è, appunto, l’atto formale
(modo in cui si dà l’essenza del diritto). Ciò in quanto solo l’uomo
vive degli atti che compie conferendo una forma all’esistenza che
si specifica nella ricerca di un senso in continua formazione.
La questione sembrerebbe, maggiormente nell’epoca globale,
non compresa o non volutamente compresa. Eppure si registrano nel
diritto, e ricorrono incessantemente, dei costitutivi essenziali della
legge, come la forma: essa non è il formalismo, bensì la garanzia dell’espressione dell’essentia iuris che non è mai nella forma materiale
della lingua (formula) che rischia di tradurre l’essentia in fictio (iuris)8.
Nel linguaggio filosofico il termine forma è solitamente contrapposto a materia o contenuto9. Aristotele10 attribuisce a Platone
il primato nell’aver posto il problema della forma parlando di idea e
specie, sia intendendola come essenza e causa delle cose materiali sia
come ciò che rende intellegibili le cose nel senso che è la presenza
dell’idea nella cosa stessa, copia imperfetta dell’essenza ideale11, che
8
S. PUGLIATTI, Finzione, “Enciclopedia del diritto”, vol. XVII, Milano,
1968, pp. 658-673.
9
Il concetto, in tal caso, risale alla filosofia greca che usa i termini morfhv
(morphé, forma sensibile), schvma (skhēma, modo in cui una cosa si presenta),
eivdo~ (èidos, forma intellegibile).
10
ARISTOTELE, Metafisica, I, 987b e ss.
11
In questa direzione si osserva il problema, mai risolvibile nel pensiero
speculativo platonico, tra il mondo ideale e quello della realtà. Rapporto che
Platone tenta di risolvere adoperando di volta in volta i termini di mivmesi~ (mìmesi, imitazione), metessi (partecipazione), koinwnia (koinonia, comunanza),
parouvsia (parousia presenza) che stanno ad indicare nella loro diversità, la vicinanza o lontananza del mondo materiale da quello ideale. Appare chiaro che
quando Platone adopera il termine parousia egli intende che le idee sono molto
vicine, addirittura presenti nel mondo delle cose, quasi che in esse sia depositata la forma immateriale del senso (B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni
e regole, cit., p. 165) mentre quando usa il termine mimesi vuole fare intendere
che il mondo della realtà è solo una lontana imitazione, è molto distante da
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rende possibile all’intelletto dell’uomo capire che cosa essa sia. La
concezione platonica, esposta nel dialogo del Timeo – della formazione dell’universo in base ai due elementi della forma e della materia – viene ripresa e approfondita da Aristotele che se ne serve per
spiegare l’indissolubilità di forma e materia.
Nella dimensione giuridica, anche secondo la prospettiva del realismo fenomenologico di Roman Ingarden, la forma, per l’uomo,
conserva il rimando ad un principio di identificazione della persona
in quanto questa «si identifica con l’unità del flusso di coscienza.
Questa unità viene spesso chiamata anche “io”»12. Infatti, i diritti
della persona non nascono dalle persone; bensì sono depositati in
questa, nella forma indissolubile dell’io, che non è mai formulabile
e non soggiace a computazioni numeriche o statistiche.
La lesione dei diritti della persona è violazione dei diritti dell’uomo che non possono trovare mutate formule imputazionali solo
in base all’ordinamento giuridico di appartenenza. Ciò annuncerebbe
il dissolvimento del concetto di responsabilità che si dà nell’universalità esistenziale e non nella contingenza mutevole delle norme.
Secondo Ingarden in tanto si è responsabili in quanto si è, anzitutto, (morfologicamente) individuabili sia per un’azione, sia per
il suo esito13 e il responsabile è sempre un autore, individuabile
personalmente ed indivisibile, un se stesso non frammentabile o
surrogabile.
Così si ha che il colui della formula imputazionale è solo il se
stesso, unico responsabile, che non può optare per essere ora uno,
ora nessuno o centomila14 a seconda delle altrui attribuzioni o del
suo volere in-formato al puro arbitrio, che non conserva i caratteri
della dell’arbitrio libero e responsabile.
quello della perfezione ideale, quasi che la meraviglia del mondo non è accessibile con la conoscenza di uno o più ambienti del mondo reale.
12
R. INGARDEN, Sulla responsabilità, Bologna, 1982, p. 70.
13
Ivi, p. 21.
14
Cfr. B. ROMANO, Nietzsche e Pirandello, Il nichilismo mistifica gli atti nei
fatti, Torino, 2008.
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La gratuita ingiustizia dell’arbitrio (puro arbitrio) comporta
che l’in/dividuo-autore-unico, chi dell’azione non si libera mai di
quel senso esistenziale di colpevolezza ingeneratogli dalla scelta di
aver compiuto il male15 in luogo del bene, riconoscendosi sempre
responsabile. Ci si domanda, allora, se si è responsabili anche per
aver scelto di compiere nulla, o per aver scelto di compiere il bene,
o ancora, per aver scelto di non scegliere. Si può rispondere con Ingarden chiarendo che vi sono azioni che non portano né ad un merito, né ad una colpa, come è quella del mangiare se finalizzato alla
forma di conservazione della vita.
Questo esito dell’azione mangiare non è imputabile ma solo responsabile in quanto il nutrimento rende alla vita il suo decorso; è,
invece, riflette Ingarden, ingiusta l’azione del mangiare «solo quando
si sottrae il cibo ad un ammalato per darlo ad uno sano e forte perché ne mangi a sazietà» e, qui, «l’azione del mangiare viene coinvolta in un ambito di comportamento nel quale essa entra a far parte
di ciò di cui chi mangia è responsabile»16 (tutti i chi, uno sta ad
ognuno, senza cumuli o surroghe). Potrebbe dirsi con San Tommaso17 che l’atto umano si configura sempre come una scelta della
volontà che opera tra l’alternativa bene/male dove, quando è avvertita o inflitta, la pena è un diritto18 per il responsabile a ragione del
male che colposamente l’io ha ingenerato nell’altro. La pena assurge
15
AGOSTINO, La felicità. La libertà, Milano, 2001, p. 101. Cfr. anche in tal
senso B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia. Vita animus anima, Torino, 2008,
pp. 113 e ss. L’autore chiarisce il discorso intorno alla coincidenza del male con
l’atto peculiare del tradimento della vita interiore: «il male è la volontà che tradisce se stessa, è la libertà che tradisce l’essere libero. È la violazione dell’ortonomia della libertà (…). Con il termine ‘male’ si discute pertanto una qualificazione
esclusiva dell’agire dell’uomo, poiché nei viventi non umani, nei vegetali e nelle
cose non si coglie alcun agire che sia pienamente tale, ovvero che sia da riferire
ad una volontà che sceglie, esistendo nella condizione di consapevole libertà e
dunque nella sospensione tra i poli opposti delle molteplici alternative».
16
Idem.
17
In tal senso TOMMASO, Il male e la libertà, Milano, 2007, p. 175.
18
Cfr. H.G. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, Milano, 1995.
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a diritto perché la violazione della dimensione dell’altro è anche alterazione negativa dell’io nella direzione narcisistica del me stesso.
In questa direzione il principio col quale si invera la forma è,
dunque, quello della individuazione della persona, che poi traduce
la responsabilità19 che l’autore discute, attraverso una fenomenologia delle condotte, nel tentativo di risalire ad un’origine esistenziale di un qualche «diritto a chieder conto della responsabilità».
Avverte Ingarden che dovrebbero essere migliorate le «formulazioni linguistiche»20 intorno alle domande di forma e di senso sulla
questione della responsabilità, che si accavallano viziosamente intorno al concetto21. Una riflessione sul fenomeno della responsabilità22 non prescinde dall’attività di ricerca che l’uomo conduce
intorno ad una forma immateriale del senso del suo Io inteso come
essere, inscindibile e non frammentabile, unico elemento costitutivo che sfugge alla percezione più acuta.
La dimensione della forma che nel diritto si discute non è quella
che fa funzionare la persona nelle relazioni sociali; bensì quella che la
fa esprimere e confrontare nell’aspettativa di riconoscimento con l’altro in una dimensione di giustizia in cui la forma non può tradursi
nella formula in quanto si riferisce all’Io, penetrabile da ognuno perché anche se «il modo in cui lo spirito è unito al corpo non può essere compreso dall’uomo, tuttavia in questa unione consiste
l’uomo»23: una sorta di forma identica solo a se stessa ed indissolubile.
19
R. INGARDEN, Sulla responsabilità, cit., p. 11.
Idem, p. 130.
21
S. PUGLIATTI, La logica e i concetti giuridici, in “Riv. dir. comm.”, 1941, I,
p. 197.
22
Cfr. A. ARGIROFFI, L. AVITABILE, Responsabilità, rischio, diritto e postmoderno. Percorsi di filosofia e fenomenologia giuridica e morale, Torino, 2008.
23
AGOSTINO, L’anima e la sua origine, I, 15.25. Afferma, inoltre, Sant’Agostino, «Checché fosse quello che ignorava, ciò faceva parte certamente della natura umana, e tuttavia una creatura umana lo ignorava senza colpa. Perciò
anch’io nei riguardi della mia anima dico: non so come essa sia venuta nel mio
corpo, perché non sono stato io a darmela… Ma per ora lo ignoro e non ho vergogna, come l’ha costui, a confessare di non sapere quello che non so».
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Ricercando questa consistenza ci si imbatte, però, nella formula,
che, invece, è posta realmente come dettato normativo e come procedura e attraverso la formula procede la forma del diritto. Ma le regole del diritto non possono tradursi nella procedura delle regole24.
Aristotele chiarisce come l’individuo reale, infatti, non può sussistere se non fosse in lui indissolubilmente legata la forma ideale
alla materia25: ovunque sia presente una realtà materiale vi è la necessaria presenza di una forma, un qualche costitutivo della regola.
Sul punto si registra in Boezio un indiretto avvertimento all’uso
attento del linguaggio chiarendo che l’esse è la forma e l’id quod est
l’individuo concreto, nella sua manifestazione reale26.
Il problema pratico del diritto, dunque, risulterebbe nel tentativo di unificare Legge e Testo27 in un’unica dimensione, dove la
Legge orbita nella dimensione della regola giuridica esistenziale (essere) e il testo è custode di un tentativo reale del suo svelamento attraverso l’arte dell’interpretazione (concretezza dell’essere); da
questa unione si darebbe viva e vitale una forma, pura ed indefettibile riducendo nel percorso della storia ogni possibilità pseudogiuridica che è il prodotto del vizio congenito al linguaggio28 e che
riduce il diritto al formalismo.
La forma, che invece va nella direzione di senso e che si distingue dal formalismo (logico e normativo), conserva una priorità
cronologica e ontologica, prima nel tempo e prima come essere rispetto alla materia: essa, infatti, si presenta sia come causa efficiente, che rende possibile l’esistenza della sostanza, sia come causa
24
Cfr. B. ROMANO, Sulla visione procedurale del diritto, Torino, 2001.
TOMMASO, De ente et essentia, capp. V e VI; Summa theologiae, I, 75.
26
Cfr. S. BOEZIO, La consolazione della filosofia. Gli opuscoli teologici, a cura
di L. Orbetello, Milano, 1979, pp. 386 e ss.
27
J. LACAN, Le Seminaire, V, Paris, 1988, p. 146. Sul punto cfr. B. ROMANO,
La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, Torino, 1999 e B. ROMANO, Filosofia del diritto, Roma-Bari, 2002, pp. 166 e ss.
28
F. GALGANO, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel
diritto, Bologna, 2010, pp. 132 e ss.
25
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finale, che esprime il fine che dà senso all’esistenza della cosa
stessa29. Sostiene Aristotele che la priorità della forma è anche ‘logica’ perché, subito, «di ogni cosa si può parlare in quanto ha una
forma e non per il suo aspetto materiale in quanto tale»30. Quasi
che, secondo questa affermazione, possa solcarsi il terreno di una
logica essendi distinta teoreticamente da una logica existendi.
Dunque, secondo questo itinerario, sembra che nello spazio
giuridico i più recenti sviluppi del concetto di forma – sic et simpliciter – si possono ritrovare in quello di struttura ad opera dello
strutturalismo31, senza un riferimento puntuale alla volontà dell’uomo di ricercare ed istituire una forma nel senso della giuridicità. Invece, nella direzione della ricerca filosofica si registra una
apertura alla volontà di senso, che è dell’uomo, come intenzione e
tensione alla ricerca di forma.
Il sentimento di questa ricerca in continua formazione ha
aperto orizzonti a itinerari speculativi come quello della psicologia
della forma (Gestaltpsychologen) che rimanda, essenzialmente, ad
una impostazione fenomenologica32.
29
Cfr. B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, cit.
ARISTOTELE, Metafisica, VII, 1035°. Ancora più approfonditamente Aristotele teorizza su i due concetti di materia e forma riportandoli a quelli di
potenza ed atto. Infatti la materia di per sé esprime solo la possibilità, la potenza, di acquisire una forma in atto nella realtà: perché si realizzi questo passaggio per cui ciò che è possibile diventi attuale, occorre che ci sia già una forma
in atto, un essere attuato. È chiaro che il passaggio dalla potenza (materia) all’atto (forma), che costituisce il divenire, è tale da poterlo concepire come senza
fine, poiché ogni atto diviene potenza per un atto successivo o meglio, sostiene
Aristotele, avrà come termine ultimo un atto che ha realizzato tutte le potenze,
tutte le potenzialità materiali e quindi non avrà più in sè nessun elemento materiale (potenza) e sarà allora un atto puro, Dio. Sui concetti di potenza ed atto
cfr. anche F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, 1967.
31
Cfr. F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, cit.
32
Cfr., per un riferimento alla Gestaltpsychologie, R. INGARDEN, Sulla responsabilità, cit., p. 69-70
30
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2. Formalismo giuridico e decostitutività della forma dell’essereuomo
In questo itinerario speculativo della filosofia del diritto è apparsa, appunto, la questione del diritto tra forma e formalismo. Proprio il luogo di quel tra annuncia il momento originario della
questione della forma, divisa tra una ricerca pura ed una ricerca applicata33, tra sistemi di norme e questioni esistenziali in quanto «i
contenuti delle norme non costituiscono un territorio che possa
guadagnare una sua autonomia rispetto alle vicende della quotidianità umana».
In questo ‘tra’ si registra che i contenuti delle norme si attribuiscono una qualche ‘autonomia morta’, non vivente, costellandosi «delle parole morte, formative di un testo spento, che non
incontra più la vita concreta degli uomini»34: le norme non trattano mai le ‘questioni’ umane dell’esistenza; si cimentano solo nel
tentativo di accomodare i fatti dell’esistenza a fatti dell’empiria normativa; le norme, nelle forme formate, non incontrano l’anima
(l’io), quella sorta di ente indivisibile ed immateriale che fa della
persona un uomo, costitutivamente, e che si presenta come pura dimensione dello spirito – giustappunto impercettibile in termini di
materia – costantemente immersa nelle manifestazioni concrete
dell’individuo che sono sempre suscettibili di ‘sporcarsi’ (s-puro)
con l’impiego fattivo dell’individuo, come al lavoro, alla società,
alla vita quotidiana, in una logica che conserva il paradossale.
Eppure in questa direzione si manifestano – ictu oculi – le usuali
relazioni che fanno funzionare il mondo dei fatti, in questa dimensione si danno a vicenda le forme accadimentali dell’esserci ma
non quelle reciproche del volersi istituire nelle forme costitutive dell’essere (esse) e non in quelle solo statuitive ed istitutive della vita
33
Cfr. B. ROMANO, Ricerca pura e ricerca applicata nella formazione del giurista, Torino, 2008, p. 77.
34
Ivi, pp. 77-78.
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concreta e delle relazioni (id quod est); in questa dimensione dell’esistere concreto e contingente si assiste anche ad un diritto a respirare l’aria, apparentemente irrinunciabile e non spendibile nelle
formule del mercato; ma anche questo diritto rischia la forma di
una forma formata, disperdendo il senso in formazione se ciò è richiesto dal mercato dell’utilitarismo. Dunque, nell’analisi del diritto a respirare l’aria, come già accade per l’acqua, non si registra
la volontà di senso al respiro responsabile della vita.
In questo modo ‘tabellizzato’di pensare le forme si presenta
anche la forma del saluto, non così lontana da quella del riconoscimento, ma empaticamente distinta, presentando la dimensione dell’uomo in una forma funzionante dell’incontro che registra, però,
nel tempo, il segno del declino dell’io, calato in una forma mai propriamente pura, che sostituisce allo scambio tra io i caratteri contingenti e transitori dell’approccio e dell’incontro tra soggetti.
La ricerca di una forma promana dall’esigenza esistenziale dell’uomo di conferire forme, attività che si manifesta proprio ed
anche nell’istituire il senso, sempre in formazione. La traduzione
di questo itinerario rivela che il senso, però, nella contingenza dei
fatti, inganna l’uomo che è coinvolto e attanagliato35 nella contingenza giuridica e politica dei fatti, presentandosi non come senso
in formazione ma come forma già formata.
Quella che dovrebbe presentarsi come ricerca del senso immateriale e della sua forma pura ed inalienabile finisce con l’inchiodarsi al fine delle uniche forme dell’utile e del contingente. È
qui che il sacrificio dell’uomo si acuisce per schiodarsi dalle forme
formate, che sformano l’io, ed impegna la propria ed unica indivisibilità nella direzione di una formazione incessante e perpetua.
L’apposizione concreta di una forma, che pure il diritto materialmente sempre registra, fa riflettere sulle note formule che vogliono esprimere il diritto nella positività dell’ob-jectum (garantendo,
35
2008.
Cfr. in tal senso N. IRTI, La tenaglia. Difesa dell’ideologia politica, Bari,
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più che il diritto, l’esistenza concreta di un dato di riferimento (oggettuale); così avviene che il linguaggio giuridico rinuncia alla sua
stessa origine nell’ipotesi di senso, nel riconoscimento dell’Io e del
Tu tra domandare e rispondere.
La domanda sul diritto eguaglia la riflessione sulla giustizia:
non appena posta la forma che è nel dato normativo essa interviene come una risposta sempre lì formata, valida in ogni spazio ed
in ogni tempo e che valida poteva essere anche prima della sua
stessa formulazione ed apposizione nell’ordinamento delle norme.
In questa direzione da ogni fatto umano potrà discutersi solo la
sua potenziale afferenza ad un fatto normativo, ma non potrà affermarsi che «ogni fatto giuridico è plasmato su un fatto umano»36.
Con questa espressione Pugliatti chiarisce che l’intendimento sull’uso del linguaggio si complica (complessità) nella terminologia
giuridica: plasmare37, infatti, sta per lavorare secondo il modello
voluto una materia informe. Si assiste, però, ad un eccesso di mutabilità dei termini dove il modello, che dovrebbe svelare una
forma pura, è stato acquisito a mero suffisso (mod) approdando
alla specificazione di quanto si presenta ed appare alla moda. Ciò
si registra nel modello dell’apparire secondo un mondo, appunto,
alla moda, ma non a modo (modello) dell’essere.
In questa direzione tutti gli interrogativi di senso muovono
verso una «qualità delle relazioni tra gli uomini»38, qualità che si
qualifica in una forma. Così l’interrogativo quale diritto, che innesca la riflessione sulla giustizia, è speculare interamente a quale essere (forma) e lascia scoprire, come la sabbia che è spolverata dal
vento sulle dune del deserto, che ancor prima giacciono altri interrogativi di senso:
a) come è il modello della responsabilità?
36
S. PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978, p. 287.
Dal greco plavssein che significa modellare; dalla tradizione biblica conserva anche il significato di creare, generare.
38
B. ROMANO, Due studi su forma e purezza del diritto, cit., p. 15.
37
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b) quale è la forma della responsabilità?
Il primo rimanda, secondo il senso etimologico indagato in plasmare, all’elemento della intenzionalità husserliana secondo una
fenomenologia verso la forma stessa, che non è la sola cosa in un
sè concreto e materiale (presenza), ma la cosa in sé nella sua autenticità ed originalità (essenza);
Il secondo introduce, in prima intuizione, alla questione della
qualità che tutela e cura le relazioni intersoggettive della giustizia.
Poi prepara alla distinzione tra la forma del rispondere di e quella
del rispondere a. Nella ricerca di senso l’uomo (ri-) cerca di conferire forme ad entrambe le responsabilità. La prima impegna l’analisi strutturale ed il tenore linguistico della forma terminologica
traducendo la forma della responsabilità in quella dell’imputabilità
(formula imputazionale); la seconda si lascia più insidiosamente
svelare nell’immaginario individuale di chi vuole scoprire la forma
del ‘rispondere a’. Si affaccia nell’immediatezza la forma esteriore
della legge che si presenta come rappresentazione materiale che
rimanda all’insieme composito di luoghi e riti, dalle aule dei tribunali alla loro presentazione visiva, tra formule fungibili come la
legge è uguale per tutti o la giustizia è amministrata in nome del popolo; o, ancora, all’apposizione del simbolo a crocifisso, con o senza
corpo affisso, come ‘ultimo’ garante di una giustizia universale.
Questa sorta di morfologia della giustizia, tra procedure e formule, né contempla né garantisce la forma del diritto, anzi: si registra, un impercettibile ed offuscato misticismo di massa che
anch’esso è senza forma, se non quella della materialità. Questa rapresentazione della giustizia è meglio spendibile come attenzione
strutturale ad un formulario esteriore della legge, nelle sue manifestazioni concrete ed eclatanti; e non si registra altresì l’attenzione al
diritto nella forma pura della giustizia che è sempre verso qualcuno
e mai rappresentativa di qualcosa. Si assiste, per contro, ad un affaticamento riflessivo per l’uomo, prodotto dalla noia (anche delle
formule) e dalla contingenza globale, che ostacola la ricerca della
forma pura del diritto come forma immateriale del senso.
214
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Il formalismo giuridico è decostitutivo della forma in quanto
rende questa corruttibile ed alienabile, mai uguale a se stessa e fungibile. Se con Boezio si è annunciata una forma come essere, col
formalismo qui argomentato non si ha nemmeno il passaggio tra
l’astrattismo dell’essere e il concretismo del ciò che è perché la inalienabilità e costitutività (forma) dei diritti dell’uomo verrà sempre cristallizzata nei diritti fondamentali positivizzati39, non
lasciando spazio all’intervallo esistenziale, anche rinvenibile in quel
‘tra’.
Nel formalismo giuridico, dunque, l’individuo non conferisce più
alla vita alcun senso: né la dirige verso una catarsi, né verso una via
della verità o della giustizia; direziona la prua della vita ora in un verso
ora nell’altro finendo per guardarsi vivere e lasciarsi morire, comportandosi come un nessuno (uno-soggetto-qualuque numerico), ma
risultando anche un tutti, perché muore in ogni attimo e in ogni attimo rinasce nuovo e senza ricordi. Se questa è la via per una ricerca
dell’io, responsabile e libero, si tratta di una pronta illusione in quanto
in questo itinerario la ricerca dell’io è condotta accantonando l’io;
mentre «la ricerca dell’io non può prescindere dall’io»40. Nella scelta
del contingente si assiste alla messa a rischio dell’esistenza come incessante ricerca di senso. Le forme che si scelgono nella contingenza
sono prodotti pronti, dei quali non può discutersi alcuna autenticità
se non una funzionalità. Il consumo dell’attimo contingente si serve
delle forme che lo stesso sistema del formalismo offre secondo un
self service del diritto, dove offesa, pretesa, difesa, danni e vantaggi
sono opzionabili e oggettivi, mai lasciati al tempo della riflessione e
dell’incontro nella forma originaria della relazione giuridica. Questo
percorso conduce ad una non-vita che incontra la morte delle forme
39
Cfr. B. ROMANO, Diritti dell’uomo e diritti fondamentali. Vie alternative:
Buber e Sartre, Torino, 2009, p. 87.
40
Cfr. L. FEUERBACH, Zur Kritik der hegelschen Philosophie, “Hallische Jahrbücher” 1839; trad. it., Critica della filosofia hegeliana, in ID., Principi della filosofia dell’avvenire, Torino, 1971, p. 36.
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del vivere, attraverso lo spreco continuo delle occasioni per il pentimento o la redenzione, dimensioni che pure il diritto formale lascia
intendere di computare come momenti in cui si apprende una «consapevolezza di aver compiuto il male e l’ingiusto»41.
Così, senza l’intervallo riflessivo del pentimento e della redenzione (forme di una purezza dell’essere), si avverte nell’umano il fenomeno dello spreco, percepito sempre come ingiusto in quanto
nega il dono del senso e configura che «quando la vita è sprecata
una volta … l’amore verso l’altro non tanto è tale per il bisogno del
Tu; quanto più per il bisogno univoco dell’Io. In questo quadro non
può trovare attuazione alcuna forma di giustizia o responsabilità,
rispetto o amore: «Ti amo perchè ne ho bisogno, non perchè ho bisogno di te»43 è un esempio tra i tanti decadimenti delle forme originarie della vita e della relazione giuridico-esistenziale.
In una ‘distinzione formologica’44 che qui si discute non può
accogliersi la relegazione del diritto a vittima della scelta ideologica della fluida contingenza; si deve, invece, protendere ad una
riflessione giuridica profonda ove l’unica forma che si incontra e
tutela è una forma che si presenta come (possibile) forma di una
forma, capace di esprimere l’unità di senso del concetto del diritto
garantito, rimandando ad una regola regolante sempre in formazione, che mai è immobilmente formata e mai si s-forma, e che attribuisce il senso esistenziale all’umanità.
Giova qui speculare un passo del romanzo Uno, nessuno e centomila45 dove, invece, è sintetizzata in modo perfetto la rappre41
B. ROMANO, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli, Torino, 2008, pp. 20-21.
42
V. CAPOSSELA, Morna, brano tratto dall’album ‘Il Ballo di San Vito’, Milano, 1996.
43
A. FORNACIARI, Madre dolcissima, brano tratto dall’album ‘Oro, incenso
e birra’, Milano, 1989.
44
In questo senso cfr. B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole,
cit., p. 185.
45
L. PIRANDELLO, Uno, nessuno, centomila, cap. IX, Milano, vol. II, 1973,
p. 803.
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INTERVENTI
sentazione del relativismo percettivo, modello di ispirazione di Pirandello, chiarificando che la questione della forma della regola,
come a priori del riconoscimento Io-Tu, è annichilita dallo scorrere
delle formule contingenti ed utilitaristiche che fissano la forma, lasciando che la scelta maturi priva di senso (in formazione) e di responsabilità (di una forma dell’io). Nel monologo del protagonista
si avverte con chiara eloquenza che se esiste una forma essa è solo
quella pronta a s-formarsi: «se per voi io non ho altra realtà fuori
di quella che voi mi date, e sono pronto a riconoscere e ad ammettere che essa non è men vera di quella che potrei darmi io; che
essa anzi per voi è la sola vera (e Dio sa che cos’è codesta realtà che
voi mi date); vorreste lamentarvi adesso di quella che vi darò io,
con tutta la buona volontà di rappresentarvi quanto più mi sarà
possibile a modo vostro?»46.
Se, dunque, la relazione giuridica tra i viventi, si rifacesse a questo atteggiamento esistenziale, dovrebbe ad essa negarsi alla radice
ogni possibilità di una forma in formazione e, conseguentemente,
la coesistenza in una forma del riconoscimento reciproco e libero
nella responsabilità; e, ancora, dovrebbe togliersi a quest’ultima
l’attributo di elemento costitutivo dell’in/dividuo al quale verrebbe
negato il riconoscimento di persona, attribuendogli – per contro –
una persona nel senso etimologico, cioè una maschera, una forma
(solo) materiale, un infingimento quante sono le sue personalità e
le sue attribuzioni possibili47. In questa direzione si riflette che in
tanto ha un senso ammettere una forma dell’imputabilità in quanto
si postuli a suo fondamento l’individuo e la libertà della sua intenzione che si va accertando.
46
Ibidem.
Su questi aspetti inerenti la persona e l’individuo nei loro rapporti con la
socialità e con gli aspetti della realtà fenomenica, cfr.: F.A. CUSIMANO, Individuo,
persona, personalità, Messina, 1946, pp. 91 ss.; G. BONIOLO, Individuo e persona: tre saggi su chi siamo, Milano, 2007, pp. 34 ss.; G. CAPOGRASSI, Il problema
della scienza del diritto, Milano, 1962, pp. 11 e ss.
47
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217
Afferma Ingarden che va chiarito il senso dei termini. Se qualcuno è responsabile, questo qualcuno «può essere solo un
uomo»48, e non un non-umano. La scelta, al contrario, andrebbe
fatta solo fra i due termini, dell’affermazione del libero arbitrio o
della sua negazione (riportando, quindi, la persona umana e le sue
determinazioni alle rigide leggi meccanicistiche della causalità)49.
Conseguentemente, anche il ricorso alla formula della sanzione
penale promana dalla individuazione di una forma formante che rimanda alla regola prima ancora che al regolato50. Infatti il fenomeno del diritto si presenta nella centralità esistenziale di una
regola (originaria) che vincola l’agire e che intende tutelare quella
forma attraverso la individuazione e punizione, riabilitativa dell’autore della negazione giuridica (violazione).
Il progetto del formalismo annuncia i caratteri della de-costi48
R. INGARDEN, Sulla responsabilità, cit., p. 17.
P. FILASTÒ, Imputabilità e colpevolezza, Milano, 1974, pp. 90 e ss.
50
Cfr. B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, cit. La questione
della regola e del regolato può essere affrontata anche a partire da una speculativa equiparazione tra il normale (normalizzante) e il normalizzato. Di qui si va
nella direzione che analizza anche il rapporto tra normale e normativo. In tal
senso cfr. G. SINISCALCHI, Normalità di norme, Bari, 2007, p. 25. Per l’autore
spiegare che cosa è normale significa spiegare ed «esaminare il nesso che stringe
normalità e normatività». La normatività è immediatamente riconducibile al
piano giuridico – obblighi, diritti, doveri – ma anche al piano sociale. È in questo, a mio parere, che si apre ogni valutazione sulla normalità della norma (normalità della normatività) secondo una bilancia di valori che promanano
dall’ordine sociale del convivere. Sul concetto di normale (normalità) nel senso
di regolarità sociale si veda A.G. CONTE, Kanon. Filosofia della regolarità, in
“Sociologia del diritto”, 3, 2004, pp. 5-22. Anche in campo penalistico ci si è cimentati – a mio sommesso parere senza risultati apprezzabili – a stabilire un
confine nell’attribuzione di significato al concetto di normale. Si veda in tal
senso G. LOSDAPPIO, Normalità e devianza nella prospettiva penalistica, relazione
presentata al Convegno “Normalità e devianza”, Andria, 30.5.2007. Per l’autore è ambiguo e rischioso semanticamente il termine normale sottolineando
l’idea che una definizione forte di cosa sia normale non sarebbe auspicabile per
la costruzione della norma giuridica penale.
49
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tutività della forma, tanto che è difficile contestare che ogni apporto decostituente in via esistenziale, seppur transitoriamente
funzionale ed evolutivo in senso tecnico, costituisce la più originaria forma di ingiustizia che è il male dell’essere: ogni modello
materiale del diritto si presenterà privo di qualsiasi giustificazione
diversa dal mero fatto utilitaristico dei consociati (o di chi si arroga il potere di difenderli), privando di fondamento tutta una
serie di principi che la faticosa evoluzione degli ordinamenti giuridici ha utilizzato per dare una dimensione civile all’umana convivenza ed un fondamento etico alle limitazioni della libertà dei
singoli facenti parte delle varie comunità erette a Stato51.
La continua scelta che orienta verso un disconoscimento delle
questioni originarie del diritto non può che tradursi come un male
secolare che consiste nel «legarsi al ‘caos’ vitale della transitorietà,
a quel che accade e muta nella contingenza del tempo, mentre il
bene consiste nel perseguire ciò che non si disperde nella mutevolezza della contingenza», come la strumentale scelta di scomposizione dell’io in funzioni del me, e che «ha la sua qualificazione
nell’‘ordine’ della sovratemporalità»52.
Queste riflessioni chiariscono che la forma giuridica non è mai
vuota, ma è sempre rinvio ad un individuo, ad un senso. Ciò promana, costitutivamente, dal fatto che la giustizia è sempre verso
qualcuno, non si disperde nel processo formulare che lascia in piedi
il pronunciamento di un giudice e, al contempo, disattese le aspettative di esecutività della pronuncia del terzo. Se così accadesse il
giudizio risulterebbe snodato da una forma unitaria di terzietà che,
garantendo la giustizia, pretende insieme legati legislatore, giudice
51
Cfr. L. AVITABILE, Per una fenomenologia del diritto nell’opera di Edith
Stein, Roma, 2006, Cap. II e L. AVITABILE, Fenomenologia giuridica e comunità
nell’opera di Edith Stein (in L. AVITABILE, G. BARTOLI, D.M. CANANZI, A. PUNZI,
Percorsi di fenomenologia del diritto, Torino, 2007, pp. 3 e ss). Cfr. anche E.
STEIN, Una ricerca sullo Stato, Roma, 1993.
52
B. ROMANO, Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli, cit.,
p. 140.
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219
e polizia. Nella realtà delle forme che appaiono si avrebbe, quindi,
un non-diritto, ridotto a fatto da assumere come ob-jectum del giudizio; si avrebbe che «chi uccide non è il legislatore ma il giudice,
non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale»; un siffatto processo è ridotto a palude melmosa dell’esistenza giuridica, ponendosi come «totale autonomia di fronte alla
legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario d’imperio, si dissolve e imponendosi
tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando
trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo momento
eterno»53 in una forma formata che nulla lascia residuare dei diritti
dell’uomo.
Può ovviarsi a codesto meccanismo se la ricerca di forme non
dimentica il senso, sia quello della ricerca che quello della forma,
attraverso l’alimentazione costante e quotidiana della relazione tra
i soggetti che, pur lasciando spazio al rischio del sorgere delle
forme formate, non sostituisce a quello spazio dei fatti, contingente
ed accidentale, quello spazio del luogo terzo, che non appartiene
a nessuno dei dialoganti, apparentemente informale ma sempre in
formazione.
L’assidua attenzione all’accadimento dei fatti tramuta gli stessi
da giuridici in normativi, favorendo l’istituzione di un formalismo
che non è né giuridico né di una forma esistenziale. Il formalismo
che qui si critica è quello delle formole54 e del mercato55 dove non
c’è posto per l’individuazione e la chiamata del responsabile, in
quanto questi non risulterà l’autore di fallimenti attribuibili solo
alle procedure mercantili che si registrano nel fondamentalismo
funzionale.
Il diritto, così, assiste al decadimento della istituzione del senso
53
S. SATTA, Il mistero del processo, Milano, 1994, p. 22.
Cfr. F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 2008.
55
Cfr. B. ROMANO, Sistemi biologici e giustizia. Vie alternative Buber e Sartre, Torino 2008.
54
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giuridico-relazionale e cede alla sua più forte prostituzione 56 ad un
formalismo finanziario57: in questa dimensione la forma della giustizia risulta menomata del senso esistenziale poiché, essendo verso
qualcuno, questi non (si) donerà mai all’altro nel riconoscimento
e nella garanzia del luogo terzo; ciò in quanto risulterà assente il
sentirsi responsabili, sentimento che caratterizza l’uomo per la sua
ansia della terzietà che è un fenomeno di una parte ‘sovratemporale’58 dell’io di vedersi destinatario di giustizia. In questo senso
interiore l’uomo si presenta a se stesso come oggetto di giustizia,
nel riconoscimento che l’uomo è (oggetto di giustizia) per l’uomo;
l’ansia della terzietà muove come il remo destro di una barca, che
attende il movimento di quello sinistro che è il senso della responsabilità. Insieme conducono la prua dell’imbarcazione che è il libero arbitrio, che conserva residenza trascendentale nel mistero
della creazione dell’uomo come essere libero. L’ansia della terzietà
(che è il desiderio di giustizia) non è da confondersi con un’ansia
di normatività (che è la brama della regola), che mira alla rassicurazione dell’uomo sul piano dell’universale giuridico concreto
(normativo), conferendo ad ogni cosa, fatto o atto, la rilevanza e la
tutela giuridica. Infatti a rappresentarsi come presente nell’Io, e di
questi costitutiva, non è una ansia del normativo – che è solo successiva e contingente allo scorrere delle forme della vita – ma, primordiale esistenzialmente, è l’aspettativa del riconoscimento del
diritto (giustizia) pronunciato da una terzietà imparziale e disinteressata, che non ha (solo) interesse al soggetto come responsabile in
via normativa, ma ha cura di scandagliare il senso della vita che
l’uomo ha instituito con la volontà del bene e di addentrarsi nei
motivi che hanno portato al coinvolgimento dell’Io nella scelta del
male, che giustificherebbe il riconoscimento della pena. In questa
direzione il senso della vita traduce il senso di responsabilità.
56
L’espressione è usata dal prof. Beneduce nella stessa giornata di studi.
B. ROMANO, Filosofia della forma. Relazioni e regole, cit., p. 196.
58
Idem, p. 140.
57
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Indagare con la riflessione filosofica la questione del fondamento originario del diritto non può certo prescindere dall’osservazione delle forme che si danno nell’esistenza esteriore. Da qui,
però, va scovata la ragione di una qualche immanenza del diritto
nell’azione e nella volontà del singolo, chiarendo le ragioni della
forma presenziale di questo fenomeno nella vita dell’umano, nel
suo agire libero e concreto (ciò che è): l’itinerario direzionato verso
uno sforzo fenomenologico presenta il fenomeno del diritto come
radicato e centrale nell’esistenza, e che affonda la riflessione verso
l’individuazione della regola che regola (regolante) vincolando le
azioni umane per svelare, di queste, la formula universale della
forma (l’essere), nell’impegno a ‘riafformare’59 l’essenza decostituita dalle procedure formulari e contingenti che hanno svuotato
la forma dell’essere attribuendole carattere di formalismo giuridico-funzionale, facendo apparire la giustizia in una morfologia
contingente invece che inverandola nella legge della giusta forma.
59
L’espressione è mia: seppur distorta è il risultato linguistico di una forzata
contrazione di lettere e fusione di parole tra ri-affermare e ri-formare.
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