18. Il colonialismo italiano in Libia

18. Il colonialismo italiano in Libia
Si può definire l’atteggiamento italiano verso il Mediterraneo, nel periodo che va
dall’unificazione alla seconda guerra mondiale, come colonialismo tardivo. Dalla fine degli
anni Settanta del XIX secolo sino alla guerra d’Etiopia durante il fascismo, un paese male
unificato e profondamente arretrato si impegna – prima in modo ufficioso, per interposta
attività di esploratori e missionari, poi ufficialmente – nella conquista di terre al di là del
mare. Il colonialismo italiano non discende da un ruolo storico di potenza politica ed
economica su scala globale, come l’Inghilterra e in misura minore la Francia. Al pari di quello
tedesco, ma con mezzi infinitamente minori, nasce piuttosto da una velleità di potenza
puramente politica. In più, rispetto al caso del Reich, da considerazioni di tipo demografico e
sociale. L’idea principale era in fondo quella di distogliere l’emigrazione dai tradizionali paesi
d’attrazione (Stati Uniti, Argentina, Francia, Svizzera ed altri paesi europei), per dirigerla
verso territori da “civilizzare” e annettere alla patria.
L’Italia liberale e poi fascista esportò nelle proprie colonie molto più lavoro che capitale. In
Libia, dove rimasero dal 1911 al 1943, alcuni italiani fecero grossi affari, commerciando o
sfruttando le poche terre fertili. Ma molti si adattarono a svolgere anche umili mestieri, nelle
amministrazioni pubbliche o in piccole e talora anche minime imprese private. Abitavano
persino nelle stesse strade dei libici, e degli ebrei (una forte comunità era presente a Tripoli).
In Francia li chiamavano petit blancs, in Inghilterra – più sprezzantemente ma realisticamente
– poor whites. A questa concezione di un colonialismo o imperialismo “sociale” e
“demografico” collaborarono pensatori e intellettuali laici e cattolici, sia di destra, com’era
naturale, sia provenienti dal socialismo moderato. Nel 1911, Giovanni Pascoli, poeta noto per
la sua “mitezza”, così si espresse in un discorso commemorativo dedicato ai caduti della
guerra di Libia:
“La grande Proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi
lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo
poco. Li mandava oltre le Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare
monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar
selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad
animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò
che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più
difficile ancora; ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove
era la selva vergine, piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il
deserto; e a pulire scarpe al canto della strada. Ora l’Italia, la grande
martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è
presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’aumento e
incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e
bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi
figli volonterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno
coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua
terza Era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e
serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare, per terra e per
cielo”.
Le sponde africane sono viste esclusivamente come uno spazio vuoto e disabitato, una terra da
dissodare ai margini del deserto. La retorica sulla continuità tra la Storia romana e quella
dell’Italia unita, “grande martire tra le nazioni”, copre a malapena l’incapacità di immaginare
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che, dall’altra parte, esistono non solo esseri umani, ma esseri umani capaci di iniziativa e
soprattutto di resistenza. L’ignoranza per quello che la Libia era davvero nel 1911, un paese
complesso, solo marginalmente controllato dai turchi e abitato da gente animosa e fiera della
sua indipendenza reale, porterà a continui. rovesci militari italiani e a successivi massacri dei
civili libici, anche dopo l’annessione. Il controllo del paese resterà problematico sino
all’avvento del fascismo e all’arrivo in qualità di governatore di Rodolfo Graziani, il quale
praticherà su larga scala rappresaglie sui civili, esecuzioni sommarie e deportazioni. In poche
parole, lo sguardo ufficiale e prevalente degli italiani. sulle sponde meridionali del
Mediterraneo, anche prima del fascismo, è stato sostanzialmente razzista.
Nel 1911, il 3 ottobre, unità della marina italiana sbarcavano nella capitale libica, seguite il 12
da più consistenti reparti dell’esercito. Nelle ore precedenti i cannoni della flotta al largo
avevano bombardato l´As-saraya al-amra, il Forte Rosso, dal quale ancora oggi si può
dominare la città affacciata sul mare. Ed altre bombe erano cadute sul forte di Bengasi, in
Cirenaica. Così il Regno d’Italia, mentre a Roma governava il liberale Giovanni Giolitti,
metteva in atto la dichiarazione di guerra fatta quattro giorni prima all’Impero ottomano che
occupava quella sponda del Mediterraneo. La conquista della Libia è per i militari una
rivincita poco più di un decennio dopo la disfatta di Adua, in Abissinia, e le precedenti
deludenti prove nelle guerre del Risorgimento. E´ l´acquisizione di una colonia di
popolamento per l´emigrazione italiana, che in quegli anni è al massimo ed è fonte di
frustrazione nazionale. Offre inoltre l´impressione di alzarsi al rango di francesi, inglesi e
spagnoli, che si distendono sulla costa africana senza che in nessun tratto sorga la bandiera
italiana. Francia e Germania si sono appena contese il Marocco. Persino Antonio Labriola,
socialista e marxista fin dall´inizio del secolo esortava all´occupazione di Tripoli. Lo
considerava un buon affare. Ottant’anni prima Karl Marx aveva accolto con soddisfazione la
conquista francese dell’Algeria. Come poi Labriola, Marx pensava che con l’arrivo degli
europei sarebbero sorte fabbriche, e con le fabbriche si sarebbe formata una classe operaia,
indispensabile per fare la rivoluzione.
L’Italia si era illusa che la popolazione libica l’avrebbe accolta festante, in odio
all’oppressione turca, ma l´impresa si rivelò subito più complicata del previsto. Anzitutto la
popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. A Sciara
Sciat (il 23 ottobre 1911), un sobborgo di Tripoli, reparti dell´esercito italiano caddero in
un´imboscata tesa da ufficiali turchi e gruppi di partigiani tripolini, e furono annientati. Tre
giorni dopo, in un´altra località, sempre in prossimità della capitale, a El-Messri, seicento
soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La reazione fu severa. La città fu messa a ferro e
fuoco e, secondo lo storico Nicola Labanca, forse mille ottocento abitanti di Tripoli furono
fucilati o impiccati per rappresaglia. e circa altri quattromila deportati nelle isole
penitenziarie italiane. Ne morirono a centinaia: alcuni nel viaggio, gettati a mare; i più nelle
isole di Tremiti e Ponza. E proprio come è accaduto nel 2011, l´opinione pubblica
internazionale condannò allora le atrocità commesse nella città appena conquistata. Nelle
capitali dei grandi imperi coloniali (non certo senza macchia nei loro ampi possedimenti
africano o asiatici), a Londra e a Parigi, ma anche a New York, si moltiplicarono le
manifestazioni contro il bagno di sangue. Tripoli aveva a quei tempi trentamila abitanti ed era
la principale città di un vasto paese ricco di deserti bellissimi e popolato da meno di un
milione di uomini e donne dispersi lungo la costa . Il conflitto termina l’anno successivo: nell’
ottobre 1912 venne firmato un accordo di pace con la Turchia in cui si stabiliva che la Libia
sarebbe restata sotto la sovranità turca ma la fascia costiera, compresa tra Zuara e Tobruk,
veniva affidata all’amministrazione italiana. Alla fine della prima guerra mondiale vengono
emanati gli “Statuti libici” che, oltre a riconoscere i capi della resistenza libica come
controparte legittima, concedono ai libici la cittadinanza italiana e una loro specifica
rappresentanza parlamentare. Ma sarebbero dovuti passare ancora molti anni ed una durissima
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repressione durante gli anni del fascismo prima che la Tripolitania, e soprattutto la Cirenaica e
il Fezzan potessero cominciare cominciano ad accogliere migliaia di coloni italiani.
Nel 1929 Mussolini e il fascismo erano ancora alle prese con la “riconquista” dell’interno
della Libia e in particolare della Cirenaica. Qui regnava la resistenza anticoloniale, guidata
dalla Senussia, una confraternita musulmana, e da Omar al- Mukhtar, un anziano ma riverito
capo militare. Il governatore italiano a Tripoli, generale Pietro Badoglio, e il vicegovernatore
a Bengasi generale Rodolfo Graziani, erano d’accordo sulla tattica da utilizzarsi: «Bisogna
anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione
sottomessa (…) anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica ».Furono creati
una dozzina di campi di concentramento in cui vennero coattivamente spostati i seminomadi
della Cirenaica. Questa vera e propria deportazione ebbe conseguenze devastanti. La regione
interna fu svuotata, molti cercarono scampo verso l’Egitto o verso il deserto, un numero
ancora oggi incalcolato perì nei campi di concentramento (decine di migliaia, sui poco più di
centomila coinvolti: metà della Cirenaica)mentre quasi nove decimi del bestiame, vitale per i
seminomadi, fu distrutto. Furono quindi stesi circa 270 chilometri di filo spinato al confine
fra Libia italiana ed Egitto, da Bardia a Giarabub, per bloccare i santuari esterni della
resistenza. Alla fine, nel settembre 1931, Omar al-Mukhtar fu impiccato e la resistenza agli
italiani piegata: ma a prezzo di un genocidio. L’ultimo campo di concentramento fu sciolto
solo nell’autunno 1933, due anni dopo che la resistenza fu definitivamente schiacciata. Nel
1934 arrivò come governatore Italo Balbo. Dal 1934 al 1940 (anno in cui mori precipitando
con l´aereo colpito per sbaglio dall´antiaerea italiana, mentre sorvolava Tobruk) il gerarca
ferrarese portò ingegneri e architetti dalla sua città emiliana affinché erigessero edifici e
tracciassero strade. Con lui si intensificò, e fu ampiamente propagandato, l´insediamento di
coloni italiani. La vicenda dei coloni in Libia fu un’iniziativa alla quale il fascismo dette toni
spettacolari, ma il deserto trasformato in orti e in campi di grano diventò ben presto un teatro
di guerra seminato di mine e di tombe, mentre il petrolio che giaceva sconosciuto in
profondità sotto gli ortaggi, orgoglio dei coloni, cominciò a sgorgare soltanto quando il
fascismo era già defunto e la Libia non era più una colonia italiana.
Nella seconda guerra mondiale in Libia si verificarono ininterrotti combattimenti tra italotedeschi, sotto il comando di von Rommel e anglo-alleati che terminarono con l’occupazione
inglese di Tripoli nel gennaio del 1943 e con resa dei contingenti militari italo-tedeschi. Dopo
la guerra la Libia fu affidata all’amministrazione britannica fino al 1951 anno in cui ottenne
l’indipendenza. Con un monarca, re Idris, nipote di Sayyid Muhammad bin Ali al-Senussi,
fondatore della confraternita dei Sedussi. Un sovrano debole, indeciso, che ha stentato a
mantenere il controllo di un paese ormai con una popolazione in rapido, travolgente aumento
e diventato, grazie al petrolio, un eldorado affollato di società internazionali. La sua neutralità,
o indifferenza, durante la guerra del ‘67, il terzo conflitto tra arabi e israeliani, ha provocato
sommosse, ed anche un pogrom contro la comunità ebraica, che viveva in Libia da quattro
secoli. I seimila ebrei sono dovuti partire da Tripoli con una valigia e venti sterline,
lasciandosi tutti i beni alle spalle. Il 5 settembre 1969 il primo settembre, mentre Idris si
faceva curare in Turchia, il colonnello Gheddafi ha preso il potere ed ha cancellato la
monarchia. Nel 1970, il nuovo regime nazionalistico decide di cacciare, dopo gli ultimi ebrei,
anche gli italiani, nazionalizzandone i beni. Ventimila lavoratori, tra i quali soltanto un
nucleo di speculatori, ricondotti tutti al minimo comune denominatore di colonialisti e
fascisti, devono tornare in Italia dove sono ancora oggi dimenticati.
Secondo lo storico Angelo Del Boca (il più importante studioso del colonialismo italiano, e
che da tempo va denunciando il mito degli “italiani brava gente” e le amnesie della politica e
della cultura italiana sul tema del colonialismo, ricordando in particolare le atrocità commesse
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durante l’occupazione militare italiana, con i campi di concentramento in Libia e con gas in
Etiopia), i morti dal 1911, anno dello sbarco degli italiani a Tripoli, al 1943, quando gli
inglesi occupano la Libia e cacciano gli italiani, ammontano a 100.000. “Centomila libici
possono sembrare pochi rispetto ad altri genocidi avvenuti nella storia, ma se raffrontati alla
popolazione libica degli anni Venti e Trenta, ottocentomila abitanti, significano che una
persona su otto è morta. O in combattimento, o nei campi di concentramento italiani o
deportata nelle isole senza più fare ritorno”. Non casualmente, la repressione fascista italiana
è ancora oggi ricordata in gran parte del mondo arabo ed è significativo che la via principale
di Gaza porti il nome di Omar al-Mukhtar.
Scheda di approfondimento :
Nicola Labanca, La memoria ambigua degli italiani
La Repubblica, 16 dicembre 2005
Il protagonista del romanzo di Ennio Flaiano Tempo di uccidere (1947), ambientato
nell’Africa orientale italiana al tempo della guerra d’Etiopia (1935-36), ama carnalmente una
donna locale ma poi finisce per ucciderla. La sua memoria rimane indelebilmente segnata da
quella doppia esperienza, di fascinazione e repulsione, di amore e odio. Tornando in patria
però solo una parte dell’esperienza viene ricordata: quella dell’amore, dell’affetto. Flaiano fa
dire al suo protagonista:
«“Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri”. “Meglio
così”, dissi. “Se nessuno mi ha denunciato, meglio così”».
La memoria del delitto rimane in Africa, in Italia torna solo quella dell’affetto: nasce così il
mito della “bravagente”. L’episodio di Flaiano potrebbe essere la chiave per comprendere la
memoria nazionale del colonialismo italiano. Un’esperienza di dominio italiano durata
grossomodo sessant’anni, dall’Eritrea (1882) alla Somalia, dalla Libia all’Etiopia.
Una storia per quarant’anni liberale e per vent’anni fascista, bruscamente interrotta perché il
regime perse in guerra (1941-43) tutte le sue colonie. Di quella storia è rimasta una memoria
nazionale fortemente ambigua, parziale. Solo una parte della storia è stata ricordata. Come
tutti i colonizzatori europei, gli italiani amano ricordarsi e immaginarsi come “bravagente”
affascinata dalle bellezze della natura africana, sinceramente interessata delle popolazioni
dominate, prodiga di interventi in loro favore. È difficile negare che anche questo furono (ma
quanto rispetto ad altri imperi coloniali? già a questa domanda non si vuole rispondere).
Inoltre, un po’ come i francesi in Algeria e i britannici in Rhodesia o in Sudafrica, laddove
poterono, gli italiani affollarono le loro colonie anche di povera gente, di lavoratori manuali,
di petit blancs o poor whites come si diceva a Parigi o a Londra. L’Italia liberale e persino
l’Italia fascista (se si esclude la conquista dell’Etiopia, 1935-41) esportarono nelle colonie
molto più manodopera che capitale.
Ma questa è solo una parte della storia. Chi ricorda il “regime delle sciabole” della primissima
Eritrea italiani, prima di Adua? O le deportazioni indiscriminate dei libici già nel 1911-12
verso le isole italiane come le Tremiti? O il sangue sparso nella “riconquista” della Libia
voluta da Mussolini e condotta con brutalità da Badoglio e Graziani nel 1929-31? In
particolare, chi ricorda i campi di concentramento della Cirenaica fra 1929 e 1933? Una
decina di anni fa una polemica giornalistica fra Indro Montanelli e Angelo Del Boca portò
all’attenzione di tutti la storia dei gas nella conquista dell’Etiopia, una vicenda conosciuta ai
lettori di libri di storia ma segretata dal regime e negata sino all’ultimo dall’ostinato
giornalista de “Il corriere della sera”. Ma chi ricorda i massacri del convento copto di Debra
Libanos, in cui Graziani fece sterminare l’elite religiosa etiopica? Non si tratta del silenzio
naturale della memoria di fronte a fatti sgradevoli, né è sufficiente lavarsi le mani dicendo che
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di fatti sgradevoli è piena tutta la storia del colonialismo europeo. Il punto è che senza quei
fatti il debole dominio italiano non ci sarebbe stato, non avrebbe potuto né instaurarsi né
sostenersi. Non sono fatti aggiuntivi, sono sostanziali.
Inoltre il dominio italiano fu, per vent’anni, fascista. Per capire cosa ciò significhi si legga il
programma politico del fascio di Asmara già fra 1919 e 1922, o si ponga mente al fatto che
nel 193 un anno prima dell’adozione della legislazione antisemita – il fascismo introdusse
istituzionalmente nel suo impero la discriminazione razziale, come al tempo forse nemmeno il
Sudafrica aveva fatto. Tutto questo, gli italiani dei decenni della Repubblica hanno preferito
non ricordarlo, come il genio letterario di Flaiano aveva per tempo intuito. Quali le
spiegazioni di questa memoria selettiva? È stato chiamato in causa il carattere nazionale degli
italiani (sullo specifico coloniale già Benedetto Croce, nel 1927, aveva parlato di “bonomia”
degli italiani…). Gli storici hanno spiegato che non aver vissuto le aspre divisioni che in
Francia o in Gran Bretagna hanno accompagnato la decolonizzazione negli anni CinquantaSessanta ha impedito una presa di coscienza ed un dibattito sul passato coloniale. C’è chi ha
voluto trascinare in giudizio persino la sinistra, accusata prima di ambiguità (in effetti, per il
prestigio nazionale, nel 1945-47 anche Pci e Psi volevano la restituzione all’Italia di tutte o
parti delle vecchie colonie) e poi di “debolezza di anticolonialismo”. Forse, per trovare una
risposta dobbiamo invece guardare in basso, in alto e al governo. In basso: perché le stesse
responsabilità storiche di lavoratori e popolani non possono essere uguagliate a quelle di un
Mussolini o di un Graziani. In alto: perché le maggiori decisioni, come sempre, furono prese
da una ristretta cerchia di governatori coloniali, funzionari, militari. Al governo: questo è, per
l’Italia repubblicana, il capitolo più interessante.
Nelle liste stilate dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, non pochi politici e
militari erano accusati di crimini di guerra perpetrati nelle colonie. E nel 1947 l’Etiopia aveva
richiesto alcuni alti gerarchi del fascismo, fra cui Badoglio e Graziani, per i crimini commessi
in colonia. Ma l’Italia repubblicana e ormai democratica fece di tutto per non consegnarli.
Graziani non affrontò mai un processo per i suoi misfatti coloniali, del 1929-33 come del
1936-38. E se i tribunali dell’Italia democratica non processarono i massimi responsabili
politici e militari, perché i petit blancs dell’imperialismo demografico italiano avrebbero
dovuto ritenersi responsabili? La loro memoria fu aiutata a divenire parziale. Se nel 1947 non
furono fatti i processi, se l’Italia democratica non ricorda pubblicamente i campi di
concentramento in Cirenaica del 1929-33 (ma attenzione: in quelli del 1941 passarono anche
gli ebrei libici) e se oggi l’Italia berlusconiana restituisce l’obelisco di Axum all’Etiopia ma lo
fa alla chetichella, perché obbligata, e non imposta un serio dibattito pubblico sul passato
coloniale, se insomma così si fa in alto e al governo, perché in basso i combattenti della
guerra d’Etiopia dovrebbero ricordare tutta la storia del colonialismo e non solo una sua parte
? Forse, si potrebbe dire, in Italia non c’è bisogno di un articolo di legge come quella
francese (n. 258 del 23 febbraio 2005). Nei fatti, come anticipava Flaiano, il risultato è già
stato raggiunto da tempo.
UNIVERSITÀ DI PISA, CORSO DI LAUREA DI SCIENZE PER LA PACE
Materiali di studio per l’insegnamento di
“Europa e mondo dall’età moderna all’età contemporanea”
(prof. Marco Della Pina)
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