Non ci libereremo
mai di Parmenide
La scuola eleatica ha creato le nozioni di “verità” e “essere”
con cui continua a confrontarsi la filosofia contemporanea
FRANCA D’AGOSTINI
U
n luogo in cui discutere
di filosofia ha un significato storico certamente importante è
Elea, l’antica patria di
Parmenide e Zenone, oggi chiamata con il nome latino di Velia. Ma
esiste ancora, davvero, un legame
tra quel che è oggi la filosofia e quel
che poteva iniziare a essere nell’epoca degli eleati? Sicuramente
sì. E forse il legame non potrebbe
essere più stretto, anche non volendo aderire alle tesi di Martin Heidegger ed Emanuele Severino, teorici del «ritorno a Parmenide».
In un senso abbastanza ragionevole e forse non difficile da condividere, «filosofia» oggi come sempre
è l’arte di trattare alcuni concetti
fondamentali, trasversali a qualsiasi attività umana, come: realtà (o
essere), verità, bene, e i loro derivati e sinonimi. E proprio Elea è il luogo in cui furono «scoperti» con Parmenide i primi due (essere e verità), e fu scoperta anche, con il suo
allievo Zenone, la loro grande fragilità, e la loro tendenza a scomparire, o a trasformarsi nel proprio
contrario, non appena «urtano» il
linguaggio e il senso comune.
Nel suo poema Sulla natura, Parmenide crea in certo modo il vero
(tò alethés) e l’essere (tò ón), ma ben
presto i suoi seguaci scoprono che
Parmenide di Elea (515-450 a.C.) è stato
il maggiore esponente della scuola
eleatica. Ha sostenuto che la molteplicità
e il divenire sono illusori, e solo l’essere è
UN PROBLEMA ATTUALE
verino, che difende una visione «forte» dell’essere. Ma Vattimo (parlamentare europeo) non nega che vi
siano cose, contro cui urtiamo ogni
giorno: sarebbe perlomeno stravagante, da parte di un politico, e specie un politico molto attento a questioni di politica «sostantiva», materiale: dalla questione dell’Alta Velocità alla questione dei gay e delle
minoranze discriminate. Non credo
di essere d’accordo con Vattimo su
diversi punti, ma certo è che la sua
filosofia non è «antirealista» nel
senso di negare la realtà (o di pensare che la realtà sia il prodotto della
mente, o di «schemi concettuali»).
D’altra parte, lo scrive con molta
efficacia Pier Aldo Rovatti, che con
lui negli anni Ottanta lanciò il «pensiero debole»: «Realismo? Se significa giurare che il mondo là fuori esiste con quel che ne consegue, mi unisco subito al giuramento: non vedo
però in giro nessuno contrario, o anche solo astenuto», come si legge in
Inattualità del pensiero debole
(Forum, 2011).
Il fatto che gli antirealisti in filosofia non esistono veniva segnalato
precisamente da Parmenide, ma
sembra entrare con difficoltà nella
mente di chi discute oggi, specie in
Italia, di realismo e antirealismo. E il
fraintendimento si è esteso, pare,
ben al di là delle dispute dei filosofi.
Persino Luciano Violante, in Politica
e menzogna (Einaudi, 2013) occupa
svariate pagine a confutare certi antirealisti fantasmatici, senza preoccuparsi granché di chiarire chi siano
e quali siano le loro ragioni.
Ma il fraintendimento è presto
chiarito. Vattimo, se vogliamo, insiste sulla «debolezza» non dell’essere,
bensì del concetto di essere. La «metafisica» di Vattimo (si intenda: le
sue idee circa l’essere) è figlia della
metafisica di Nietzsche, il quale, confermando l’energetismo della sua
epoca, vedeva la realtà come enérgheia, energia. Nietzsche vedeva anche che fissare il volatile e inarrestabile movimento della realtà in parole
e concetti, che si pretendono dire il
L’ANTIREALISMO DI VATTIMO
I giornali sono pieni di notizie
che riguardano il vero e il falso
e la difficoltà di distinguerli
Non nega la realtà: insiste
sulla «debolezza» non dell’essere
bensì del concetto di essere
il linguaggio fa strani scherzi, posto
a contatto con simili creature, ed
ecco nascere i paradossi di Zenone,
e in seguito le molte antinomie dei
sofisti e dei megarici. Per districarsi tra queste antinomie, diventate
estremamente importanti nella vita pubblica democratica, si afferma l’insegnamento di Socrate, da
allora chiamato «filosofia», in
quanto contrapposto alla sofistica.
È una narrazione, naturalmente. La vicenda fu senz’altro più
complessa. Ma il percorso si legge
molto bene nelle Lezioni di storia
della filosofia di Hegel, in cui emerge in tutta chiarezza, per dirla parafrasando Nietzsche: la nascita
della filosofia dallo spirito della democrazia, vale a dire: dallo spirito
della dialettica.
Dunque Elea come momento
germinale della razionalità occidentale, e del suo gioco di illuminazioni e ombre. Ma discutere in particolare di verità ed essere è oggi
l’esercizio più d’attualità che si possa pensare, ai confini dell’ovvio. Come sappiamo, i giornali sono pieni
di notizie che esplicitamente riguardano il vero e il falso, e la difficoltà di distinguerli, e i tentativi di
far valere o nascondere il primo, o il
secondo, rispettivamente o alternativamente. Perché sia così è facile capirlo, se ricordiamo la premessa molto semplice: che verità e
vero e catturare l’esistente, significa
«irrigidire» il pensiero, imprigionarlo in violente «scaffalature concettuali» (come scrive in Su verità e menzogna in senso extramorale).
Ora Vattimo toglie dalla visione di
Nietzsche le componenti naturalistiche (dire come è fatta la realtà per
un uomo del Novecento non è compito dei filosofi, ma dei fisici), e vi inserisce la visione heideggeriana ed
ermeneutica dell’essere come tempo-storia: l’essere di cui discutiamo
(non l’essere-realtà) è il divenire
multiforme della tradizione in cui ci
riconosciamo. Pretendere di fermarlo dicendone una verità ultima è
un gesto violento (vedasi: la «scaffalatura concettuale» di cui sopra). Di
qui l’idea che nel riconoscere la debolezza del concetto di essere (esistenza, realtà) vi sia la premessa
dell’emancipazione dei più deboli,
che non dominano le scaffalature
concettuali (per così dire), e pertanto sono vittima delle loro menzogne
passate per dura verità.
Non c’è molto da eccepire a questo quadro. Diceva Nietzsche: «non
vi libererete mai di Dio (del potere)
fino a quando siete sudditi della
grammatica». Vero. Ma il gioco dialettico incomincia proprio qui, perché come insegna Zenone, nel tentativo di liberarsi della grammatica ci
si trova spesso semplicemente in
un’altra grammatica.
menzogna, e i loro contenuti esistenti e giusti, o inesistenti e ingiusti,
hanno, che lo si voglia o no, un enorme potere in democrazia, visto che
proprio su di essi si basano le credenze individuali e collettive che guidano le decisioni pubbliche.
Proprio su questo punto però mi
sembra particolarmente importante il confronto con Gianni Vattimo,
le cui posizioni sono decisamente
più zenoniane che parmenidee:
stanno dalla parte della fragilità del
tò ón e dell’alétheia, e non della loro
forza «coraggiosa» (atremés, intrepida, dice Parmenide). Nel suo ultimo libro, Della realtà (Garzanti
2012), come in tutte le sue opere,
Vattimo sostiene una posizione che
si può dire «antirealista», ma occorre intendersi. È vero che la filosofia
di Vattimo differisce da quella di Se-