Emanuele Severino Essenza del nichilismo

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S&F_n. 8_2012 Emanuele Severino Essenza del nichilismo Adelphi, Milano 1995, pp. 442, € 15, 30 Rintracciare l’essenza del nichilismo significa compiere una precisa operazione filosofica: comprendere il senso dell’«oltrepassamento del senso dell’êthos che guida e domina la storia dell’Occidente», afferma Severino nell’Avvertenza alla prima edizione del 1972. L’opera riappare dieci anni dopo ampliata con una Parte aggiunta e una Nota dove viene considerata la relazione tra alcuni temi dell’Essenza del nichilismo e altre opere dell’autore come la Struttura originaria, Studi di filosofia della prassi e Destino e necessità. Prima di addentrarci nella serrata e complessa argomentazione di uno dei padri della filosofia italiana contemporanea, è utile chiarire il senso di una parola chiave della sua ontologia: êthos. La scriviamo con un accento circonflesso invece che acuto perché vogliamo rendere l’ampiezza della vocale eta, che nell’alfabeto greco rappresenta un allungamento della epsilon. Scrivere éthos (translitterando la epsilon) indicherebbe infatti il corrispondente greco del latino mos, il cui significato è morale, codice di valori, comportamento, usi e costumi. Con la eta il significato del nome cambia e diventa dimora. Allora, comprendere l’essenza del nichilismo significa comprendere per quale motivo, in che maniera e in che misura l’uomo occidentale ha abbandonato 337
RECENSIONI&REPORTS recensione la sua casa, ossia la casa dell’essere, la dimora del tò òn, di tutto ciò che è. Heideggerianamente la casa dell’essere è il linguaggio, perché è lì che l’essere perviene alla sua a‐letheia, al suo disvelamento, alla sua verità. Ma «l’alterazione e la dimenticanza del senso dell’essere» (p. 19) si verifica nel medesimo luogo, ossia nel logos e tramite il logos. Ebbene, l’opera di Severino si delinea proprio tutta intorno a questa contraddizione, tra essere e non essere, che il linguaggio rappresenta e ospita. Il linguaggio infatti disvela e insieme nasconde l’essere perché tramite la sua forma può veicolare un messaggio diverso rispetto al suo significato. Lo stesso titolo dell’opera è una contradictio in adiecto: se intendiamo il nichilismo nella sua declinazione metafisica, risulta impossibile porne l’essenza, ossia la sua realtà immutabile ed eterna. Il nichilismo metafisico rinuncia a spiegare la realtà, mutevole, precaria e imperfetta, ricorrendo a un insieme di principi primi o cause ultime che ne costituiscono il fondamento “essenziale”. Non c’è un’essenza oltre la parvenza, né una verità oltre la menzogna. Il mondo si riduce a materia, movimento e caos. Ebbene, secondo il filosofo bresciano, è proprio il nichilismo l’essenza più profonda del pensiero e della civiltà occidentale. «La storia della dell’alterazione e filosofia quindi occidentale della è dimenticanza la del vicenda senso dell’essere, inizialmente intravisto nel più antico pensiero dei Greci» (ibid.). Ora, proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, la storia della metafisica è il luogo dove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili da scoprire. Ritorna la contraddizione disvelamento/nascondimento, alienazione/appropriazione. Perfino il pensiero di Heidegger, secondo Severino, è una sorta di alterazione del senso dell’essere. 338
S&F_n. 8_2012 Heidegger considerava la storia della filosofia occidentale, da Platone in poi, come la storia di un errore, ossia la riduzione dell’essere all’ente. L’“entificazione” dell’essere comporta lo smarrimento della sua presenza originaria, ossia quell’orizzonte o apertura entro cui avviene l’a‐letheia, il disvelamento, la manifestazione dell’essere. Soltanto la primissima filosofia greca intravide l’essere come presenza, separandolo dall’ente e considerandolo nella sua piena realtà e assolutezza. Secondo Severino invece «è storicamente aberrante il tentativo di ravvisare nel primissimo pensiero greco l’identificazione del significato dell’essere e del significato della presenza. L’intreccio tra i due c’è sicuramente, ma appunto per questo c’è insieme la differenza» (p. 20). Per intenderla non è utile procedere con un’indagine etimologica, bisogna piuttosto comprendere la «forza invincibile di un discorso che da millenni è saputo e pronunciato, ma che, appunto, non è mai stato capito» (ibid.). Il punto di partenza dell’argomentazione severiniana è il ritorno alla posizione parmenidea: «l’essere è, mentre il non essere non è». Posizione incompresa da parte dell’intera speculazione filosofica successiva e quindi origine del nichilismo dell’Occidente. Per Parmenide infatti il principio di non contraddizione assume immediatamente un valore logico e ontologico insieme, perché determina necessariamente l’identità di pensiero ed essere, essenza ed esistenza. L’essere parmenideo è uno e indivisibile, eterno e immutabile, è l’essere in quanto essere, pertanto si oppone assolutamente al non essere. Quello che sembra un ritorno a Parmenide si rivela in realtà un passo oltre Parmenide, perché si vuole superare la tradizione nichilistica alla quale lo stesso pensatore di Elea, per alcuni versi, ha partecipato. Parmenide infatti ha negato agli enti gli attributi dell’essere, ha negato la molteplicità, il movimento e la differenza, ne ha negato lo status ontologico e lo ha relegato 339
RECENSIONI&REPORTS recensione nell’ambito della doxa, dell’opinione mutevole, la quale, in virtù del realismo linguistico, non ha la necessità del discorso vero. Heidegger sosteneva che in questo modo il senso dell’essere viene salvato, perché sottratto alle determinazioni e alle limitazioni dell’ente e restituito alla sua piena realtà e assolutezza. Secondo Severino invece la separazione essere‐ente innesca automaticamente quel processo che conduce al tramonto dell’essere. Brevemente intravisto, esso si dilegua e si disperde, nascondendosi dietro quel principio che l’autore ritiene la fonte del nichilismo occidentale: «l’essere è, mentre il nulla non è». Il tramonto dell’essere comincia proprio quando si acconsente «all’immagine di un tempo in cui l’essere non è, un tempo in cui il positivo diventa negativo» (p. 22). Nel Liber de interpretazione di Aristotele compare proprio l’avverbio òtan, “quando”, in riferimento a una dimensione temporale in cui l’essere è, la quale però immediatamente causa l’implicanza logica del non essere: «è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia quando non è» (Aristotele, De intepretatione, 19A 23‐24). Dunque l’essere è quando è e non è quando non è. Ora, questo essere notturno, per utilizzare l’immagine parmenidea dei sentieri della Notte (non essere) e del Giorno (essere), è l’essere che ha lasciato l’essere. Fino a quando si mantiene l’opposizione tra essere e non essere, la sua incontraddittorietà sembra salvaguardata. Infatti, l’essere diurno, unico, eterno e immutabile, si oppone automaticamente al non essere notturno, ma quando cala la notte rimane solo il nulla e non c’è più alcun essere al quale opporsi. Ammettere l’immagine temporale del nulla è stato fatale per la filosofia occidentale, perché in questo modo ne va del senso dell’essere. Platone infatti nel Sofista prende decisamente le distanze dal “maestro venerando e terribile”, sostenendo la molteplicità delle idee, le essenze eterne e immutabili delle cose mondane, e negando quindi l’unicità dell’essere parmenideo. La domanda generale del 340
S&F_n. 8_2012 Sofista è: «come deve essere pensato il mondo delle idee?» Ebbene, muovendo dalle tesi enunciate nel Parmenide e nel Teeteto, Platone giunge a formulare la teoria dei generi sommi, ossia: l’essere, l’identico, il diverso, la quiete e il movimento. Platone quindi integra nel concetto di essere quello di diversità e di movimento. Le idee sono diverse tra loro e possono stare presso di sé oppure presso altre idee. Dire che un’idea non è un’altra, non significa dire che non è, ma che è diversa da un’altra. Inoltre, dire che entra in relazione con altre idee, negandone l’immobilità, significa sussumere il divenire nella dimensione dell’essere. Come sostenuto da Giovanni Reale, Platone vuole considerare l’identità e l’alterità, la quiete e il movimento, nella superiore unità dell’essere. L’altro allora in Platone diventa positivo, perché l’essere ha acquistato come attributi anche la diversità e il movimento. Ora, secondo Severino, operare il disvelamento dell’essere, ritornare alla sua dimora originaria, rimuoverne dall’oblio l’autentica verità e coglierla nella sua incontrovertibilità, esige la determinazione rigorosa del positivo e del negativo (intendendo per negativo sia il puro nulla parmenideo sia l’altro positivo di Platone). Svelare l’autentica verità dell’essere implica “pensare” e “dire” il valore dell’opposizione universale del positivo e del negativo. Questo compito, il disvelamento, pertiene alla filosofia, esclusivamente: «la filosofia è il luogo, la custode della verità. Il disvelamento originario e assoluto dell’essere – la verità dell’essere, appunto – accade non altrove che nel filosofare. E nel filosofare autentico» (p. 41). Ora, l’opposizione universale è espressa dall’affermazione: «l’essere non è non essere, mentre il “dire che ha valore” significa dire che è capace di togliere la propria negazione (e quindi ogni forma particolare, secondo cui la negazione abbia a presentarsi)» (p. 40). 341
RECENSIONI&REPORTS recensione Si tratta di un dire che ha come fondamento l’opposizione universale dell’essere e del non essere e quindi la struttura originaria, nei suoi ambiti logico e fenomenologico, della verità dell’essere. Pertanto questo dire è incontrovertibile, è un dire che toglie ogni negazione dell’opposizione universale, in qualunque forma essa si presenti, in quanto ogni negazione dell’opposizione è autonegazione della negazione. Non è possibile infatti negare l’opposizione universale, secondo cui l’essere non è non essere, perché questa negazione per vivere ha bisogno dell’opposizione stessa. Un’opposizione efficace, dunque, dal risultato immediato. Tenere ben salda l’opposizione tra essere e non essere significa superare il dualismo parmenideo, tra essere diurno ed essere notturno, perché viene annullata la dimensione temporale dell’oscurità, in cui l’essere non si dà. Quando cala la notte, l’opposizione crolla. Quindi è dall’antitesi essere‐non essere che la filosofia occidentale deve ripartire, oltrepassando lo stesso Parmenide che, da un lato ha considerato l’essere nel senso più rigoroso e puro del termine, dall’altro però ne ha previsto l’annullamento nella dimensione del sentiero della Notte. Allora, l’essere non è notturno, mai. Non c’è una notte in cui l’essere si annulla perché altrimenti non ci sarebbe l’essere che l’opposizione necessariamente pone. Dire il contrario implicherebbe il nulla, significherebbe dire che il nulla è, in quanto non essere. L’essere invece non è non essere e affermare questo significa assumere una presa di posizione, significa determinare il valore del dire. Il dire che ha valore è il dire che può eliminare la possibilità della sua negazione, una negazione in deroga dalla legge dell’opposizione universale tra essere e non essere. Ma siccome la negazione per esistere ha bisogno dell’opposizione, perché ha bisogno del non è, allora il principio “l’essere non è non essere” resta salvo. Dice infatti Severino: «come si deve pensare dunque l’opposizione dell’essere e del non essere, affinché essa sia vista nella sua verità? 342
S&F_n. 8_2012 Pensandone il valore; e cioè, da un lato che l’opposizione è per sé nota, ossia il predicato (la negazione del non essere) conviene per sé o immediatamente al soggetto (l’essere) (onde la negazione dell’opposizione resta tolta, perché nega ciò che per sé è noto, ossia ciò che è il fondamento del suo essere affermato) e dall’altro lato, che l’opposizione non può essere negata, perché anche la negazione può vivere come negazione solo se, a suo modo, afferma l’opposizione» (p. 42). Tenere ben salda la legge dell’opposizione universale, per cui l’essere non è non essere, ci permette di superare la deriva nichilistica in cui è ricaduta la nostra filosofia. Eppure, nonostante questa alterazione e dimenticanza del senso dell’essere, ricca e feconda è la tradizione del pensiero occidentale. Anzi, secondo Severino, proprio dall’ambiguità e dall’errore prende avvio quel rigoglioso sviluppo di concetti che comincia con Platone e Aristotele. Uno sviluppo che però ha condotto la metafisica occidentale a snaturarsi: dopo Parmenide infatti «tutta la metafisica occidentale è una fisica» (p. 27), perché l’essere viene sì pensato in opposizione al negativo, ma solo quando è. La nostra filosofia ha pensato l’essere come qualcosa a cui è consentito di non essere, (perché c’è un tempo in cui l’essere non è), tradendo così il senso dell’opposizione universale. L’essere si oppone al non essere sì, ma quando è. Quando il Giorno finisce e scende l’oscurità, l’essere lascia il campo al non essere e allora quell’opposizione che la teneva in vita non si dà più. È chiaro che qui il problema è il senso del tempo, il valore che diamo al quando. Ora, l’essere in quanto essere è, e quindi è immutabile. È l’essere nella sua assoluta pienezza e intensità, è l’essere in quanto essere, che trascende il divenire, un divenire che però non è il non essere, come voleva Parmenide, è piuttosto anch’esso essere e positività. «Ma una positività che è tutta posseduta dalla totalità immutabile dell’essere» (p. 59). Se così non fosse, se non includessimo nel 343
RECENSIONI&REPORTS recensione concetto di essere anche quello del divenire, l’essere sarebbe schiavo della temporalità. Il tempo, sussunto nell’orizzonte originario in platonicamente, cui si schiude immagine mobile l’essere, diviene dell’eternità, una così, sua manifestazione transeunte; pertanto, non è più concepito come quel baratro in cui il to on può discendere per mai più ritornare. Affrancando l’essere dal giogo della temporalità, se ne salva al tempo stesso l’immutabilità e il movimento, l’eternità e il divenire. Se ne salva insomma quell’opposizione universale che ne costituisce il fondamento. Come affermato dall’autore all’inizio del Poscritto, «per ridestare la verità dell’essere, che sin dal giorno della sua nascita giace addormentata nel pensiero occidentale, si dovrà pur sempre penetrare il senso di questo semplice e grande pensiero: che l’essere è e non gli è consentito di non essere» (p. 63). La sorte della verità dell’essere dipende da come si intende questa semplice affermazione: «l’essere è», dove essere indica tutto ciò che non è nulla, quindi natura e linguaggio, realtà e apparenza, cose e idee, fatti ed essenze, divino e umano, mentre l’è indica l’estin parmenideo, ma che con Platone indica la totalità delle determinazioni e delle differenze, ossia la totalità di ciò che non è nulla. È questo il senso del ritorno a Parmenide e del procedere oltre l’eleatismo. È questo l’attuale compito della filosofia occidentale. La filosofia orientale invece, non ha mai tracciato un bivio «dal quale si dipartono la strada battuta dall’Occidente, il sentiero della Notte (Nuktos keleuthos) e la strada non ancora percorsa, il misterioso sentiero del Giorno (Hematos keleuthos) cui l’Occidente si è appena affacciato e su cui deve ancora muovere tutti i suoi passi la storia del ritorno alla verità dell’essere» (p. 147). Posto l’essere nella sua assoluta pienezza e intensità, superata l’aporia della temporalità, rimane ora il problema della morte. La sopravvivenza dell’anima dopo la morte è il tema del Fedone, 344
S&F_n. 8_2012 dialogo in cui Platone, più che porre il problema del rapporto tra il mondo e l’al di là, discute piuttosto sulla fine dell’essere e il suo annientamento. Si tratta di domandare se un certo ente (l’anima) continui a esistere anche quando un altro ente non esiste più (il corpo). Si tratta di cercare le ragioni in base alle quali è possibile sostenere che certi enti sono sottratti alla nascita e alla morte. Oggi però «non si crede più alle ragioni metafisiche che conducono all’affermazione dell’immortalità dell’anima» (p. 196). Con lo sviluppo della scienza, la civiltà occidentale attribuisce alla tecnica il potere di disvelamento dell’essere: «il progetto di fabbricazione del corpo dell’uomo è ormai inseparabilmente accompagnato dal progetto di una fabbricazione di fatti mentali» (ibid.). Il nostro tempo è infatti persuaso dall’idea di poter esercitare il controllo illimitato della creazione e dell’annientamento dell’essere. Ma l’essere sopporta inalterato ogni aggressione della tecnica, non ne resta intaccato in alcun modo. Piuttosto è la storia il luogo in cui si dà lo spettacolo dell’essere. Un essere che appare e scompare, infatti «la dialettica non è l’essenza dell’essere in quanto è, ma dell’essere in quanto appare» (p. 197). Allora, il disfacimento del corpo non ne è l’annientamento, ma solo il modo con cui il corpo si porta al di fuori dell’apparire dell’essere. È perciò eterno anche l’apparire dell’essere. Ora, l’eterno apparire della verità dell’essere chiama in causa proprio l’êthos, ossia la dimora originaria dell’uomo, il logos. Intendendolo come Parola, esso si offre nella sua immediata e pervasiva potenza. «La Parola si annuncia esplicitamente come Parola di Dio e quindi come assoluta» (p. 279). Una Parola che salva l’uomo dall’isolamento e dall’alienazione causati dalla deriva nichilistica. Aprirsi all’ascolto della Parola significa superare il bivio posto all’origine della filosofia occidentale, significa recuperare quella dimensione originaria, quella dimora in cui gli opposti non 345
RECENSIONI&REPORTS recensione si annullano l’un l’altro ma convivono nella superiore unità dell’essere. Ritornare all’opposizione universale implica una concezione della storia, della dialettica e del linguaggio che tiene ben saldo il senso dell’essere proprio in virtù dell’opposizione essenza/apparenza, divenire/eternità. La dialettica investe non l’essenza ma l’apparire, un apparire positivo però, perché esso, in quanto immagine temporale dell’eternità, è il modo di darsi dell’essere nel mondo. La storia è il luogo in cui si svolge il processo ciclico di apparizione/scomparsa dell’essere. Superando la dimensione dell’apparenza, è possibile accedere all’essere puro (di cui l’apparenza è comunque un aspetto), che si dà in maniera assoluta nella sua dimora originaria, la Parola. Con la conquista dell’apparire, del movimento, della differenza, della molteplicità si guadagna l’autenticità del senso dell’essere, di un essere pieno, intenso, totalizzante e onnicomprensivo, in cui non c’è più posto per la Notte. L’oscurità è ricompresa nella luce del Giorno, un sentiero nel quale il positivo non può diventare negativo, l’essere non può lasciare il posto al nulla. Su questo sentiero, ogni deriva nichilistica è arginata, tutto è pieno e reale, tutto è. Un Tutto sorretto dalla legge dell’opposizione universale: tenerla ben salda è il compito proprio della filosofia, che opera tramite la Parola. Filosofia intesa come luogo in cui l’essere si disvela, si dà nella sua verità. In quanto custode del vero, tocca alla filosofia recuperare il senso dell’essere, riscoprirne e rivelarne l’autenticità, al fine di aprire all’umanità un nuovo corso, quello tracciato dal sentiero del Giorno. MARIA TERESA SPERANZA 346
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