Antonio Labriola e Arturo Graf

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Antonio Labriola e la sua Università
DOCUMENTI
Antonio Labriola e Arturo Graf. Principio e fine di un sodalizio di vita e di pensiero
(1872-1904)
Girolamo de Liguori
Dirle che il Graf è nel numero dei miei amici sarebbe addirittura poco. Il Graf è la persona per l’appunto che
io ho ben più cara; e già da molti anni.
A. Labriola, Lettera a Ruggero Bonghi, 1875.
1. – Tra Napoli e Roma. La vicenda del giornale
Su Labriola e Graf ed i loro comuni interessi per la psicologia, ho già fatto ampii cenni altrove
[1]. In questa sede, potrà rivestire un certo interesse riprendere qualche poco nota testimonianza e,
tra le altre più indicative, un curioso profilo di Arturo Graf, steso dall’amico Labriola e accluso ad
una sua lettera di raccomandazione a Ruggero Bonghi, allora Ministro della pubblica istruzione.
Nella lettera, secondo lo scopritore e curatore Stefano Miccolis, risalente al gennaio del 1875 (ma si
tenga presente che tra il novembre e il dicembre dell’anno successivo il Graf partiva
definitivamente per Torino, a coprire l’incarico di letterature neolatine), Labriola, tra l’altro,
scriveva:
Dirle che il Graf è nel numero dei miei amici sarebbe addirittura poco. Il Graf è la persona per l’appunto
che io ho ben più cara; e già da molti anni. Il Graf ha coltura molta, ingegno squisito ed attitudini letterarie
non comuni. Se la S.V. gli accordasse l’onore di riceverlo, e conosciutolo stimasse di poterlo impiegare in
qualche ufficio che offrendogli opportunità di rendere degli utili servitigli desse eziandio agio di continuare i
suoi studi, io sarei grato alla S.V. di ciò come per benefizio fatto a me medesimo. Aggiungo qui al foglio una
breve notizia intorno alla vita ed agli studi del Graf. Questo egregio giovane si trova in una posizione
difficile, perché nato di famiglia agiata, le cui condizioni sono ora tutt’altro che buone, e non avendo mai
atteso a lavori praticamente utili, gli è fuori d’ogni avviamento che costituisca carriera [2].
La notizia, poi, sulla vita e gli studi del Graf, Labriola s’era fatto carico di stenderla di suo pugno e
di spedirla all’amico ministro, aggiungendovi anche i due volumetti grafiani: uno di Versi e l’altro
di critica letteraria, Delle qualità e parti della tragedia, editi entrambi a Braila, in Romania, per i tipi di
P.M. Pestemalgioglu nel 1874. Che il detto profilo fosse stato redatto personalmente dal Labriola
ribadirà lo stesso Graf in una sua lettera successiva al Bonghi, del 22 dicembre del 1875, conservata
all’Archivio Centrale dello Stato e resa nota ancora dall’infaticabile Stefano Miccolis, in cui si fa
esplicito riferimento al prof. Labriola che «ebbe, - si dichiara testualmente - in altra occasione, a
tracciarle il mio curriculum vitae». Il breve profilo del giovane poeta, costituisce pertanto un primo
abbozzo sintetico di quelle memorie autobiografiche giovanili (che ho riprese e ampiamente
commentate per una prossima ristampa), che egli stenderà molti anni dopo, nel 1904, su invito di
Onorato Roux e che costituiscono un documento di qualche valore per la storia della cultura
italiana del secolo XIX [3].
Arturo Graf nato ad Atene nel gennaio del 1848, di padre tedesco e di madre italiana. Passò i primi anni
della sua vita in Atene e poi in Trieste, ove rimase orfano di padre nel 1856. Di poi visse alcuni anni in Braila
di Rumenia, ove i parenti avevano affari di commercio. Nel 1863 la madre lo menò a Napoli dal 1863 al 1871.
Laureatosi in Giurisprudenza il 1869 cominciò la pratica di avvocato, ma ben presto l’abbandonò come non
confacente all’indole sua e degli studi filosofici e letterari che predilige. Per ragioni domestiche il Graf è stato
nuovamente a Braila dal 1871 al 1874, ed è venuto a stabilirsi a Roma, col proposito di fermarsi
definitivamente in Italia per farvi carriera letteraria. Perché il Graf, sebbene nato di padre tedesco, e per le
molte vicende di una vita pratico di parecchie lingue, nell’indirizzo dei suoi studi gli è principalmente
italiano, e parla e scrive a preferenza l’italiano. Il Graf inoltre alla coltura generale classica, oltre gli studi
speciali di giurisprudenza, ha atteso con amore alle cose filosofiche, e conosce diverse lingue: - il rumeno, il
francese e lo spagnuolo che parla e scrive, l’inglese ed il greco che intende, per tacere del tedesco che è la sua
lingua paterna. Il Graf ha in pronto diversi lavori letterari in prosa e in verso. Dei letterati italiani conosce il
Fanfani, il Prati, il Revere, il Mamiani, il Fiorentino dai quali si possono avere informazioni. […].
Bisognerà a questo punto completare il quadro in cui inserire l’impegno di Labriola nei
confronti dell’amico, con quanto ci fa sapere la biografa Anna Defferrari, che ebbe a suo tempo la
possibilità di consultare l’archivio Graf a Torino, andato poi irrimediabilmente e inspiegabilmente
perduto [4].
Tra il luglio e l’agosto del ‘74 Graf, disperato, dal suo esilio di Braila aveva sollecitato l’amico,
che si era nel frattempo trasferito a Roma, di trovargli un impiego qualsiasi che lo togliesse da
quell’isolamento e dalla conseguente disperazione. La lettera è anche importante perché rivela
come la prima idea di un giornale (anche se, per così dire ad usum delphini) fosse stata proprio di
Graf e non di Labriola, come questi sembra farci intendere nella lettera a Camillo de Meis che di
seguito a suo luogo riporteremo.
Potresti tu procurarmi una qualche occupazione in Roma? Non potresti tu, mediante l’aiuto di qualche
persona di conto, delle molte con cui mi dici di aver relazione, farmi avere una cattedra di ginnasio? Non
potrebbe, come anche mi facesti intendere, offrirmi il giornalismo qualche occupazione? […] ma dimmi,
sarebbe poi tanto difficile, con le molte e buone amicizie che hai, di fondarlo addirittura un giornale? E se
fosse anche un giornale interamente dedicato alla critica letteraria, credi che non sarebbe cosa che potrebbe
riuscire in Italia, dove pubblicazioni siffatte non sono né molte né buone?
C’era stato tra i due un intenso scambio di lettere sull’argomento e dalle quali si evince come le
sorti del futuro docente di letterature neolatine nella Univ. di Torino non solo stessero a cuore
anche all’amico Labriola, ma costituissero, alla fin fine, il motivo, se non la causa, occasionale di
scelte e di prese di posizioni di entrambi gli amici, negli anni della loro prima formazione. Andate
perdute le lettere di Labriola, abbiamo i frammenti di quelle di Graf, riportati diligentemente dalla
Defferrari. In uno di tali spezzoni, del 6 di agosto del 1874, si apprende che Labriola aveva
consigliato all’amico tre vie per la sua sistemazione ed affermazione: 1) l’avvocatura, secondo il
suo titolo di studi ufficiale; 2) le lezioni private; 3) il giornalismo che, riconosceva Graf, «sarebbe a
parer mio la più spedita, e la qualità dei miei studi sarebbe forse qui una condizione favorevole;
potrebbero essi pormi in caso di scrivere con qualche facilità de omnibus rebus et de quibusdama aliis»
[5].
Di notevole interesse, pertanto, seguire, oltre che nei rapidi riferimenti sparsi nei carteggi
labrioliani, anche e più specificamente, nelle lettere di Graf all’amico triestino, che vanno dal 21
novembre del 1874 e coprono il periodo torinese fino alla morte di Vittorio Mendl (avvenuta a
Firenze il 27 ottobre 1909), il graduale dissolversi e venir meno di una tanto ben nata e solida
amicizia. Dico subito che non ritengo si debba riportare una tale conclusione esclusivamente a
motivi biografici occasionali – che pur ebbero un loro peso – bensì a ragioni culturali, filosofiche e
politiche, molto più profonde anche se connesse, in definitiva, al carattere intransigente e
particolarmente intollerante dello stesso Labriola. Né credo si debbano attribuire alla scarsa
gratitudine le critiche che Graf muoveva all’amico confidando le sue perplessità al Mendl.
Quant’ho desiderato la mia famiglia o almeno un amico! Non è tale per te Labriola? Domanderai tu: si è,
ti rispondo, ma non c’è uomo al mondo, il quale men di lui conosca l’arte di dire una parola che rassereni
l’animo a chi ne provi bisogno. Mi venne a trovare ogni sera, e per due o tre ore sfogò tutta l’amaritudine di
cui è piena l’anima sua, e passando a rassegna uomini e cose, mi mostrò (e tu t’accorgesti, mi pare, come sia
questa una sua consuetudine) che tutto è guasto, perverso, pessimo, sciocco, inutile, ridicolo. Attraente
dipintura, la quale, a lungo andare, essendoti ripetutamente messa davanti, ti fa rimpiangere di non essere
nato in qualche deserto angolo di mondo, dove non si senta parlare mai né di uomini politici, né di letterati,
né di professori, né di altri eiusdem farinae [6].
D’altro canto alla generosa iniziativa di Labriola, Graf aveva risposto con il suo impegno di
sincera e fraterna disponibilità, scrivendo il 20 febbraio del ‘76 al prof. Pietro Fanfani per
raccomandarglielo caldamente come «singolarissimo ingegno». Tale lettera, tra altre inedite nei
Carteggi Vari presso la Bibl. Naz. di Firenze, io avevo già resa nota a suo tempo nel mio vecchio
vol. dell’86 [7].
[…] Mi fa lecito poi di raccomandarle, come persona della quale potrebbe molto giovarsi, il prof. Antonio
Labriola, uomo di singolarissimo ingegno e insegnante di pedagogia e storia in questa Regia Università. Egli
le manderà alcuni suoi lavori, di cui fu fatta grande considerazione in Germania, ma la prego per mezzo
mio, di non voler giudicare da essi del suo modo di scrivere, secondoché li ha tutti scritti a vapore […].
Certamente il problema era più profondo e riguardava più da vicino la psicologia di Graf:
quella sua inclinazione pessimistica che egli viveva con certa voluptas dolendi, ma dalla quale
anelava ad uscire (in una condizione simile a quel riposo dei dannati di cui fovoleggerà molti anni
più tardi), soprattutto nei momenti più cupi della depressione fisica e psichica nella quale sovente
cadeva. L’amicizia di Labriola, insomma, non gli era certo terapeutica. Ma da qui, a ipotizzare
l’ingratititudine, ci corre, a mio vedere.
Del resto, che l’atteggiamento di Graf non fosse di disistima né tantomeno di ingratitudine, lo
dimostra anche altro esempio di generosità che lo porta a privarsi di tutti i suoi libri, acquistati con
notevoli sacrifici, per aiutare l’amico in difficoltà. Ne dà testimonianza diretta la brutta copia di
una sua lettera da Braila del 19 maggio 1973, riportata quasi integralmente dalla Defferrari e,
purtroppo, andata perduta nell’originale con tutte le altre che entrambi gli amici si erano
scambiate.
Denari non te ne mando e per la potentissima ragione che non ne ho; se la tua lettera mi fosse giunta la
settimana scorsa avrei mandato a te dugentocinquanta lire che rimisi invece ad un libraio di Vienna […] Tu
sai ch’io ho lasciato i miei libri costì, consegnati a Detken; è tra quelli l’intera collezione di un giornale il Tour
du mond, dal 1860, anno in cui fu cominciato a pubblicare, sino al 1870; in tutto dieci grossi volumi, assai ben
rilegati e che mi costarono passa i trecento franchi; vi sono parecchie opere di scienza cosidetta popolare, a
capo delle quali sta un volume del Guillemin, stampato su finissima carta a lettere di scatola, con stupendi
cartoni e bellissime incisioni del valore, quando fu comperato, di £ 30; v’è tutta o quasi la mercanzia dello
Zimmerman, di cui gran parte vergine ancor d’ogni contatto; […] vendi, vendi fino a che tu abbia raccolta la
somma di cui hai bisogno [8].
Infine, è la natura stessa delle sue perplessità e della sua critica dell’amico a rivelare
chiaramente come sia soltanto il carattere, non certo la sua preparazione e il suo ingegno, la
ragione effettiva che avrebbero fatto di lui un collaboratore, nella impresa particolare del giornale,
poco idoneo a scrivere e parlare a lettori borghesi, più spesso conservatori e diffidenti che non più
o meno illuminati. Si può anzi dire che Labriola e Mendl restano gli unici veri confidenti del
giovane Graf; e Labriola è certamente quello che egli segue come più costante tutore cui affidarsi
negli studi e nelle ricerche. Le sue lettere a lui sono insistenti; ha bisogno delle risposte dell’amico.
Finisce, dopo avergli dedicato il suo saggio sulla tragedia, a indirizzargli addirittura versi, come
quelli su Prometeo nel volume di Poesie e novelle del ‘76 e i quattro sonetti di cui ci dà notizia la
solita Defferrari [9].
Quella del giornale era, pertanto, una complessa iniziativa in cui i due amici si erano
avventurati con motivazioni certamente ponderate ma non sempre unitarie negli intenti: dapprima
puntando alla fondazione di un quotidiano nella capitale e quindi, come ripiego, progettando una
rivista quindicinale. Tutta la questione non andò in porto e così Graf ne avrebbe parlato all’amico
triestino:
Non faccio più la rivista e ti dirò perché. Mi sono persuaso che una pubblicazione di questo genere, per
ben fatta che fosse, non troverebbe in Italia tanti lettori quanti occorrerebbe per farla vivere. Poi ti confesso
che non ero troppo persuaso dei collaboratori: di alcuni per la loro poca capacità, di altri per la loro
insolenza. Dello stesso Labriola, si detto fra di noi, non ero troppo persuaso; non già perché io dubiti del suo
valore, di cui ho anzi un concetto grandissimo e maggiore di prima, ma perché l’irruenza e la mobilità del
suo carattere sono tali (e ne diè prova) da mettere la gente in imbarazzi proprio seri. Il numero dei suoi
nemici è tale da far paura: se ne potrebbe formare un esercito [10].
Dalla parte di Labriola, la stessa vicenda è presentata ad Angelo Camillo de Meis nel modo
seguente:
Vi ringrazio dei voti che fate pel giornale da me progettato. Ma non sono stati del vostro avviso tutti
quelli ai quali ne ho parlato, per chiedere aiuti o morali o materiali. Che musi m’hanno fatto! E dire che io
offriva un giornale fatto a spese private, per conto di gente che non vuol fare una speculazione; con le spese
garantite per parecchi mesi! E soprattutto i napoletani, che dicono di avere non so che interessi da far
rappresentare a Roma, avrebbero dovuto far buon viso. Ma Dio li benedica! Sono invidiosi perché incapaci
di ogni nobile idea; e pieni sempre di sospetto perché meschini quanto porta l’ignoranza loro.
E aggiunge, sempre senza fare alcun cenno dei suoi collaboratori e come se fosse stato soltanto
lui il promotore della faccenda:
Visto dunque che non metteva conto di buttar via quattromila franchi al mese per fare un
giornale che al sesto o settimo, non avrebbe più potuto vivere per mancanza di appoggi, mi son
deciso di mettere fuori una rivista quindicinale che avrà un carattere intermedio fra il giornale
politico e la rivista propriamente detta [11].
Senza ripetere con giri di parole quel che, in altro più ampio contesto, ho osservato un
ventennio addietro, riprendo qui l’analisi già compiuta sulle uniche fonti disponibili, in cui i
rapporti tra Graf e Labriola erano stati documentati e discussi; con la sola variante di qualche
correzione e nuova osservazione, rese necessarie da qualche ponderazione successiva e dal lungo
tempo trascorso.
Premetto, per maggiore chiarezza, che tali rapporti vanno seguiti su tre dimensioni: la
biografica, la politica o dell’impegno giornalistico liberal moderato e la filosofica vera e propria.
Sul primo terreno, un notevole contributo ha dato, abbastanza di recente, Stefano Miccolis con il
ritrovamento e la pubblicazione della lettera di Labriola a Bonghi che più sopra s’è riportata e
commentata. Qualche ulteriore dato di conoscenza ci forniscono le solite lettere al Mendl che
testimoniano della intimità dei loro rapporti, delle confidenze, delle reciproche piccole o più
complicate incomprensioni e, infine, di alcune sostanziali incompatibilità. Dapprima Graf è il
confidente di scappatelle extra coniugali:
Notizia interessante. Labriola, essendo stato alcuni giorni in Ancona, vi si innammorò, e ora scrive e
riceve letterine amorose. Quelle che egli riceve vengono al mio indirizzo. Acqua in bocca per carità! [12]
Ma dovrà anche, nell’assenza dell’amico, provvedere a far compagnia alla sua signora, rimasta
sola a Roma:
Labriola è fuori di Roma per gli esami liceali e tecnici, ma è rimasta qua la sua amabile metà, a cui per
convenienza io debbo fare qualche visita. Anzi l’altra sera m’è toccato di condurla a spasso un paio d’orette.
Ah Vittorio!
Gli presta denari che sa di non poter più riavere e se ne duole con l’amico comune [13]. Molti
anni più tardi, da Torino il 16 aprile del ’97, gli confesserà che Labriola ha contratto un debito di un
migliaio di lire con sua moglie, la Sofia Rauchenegger, vedova Loescher « e offre di darne 700 a
rate, che non pagherà mai».
Via via che gli anni passano gli incontri si diradano. Si incontreranno ancora, forse due o tre
volte soltanto. Nell’ottobre del ‘79, si danno appuntamento a Vienna: «Qui ho trovato Labriola di
ritorno da un viaggio in Germania. Per questo incontro avevamo reciprocamente contratto
impegno sino da qualche mese». A Roma trovano ancora il modo di fare una rimpatriata.
[…] ora sono da una settimana in Roma, dove ho ritrovato il vino delli Castelli, il Colosseo e il professor
Labriola, mio e tuo amico. Dico tuo amico, perché egli, che pochissime persone può digerire, ha una viva
simpatia per te, ti ricorda spesso, racconta volentieri certe tue gesta dei tempi andati – Di poema degnissime e
di storia – e fa l’encomio delle tue molte buone qualità.
Poi, col passare degli anni, le espressioni nei confronti del filosofo si faranno sempre più fugaci,
con immancabili frecciatine sarcastiche sulla sua cronica loquela. Si interromperanno d’improvviso
con quell’estremo, compassionevole annuncio: «Avrai forse saputo della morte del povero
Labriola, avvenuta in seguito ad una crudelissima malattia, che per due anni gli tolse l’uso della
parola».
Per quanto riguarda l’impegno giornalistico, parzialmente connesso con quello politico,
importante testimonianza ci offrono ancora una volta le lettere a Vittorio Mendl. Provo a
ricostruire sinteticamente tutta la vicenda.
Dapprima, tra il marzo e il dicembre del ‘74, nasce – facilitato e, forse, promosso dalle
precedenti esperienze e competenze maturate da Labriola a Napoli e altrove - il progetto di un
giornale politico quotidiano, direttore responsabile il Mendl, con Labriola e Graf principali
redattori, il cui piano viene esposto da Graf stesso all’amico triestino in un lettera del 24 novembre
del 1874 ma in forma che mostrerebbe come la iniziativa fosse principalmente sua e che Labriola ne
fosse, in qualche modo, importante consigliere e collaboratore.
Ho lungamente parlato col Labriola del nostro affare, ed egli è ora più che mai di parare che sarebbe
ottima cosa il dargli corso. Qui c’è della gran roba che bolle in pentola, e la XII legislatura del Regno d’Italia,
apertasi ieri col discorso della corona, sarà pel governo piena di difficoltà e di sorprese. Il ministero presente,
composto com’è di elementi eterogenei e poco affini fra loro, non credo che sia per aver lunga vita. Per ora
grandi battaglie non ci saranno. L’elezione del presidente sembra ormai assicurata nella persona del
Bancheri, e non pare che a tal proposito l’opposizione voglia appiccare con la parte avversaria una lotta
molto ostinata e viva. Ma qui a un mese, quando si comincerà a discutere il bilancio, e a propor nuovi
progetti di legge, la guerra divamperà improvvisa, e nessuno ora potrebbe predire a quale delle due parti sia
per rimaner la vittoria.
Il programma nostro nei suoi capi principali sarebbe il seguente. 1° Difesa dello stato e della monarchia:
per conseguenza guerra a tutti coloro che, sotto veste di radicali o di clericali, tendono a distruggere l’opera
unitaria o a turbare l’ordine esistente e sostituire intempestivamente una forma nuova di governo a quella
con cui l’Italia si regge. Ma altro è stato, altro è governo. I ministeri mutano; lo stato resta, e la difesa dello
stato, che noi ci assumeremmo, non escluderebbe in nessun modo la libera critica degli atti del governo. 2°
Tutela nella capitale degli interessi della provincia. Il giornale sarebbe un organo il quale mediante la
corrispondenza ch’esso avrebbe nelle province, metterebbe queste in comunicazione colla capitale,
facendovisi come il rapportatore dei loro bisogni e dei loro richiami. Questi due capi sarebbero quelli che
darebbero al giornale il suo proprio carattere. Labriola desidererebbe vivamente che tu ti fissassi in Roma, e
assumessi la direzione; e il mio desiderio è anche maggiore del suo. Vieni il più presto possibile. L’indirizzo,
come sai presso Labriola Banchi Vecchi, 41. [14].
Il 19 gennaio dell’anno successivo, tutto il progetto è già accantonato, sostituito da altra
iniziativa, quella di una rivista politico-letteraria, diretta da Labriola e Graf, in cui l’impegno
politico più immediato sembrava cedere il passo a quello più ponderato e, infine, culturale e
letterario.
Ti faccio sapere che Labriola essendosi tanto quanto ristabilito in salute, noi abbiamo risoluto di fondare,
non più un giornale quotidiano, alla quale impresa non abbiamo sufficienti denari, ma una rivista politicoletteraria la quale uscirebbe due volte al mese […]. Questa rivista, pel modo com’essa è concepita, sarebbe
una novità in Italia. Conterrebbe articoli ragionati e ponderosi su questioni importanti di politica nazionale
ed estera, conterrebbe novelle, poesie, una rassegna bibliografica, una rubrica di varietà, una cronaca
politica. Il pregio particolare di un periodico di questo genere dovrebbe stare appunto in questo che i suoi
articoli, non essendo scritti con la precipitazione solita degli articoli di giornale, e sotto l’impressione
immediata dei fatti, sarebbe una revisione e un apprezzamento di questi molto più pacato e riflessivo, così
che, dove l’opera corrispondesse ai propositi, la rivista potrebbe finire per acquistare, nelle materie da esse
trattate, una certa autorità. Sotto il titolo politica io comprendo le scienze affini, l’economia,
l’amministrazione, la scienza della guerra, ecc. ecc. Naturalmente una parte non piccola di questo lavoro
dovrà essere affidata a redattori speciali e scelti.
Non passano molti giorni che naufraga anche il progetto della rivista, mentre sembra tornare a
galla il primitivo disegno del quotidiano, ma questa volta a Napoli, con il sostegno finanziario di
altri amici e, addirittura, all’insaputa di Labriola. «Della possibilità d’un giornale a Napoli non ho
mai fatto motto a Labriola. Te lo dico affinché venendo, non gliene tenga discorso nemmeno tu»
[15]. In tutto questo oscillare e tentennare di propositi vecchi e nuovi, una parte importante
sembrano averle avute le scarse risorse finanziarie ma anche il carattere, le propensioni, le
ideosincrasie e le scelte di entrambi i protagonisti dell’intera vicenda – come rivelano i passi delle
lettere di quegli anni al Mendl che abbiamo riportati.
Bisognerà intanto fare una premessa. Labriola fin dagli ultimi anni sessanta, aveva avviato una
intensa attività giornalistica su vari giornali napoletani e no. Una ricca esperienza politica e di
analisi della realtà italiana quotidiana che a Graf mancava del tutto. A Napoli, aveva collaborato a
partire dal 1871, al « Piccolo», di Rocco De Zerbi, alla «Gazzetta di Napoli», nata il 18 settembre del
1871, nonché all’« Unità Nazionale» di Ruggero Bonghi, e, infine, a Bologna, al « Monitore» [16].
Perciò, negli anni della iniziativa intrapresa con Mendl e Graf, aveva certamente accumulato una
esperienza, una notorietà giornalistica e una cognizione dei problemi politici e di attualità che ai
suoi nuovi collaboratori mancava. Forse nella diffidenza di Graf nel comunicargli l’impresa di un
giornale a Napoli c’era anche la consapevolezza del ruolo che Labriola, bene o male, si era
guadagnato in città: ruolo che avrebbe condizionata se non determinata la futura vita del nuovo
giornale con un collaboratore di tale personalità, già noto al pubblico come polemista, esperto delle
questioni e fermo nei suoi propositi strategici, politici, ideologici e, direi, fustigatorii. Del resto pare
che Graf aveva preso per suo conto contatti con Domenico Petriccione ed altri amici personali in
Romania (certi Gasparo Czvistovich e Assereto) che gli avevano promesso un primo
finanziamento di 1000 franchi per avviare l’impresa; nonché con lo stesso Vittorio Mendl - cui
chiedeva esplicitamente di mettere nell’impresa 3 o 4000 mila franchi – e con disponibili redattori
che promettevano di collaborare gratuitamente, almeno per i primi tempi [17]. Per il giovane poeta
si trattava soprattutto di una sistemazione che lo traesse fuori dall’indigenza e gli consentisse di
mettere a frutto la sua preparazione e le sue capacità. La presenza di Labriola nella impresa, con la
mobilità del suo carattere, come si esprimeva Graf, sarebbe stata quanto meno ingombrante e non
avrebbe consentito al suo più giovane amico non soltanto di seguire le sue inclinazioni e di
affermarsi ed emergere, ma, soprattutto, di mantenere rapporti sereni coi suoi collaboratori e
finanziatori. Forse fu questa la ragione e non l’ingratitudine o altro sentimento di disistima a fargli
escludere dalla nuova iniziativa l’amico, che pure sinceramente amava e stimava tantissimo [18].
2. - I comuni studi herbartiani
Non si tratta di una scelta qualsiasi; tanto meno di una opzione erudita tra le molte possibili in
quegli anni. Tra Darwin, Spencer, Humboldt, positivisti più o meno seguaci di Comte o
materialisti alla Moleschott o alla Büchner, i due sodali scelgono la psicologia: la disciplina che
andava faticosamente cercando tra le scienze sperimentali e i riconosciuti limiti della conoscenza
logico filosofica (Du Bois Reymond), un suo autonomo posto. Più specificamente, la scelta
herbartiana, certamente consigliata o, comunque, determinata da Labriola, era anche una riposta
alla filosofia idealistica e positivistica a un tempo, suggerendo una sorta di superamento di quella
che andava presentandosi come l’impasse della filosofia della seconda metà del secolo: positivismo
o idealismo. Buoni contributi avevano dato alla diffusione di Herbart e della sua scuola in Italia,
sia Francesco Bonatelli che Felice Tocco; mentre Giacomo Lignana ne era stato il primo
propugnatore a Napoli. Più in particolare, Bertrando Spaventa se ne era fatto promotore e
mediatore autorevole tra i suoi scolari; ma l’interesse per la psicologia scientifica in generale, per lo
studio del comportamento umano legato ai presupposti delle ultime scoperte della neurofisiologia,
e connesso con una dominante opzione sperimentalista, se non scientistica, si sarebbe andato
diffondendo in tutta una vasta area antimetafisica e antidealistica, da Ardigò a Giuseppe Sergi, e
sarebbe sfociata, un paio di decenni dopo, nella complessa costituzione del gruppo redazionale
della “Rivista di filosofia scientifica”, fondata e voluta da Enrico Morselli, filosofo e
neuropsichiatra.
La convergenza allora verso gli studi di psicologia, e in particolare verso l’herbartismo, si
caricava di una valenza significativa per entrambi i giovani studiosi alla ricerca di risposte fondate
intorno all’uomo e al suo autonomo posto nell’universo naturale. È anche probabile, perciò, che
l’addentrarsi di Graf nel torbido mondo dei miti e delle leggende medioevali, se da un canto
poteva rappresentare per il poeta una ricerca consona al suo spirito perché lo metteva in contatto
col mondo sommerso della psiche cui neppure la scienza, da Bernard a Charchot, sapeva dare
spiegazione soddisfacente, apparve al suo amico e compagno di speculazione filosofica una sorta
di fuga, di rinuncia che poi egli - sarcastico fustigatore di inclinazioni irrazionali - avrebbe bollato
come romanticherie di poco costrutto, come emerge dalle rapide battute labriolane ai suoi
interlocutori. In una lettera a Croce del febbraio del 1886, tratta il tema della critica letteraria:
[…] ora che abbiamo cominciato a fare dell’altra critica (fonti, testi, varianti, tradizioni, ecc.) di quella
estetica non ne vogliamo sapere più: e dicono che quella è falsa. Così dice il mio amico Graf, che dalle stelle è
cascato nelle stalle, e da improvvisatore di arguzie estetiche è passato a fare l’erudito ciarlatano.
Il 21 novembre del ‘96, trattando della avidità della signora Loescher, vedova ed erede
dell’editore, nonché moglie di Graf, il suo vecchio amico diventa «quello scemo di Graf»
(aggettivo, sia detto per inciso, che verrà riservato anche a Franz Brentano) [19].
Bisognerà allora che io riprenda quanto già annotavo nei primi anni Ottanta [20]. Sono gli anni
tra il 1870 e il 1873 i più fecondi per i rapporti tra i due studiosi. I temi corrono dalla morale alla
psicologia e le letture di Graf vanno dalla Psicologia del Waitz al Cosmos di Humboldt, dalla Logica
di Stuart Mill ai volumi di Alessandro Bain sui sensi e l’intelletto; mentre proprio nel ‘73 Labriola
dà alla luce il saggio, Della libertà morale, dedicandolo: Al mio carissimo amico, Dott.re Arturo Graf e
dandone ragione nel modo che segue:
L’amico mio, del quale si legge il nome nella pagina qui innanzi, sarà due mesi, mi fece per lettera questa
interrogazione: come pensi tu si deva conciliare il concetto psicologico del motivo più forte, con le esigenze della
morale? Egli aveva letto di fresco alcuni trattati di psicologia e di etica della scuola herbartiana, per
l’appunto, mi pare, il Waitz ed il Nahlowsky; e mi faceva quella interrogazione, così per provocarmi a
scrivergli la mia opinione, come ho soluto e soglio fare spesso con lui [21].
Già ho ipotizzato altrove che la risposta a quella prefazione Graf dette, in un certo suo modo,
non soltanto con la lettera di cui un importante frammento rese noto la solita biografa, ma
soprattutto con le pagine del Riscatto, laddove tenta di conciliare determinismo e libertà [22]. Il
romanzo forse non sarà granché ma le considerazioni che contiene, le situazioni di cui è specchio e
le indicazioni che suggerisce su quella che ricordiamo come la crisi di fine secolo, restano ancora di
qualche interesse per lo storico [23].
Tra il ‘71 e il ‘72, corre il sodalizio di studi herbartiani, in cui con molta probabilità, Labriola si
pone come probabile guida filosofica del giovane amico alla ricerca affannosa di una sistemazione
e di una formazione a un tempo. Dobbiamo per quegli anni attenerci alla documentazione
attendibile della Defferrari la quale riporta lettere di Graf a Labriola; mentre l’epistolario con
Mendl parte soltanto dal ‘74, dagli anni romani, allorquando i due giovani studiosi si vanno
orientando verso la carriera universitaria: Labriola decisamente verso la filosofia morale e la
pedagogia e Graf, con svariate perplessità e turbamenti, verso la letteratura, la filosofia o la
scienza.
Non disponiamo delle lettere con le quali Labriola, discutendo e indirizzando il suo giovane
amico (con una sorta di metodo a lui caro del tipo: ad directionem ingenii) svolgeva la sua critica al
positivismo cui ancora quegli si atteneva. Possediamo invece, grazie alla Defferrari, alcune minute
di Graf a lui, che restano raro documento d’epoca intorno alla questione del positivismo in Italia
che allora si dibattiva tra personaggi come Bertrando Spaventa, Ardigò, Gabelli, Angiulli, Siciliani,
e ancora scientisti, neokantiani, spiritualisti, giobertiani, ecc.: ma anche testimonianza attendibile
per la stessa ricostruzione minuta dell’itinerario biografico e concettuale che portò Labriola alla
maturazione marxista. Di tale materiale inedito, ho fatto uso esegetico a suo tempo e luogo; in
questa sede riprendo a commentarlo, comparandolo con passi del testo labrioliano su la libertà
morale da cui emerge con discreta evidenza l’incontro/scontro con le idee dell’amico [24].
Ancor prima di cimentarsi con gli herartiani e con le questioni di morale e di psicologia, Graf
aveva letto il Cours de philosophie positive di Comte, indicatogli dal suo precettore, l’abate Di Murro
[25]. Mentre il suo amico preparava per il concorso il libro sulla libertà morale, lo tempesta di
quesiti filosofici, tra i quali quello messo, quasi chiarimento all’ex ergo, nella prefazione: «come
pensi tu si deva conciliare il concetto psicologico del motivo più forte, con le esigenze della
morale?». Labriola ci pensa su e decide di fare della sua risposta articolata all’amico, addirittura un
volume: quello stesso da presentare al concorso e di cui spiega la ragione contingente e la dedica al
prof. Francesco Bonatelli, in quegli anni in Italia autorevole conoscitore di Herbart e della sua
scuola [26].
Ora, se proviamo a enucleare i temi principali impostati ed affrontati da Labriola nel volume
del ‘73, dobbiamo riconoscere in Graf l’interlocutore principale di quella trattazione. Dobbiamo
ritenere che molte di quelle discussioni vennero fatte oralmente prima o almeno impostate in
convesazioni di studio tra i due amici. Determinismo e indeterminismo, morale e religione, morale
e politica, libertà e volontà: Kant, Herbart, gli herbartiani sono temi, autori e strumenti anche per
Graf che se li trascinerà dietro fino ai primi anni del Novecento quando scriverà il suo unico
romanzo, Il riscatto. La gran legge cosmica che, secondo il positivismo tedesco, sfociato nel
materialismo volgare, porterebbe alla negazione della libertà morale, quale «atto peculiare della
vita interna», resta, per Graf come per Labriola, una incomprensione riduttiva dell’uomo, una
ingenuità risibile nei libri di Büchner e di Moleschott. Non ci si può fermare, circoscrivere alla
ricerca delle cause esterne. e finire per concludere che «ogni uomo è tale quale queste cause, col
loro concorso, lo determinano ad essere» [27]. E ancora, «considerare la coscienza come semplice
appendice della natura umana e negare in virtù di codesto concetto la libertà in generale, e la
libertà morale in particolare, è uno dei punti principali della dottrina di Spinoza». Ma in Spinoza –
precisa Labriola – c’era altra finalità, differente consapevolezza che nei contemporanei materialisti
o naturalisti tedeschi.
Il determinismo meccanico, o esterno, trascura la specifica natura dell’uomo in considerazione di una
necessità assoluta la quale o si riduce semplicemente a una generica esperienza del pensiero: la legge di
causalità; o mette capo a una rappresentazion del mondo come assolutamente determinato dalle leggi
costanti che si dicono naturali. ... [28].
A tali osservazioni di Labriola, avrebbe posto puntuale attenzione, dal momento che vennero
formulate fino agli anni dell’elaborazione del suo romanzo, il nostro Graf che trovò la maniera di
trattare il tema del superamento del determinismo naturalistico con una conclusione, ritenuta
poetica, di fantasia, ma in realtà fondata sul ruolo determinante dei sentimenti, negli anni in cui si
andavano sviluppando gli studi di neurologia e nasceva la psicoanalisi. Quella legge di causalità,
richiamata da L., diventa, nel Riscatto, la legge di ereditarietà: una sorta di catena che legherebbe,
nella malattia, nelle allucinazioni e nelle inclinazioni, il discendente all’avo, secondo un canone di
eredità dei caratteri di tipo genetico (mendeliano), inesorabile, necessario e assoluto. Ovviamente
Graf avrebbe finito per risolvere la complessità della natura umana con il dualismo tra materia e
spirito, anche se rifacendosi più al parallelismo di Fechner che allo spiritualismo della tradizione
scolastica (come, erroneamente, a qualcuno piacque ricondurlo); mentre Labriola, prima ancora di
pervenire alla sua ponderata e articolata concezione del materialismo storico, si sarebbe attenuto
ad una prospettiva fondamentalmente herbartiana e immanentistica dell’attività mentale psichica:
ad un primato metodologico della psicologia sulla filosofia morale.
In verità, avevo già avuto modo di notare, in un saggio consegnato alla «Rassegna della
letteratura italiana» nei primi anni Ottanta, che Graf aveva ripreso, dopo circa trent’anni, la sua
riflessione sul determinismo, iniziatasi a Napoli con l’amico Antonio; e proprio intruppandosi
nelle polemiche sulla scienza che si andavano accendendo non soltanto in Italia, ma anche in
Francia, Germania e Inghilterra agli inizi del nuovo secolo, anche grazie agli scritti del fisiologo di
Jena, Ernest Haeckel [29]. Basterà riportare un passo del suo scritto, Per una fede, uscito poi in
volume da Treves nel 1906, per constatare come, dopo tutto quel lasso di tempo trascorso, le
considerazioni dell’amico filosofo su la libertà morale, in risposta ai suoi impellenti quesiti
d’allora, gli erano ancora vivamente presenti.
Sono io libero? Scientificamente non si può provare il determinismo, e scientificamente non si può
provare l’indeterminismo […] La coscienza mi dice che sono libero. I partigiani del determinismo assoluto
affermano che la sua testimonianza è illusoria; ma come lo provano? La libertà, essi dicono, è incompatibile
con la legge di casualità e con la legge della conservazione dell’energia. Sarà incompatibilissima; ma chi ha
provato che quelle due leggi sono universali e assolute? E chi ha provato che sono applicabili ai fatti psichici
come sono applicabili ai fatti fisici? […] Dicono ancora i partigiani del determinismo che la volontà
necessariamente obbedisce al motivo più forte. Ma come fanno a saperlo, e che cosa s’ha da intendere per più
forte?
Come si vede, questa era ancora la vecchia domanda rivolta al suo Labriola nel lontano 1873:
«come pensi tu si deva conciliare il concetto psicologico del motivo più forte con le esigenze della
morale?» e a cui l’amico filosofo aveva pensato di rispondere addirittura con il trattato de La libertà
morale. Ma Graf precisa:
Prima che la volontà si determini, essi non sono in grado di dire quali di più motivi che la sollecitino sia il
motivo più forte; ma quando la volontà s’è determinata, essi affermano che il motivo implicato nella
determinazione, è il più forte. Questo si chiama in logica una petizione di principio [30].
In realtà, Labriola era partito da una nuova fondazione antropologica che lo portava a osservare
come «l’individuo com’è ora non è semplice potenza naturale ma insieme potenza storica e sociale
[…] in quanto il carattere e l’indole non è data solo naturalmente. Il carattere dell’uomo si è
allargato. L’uomo non è solo da considerare come essere animale e razionale, ma come essere
sociale e storico». L’obbiettivo polemico, in questo caso, erano i materialisti tedeschi in particolare
che riconducevano anche l’individuo alla gran legge cosmica. E riportavano l’uomo al solo ordine
cosmico universale, del tutto determinato «dalla somma delle cause naturali che ne generano,
predeterminano e soddisfano il volere.» [31]. Ma il nostro Graf, pur facendo un qualche uso della
serrata analisi dell’amico, non si sarebbe attenuto rigorosamente nei limiti di metodo cui tale
analisi veniva mantenuta: dal richiamo a Leibniz (in nullis potestate est velle quae velit) , fino a
Schopenhauer per giungere a Herbart e alla psicologia come scienza fondata. (Il problema della
libertà, avrebbe concluso il filosofo di Cassino, è un problema affatto psicologico [32]). Ne avrebbe
invece tratto motivo per giustificare il suo dualismo tra materia e spirito e fondare su di esso la
legittimità di una scelta di fede che apparve se non paradossale alquanto singolare in quei primi
anni del Novecento.
Ma ritorniamo al periodo napoletano degli studi herbartiani. Se le precisazioni fatte dalla
storiografia labriolana sul clima filosofico napoletano in cui Herbart e i giovani herbartiani
vengono recepiti agli inizi degli anni Settanta sono attendibili, allora il rapporto, complesso e
critico certamente, con il positivismo, comtismo, scientismo ed evoluzionismo meridionale di
quegli anni s’impone [33]. E vengono in ballo i nomi di Giacomo Lignana, che già Croce aveva
individuato come primo introduttore dell'herbartismo [34] e, accanto a quello topicamente ricordato
di Bertrando Spaventa, anche quelli di Salvatore Tommasi, Arnaldo Cantani, assieme a tutta quella
tradizione napoletana di sperimentalismo filosofico che aveva avuto il suo inizio con Domenico
Cirillo, Tommaso Cornelio, Leonardo di Capua e i divulgatori e seguaci dei metodi cartesiano e
galileano tra Seicento e Settecento. È il clima in cui si forma, consule o meno il nostro Labriola, il
giovane Graf che, di fronte all’amico, già così più sicuro di lui nelle scelte teoriche e pratiche, pur
nella costante evoluzione del suo pensiero dall’herbartismo al materialismo storico, si attiene
ancora ad alcune sicurezze positivistiche.
Non so, caro Antonio, s’io mi vada invecchiando anzi tempo e se lo spirito del secolo di cui siamo figlioli
mi riempia di sé troppo più ch’io non vorrei; ben so che di anno in anno e di giorno in giorno van scemando
in me gli entusiasmi e che da questo scemamento si genera una cotal neutra temperie di spirito che, se
favorevole alla critica, non è certamente all’azione. Forse non ho ancora trovato colui che ha da essere, per
non più mutare, il mio maestro e il dottore […] [35].
Se studia – certamente dietro i suggerimenti di Labriola - la psicologia dei popoli, nelle opere di
Lazarus e Steinthal, vi aggiunge, oltre agli herbartiani, sempre indicatigli da Labriola, Waitz e
Nahlowsky, anche i canonici Comte, Spencer, Stuart Mill, Humboldt, assieme al Bastian e ai
contemporanei italiani certamente, coi quali finirà poi per intessere rapporti, anche molto polemici,
in seguito, negli anni Ottanta e Novanta, quelli appunto della cosiddetta crisi di fine secolo. Per il
momento, non solo non potrà dire d’essere diventato herbartiano [36], ma sembra piuttosto restio a
seguire le indicazioni alquanto perentorie dell’amico filosofo e prova a rabbonirlo così:
Non devi pertanto meravigliare ch’io rimanga fedele in massima parte alla dottrina positiva, alla dottrina
e non al sistema comtiano, in cui sempre mi spiacque l’incosciente tendenza al materialismo, generato dallo
studio preponderante delle scienze dette naturali; né che io rigetti l’accusa di insufficienza che le vien fatta
dappoiché è quella insufficienza appunto o piuttosto quella circoscrizione che me la raccomanda, meglio
piacendomi l’ignoranza che la scienza fallace. Fo bensì rimprovero al positivismo d’essere, quale ce lo
presenta la scuola, piuttosto una filosofia della scienza che una filosofia della realtà obbiettiva e non approvo
in nessun modo quel suo far del mondo morale come una provincia del regno della materialità.
Labriola doveva avergli replicato con la consueta fermezza, se, alcuni mesi dopo, Graf gli
confermava altrettanto lealmente la sua posizione:
Io non credo di dover disertare così presto, come tu credi, la bandiera del positivismo e la critica che tu fai
di esso non mi convince peranco […] Io rimango per ora fedele alla filosofia positiva (credo che questo
infelice predicato abbia contribuito non poco a farti venire in uggia il sistema) [37].
Alcuni anni dopo, dalla cattedra dell’Università di Torino, rivivendo a suo modo il complesso
problema della metodologia delle scienze e ponendosi il quesito se la storia divenga scienza,
riassumeva ai suoi uditori proprio lo Steinthal, studiato con Labriola, di Filologia, Psicologia, e
Storia, così:
Come lo studioso della natura riconduce la totalità delle cose naturali ad un principio, che è la materia,
così ad un principio ricondurrà lo studioso delle cose umane tutta la storia, e questo principio sarà lo spirito.
Lo spirito, che solo produce la evoluzione storica, può solo, se mi lasciate dire così, darne la chiave, e la
storia non può altrimenti elevarsi a grado di scienza che con l’aiuto della psicologia [38].
Dal canto suo l’amico Labriola, un decennio dopo, in una nota alla sua Prelezione romana su I
problemi della filosofia della storia, precisava: «per quanto io abbia per molti rispetti cambiato nel mio
modo di concepire e di insegnare, da che professo etica e pedagogia in questa Università, tengo
però sempre fermo nell’indirizzo herbartiano di considerare la metafisica, non come veduta del
mondo per totalità, ma come critica e correzione dei concetti, che son necessari per pensare
l’esperienza» [39].
Certamente, sul terreno della valutazione critica del positivismo, in quegli anni degli studi
herbartiani, i due sodali finivano per concordare, anche se già emergevano propensioni, rifiuti,
preclusioni che avrebbero finito per allontanarli per sempre. Il punto, a mio avviso, più cruciale
della incompatibilità tra le loro scelte venne rappresentato certamente dalla riconduzione, operata
da Labriola, del reale ad una unificazione dialettica, sia pur passando dall’herbartismo al
marxismo ed alla quale egli si sarebbe attenuto definitivamente; mentre Graf si affiderà al mistero,
a una sorta di rovinismo della ragione entro il cui scenario sarà possibile soltanto alla poesia dire
una parola ma non alla scienza né alla filosofia operare una fondazione di qualche stabilità. Del
resto la poesia sarebbe possibile soltanto nel mistero: alla definitiva scomparsa di questo o, se si
vuole, alla sua razionalizzazione, sarebbe seguita la morta della poesia. Tale propensione di Graf
apparirà a Labriola pura e semplice ciarlataneria. Duole soltanto ipotizzare che quel vento di
irrazionalismo che egli avvertiva soffiare per l’Europa dei primi anni del nuovo secolo, avesse,
nella sua molto probabile convinzione, trascinato via anche il suo antico compagno di studi.
Vedo però che in tutta Europa – scriveva al suo amico Croce - corre una reazione contro lo storicismo, il
positivismo, il Darwinismo, l’evoluzionismo, etc., etc. e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il
cattolicesimo rinato, e una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto Idealismo
(la qual parola in genere è applicabile ad ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un arresto
dello spirito scientifico, è un regresso.
Ma Graf, invece, a quella tendenza si sarebbe opposto, a suo modo e in forme che era
impossibile al materialista storico corrispondente di Engels capire fino in fondo: avviluppandosi in
contraddizioni erette quasi a metafisica sostanza dell’umano meditare. La tanto conclamata
conversione di Graf alla fede religiosa non fu certo un cedimento puro e semplice a quella
dominante temperie decadente; bensì un conato di ribellione, l’ultimo, sia pure maldestro, se
volete, proprio a quell’antistorico o antivenire, a quel regresso o arresto dello spirito scientifico di cui si
doleva, a un anno della morte, il nostro Labriola con Croce, invitandolo a mandargli, come dono
della befana, quel suo bel mamozio dello Spirito, al quale anche il suo vecchio compagno di riflessioni
herbartiane non avrebbe mai sacrificato un soldo bucato! [40]
3. - La divergenza dei percorsi
Graf segue, così, le sue tracce e le suggestioni della sua indole. Non abbandona quello che
chiama positivismo e non accetta, fino agli ultimi momenti del suo meditare, l’idealismo. Ma la
critica all’idealismo che i due sodali portano avanti ha diverse fonti e contrapposti sbocchi. Per
aver tentato in passato di operare qualche distinzione e qualche timido accostamento articolato e
circostanziato sono stato accusato di mettere Labriola nella trista compagnia dei materialisti e
positivisti scientisti. In realtà io mi attenevo alla dichiarazione dello stesso filosofo di Cassino,
ripresa e commentata autorevolmente dal Garin nel ‘65, secondo la quale egli era diventato
marxista attraverso una educazione rigorosamente hegeliana, anche se introdotta, per così dire,
dalle letture di Herbart e dello Steinthal [41]. Egli tirava diritto verso la critica serrata non di
astrazini (positivismo, scientismo, determinismo, ecc.) quanto di concrete posizioni teoriche e
pratiche che avevano fonti e scaturigini teoricamente arruffate o politicamente reazionarie o
borghesi e, comunque, destituite di avvenire scientifico autentico e sociale. Graf, al contrario,
continuava a rimestare nei trattati degli scienziati filosofi e a procedere in bilico tra filosofia e
mitologia, tra psicologia e fisiologia portandosi al limite del razionale e addentrandosi in un
terreno che gli sembrava sempre più favorevole alla poesia ma che si sforzava di dimostrare non
ripugnante alla razionalità. Una scelta decisa non avrebbe mai più fatto, neppure quando ritenne
di essersi convertito alla fede teistica; ma si sarebbe trascinato dietro tutta la farragine positivistica
con tutte le sue contraddizioni da Humboldt a Lotze, da Wundt a Darwin, da Spencer a Bernard,
fino a Fechner ad Ostwald, ad Hartmann, senza fare di nessuno di tali studiosi il suo maestro. Nel
1906, dedicandogli un suo libro, Papini lo avrebbe definito: «amico delle favole e dei dubbi
terribili» [42]. Labriola non avrebbe perso tempo a far distinzioni in quella farragine ove s’era
andato a cacciare il suo vecchio compagno di studi herbartiani; e lì l’avrebbe lasciato, precipitato
dalle stelle alle stalle, senza curarlo più di un erudito ciarlatano. È chiaro che allo storico non può
bastare il giudizio di Labriola; quello stesso giudizio, appunto, dovendo storicizzare e,
storicamente e minutamente, spiegare.
Nell’opera saggistica di Graf, prevalentemente indirizzata sul versante della critica letteraria,
ma sostenuta da frequenti riferimenti alle scienze e alla filosofia, a me è parso individuare se non
una diretta influenza di Labriola, certamente una sua presenza indiretta attraverso le fonti della
comune formazione giovanile napoletana: dal superamento delle primitive adesioni ad Hegel,
all’herbartismo fino, addirittura, al marxismo, allorquando i contatti tra i due sodali si saranno del
tutto diradati. Fin dalla prolusione del 1877 sosteneva:
Io non sono punto seguace dello Hegel, come a taluno piacque di dire, né mi sento punto inclinato a
confondere in uno la natura e lo spirito, ma non posso conformarmi a un’opinione siffatta, e credo che la
legge di variazione governi, benché non nel medesimo modo, così l’una come l’altra. Se ciò è vero, […] sarà
vero non meno che, per rispetto ai modi del conoscere, per rispetto alla trasformazione empirica in
cognizione scientifica, i fatti della storia si comportino in modo non troppo dissimile dai fatti della natura e
possono assoggettarsi ad alcune operazioni scientifiche a cui questi tuttodì si assoggettano.
La lezione labrioliana sulla storia, sulla sua funzione genetica di attività dette spirituali, c’è
traccia sicura nella prolusione grafiana che stiamo richiamando.
La religione, la morale, la scienza, le istituzioni, l’arte e il costume, sono operazioni e fatti della vita
sociale e, se per poco voi considerate quanta parte dello spirito nostro sia connessa a queste gran cose, e
come esse riempiano tutta la nostra coscienza, dovrete di necessità venire a questa conclusione, che lo
spirito, non nella sua assenza, ma nella configurazione sua, è opera della società. [43]
Quel positivismo – cui qualche anno soltanto addietro egli aveva sostenuto di tenere per fermo
– sembra qui notevolmente mediato dalla filosofia di Herbart e degli herbartiani, studiati con
Labriola per cui le scienze dello spirito acquistano uno statuto epistemologico complesso oltre la
piatta contrapposizione di tipo scientistico tra materia e spirito. Lettore per qualche anno assiduo
della rivista di Steinthal e di Lazarus, la Zeitschrift fur Volkerpsychologie und Spraxhwissenschaft, Graf
prova a fondere l’herbartismo con le sue autonome letture di Stuart Mill e di Ermann Lotze del cui
Mickrokosmos del 1864 lo colpisce particolarmente un passo:
Noi avremo bisogno di una meccanica sociale che allargasse la psicologia fuori dell’individuo, e ci facesse
conoscere l’andamento, la condizione e gli effetti dei reciproci influssi che si esercitano tra gli stati inferiori di
molti individui stretti insieme da relazioni naturali e sociali.
Correttore di bozze per l’amico Labriola che preparava in fretta e furia i suoi testi per la
docenza romana, Graf ha fatto sue, alla sua maniera, le indicazioni dell’amico su storia, natura e
società.
Lo spirito che genera la storia ha origine sua negli individui, ma non si esplica e non si configura che
nella società. La società non è una semplice aggregazione di individui, ma bensì una combinazione, dove,
per opera di vicendevoli influssi, le qualità proprie e naturali di ciascuno si alterano e si diversificano, a quel
modo che fanno le qualità degli elementi nella combinazione chimica. Ciascuno di noi, per quanto nella
opinione sua propria, possa stimarsi indipendente da ciò che lo circonda, e credere di dover tutta a se stesso
la qualità dell'esser suo, non è però meno determinato e starei per dir prodotto, dalla società in cui vive, da
quella a cui hanno appartenuto i predecessori suoi. Lo spirito di ciascuno di noi è, se ne togliete le sole
attitudini e inclinazioni naturali, e queste ancora non senza riserbo, una produzione della società, e nella
società soltanto può avere la sua piena significazione e la sua piena importanza [44].
Come per Labriola, anche per Graf la lettura delle opere di Marx verrà molto dopo. Ma la
testimonianza che per quest’ultimo rese a suo tempo il suo discepolo e autorevole collega nella
Università di Torino, Rodolfo Renier, cade qui acconcia.
Si tuffò in studi disparatissimi, indagò, filosofò, fu materialista e positivista ma la materia era sorda alle
sue domande incalzanti, ma la scienza non gli dava quello che aveva creduto trovarvi. Si volse agli studi
sociali, tratto come l’amico suo De Amicis ed altri al socialismo dalla brama che i diseredati conseguissero il
benessere a cui hanno diritto su questa terra, e nel tempo stesso approfondì le ricerche e fu per qualche anno
cultore appassionatissimo del marxismo e delle sue propaggini; ma neppure questo lo appagava [45].
Non pervenne al marxismo né, alla fin fine, a nessun’altro approdo sicuro. Come in una sua
nota poesia, avrebbe fatto vela pei mari che non aveva mai visti ed avrebbe dichiarato, negli ultimi
anni della sua vita, di essersi convertito a quella vecchia, unta e bisunta, fede cui aveva in fondo
aderito, tra oscillazioni e turbamenti, per tutta la vita: sempre la stessa ragione, in fondo, quella
franata e sgangherata, del positivismo in crisi.
Qui le tracce dei rapporti tra i due originalissimi amici si fanno sempre più rare nelle fonti, fino
a quell’ultimo amaro cenno che Graf fa al Mendl, alla morte del povero Labriola [46]. Il filosofo deve
molti soldi alla monumentale consorte dell’amico poeta e fa orecchio di mercante; ma non sono
certo questioni come queste che raffreddano la stagionata amicizia. È invece un lungo processo di
pensiero che, come una lenta erosione sotterranea, inesorabilmente li allontana l’uno dall’altro.
Forse Graf avrebbe ancora continuato, nonostante il tempo trascorso, la distanza e la difformità
delle scelte di vita e di pensiero, a coltivare l’antica amicizia; ma il carattere dell’amico e, forse, le
circostanze (non ultima, tra le altre, l’amicizia e certa uniformità di intenti che s’era venuta a
stabilire tra il vecchio Labriola e il giovane Benedetto Croce, che già Graf aveva preso ad odiare)
glielo avrebbero materialmente impedito. Fin dal 4 marzo dell’83, scrivendo al solito amico
Vittorio, dichiarava:
Di Labriola non so cosa dirti; è un secolo che non ho più sue nuove. Credo tuttavia, che egli continui,
come per lo passato, a esercitare l’ufficio commessogli dalla Provvidenza, il quale consiste nello strigliare il
prossimo e nel fare della politica platonica.
In quello stesso anno, Labriola andava fondendo, nel suo insegnamento universitario, lavoro
didattico e impegno politico, auspicando restrizioni per la proprietà privata. Tra qualche anno si
sarebbe ufficialmente definito teoricamente socialista: impegno che lo avrebbe reso ancora più
intransigente contro «i generalizzatori del Darwinismo e gli ammiratori del Grande Eunuco
Spencer» [47] nonché contro quel socialismo umanitario cui Graf sarebbe approdato alla fine del
secolo e che avrebbe poi tentato di ricucire con vecchi cascami di fede razionale, attinta ancora alle
sue remote esperienze di studio fatte nella Napoli della sua giovinezza con il suo vecchio
compagno e intransigente consigliere.
[1] Rimando al mio vecchio, I baratri della ragione. Arturo Graf e la cultura del secondo Ottocento,
prefazione di E. Garin, Lacaita, Manduria 1986, pp. 41-48; 86-93 e passim ed ivi riferimenti
bibliografici; ma anche alla precedente comunicazione, letta al convegno labrioliano, promosso
dall’Ist. Gramsci di Firenze e tenutosi nella sala Luca Giordano del Palazzo Medici Riccardi nei
giorni 15-17 ottobre 1981, Il sodalizio Labriola-Graf negli anni della loro formazione (1868-1876), «Studi
Piemontesi», vol. XII, fasc.II, 1983, pp. 324-31.
[2] Cfr.Cfr. S. Miccolis, Antonio Labriola intermediario per Arturo Graf, « Belfagor», n. 1, gennaio
2000, pp. 74-78. Ma vedi anche, A. Labriola, Carteggio I, 1861-1880, a cura di Stefano Miccolis,
Bibliopolis, Napoli 2000, pp. 468-470 ed ivi le opportune note del curatore.
[3] Memorie autobiografiche giovanili di illustri italiani, a cura di Onorato Roux, Bemporad, Firenze
1904, vol. I, Letterati. Poi in appendice ad A. Graf, Medusa, a cura di A. Dolfi, Mucchi, Modena 1990,
pp. 223-238. Una nuova ristampa, con introduzione e ampio commento, con l’aggiunta di 11 lettere
inedite ad Angelo Messedaglia, a cura di chi scrive, è di prossima pubblicazione presso l’editore
Aliberti di Reggio Emilia.
[4] A. Defferrari, Arturo Graf. La vita e l’opera letteraria, Soc. edit. Dante Alighieri, Roma 1929, la
quale riporta (se il mio calcolo non è sbagliato), in brani, allusioni e ampi stralci, complessivamente
18 lettere di Graf a Labriola, comprese le due riportate integrali in appendice (del 18 aprile 1873
l’una e senza data l’altra, Op. cit., pp. 256-259). Di qualche utilità potrà essere, anche per lo
studioso di Labriola, una piccola mappa delle citazioni che di tali lettere mi son fatta per mio
conto. Metto tra parentesi le pp. della Defferrari dove la lettera è ricordata o riportata. 1) Braila, 4
agosto 1871 (p. 33); 2) Braila, 8 agosto 1871 (p.33); 3) Braila, 18 nov. 1872 (p. 34); 4) Braila, 11
dicembre 1872 (pp. 35-36); 5) Braila, 20 giugno 1872 (p 37); 6) Braila, 18 aprile 1873 (p. 35); 7) Braila,
8 nov. 1873 (p. 38); 8) 21 maggio 1874 (p. 40); 9) Braila, 19 luglio 1874 (pp. 42-45); 10) Braila, 18 sett.
1874 (p. 45); 11) Braila, 4 ott. 1874 (pp.45-46); 12) Braila, 15 gennaio 1874 (p. 94); 13) Braila, 19
maggio 1873 (p. 94); 14) Braila, 10 febbr. 1874 (p. 95); 15) Braila, 19 maggio 1873 (p. 94); 16) Braila,
15 gennaio 1874 (p. 94).
[5] A. Defferrari, cit. pp. 43-45.
[6] Cfr. Lettere a un amico triestino, a cura di Baccio Ziliotto, Ediz. De Lo Zibaldone, Trieste 1951,
lettera da Roma del 10 marzo, 1875, pp. 21-22. Secondo Miccolis, nell’articolo cit. alla nota
precedente, Graf «peccava di scarsa gratitudine, perché il Labriola pessimista e così avaro di
private consolazioni si fece subito mallevadore dell’insoddisfatto amico presso Ruggiero Bonghi».
Quanto emerge, inoltre, dalle lettere al Mendl è il solido legame di amicizia e solidarietà che si era
stretto, dagli anni napoletani a quelli romani in modo particolare, tra i tre amici così
pittorescamente assortiti: Graf poeta, sognatore e insaziabile ricercatore di conoscenze, Labriola
filosofo e politico acuto e intransigente e Mendel, un procuratore di affari, libertino, girovago e
poliglotta.
[7] Ivi, Carteggi Vari, 170 e sgg., in, I baratri della ragione, cit. p. 130, nota 17. Il solo Marziano
Guglilminetti, tra gli studiosi di Graf e dintorni, non si è lasciato sfuggire la mia menzione delle
lettere al Fanfani. Cfr. Graf militante, in Arturo Graf militante, saggi scelti a cura di Clara Allasia,
Scriptorium, Torino 1998, p. 8. Curioso l’esempio di Floriano Romboli, il quale scrive un articolo,
Arturo Graf, la scienza positiva, il darwinismo sociale, («Critica letteraria», XXVIII, 2000, 2, pp. 361-378)
toccando argomenti e pervenendo a conclusioni sostanzialmente conformi allo stato degli studi,
senza accorgersi minimamente di aver aperto, con impegno degno di miglior causa, una porta già
spalancata e varcata più volte molto prima di lui!
[8] Cfr. A. Defferrari, Arturo Graf, cit., lettera del 19 maggio 1873, pp. 94-95; ma vedi anche, ivi,
la lettera del 10 febbraio dell’anno successivo: «vendi tutti i miei libri, dal primo all’ultimo e
ricavane quello che puoi».
[9] Op. cit., lettera del 15 gennaio 1875, ricordata in nota a p. 94.
[10] È la stessa lettera del 10 marzo’75, più sopra ricordata, op. cit., pp. 22-23.
[11] Cfr. lettera del 14 gennaio, 1875 in Carteggio, cit., pp. 466 e 467; ivi gli opportuni rinvii del
curatore alle lettere del Graf al Mendl del novembre dell’anno precedente.
[12] Lettera del 1 novembre 1875. La citazione sg. è dalla lettera del 30 luglio 1876.
[13] «Labriola sempre lo stesso. L’altro giorno cominciai un discorso con lui per vedere se mai ci
fosse modo di riavere quelle quattrocento lire prestategli da oltre un anno, e che egli aveva
promesso di restituirmi in capo a pochi giorni! Ma che! Egli è in tale bolletta che non quattrocento
ma nemmeno quattro ne potrebbe pagare per ora senza rischiare di rimaner senza pranzo» (Lettera
del 10 maggio 1876, op. cit., pp. 63-64). Graf corregge le bozze di stampa de L’insegnamento della
storia del 1976 e confida a Mendl che Labriola gli dà «un gran da fare per la correzione delle bozze
di stampa e non è mai contento di nulla» (lettera del 21 giugno ‘76); ma spera che, superando il
concorso per ordinario, la sua disastrosa situazione finanziaria migliori. «Se la cosa gli potesse
riuscire – confida al solito Vittorio – egli avrebbe risolto una gran questione, poiché con oltre 1500
lire di aumento nello stipendio potrebbe cavarsela passabilemente. Egli ha però da vincere degli
ostacoli e dei competitori. Desidero che riesca nell’intento» (29 maggio 1876, op. cit., p. 66).
[14] In, Lettere a un amico triestino, cit., pp. 4-5. Ma, in una lettera successiva del 18 novembre
dello stesso anno, così riparla del loro progetto. «Io direi dunque di non abbandonare il disegno
del giornale se non dopo aver veduto riuscir inutile ogni tentativo. Labriola ed io ci adoperammo
sinora con ogni forza nostra per condurre la cosa a buon porto». Ivi, p. 7.
[15] Lettera a Mendl del 28 marzo 1875, i Lettere a un amico triestino , cit., p. 27.
[16] Cfr. utilmente la introduzione di Nicola Siciliani de Cumis ad A. Labriola, Scritti liberali, De
Donato, Bari 1981, pp. 7-45. Ma vedi anche, S. Miccolis, Antonio Labriola moderato, in AA.VV.,
Antonio Labriola nella cultura europea dell’Ottocento, a cura di Franco Sbarberi, con Introd. di Eugenio
Garin, Lacaita, Manduria 1988, pp. 77-110; ma, più di recente, dello stesso, Antonio Labriola e la
destra storica, in, AA. VV., Antonio Labriola filosofo e politico, a cura di Luigi Punzo, Guerini Studio,
Milano 1996, pp. 231 e sgg.
[17] Cfr. lettera dell’11 marzo 1875 al Mendl, in Op. cit.
[18] D’altro canto, l’iniziativa giornalistica rappresentava per Graf soprattutto una urgente
sistemazione e una affermazione come scrittore. In tal senso ne chiariva lo scopo fondamentale
all’amico Vittorio, come ci testimonia la lettera del 18 dicembre 1874: «Tu mi spingi […] a curare
più che l’idea del giornale, la mia riputazione, stabilendola con pubblicare quelle cose che io mi
trovo già pronto, e con farmi conoscere ad altrui. Certamente mi premerebbe molto il poterlo fare,
e di poterlo fare in quel breve spazio di tempo che fosse possibile. Il giornale non aveva altro
scopo; ed io sono tuttavia d’opinione che se riuscissi a farlo […] non tarderei molto a far conoscere
il nome mio e ad acquistarmi, oltre ad una posizione che facilmente potrebbe diventar fruttuosa,
anche una certa importanza».
[19] Epistolario 1896-1904, III, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, con introduzione di E.
Garin Editori Riuniti, Roma 1983, p. 822. Per il riferimento a Franz Brentano, cfr. lettera a Croce del
20 settembre del 1903, ivi, p. 991, in cui l’autore è definito «quello scemo di Brentano, ex prete,
austriaco, quattrinaio, autore di teorie inventate, e che fu due anni al manicomio dove meritava di
rimanere».
[20] Le scandalose razzie. Scienza politica e fede in Arturo Graf, «Giornale critico della filosofia
italiana», fasc. I, 1982, pp. 67-75, in part. Ma sulla questione cfr. anche, I baratri, cit., pp. 258 e sgg.
[21] Della libertà morale, in Opere, a cura di Luigi Dal Pane, Feltrinelli, Milano 1962, vol. III, p. 3. Il
passo di Labriola rivela, anche se indirettamente, quanto materiale epistolare di notevole valore sia
andato perduto con l’archivio del Graf, solo parzialmente utilizzato a suo tempo dalla già ricordata
Defferrari.
[22] I baratri della ragione, cit., pp. 46-47. Ma cfr. anche A. Graf, Il riscatto, nuova ed. a cura di
Annamaria Cavalli Pasini, Clueb, Bologna, 1988.
[23] Cfr. Il riscatto, cit., ed ivi, in part., Dichiarazioni ai critici.
[24] Sull’argomento del positivismo in Italia e, in particolare su Comte, la bibliografia è andata
crescendo in questi ultimi anni. Ancora importante, F. Restaino, Note sul positivismo in Italia (18651908). Gli inizi (1865-1880), «Giornale critico della filosofa italiana», V, 1985, pp. 65 e sgg.; Il successo
(1881-1891), ivi, V, pp. 264 e sgg.; Il declino (1892-1908), ivi, V, 461-506. Per ultimo, cfr. M. Donzelli,
Origini e declino del positivismo. Saggio su A. Comte in Italia, Liguori, Napoli 1999. Con riferimento
alle questioni qui solo accennate, rimando ai miei studi, I baratri della ragione, cit., pp. 41-47, 86 e
sgg. ma, per la lezione di Labriola herbartiano sul Graf, in particolare pp. 258-259 e, infine,
Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivismo (1848-1911), Laterza, Bari
1988, per Labriola e i positivisti, pp. 45-90. Importante il contributo di Giuseppe Lissa, Labriola e il
positivismo nel vol. cit., Antonio Labriola filosofo e politico, pp. 75-123.
[25] Cfr. su questo punto, Memorie autobiografiche giovanili, 1904, cit., pp. 103-104.
[26] Cfr. E. Giammancheri, Lettere di Antonio Labriola a Francesco Bonatelli, « Pedagogia e vita»,
ottobre-novembre 1973, p. 83 e sgg in particolare.
[27] A. Labriola, Opere, .III, cit., p. 37.
[28] Op. cit., p. 42. Sempre utile, su questo periodo di formazione del pensiero di Labriola, G.
Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia italiana, Argalia, Urbino 1976, in partic. pp. 25-48; N.
Sicilani de Cumis, Herbart e herbartiani alla scuola di Bertrando Spaventa, in Studi su Labriola, Argalia,
Urbino 1976, pp. 89 e sgg; S. Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello sspirito alle origini del
marxismo italiano, Longanesi, Milano 1978.
[29] Vedi, La condizione del senso. Per una riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi (18901898), « La Rassegna della letteratura italiana», n° 1-2, gennaio-agosto 1983, pp. 155-56. Per il
riferimento ad Haeckel, cfr. Generelle Morphologie der Organismen , del 1866, e la fortunata trad. ital.
del 1892 presso la UTET di Torino. La polemica di Graf è indirizzata principalmente contro, I
problemi dell'universo, trad. it. di A. Herlitzka, Utet, Torino 1904.
[30] Per una fede, Treves, Milano 1906, pp. 48-49.
[31] Della libertà morale, in Opere, III, cit., pp. 35 e passim.
[32] Op. cit., p. 107. Una lettura analitica conduce intorno agli scritti labrioliani su Herbart e gli
herbartiani, I. Volpicelli, Herbart e i suoi epigoni. Genesi e sviluppo di una filosofia dell’educazione, Utetlibreria, Torino 2003, pp. 93-153. Ivi anche notevoli riferimenti alla fortuna di Herbart in Italia, agli
studi di psicologia di Felice Tocco e all’herbartismo critico di Francesco Bonatelli.
[33] Vedi, a tal proposito, i richiami di Franco Sbarberi nella sua Introduzione a, A.Labriola,
Scritti filosofici e politici, 2 voll., Einaudi, Torino 1973, vol. I, pp. XIX-XXII. Per una rassegna critica
degli studi, cfr. G. Oldrini, L’Ottocento filosofico napoletano nella letteratura dell'ultimo decennio,
Bibliopolis, Napoli 1986, in part. pp. 212 e sgg.; ma ancora dello stesso, Napoli e i suoi filosofi.
Protagonisti, prospettive, problemi del pensiero dell'Ottocento, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 295 e
sgg.
[34] B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di Alda Croce, con introd. di G. Sasso, Milano
1981, p. 35. Ma cfr. anche S. Timpanaro, Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e
darwinismo nell'Italia del secondo Ottocento, «Critica storica», XVI, 3, 1979, pp. 468-73.
[35] Lettera dell’11 dicembre 1872, riportata dalla Defferrari, cit., da cui è tratto anche il brano
riportato di seguito.
[36] Il 28 gennaio del 1906, scrivendo a Giuseppe Prezzolini, così dichiarava: «[…] il quasi
infallibile Croce m’ha conciato a quel modo nella sua Critica, mettendo in vista il peggio, non
degnando di una parola il meglio, facendomi, non so in qual tempo, seguace dell’Herbart di cui
non fui mai seguace […]». Vedila in Appendice a, I baratri della ragione, cit., p. 410.
[37] Vedi sempre in A. Defferrari, cit.
[38] Leggi la prolusione, Di una trattazione scientifica della storia letteraria, in, Positivismo e
letteratura, a cura di chi scrive, Graphis-Laterza, Bari 1996, p. 43 in particolare.
[39] I problemi della filosofia della storia, in A. Labriola, Scritti filosofici e politici, cit., p. 20.
[40] Vedi, Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 367; ma anche E. Garin, Note sul pensiero del Novecento,
«Rivista critica di storia della filosofia», fsc. II, 1978, p.221. Ma vedi altra lettera a Benedetto Croce
del 5 gennaio 1904, a circa un mese dalla morte, in Epistolario, cit. III, p. 1004, con l’amara e ironica
conclusione: «Quello Spirito che non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia
che è la somma delle sue manifestazioni, dev’essere… un bel Mamozio. Mandamelo come dono
della Befana».
[41] E. Garin, Introduzione ad A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari
1965, p. XXIII. Contro il confronto, da me tentato Labriola-positivisti italiani, vedi G. Oldrini,
Napoli e i suoi filosofi. Protagonisti, prospettive problemi nel pensiero dell'Ottocento, Angeli, Milano 1990,
p. 301.
[42] Dedica autografa al vol., Il tragico quotidiano, Francesco Lumachi, Firenze 1906: «Per Arturo
Graf amico delle favole e dei dubbi terribili».
[43] Di una trattazione, cit. nella mia antologia, pp. 42 e sgg.; ma cfr. anche, I baratri, cit., p.258-59.
[44] Ivi, pp. 44-45.
[45] R. Renier, Arturo Graf uomo, «Nuova Antologia», 16 giugno 1913, p.603, n° speciale dedicato
alla commemorazione del Graf, deceduto nel maggio di quello stesso anno.
[46] Lettera del 4 marzo 1883, in op. cit.
[47] Lettera ad Engels, del 13 giugno 1894, in Scritti filosofici e politici, cit., I, p. 393.
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