il diritto penale - Provincia di Asti

IL DIRITTO
PENALE
Nozione
Il diritto penale è quel complesso di norme giuridiche con
cui lo Stato, mediante la minaccia di una sanzione (pena),
proibisce determinati comportamenti umani, considerati
contrari ai fini che esso persegue (reati).
La funzione del diritto penale è la difesa della società
contro il reato per assicurare le condizioni essenziali della
convivenza, predisponendo le sanzioni penali a difesa di
beni giuridici o valori ritenuti in un dato periodo storico
socialmente più rilevanti.
Caratteri
o
Il diritto penale presenta i seguenti caratteri:
a)È diritto statuale: lo Stato è l’unico soggetto che ha il potere
di emanare norme penali (principio di stretta legalità); ciò non si
verifica negli altri rami del diritto ove altri Enti pubblici
hanno il potere di emanare atti normativi (leggi regionali,
regolamenti comunali, Statuti etc.)
b)È diritto pubblico: il diritto penale è una parte del diritto
pubblico (interno) dello Stato che disciplina i rapporti tra ente
pubblico e tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Mira a
tutelare l’interesse pubblico dello Stato alla conservazione e al
progresso della società, protegge in via diretta ed immediata
interessi individuali (la vita, la proprietà, nelle ipotesi di
omicidio e furto), tutela sempre l’interesse dello Stato ad una
pacifica e ordinata convivenza sociale (si pensi, ad esempio,
alla vendetta);
c)È diritto autonomo: il diritto penale è un diritto autonomo,
originario e completo nel senso che mutua i suoi concetti
nell’ambito dei suoi principi fondamentali.
La norma penale
- Definizione ed elementi costitutivi
Norma penale in senso stretto può ritenersi solo quella disposizione di
legge che vieta un determinato comportamento, prevedendo, in caso di
trasgressione, l’inflizione di una pena.
Gli elementi costitutivi della norma incriminatrice sono:
• il precetto: comando o divieto di compiere una determinata azione;
• La sanzione: conseguenza giuridica che deriva dall’inosservanza del
precetto.
- Caratteri della norma penale
L’imperatività, la norma, una volta entrata in vigore diviene
obbligatoria per tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato
La statualità, in quanto la norma penale deriva soltanto dallo Stato.
Non sono norme penali quelle previste negli Statuti degli enti (pubblici o
privati) né quelle contenute nelle convenzioni internazionali.
Allo Stato è riservato il monopolio del diritto penale.
Le fonti del Diritto Penale e il Principio di Legalità
Nel diritto penale il numero delle fonti è più limitato rispetto agli
altri rami del diritto: l’art. 25 Cost. pone un’espressa riserva di
legge. Il legislatore ha riservato allo Stato ogni competenza
normativa in materia penale, e, ha disposto che fonti del diritto
penale siano solo la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati (il
decreto legge e il decreto legislativo).
Il principio di legalità
(nullum crimen, nulla poena sine lege)
La materia delle fonti del diritto penale è regolata dal principio
di legalità, sancito dalla costituzione (art. 25 commi 2 e 3) e dal
codice penale (artt. 1 e 199). La sua definizione si trae dalle
norme.
L’art. 25 Cost. commi 2 e 3 afferma:
- “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso”;
- “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi
previsti dalla legge”.
Questi principi sono confermati dagli artt. 1 e 199 del codice
penale. Per l’art.1 “nessuno può essere punito per un fatto che non
sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che
non siano da essa stabilite”.
Infine, per l’art. 199 “nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei
casi dalla legge stessa preveduti”.
Conseguenze del principio di legalità
Corollari del principio di legalità sono:
Principio della riserva di legge;
Principio di tassatività;
Principio di irretroattività.
a) La riserva di legge.
legge Secondo tale principio un fatto non può
essere punito se non esiste una legge che lo consideri reato.
Norma penale in bianco (art. 650 c.p.)
Sono tali quelle norme dove la sanzione è
determinata e il precetto è formulato in modo
generico dovendo esser specificato o completato
da un regolamento, un provvedimento o da un
atto amministrativo.
b) La tassatività o principio di determinatezza.
Esso comporta per il legislatore il dovere di procedere, al
momento della creazione della norma penale, ad una chiara e
precisa determinazione del fatto punibile, affinché sia
inequivocabilmente e tassativamente stabilito ciò che rientra
nella sfera del penalmente illecito e di ciò che è lecito.
Differenze
Mentre il principio della riserva di legge ha la finalità
di evitare indebite ingerenze del potere esecutivo, il
principio di tassatività, mira ad evitare abusi da parte
del potere giudiziario in sede di attuazione della legge
penale, vietandogli di farne applicazione al di fuori
dei casi previsti.
c) L’irretroattività.
L’applicazione di tale principio (sancito dall’art. 11 delle
preleggi e dall’art. 25 comma 2 Cost.) comporta l’inapplicabilità
della legge penale a fatti commessi prima della sua entrata
in vigore.
È vietata l’ultrattività della legge penale e cioè la sua
applicazione a fatti commessi dopo la sua abrogazione.
Successioni di leggi penali
Disciplina particolare e in parte derogatoria a tali
principi si ha nel caso di successione di leggi penali
nel tempo.
Tale fenomeno prende in considerazione l’ipotesi del
sopravvenire di una legge penale ad un’altra
stabilendo la retroattività della legge più favorevole al
reo.
Le fonti principali del diritto penale italiano sono costituite dal
Codice Penale Rocco emanato con R.D. 19-10-1930 n. 1398 ed entrato
in vigore l’1-7-1931 e dalle leggi speciali in materia penale che
prevedono ulteriori ipotesi di reato.
Nel corso degli anni il codice ha subito numerose modifiche,
soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana.
Attraverso l’intervento della Corte Costituzionale e norme
modificatrici, si è cercato di coordinare l’originario impianto
normativo con i principi informatori dell’ordinamento democratico
(es. il D. Lgs. 10-8-1944, n. 224 che ha abolito la pena di morte).
La complessità del sistema delle fonti e il sovrapporsi di leggi
disciplinanti la stessa materia (es. il diritto penale tributario) hanno
fatto di che si auspichi una riforma totale del codice penale.
Il codice penale si divide in tre libri:
- Libro I – concerne la parte generale comune a tutti i reati;
- Libo II – elenca partitamente i singoli delitti;
- Libro III – elenca le contravvenzioni.
Soggetti ed oggetto del reato
Da un punto di vista giuridico è reato quel comportamento
umano volontario (azione od omissione) che il legislatore
ritiene contrario ai fini dello Stato ed al quale collega
l’applicazione di una sanzione penale come conseguenza.
Soggetto attivo
Autore o soggetto attivo del reato è colui che attua il
comportamento vietato dalla norma incriminatrice. Tutte le
persone fisiche possono essere soggetti attivi del reato, hanno
cioè l’attitudine ad attuare comportamenti penalmente
rilevanti, senza distinzioni di età, sesso od altre condizioni
soggettive essendo tutte dotate di capacità penale.
L’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità
non escludono il reato, ma sono rilevanti solo ai fini della
concreta applicabilità della pena.
Distinzioni in relazione al soggetto attivo
- reati comuni: sono quelli che possono essere attuati da
qualunque soggetto, indipendentemente dalle caratteristiche
soggettive. In questo caso la norma fa riferimento a
“chiunque” (es. chiunque cagiona la morte di un uomo omicidio:
art. 575);
- reati propri: possono essere attuati solo da soggetti che
rivestano determinate qualifiche, ovvero si trovino in una
determinata situazione materiale o giuridica (così solo chi è
testimone in un processo può commettere il reato di falsa
testimonianza, art. 372)
Il reato può essere commesso anche da più soggetti. Tale
pluralità può essere:
- necessaria, ovvero la stessa norma incriminatrice prevede
alcune figure di reati che per essere attuate devono esser
commesse da più persone (es. la rissa art. 588; l’incesto art. 564).
In tal caso si parla di reato plurisoggettivo (a concorso
necessario);
- Oppure la pluralità di soggetti non è necessaria ed allora il
reato sarà monosoggettivo: non esclude, però, nel caso
concreto che più soggetti possano commettere il reato (cd.
concorso eventuale).
L’ipotesi di concorso eventuale può verificarsi anche nei reati
plurisoggettivi, se vi partecipano altri soggetti in aggiunta al
numero minimo di persone previste dalla legge per
commettere il reato.
Esclusione
Dall’insieme dei soggetti attivi del reato vanno escluse le
persone giuridiche (es. le società) poiché la responsabilità
penale è esclusivamente personale (art. 27 Cost.).
Ai sensi del D. Lgs. 8-6-2001, n. 231 sono state
configurate ipotesi di responsabilità diretta (pur se
amministrativa) di enti connesse alla commissione di reati
nell’interesse o a vantaggio degli stessi da parte di
soggetti che, in seno agli enti, rivestono un ruolo apicale o
solo subordinato.
Soggetto passivo
Il soggetto passivo del reato (il codice si riferisce a questa come
alla “persona offesa dal reato) è il titolare del bene o
dell’interesse che la norma giuridica tutela e che è pertanto leso
dal comportamento umano costituente il reato.
Oggetto giuridico del reato
Oggetto giuridico (bene protetto) del reato è il bene o l’interesse
protetto dalla norma penale (es. nel delitto di omicidio l’oggetto
giuridico è la vita umana, bene protetto dalla norma penale che
punisce chiunque cagiona la morte di un uomo).
Il danno “penale” (o criminale: ANTOLISEI) prodotto dal reato
consiste nell’offesa del bene giuridico tutelato. Tale offesa
costituisce il cd. evento giuridico, che si verifica ogni volta che
si commette un reato.
L’offesa arrecata dal reato può assumere due forme: lesione o
messa in pericolo, a seconda che sia concretamente leso il bene
tutelato, oppure sia stato solo minacciato (es. tentato omicidio).
I reati si distinguono in:
- reati di danno, per la sussistenza dei quali è necessario che il
bene tutelato sia distrutto o comunque leso;
- reati di pericolo, per i quali basta che il bene sia stato
minacciato.
Per accertare l’esistenza del pericolo, il giudice deve riportarsi al
momento in cui la condotta fu posta in essere (cd. Giudizio ex
ante) e valutarne tutti i possibili effetti.
Delitti e contravvenzioni
I reati si distinguono in due grandi categorie: delitti e
contravvenzioni.
Il Codice Penale all’art. 39 stabilisce che il criterio di
distinzione è costituito dal diverso tipo di sanzione per essi
previsto, ha adottato, quindi, un criterio formale:
- I delitti sono i reati puniti con le pene dell’ergastolo, della
reclusione e della multa;
- Le contravvenzioni sono i reati puniti con le pene
dell’arresto e dell’ammenda.
Elementi del reato
Generalità
Nella struttura del reato si distinguono due specie di elementi:
a)Elementi essenziali, indispensabili per la stessa esistenza del
reato e la mancanza, anche solo di uno di essi, esclude che il
comportamento umano considerato abbia integrato il fatto
previsto dalla norma incriminatrice;
b)Elementi accidentali, la cui presenza non influisce
sull’esistenza del reato, ma solo sull’entità della pena
(circostanze aggravanti ed attenuanti: artt. 61 e 62).
Gli elementi essenziali del reato si distinguono a loro volta in:
-Generali, si riscontrano in tutti i reati e sono disciplinati nella
parte generale del codice;
-Speciali, compongono le singole figure di reato in aggiunta a
quelli generali.
Nell’ambito del reato ci sono due elementi essenziali generali:
- Un elemento oggettivo (fatto materiale) costituito
dall’azione
od omissione, dall’evento naturalistico e dal
rapporto di causalità che deve intercorrere tra condotta ed
evento;
- Un
elemento
soggettivo
(colpevolezza),
costituito
dall’atteggiamento psicologico richiesto dalla legge per la
commissione di un dato reato (dolo, colpa).
L’elemento oggettivo
L’elemento oggettivo del reato è costituito da:
a) Una condotta umana materialmente estrinsecantesi nella
realtà esteriore (azione in senso lato), cioè un comportamento
dell’uomo.
La condotta può essere:
1. positiva, quando si concreta in un movimento
muscolare del soggetto;
2. negativa, quando si concreta in un’omissione.
b) l’evento, cioè l’effetto o il risultato della condotta umana
che il diritto prende in considerazione per ricollegare al suo
verificarsi conseguenze giuridiche;
c) Il rapporto di causalità che consiste nel legame che deve
intercorrere tra il comportamento che costituisce reato e la
conseguenza che esso produce, per cui può dirsi che la seconda
è effetto del primo.
L’elemento soggettivo (la colpevolezza)
Per aversi reato, oltre al fatto materiale, occorre un nesso
psichico tra il soggetto agente e l’evento lesivo. Il principio di
colpevolezza è affermato dalla stessa costituzione che
stabilisce la responsabilità penale è personale.
La colpevolezza consiste nel giudizio di rimproverabilità per
l’atteggiamento antidoveroso e d è stato ribadito, quale
fondamento e misura della pena, dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 346/1988.
La colpevolezza (può assumere forma di dolo e della colpa) non
è solo un elemento del reato, ma è anche criterio di
commisurazione della sanzione penale.
Anche dal grado di colpevolezza del reo (oltre che al danno
arrecato) dipende la sanzione da comminarsi al reo.
Dolo, colpa e preterintenzione
Il dolo
È la forma più frequente che assume la volontà colpevole (art.
42, comma2). Il delitto è doloso quando l’evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui
la legge fa dipendere l’esistenza di un delitto è dall’agente
prevenuto e voluto come conseguenza della propria azione od
omissione (art. 43) (es. il soggetto vuole uccidere una persona ed
esplode, a tale scopo, un colpo di pistola al suo indirizzo, conseguendo
l’evento prefissatosi).
Il dolo presuppone:
un momento rappresentativo: occorre che l’agente si
prefiguri anticipatamente la visione del fatto che sta per
commettere;
un momento volitivo: occorre che la volontà dell’agente sia
rivolta all’effettiva ed univoca realizzazione del fatto stesso.
Il giudice è chiamato a valutare l’intensità del dolo, per
stabilire la gravità del reato e la determinazione e
quantificazione della pena (art. 133, comma 1).
Per questo scopo dovrà avvalersi di una serie di fattori quali
la durata del proposito criminoso, la consapevolezza da parte
del reo del disvalore della propria azione, il diverso
atteggiamento al momento volitivo.
Si distinguono varie forme di dolo: le classificazioni sono
necessarie per valutare sia l’intensità dell’elemento volitivo
in capo al soggetto agente (maggiore è l’intensità, maggiore sarà
la pena), sia il momento in cui tale elemento effettivamente
sorga e si rafforzi (determinante nel caso in cui il delitto sia
rimasto allo stadio del tentativo), sia eventualmente le
motivazioni interiori che hanno spinto un soggetto a compiere
un determinato fatto (in genere giuridicamente irrilevanti, ma in
determinati casi essenziali per il configurarsi del reato stesso).
Considerando il rapporto tra evento voluto ed evento realizzato,
di solito si distingue tra:
a)Dolo diretto (o intenzionale), la volontà del soggetto agente ha
direttamente di mira l’evento che si è concretamente realizzato;
b)Dolo eventuale, la volontà del soggetto agente ha ad oggetto
conseguenze diverse o ulteriori rispetto a quelle effettivamente
realizzate, e tuttavia, rispetto agli eventi non direttamente voluti,
l’agente abbia assunto un atteggiamento di accettazione
dell’eventualità che si verificassero (Tizio spara a Caio in mezzo alla
folla, accettando il rischio che i suoi colpi possano determinare la morte
di altre persone oltre a quella del soggetto preso di mira).
Riferendosi al momento in cui la volontà si concretizza rispetto
alla realizzazione dell’evento, si può distinguere tra:
1.Dolo antecedente;
2.Dolo concomitante;
3.Dolo susseguente.
Dolo antecedente e susseguente sono irrilevanti. Il primo in
quanto la volontà non rileva fino a che non si concretizzi
almeno nel compimento di tentativi per determinare l’evento.
[cogitationis poenam nemo patitur].
Il secondo in quanto l’approvazione di un evento già
verificatosi non può essere considerato idoneo ad incidere sullo
svolgimento degli accadimenti.
È rilevante il solo dolo che sussista al momento del fatto e
perduri per tutto il tempo in cui la condotta rientra nella
signoria del soggetto.
Prendendo in considerazione le motivazioni interne che induco
il soggetto ad agire, si può distinguere tra:
a)Dolo generico, sufficiente per la configurabilità del reato,
la legge richiede la rappresentazione e la volontà del fatto
descritto dalla norma incriminatrice;
b)Dolo specifico, previsto espressamente per determinate
figure delittuose, la legge richiede che il soggetto agisca per un
fine preciso, la cui realizzazione non è necessaria per la
configurabilità del reato (es. il furto è commesso sempre al fine di
trarre un profitto per sé o per altri).
La colpa
Per l’art. 43 il delitto “è colposo, o contro l’intenzione, quando
l’evento, anche se prevenuto, non è voluto dall’agente e si verifica a
causa di negligenza o imprudenza o imperizia (colpa generica) ovvero
per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa
specifica).”
Si ha colpa in tutti i casi in cui il soggetto ha agito con scarsa
attenzione o con leggerezza, senza adottare quelle misure e
quelle precauzioni che avrebbero impedito il verificarsi
dell’evento.
Dalla definizione data risulta che, per la sussistenza del reato,
occorre:
- che la condotta sia attribuibile al volere del soggetto (art. 42,
comma 1);
- che manchi la volontà dell’evento, in quanto tale volontà
caratterizza il dolo;
- che il fatto sia dovuto ad imprudenza, negligenza, imperizia o
inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La colpa può essere distinta in:
a)Colpa generica, quando deriva da:
• Imprudenza, consiste nell’aver agito nonostante le regole
cautelari lo sconsigliassero;
• Negligenza, consiste nell’aver agito senza l’accortezza e
l’attenzione che sarebbero state necessarie.
• Imperizia, consiste nell’inettitudine o nella scarsa
preparazione professionale, di cui il soggetto e
perfettamente cosciente.
b) Colpa specifica, che deriva dall’inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline, cioè dalla violazione di norme
che, imponendo determinate cautele, mirano a prevenire
proprio eventi del tipo cagionato dal soggetto (es. un disastro
cagionato dall’esplosione di una fabbrica ove materi esplodenti
venivano lavorate senza il rispetto delle norme di prevenzione
vigenti);
c) Colpa propria, è la forma normale di colpa, si ha in tutti i
casi in cui l’evento non è voluto dall’agente;
d) Colpa impropria: si ha quando l’evento è voluto
dall’agente ma la legge stabilisce in via eccezionale che
l’agente risponde ugualmente a titolo di colpa. I casi di colpa
impropria sono i seguenti: l’errore di fatto determinato da
colpa (art. 47, comma 1), l’eccesso colposo nelle cause di
giustificazione (art. 55), l’erronea supposizione della presenza
di una causa di giustificazione (art. 59, comma 3).
Nell’ambito del concetto di colpa si possono
distinguere ulteriormente:
- la colpa incosciente, ricorre quando oltre alla
mancanza di volontà di realizzare l’evento esso
non è stato nemmeno previsto;
- la colpa cosciente, si ha quando il soggetto
abbia previsto l’evento senza, tuttavia, averlo
voluto. In questo caso il soggetto ha agito con la
sicura convinzione che l’evento, pur previsto, non
si sarebbe verificato;
- la colpa professionale, riguarda attività di per sé pericolose
ma che l’ordinamento consente, in quanto produttive di
conseguenze socialmente utili (es. circolazione stradale,
sperimentazione scientifica, uso di risorse nucleari).
In particolare l’attività medico-chirurgica la cui valutazione, ai
fini della responsabilità penale dei medici, è risultata alquanto
controversa.
La preterintenzione
L’art. 42 comma 2 c.p. stabilisce che “il delitto è
preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando
dall’azione o dall’omissione deriva un evento dannoso
o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
Nella preterintenzione vi è la volontà di un evento
minore, che ne rappresenta la base dolosa, ed una
mancanza di volontà rispetto all’ evento più grave, che
è comunque conseguenza (ulteriore) della condotta
dell’agente.
Struttura del reato
Elementi accidentali
Elementi essenziali
(influiscono con l’entità
della pena)
E. OGGETTIVO
(fatto materiale)
Azione
E. SOGGETTIVO
(colpevolezza)
Dolo
• Diretto
• Naturale
• Antecedente
• Concomitante
• Successorio
• Generico
• Specifico
Colpa
Generica
Evento
Rapporto di
causalità
Specifica
Propria
Impropria
Cosciente
Incosciente
Professionale
Preterintenzione
Attenuanti
Circostanze
Aggravanti
La responsabilità oggettiva
Tratti caratteristici:
L’esistenza di una condotta e di un evento, legati da un
nesso causale e corrispondente ad una fattispecie di reato;
Mancanza di dolo o colpa dell’agente nella produzione
dell’evento;
Attribuzione del fatto all’agente sulla base del semplice
rapporto di causalità;
Attribuibilità della condotta al volere dell’agente, ai sensi
dell’art. 42, comma 1.
Ipotesi di responsabilità oggettiva
a)Il delitto preterintenzionale;
b)I delitti aggravati dall’evento, in cui l’evento dannoso che deriva dalla
condotta criminosa del soggetto è posto a carico dello stesso sulla base del solo
rapporto di causalità (es. lesione o morte derivata dall’abuso dei mezzi di
correzione art. 571).
È stata accolta la tesi che pone il principio di colpevolezza a fondamento di
qualsiasi responsabilità penale.
Devono ritenersi inammissibili tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva cd
“pura”, mentre possono ritenersi legittime tutte quelle ipotesi in cui uno o più
elementi non essenziali del fatto non siano coperti dal dolo o dalla colpa
dell’agente.
Cause di esclusione del reato
Per l’esistenza di un reato oltre alla presenza di un
comportamento umano cosciente e volontario (conforme alla
norma incriminatrice), è necessario che non ricorrano cause
soggettive od oggettive di esclusione del reato.
Cause oggettive di esclusione del reato
Sono
comunemente
denominate
anche
cause
di
giustificazione o scriminanti.
L’esistenza di una causa di giustificazione esclude
l’antigiuridicità del fatto, ovvero il contrasto del fatto con un
precetto dell’ordinamento giuridico.
Quando si realizza una scriminante il bene giuridico che la
norma penale intende preservare, non è più tutelato poiché in
concreto vi sono altri interessi di livello superiore.
Le cause di giustificazione previste dalla legge sono:
1) Il consenso dell’avente diritto (art. 50)
Il consenso del titolare del bene o del diritto protetto dalla
norma esclude illiceità di un fatto che normalmente
arrecherebbe offesa, in quanto viene a priori a cadere la
possibilità di danno privato. Deve trattarsi però di diritti
disponibili; non tale ad es. la vita e infatti costituisce reato
l’omicidio del consenziente.
2) L’esercizio di un diritto (art. 51)
Il titolare di un diritto, nell’esercizio di esso, può compiere
alcuni atti che normalmente costituiscono reato, rimanendo
immune da pena.
Presupposti della scriminante sono:
- l’esistenza di un diritto;
- che il diritto sia esercitato dal suo titolare;
- che l’esercizio di esso non superi i limiti imposti dalla sua
natura e dall’esistenza di diritti altrui.
Es. il diritto di cronaca esercitato nei limiti suddetti esclude il reato di
diffamazione.
3) L’adempimento del dovere (art. 51)
Nell’ipotesi considerata il comportamento del soggetto non
costituisce reato in quanto lo stesso non aveva facoltà di scelta,
ma era tenuto a metterlo in atto dovendo adempiere ad un
dovere; del fatto risponderà il superiore gerarchico che ha
impartito l’ordine (art. 51, comma 2)
Il dovere può derivare:
a)da una norma giuridica, comprensiva di qualsiasi regola di
diritto sia scritta che consuetudinaria, sia del potere
legislativo che esecutivo;
b)da un ordine dell’Autorità, inteso come qualsiasi
manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad un
inferiore gerarchico affinché tenga un determinato
comportamento. Presupposto della scriminante è l’esistenza
tra il superiore e l’inferiore di un rapporto di subordinazione di
diritto pubblico.
4) Legittima difesa (art. 52)
Purché vi sia un pericolo attuale per il proprio od altrui diritto,
derivante da una aggressione ingiusta da parte di un terzo, il
soggetto può reagire compiendo in danno all’aggressore
un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale
reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto
minacciato e sia proporzionata all’offesa. È talvolta ammessa
la legittima difesa anticipata.
Requisiti dell’aggressione perché ricorra la scriminante sono:
- Oggetto dell’offesa deve essere un diritto;
- L’offesa deve essere ingiusta, cioè contraria al diritto;
- Il pericolo minacciato deve essere attuale;
- Il pericolo non deve essere stato determinato volontariamente
dall’agente.
Agli stessi fini la reazione deve essere:
- Costretta;
- Necessaria;
- Proporzionata all’offesa (proporzione tra il male minacciato e quello
inflitto).
A seguito dei correttivi operati sulla previsione dalla nuova legge
in materia di legittima difesa, è stata introdotta un’ipotesi nella
quale, in deroga alla regola generale, la sussiastenza del
rapporto proporzionale fra la reazione dell’aggredito e l’offesa
minacciata viene presunta “ex lege” (sottratta alla valutazione
del giudice), nel caso in cui il fatto avvenga nel domicilio
dell’aggredito o nel suo luogo di lavoro.
Si esclude la punibilità di chi, legittimamente presente in uno dei
luoghi indicati, usi un’arma legittimamente detenuta o altro
mezzo idoneo al fine di difendere la propria o altrui incolumità,
ovvero i beni propri o altrui, nel caso in cui non vi sia desistenza
e sussista un pericolo d’aggressione.
5) Uso legittimo delle armi (art. 53)
L’art. 53 stabilisce che “non è punibile il pubblico ufficiale che, al
di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina
di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica,
quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o
di omicidio volontario, rapina a mano armata etc.”.
6) Stato di necessità (art. 54)
Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona e
purché la situazione di pericolo non sia stata causata dallo
stesso soggetto (con dolo o per colpa), il soggetto può compiere in
danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato,
sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e
sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia
un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso.
Presupposti
Perché ricorra lo stato di necessità occorre:
-l’esistenza di una situazione di pericolo attuale, da cui possa derivare
un danno grave alla persona la quale non lo abbia causato né sia tenuto
ad esporsi;
- un’azione lesiva assolutamente necessaria per salvarsi e proporzionata
al pericolo.
Anche nell’ipotesi dell’articolo 54, l’azione necessitata può essere
determinata dall’esigenza di preservare oltre che un diritto dell’agente
un diritto di un terzo.
L’eccesso colposo (art. 55)
Si ha quando pur sussistendo i presupposti di fatto della causa di
giustificazione, il soggetto colposamente ne travalica i limiti in quanto
non vengono rispettate le regole ed i limiti che presiedono essa.
Le scriminanti putative (art.59)
Altra regola comune a tutte le scriminanti finora esaminata è quella
dettata dall’art. 59, comma 1, secondo cui se l’agente ritiene per errore
che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono valutate a
suo favore. Si dà valore alla scriminante putativa, equiparata quanto
all’efficacia, all’effettiva ricorrenza della scriminante.
Cause soggettive di esclusione del reato
Sono le cd. “scusanti”, che fan venir meno la colpevolezza, cioè
l’elemento soggettivo del reato.
Pur sussistendo il fatto materiale, il reato non si completa o per
mancanza della volontà della condotta (nesso psichico) ovvero per
la mancanza di dolo o colpa.
a) Escludono il nesso psichico (coscienza e volontà dell’azione ex art.
42):
1)Incoscienza indipendente dalla volontà: si ha in tutti i casi
in cui il soggetto pone in essere un fatto costituente reato in stato
di totale incoscienza che non può farsi risalire alla sua volontà,
neppure a titolo di colpa (es. azioni che il soggetto compie agitandosi in
preda al delirio di una malattia);
2) forza maggiore (art. 45): consiste in una forza esterna all’uomo
che per il suo potere superiore costringe inevitabilmente il soggetto
all’azione, anche contro la sua volontà (es. un operaio che lavora su
un’impalcatura viene sbalzato a terra da un violento colpo di vento
causando la morte di un passante);
3) Costringimento fisico (art. 46): è un’ipotesi di forza
maggiore in virtù della quale l’autore del reato è lo strumento di
altro soggetto che è l’unico responsabile del reato.
b) Escludono il dolo o la colpa:
1) il caso fortuito (art. 45): quando si verifica per effetto del
comportamento dell’agente, un evento da lui non voluto, né da
lui causato per imprudenza o negligenza (es. un automobilista che
investe un ciclista che, colpito da un malore, gli taglia improvvisamente
la strada senza che lui possa far nulla per evitare l’investimento);
2) l’errore sul fatto costituente reato (art. 47): consiste in una
inesatta percezione della realtà del soggetto che ritenga di porre
in atto un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma
penale.
L’errore di fatto, per essere rilevante, deve essere:
- essenziale, deve cadere su uno o più degli elementi essenziali
richiesti per l’esistenza del reato (es. colui che asporta una cosa altrui
credendola propria non commette furto). Non è essenziale l’errore che ricade
sull’oggetto del reato (es. Tizio crede di uccidere Caio mentre in realtà uccide
Sempronio: risponderà comunque di omicidio);
- scusabile, cioè tale che al soggetto non possa esser mosso alcun
rimprovero per esser caduto in errore.
Imputabilità
Generalità
Il reo è l’autore di un fatto previsto dalla legge come reato.
Presupposto per la punibilità del reo è la sussistenza al
momento della commissione del fatto, della capacità di
intendere e di volere (cd. “imputabilità” art. 85).
La capacità di intendere è la capacità del soggetto di
rendersi conto del valore sociale dell’atto che compie e del fatto
che esso sia in contrasto con le esigenze della vita comune.
La capacità di volere consiste nell’idoneità della persona a
determinarsi in modo autonomo, resistendo agli impulsi che gli
derivano dal mondo esterno.
Sono previsti dalla legge alcune cause che escludono o
diminuiscono l’imputabilità. Per effetto delle prime la capacità
di intendere e di volere risulta esclusa, mentre allorché
ricorrono le seconde, essa, senza essere esclusa, risulta
gradatamente diminuita. Sono situazioni in cui l’agente non è
punibile perché immaturo (i processi formativi non si sono
sviluppati completamente) ovvero perché affetto da alterazioni di
natura patologica derivanti da infermità di mente.
Casi
Distinguiamo i seguenti casi:
1)La minore età (artt. 97 e 98)
Bisogna distinguere due diverse fasce di età del minore:
-Periodo che va fino ai 14 anni compiuti, è categoricamente
esclusa ogni capacità di intendere e di volere da parte del
minore che compie un reato;
-Periodo che va dai 14 ai 18 anni, in cui non vige alcuna
presunzione di incapacità e l’imputabilità del minore deve
essere accertata caso per caso dal giudice (se l’imputabilità
sussiste, il minore è assoggettato a pena, ma questa è
diminuita).
2)Vizio di mente (artt. 88 – 89)
È lo stato di mente derivante da infermità che esclude o
diminuisce la capacità di intendere e volere,
A seconda del suo grado, il vizio può essere:
-totale, se esclude la capacità (il soggetto non è imputabile);
-Parziale, se per effetto di essa la capacità è soltanto ridotta (il
soggetto fruirà di una diminuzione di pena).
Gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono
l’imputabilità (art. 90)
Non è necessario che lo stato di infermità sia permanente, né deve
essere di natura esclusivamente psichica, potendo esso derivare
da un’infermità fisica.
Se il vizio di mente si verifica dopo la commissione del reato,
trovano applicazione gli artt. 71 e 73 c.p.p
3) Sordomutismo (art. 96)
Esso è causa di non imputabilità quando, per effetto di tale
anomalia, il soggetto non sia capace di intendere e di volere.
Poiché la scienza medica ha fatto notevoli progressi nella cura di
questa malattia, il legislatore non ha adottato una soluzione
definitiva ed escludendo una presunzione di incapacità ha lasciato
tale soluzione all’accertamento caso per caso dell’esistenza o meno
della capacità di intendere e volere.
Pertanto:
- Quando si riconosce che la capacità di intendere e volere è
piena, il sordomuto viene considerato imputabile;
- se, invece, si accerta che la capacità non sussiste, egli è
parificato all’individuo affetto da vizio totale di mente;
- se si stabilisce, infine che essa è grandemente scemata è
parificato all’individuo affetto da vizio parziale di mente.
4) L’ubriachezza (art. 91)
Essa, se è accidentale, cioè non dipende da colpa del soggetto,
esclude l’imputabilità. Se, invece, è volontaria o preordinata
(quando il soggetto si è ubriacato proprio allo scopo di commettere il
reato o per prepararsi una scusa), l’imputabilità non è esclusa né
diminuita (in questa seconda ipotesi, si ha un aumento di pena). La
stessa disciplina si applica in caso di uso di sostanze
stupefacenti.
L’ubriachezza abituale disciplinata dall’art. 94 c.p. comporta un
aumento di pena e l’applicazione della misura di sicurezza del
ricovero in casa di cura e custodia.
5) Intossicazione cronica da alcool o da sostanze
stupefacenti (artt. 94 e 95)
Si verifica quando per effetto dell’abuso prolungato di droga o di
sostanze alcoliche, si produce un’alterazione psichica del soggetto
tipica del vizio di mente.
Si applicano le norme degli artt. 88 e 89 (vizio totale o parziale di
mente).
Tale situazione va distinta dall’ipotesi in cui il soggetto versi in
stato di ubriachezza abituale o da chi è abitualmente dedito
all’uso di droghe. In tal caso il soggetto subisce un aumento di
pena poiché si ritiene che per costui lo stato di incapacità sia
transeunte e non stabile come in caso di cronica intossicazione.
Conclusioni
Se l’incapacità di intendere o di volere è totale il soggetto è esente da
pena, ma può essere sottoposto ad una misura di sicurezza se
riconosciuto pericoloso. Se l’incapacità è parziale il soggetto andrà
condannato ad una pena minore di quella prevista dal codice per il
reato commesso.
Le norme dell’imputabilità non si applicano a chi si è messo in stato
di incapacità di intendere e volere al fine di commettere un reato o
di prepararsi una scusa. Ne sono applicazioni l’ubriachezza
preordinata e l’uso di stupefacenti preordinato.
La capacità di delinquere
Una forma di pericolosità criminale che delinea una figura di
autore di reato è la recidiva (art. 99 c.p.).
Recidiva è la condizione personale di chi, dopo esser stato
condannato, con sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo,
ne commette un altro.
La recidiva (la cui disciplina è stato oggetto di riforma ad opera
della L. 5-12-2005, n. 251, nota come “legge ex Cirielli”), si
distingue in:
1)semplice: è recidivo semplice chi, dopo esser stato condannato
per un delitto non colposo, ne commetta un altro. Questi può
essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da
infliggere per il nuovo delitto non colposo (aumento obbligatorio ove
si tratti di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a
c.p.p.).
2) Aggravata: comprende la recidiva specifica, se il nuovo
delitto non colposo sia della stessa indole, la recidiva
infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo sia stato
commesso nei cinque anni dalla condanna precedente,
nonché la recidiva vera e finita, configurabili,
rispettivamente, nel caso in cui il nuovo delitto non colposo
sia stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena,
ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottragga
volontariamente all’esecuzione della pena. In tali ipotesi, la
pena può essere aumentata fino alla metà di quella da
infliggere per il nuovo delitto non colposo. Qualora non
concorrano più circostanze fra quelle appena descritte (cd.
Recidiva pluriaggravata), l’aumento di pena è della metà;
3) Reiterata: è recidivo reiterato chi, già da
recidivo, commetta un altro delitto non colposo. In
tal caso l’aumento di pena è della metà di quella
da infliggere per il nuovo delitto non colposo, se
chi lo commette è un recidivo semplice, mentre è
di due terzi ove chi lo commette è un recidivo
aggravato
Il concetto di pena e la determinazione di essa
Generalità
La pena (cd. Pena criminale) è la sanzione giuridica irrogata
dallo Stato a carico di colui che ha violata un precetto della legge
penale; l’irrogazione avviene mediante un particolare
procedimento (processo penale).
Le pene si distinguono in:
- principali, inflitte dal giudice con la sentenza di condanna;
- sostitutive delle pene (principali) detentive (categoria
introdotta dalla legge);
- accessorie, che derivano automaticamente dalla condanna
anche senza un’espressa dichiarazione del giudice.
Caratteri della pena
A)La pena è personalissima: essa colpisce solo l’autore del
reato (art. 27 Cost. “la responsabilità penale è personale”);
B)L’applicazione della pena è rigorosamente disciplinata
dalla legge per cui:
- la pena è inflitta solo nei casi stabiliti dalla legge: non si
possono irrogare se non le pene previste e consentite dalla legge
(nulla poena sine lege);
- l’applicazione della pena è devoluta all’Autorità
Giudiziaria, la quale infligge la pena con la garanzia del
procedimento penale,
la pena inflitta può essere revocata solo nei casi stabiliti
dalla legge, cioè in virtù di una norma di legge o dell’esercizio di
una prerogativa sovrana (amnistia. Indulto, grazia);
C)La pena, una volta minacciata per un determinato fatto, è
sempre
applicata
all’autore
della
violazione
(cd.
Inderogabilità)
D)La pena è proporzionata al reato.
Pene principali (art. 17 ss.)
Le pene principali sono:
1)Per i delitti:
a) ergastolo: privazione della libertà personale per l’intera
durata della vita del condannato;
b) reclusione: privazione della libertà personale per un
periodo di tempo che va da 15 giorni a 24 anni;
c) multa: pena pecuniaria che va da 5 euro a 5.164 euro;
2)Per le contravvenzioni:
a) arresto, pena detentiva che va da 5 giorni a 3 anni;
b) ammenda, pena pecuniaria che va da 2 euro a 1032
euro.
Strumenti applicabili dal giudice di pace
Con l’entrata in vigore (2 gennaio) del D. Lgs. 274/2000 attuativo della
delega di cui alla L. 468/1999 riguardante l’attribuzione di competenza
penale al Giudice di pace, è stato ridisegnato il sistema sanzionatorio dei
reati, con uno specifico sistema che, salvando la sola pena pecuniaria,
sostituisce le pene privative della libertà personale con misure
alternative alla detenzione, quali l’obbligo di permanenza domiciliare e la
prestazione di lavoro di pubblica utilità, sulla base di criteri che tengono
conto della sanzione originaria delle singole fattispecie.
Pene sostitutive
Le pene sostitutive delle pene detentive brevi sono:
1) La semidetenzione (art. 55 L. 689/1981);
2) La libertà controllata (art. 56 L. 689/1981);
3) La pena pecuniaria di specie corrispondente.
Pene accessorie (art. 19 ss.)
Le pene accessorie sono:
1)Interdizioni dai pubblici uffici (perpetua o temporanea);
2)Interdizione da una professione o da un’arte;
3)Interdizione legale;
4)Interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle
imprese;
5)L’incapacità di contrattare con la P.A.
6)L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego;
7)Decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dal suo esercizio;
8)Sospensione dall’esercizio di una professione o un’arte;
9)Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle
imprese;
10)Pubblicazione della sentenza di condanna;
11)Pene accessorie previste da leggi speciali.
Determinazione della pena
Tranne qualche eccezione, la pena per i singoli reati è indicata tra un
massimo e un minimo e spetta al giudice, caso per caso, determinare
la pena da infliggere, godendo così di un ampio potere discrezionale,
pur se è tenuto ad indicare in motivazione le ragioni della sua
concreta determinazione.
Il giudice si deve però basare sui criteri previsti dall’art. 133.
Egli deve tener conto della gravità del reato e della capacità a
delinquere del colpevole.
La gravità del reato va desunta:
1)Dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal
luogo e da ogni altra modalità dell’azione;
2)Dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa
dal reato;
3)Dall’intensità del dolo o dal grado della colpa.
La capacità a delinquere del colpevole va desunta:
1)Dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2)Dai precedenti penali e giudiziari, dalla condotta e dalla vita del reo,
antecedente al reato;
3)Dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4)Dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Nozioni introduttive
I delitti contro la pubblica amministrazione sono disciplinati dal
titolo II del secondo libro del codice penale in cui confluiscono tutte
quelle fattispecie che impediscono, ostacolano o turbano il regolare
svolgimento dell’attività amministrativa, legislativa e giudiziaria dello
Stato.
Essi sono divisi in due classi:
a)Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (capo
I);
b)Delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (capo II).
I soggetti investiti di mansioni di interesse pubblico
L’art. 357 c.p. definisce pubblici ufficiali coloro che esercitano
una pubblica funzione legislativa, giudiziari o amministrativa,
precisando che quest’ultima va identificata in quella disciplinata
da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata
dalla formazione e dalla manifestazione della volontà o del suo
svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
L’art. 359 definisce come persone che esercitano un servizio
di pubblica necessità:
a)I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre il
cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione
dello Stato;
b)I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né
prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato
di pubblica necessità mediante un atto della pubblica
Amministrazione.
I pubblici ufficiali
Prima della modifica dell’art. 357 c.p., le prevalenti teorie che si
erano contese il campo nell’identificazione del pubblico ufficiale
erano le seguenti:
a)Teoria della rappresentanza dell’ente pubblico. Secondo
questo orientamento, il pubblico ufficiale deve identificarsi in colui
che ha la rappresentanza dell’ente pubblico, nel senso che forma o
concorre a formare la volontà di questo e lo rappresenta nel suo
esercizio;
b)Teoria della natura dell’attività della pubblica
amministrazione. Secondo tale indirizzo, sono pubblici ufficiali
coloro che svolgono l’attività giuridica della pubblica
amministrazione, intesa come quella diretta al conseguimento di
fini essenziali dello Stato, mentre sono incaricati di pubblico
servizio quelli preposti all’attività sociale della pubblica
amministrazione, che tende al raggiungimento di fini utili, ma non
essenziali, per i consociati.
c) Teoria del potere di imperio. Secondo tale teoria, solo la
qualifica di pubblico ufficiale è caratterizzata dall’esercizio di
un potere di supremazia che è espressione di un potere
giuridicamente superiore a quello dei cittadini. Ad essa è stato
obiettato di non permettere di ricondurre alla nozione di
pubblico ufficio le funzioni di pubblica certificazione e quelle
che si svolgono all’interno della pubblica amministrazione,
senza tradursi in relazioni con gli altri cittadini.
L’art. 357 enuncia esplicitamente le funzioni del pubblico
ufficiale.
Il problema si pone per quanto riguarda l’individuazione di
coloro che svolgono pubbliche funzioni amministrative. Il
secondo comma dell’art. 357 stabilisce che rientrano in tale
classe di mansioni:
a)Le attività di coloro che formano o concorrono s formare la
volontà dell’ente pubblico;
b)Quelle di coloro che lo rappresentano di fronte agli estranei.
Gli indicatori di un pubblico servizio
Ai sensi dell’art. 358 c.p. va considerata persona incaricata di
un pubblico servizio colui il quale, a qualunque titolo, presta un
pubblico servizio, ovvero un’attività disciplinata da norme di
diritto pubblico e da atti autoritativi, nelle stesse forme della
pubblica funzione, ma non caratterizzata dai poteri tipici di
questa .
Si tratta di una figura a carattere residuale: sono infatti
incaricati di pubblico servizio coloro che non sono né pubblici
ufficiali né esercenti un servizio di pubblica necessità.
Esempi di tali figure sono: esattori ENEL, impiegati tecnici degli
istituti di credito di diritto pubblico, dipendenti RAI, impiegati ACI,
autisti di aziende di trasporto pubblico, guardie giurate.
Le persone esercenti un servizio di pubblica
necessità
L’art. 359 c.p. include nella categoria in esame due gruppi di
presone:
a)I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre il
cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione
dello Stato;
b)I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né
prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato
di pubblica necessità mediante un atto della pubblica
Amministrazione.
Nella prima categoria rientrano, ad esempio, gli avvocati (per
l’esercizio di tale professione la legge stabilisce una speciale abilitazione)
che assurgono alla qualifica sopra citata quando la legge
stabilisca l’obbligo di avvalersi della loro partecipazione per il
compimento di un atto.
DELITTI DEI PUBBLICI
UFFICIALI
Il peculato
È un “reato proprio”, in quanto non può essere commesso solo da
chi abbia la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di
pubblico servizio.
Tale qualifica deve sussistere nel momento in cui il soggetto entra
nel possesso o nella disponibilità del bene, mentre è irrilevante
che permanga al momento in cui egli se ne appropri
effettivamente.
La nozione di pubblico servizio deve essere intesa in senso
oggettivo, va valutata in relazione al tipo di attività
concretamente svolta.
Commette il delitto in esame il pubblico ufficiale o l’incaricato di
pubblico servizio che si appropria del denaro o di altra cosa
mobile altrui di cui il soggetto attivo abbia possesso o la
disponibilità per motivi attinenti al suo ufficio o servizio.
Elementi del reato sono:
a)Il possesso o la disponibilità del bene da parte del pubblico
ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. L’oggetto materiale del
delitto di peculato può essere costituito da denaro o da ogni altra cosa
mobile.
b)L’appropriazione. Si verifica quando il soggetto compie, in
relazione alla cosa oggetto del reato, un atto che sia manifestazione
della volontà di considerarla come propria, e cioè si comporti, nei
confronti della stessa, non più come soggetto che ne ha la disponibilità
ma come proprietario.
Nell’aprile 1990 è stata eliminata l’ipotesi della distrazione del bene, cioè
della sua utilizzazione per un fine diverso da quello istituzionale.
Sulla punibilità del peculato per distrazione sono state formulate varie
teorie, quella prevalente è che esso rimane sanzionabile.
Diversa ipotesi è quella integrata dal peculato d’uso (L. 26 aprile 1990 n.
86) che costituisce una fattispecie autonoma di reato, in cui il fine
perseguito dall’agente costituisce elemento specializzante, ed è
ravvisabile quando il colpevole “ha agito al dolo scopo di fare uso
momentaneo della cosa” (art. 314 comma 2 c.p.). L’uso deve essere:
Immediato (deve avvenire subito dopo l’appropriazione)
Di breve durata (tale che la sottrazione della cosa alla sua destinazione
istituzionale non comprometta la funzionalità della P.A.)
Corte di Cassazione, Sezione VI, 5 Novembre 2002
Ai fini della configurabilità del reato di peculato è necessario che la cosa
mobilie di cui si appropria l’agente abbia un valore economico
apprezzabile, sia esso intrinseco alla cosa in sé, sia derivante dal fatto
dell’agente medesimo o di altri. Devesi pertanto ritenere che sussista
detta condizione qualora l’appropriazione abbia ad oggetto banconote
false di cui sia stato disposto il sequestro, essendo ad esse attribuibile un
valore economico sia per la pubblica amministrazione, sia per lo stesso
agente.
Corte di Cassazione, Sezione VI, 11 Aprile 2005
Il carattere plurioffensivo del peculato (posto a tutela, oltre che del
patrimonio anche della legalità, dell’efficienza, della probità e
dell’imparzialità della pubblica amministrazione) non vale a rendere
irrilevante il valore e/o l’utilità economicamente apprezzabile o comunque
sfruttabile a fini patrimoniali della cosa sottratta. Ne consegue, pertanto,
l’insussistenza del reato nell’ipotesi dell’uso momentaneo dell’autovettura
di servizio per fini privati (nella specie in una sola circostanza), giacchè in
tal caso, anche per l’estrema esiguità di valore dei beni oggetto di
appropriazione, questa non si protrae per il tempo sufficiente a determinare
una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale.
Corte di Cassazione, Sezione VI, 20 Luglio 2006
L’indebito uso, per scopi personali, dell’utenza telefonica di cui
il pubblico ufficiale abbia la disponibilità per ragioni di ufficio,
comportando l’appropriazione da parte dell’agente, senza
possibilità di immediata restituzione, di energie costituite da
impulsi elettronici entrati a far parte della P.A., è suscettibile
di dar luogo alla configurabilità non del peculato d’uso ma del
peculato ordinario sempre che possa riconoscersi un
apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per una
singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate
quando queste siano talmente ravvicinate nel tempo da poter
essere considerate come costituenti un’unica condotta.
Malversazione a danno dello Stato
Art. 346bis c.p.
L’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice è quello
alla corretta gestione delle risorse pubbliche destinate a fini di
incentivazione economica, quindi a reprimere le frodi
successive al conseguimento di prestazioni pubbliche che si
concretizzano nell’elusione del vincolo di destinazione delle
somme erogate.
La norma presuppone che autore del reato non sia un
appartenente a quegli specifici settori della P.A. che sono
preposti alle procedure di erogazione o di controllo delle
sovvenzioni (ed è in questo senso limitato che va intesa la
locuzione “estraneo alla pubblica amministrazioe”). Si ritiene
che la fattispecie incriminatrice integri un’ipotesi di reato
“proprio”, in quanto può essere commesso solo da un soggetto
beneficiario di un finanziamento pubblico.
Concussione – Art. 317 c.p.
Il delitto in esame rientra nella categoria dei reati plurioffensivi,
in quanto l’interesse tutelato è duplice:
a)Il decoro e l’imparzialità della pubblica amministrazione,
imposto dall’art. 97, comma 3 della Costituzione;
b)Il diritto del singolo a disporre del proprio patrimonio in libertà.
Si tratta di un reato “proprio”, che può essere posto in essere solo
dal pubblico ufficiale e dall’incaricato di pubblico servizio.
Elementi della condotta sono i seguenti:
a) l’abuso delle qualità o dei poteri. Con tale espressione si
indicano due profili: 1. l’abuso delle qualità, si verifica quando
l’agente fa valere la sua posizione, connessa allo svolgimento di
una pubblica funzione, al fine di indurre o costringere gli altri
all’indebita promessa o dazione. 2. l’abuso dei poteri, si realizza
quando questi vengo esercitati secondo criteri volutamente diversi
da quelli imposti dalla loro natura;
b) Il “mentus publicae potestatis”. È quello stato di timore o
di paura che è ingenerato nel privato della situazione di
preminenza di cui usufruisce il pubblico ufficiale, e si
caratterizza differentemente a seconda che il soggetto passivo
sia sottoposto ad una costrizione ovvero a un’induzione;
c) La costrizione e l’induzione. Il reato di concussione può
commettersi per costrizione o per induzione;
d) La dazione e la promessa indebita. La dazione si
concretizza nel passaggio di un bene dalla disponibilità di un
soggetto a quella di un altro, e può assumere le forme più
diverse. La promessa, invece, consiste nella manifestazione di
un impegno, apparentemente valido, ad effettuare in futuro una
prestazione. Essa può essere fatta in qualsiasi modo e non
richiede forme particolari.
La prestazione è indebita quando non è dovuta, per legge o per
consuetudine al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico
servizio, né alla pubblica amministrazione.
I reati di corruzione: generalità
In senso generico, la corruzione consiste in un accordo fra un
pubblico funzionario ed un privato in virtù del quale il primo
accetta dal secondo un compenso indebito come corrispettivo di un
atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni.
Sotto il profilo del tipo di atto di ufficio che costituisce l’oggetto
del delitto di corruzione può distinguersi tra
a)Corruzione per un atto di ufficio (corruzione impropria: art. 318 c.p.);
b)Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione
propria: art. 319c.p.);
c)Corruzione in atti giudiziari.
Sotto il profilo soggettivo si distingue tra:
a)Corruzione attiva, quando si guarda alla condotta del soggetto
che dà o promette una retribuzione;
b)Corruzione passiva, quando si fa riferimento al comportamento di
chi riceve detta promessa o dazione.
Corruzione per un atto di ufficio
(corruzione impropria) – Art. 318 c.p.
Nel caso di corruzione impropria antecedente si ritiene, da parte
di alcuni, che anche tale interesse venga ad essere oggetto di
lesione, dato che l’intervento di un baratto tra il privato e la
pubblica amministrazione viene necessariamente ad incidere
sulla correttezza ed il funzionamento di quest’ultima.
Il reato in esame è un reato “proprio”. Elementi costituenti
sono:
a)l’accordo;
b)La competenza del funzionario o dell’impiegato;
c)L’atto di ufficio;
d)La retribuzione (si tratta del compenso che il privato dà e
che il funzionario accetta, consiste in una prestazione in denaro
od altra utilità che abbia il carattere di un corrispettivo per l’atto
di ufficio compiuto dal secondo). La retribuzione deve essere non
dovuta.
Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio
(corruzione propria) - Art. 319 c.p.
Il reato è disciplinato dagli artt. 319, 320 e 321 c.p. Mentre la
prima norme descrive quella che è la condotta incriminata, la
seconda parifica al pubblico ufficiale l’incaricato di pubblico
servizio, e la terza prevede la punibilità del corruttore.
Si tratta di un reato “proprio”, che può essere commesso tanto del
pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, anche se
non svolga le mansioni di pubblico impiegato.
Anche nella corruzione propria rientrano due diverse condotte:
a)Quella del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio),
che per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé
o per un terzo, denaro od altra utilità, quale retribuzione non
dovuta, o ne accetta la promessa (corruzione propria antecedente);
b)Quella del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) il
quale riceve la retribuzione non dovuta per aver omesso o ritardato
un atto del suo ufficio, ovvero per aver compiuto un atto contrario
ai doveri di ufficio (corruzione propria susseguente).
Corruzione in atti giudiziari – Art. 319ter c.p.
L’art. 319ter punisce autonomamente l’ipotesi in cui i fatti di cui
agli artt. 318 e 319 c.p. siano stati commessi per favorire o
danneggiare una parte in un processo civile, penale o
amministrativo.
Si tratta di un reato autonomo e non di un’aggravante delle
ipotesi di corruzione.
Il reato in esame può essere commesso solo dei pubblici ufficiali
e non dagli incaricati di pubblico servizio.
L’elemento caratterizzante della corruzione in atti giudiziari è
quello di favorire o danneggiare una parte del processo. Anche
se espressamente non previsto dalla norma incriminatrice, tale
finalità deve essere ingiusta.
Parte è la persona fisica o giuridica che abbia proposto o nei cui
confronti sia stata proposta una domanda giudiziale.
Abuso d’Ufficio – Art. 323 c.p.
Interesse tutelato dalla norma incriminatrice in esame è quello
del buon andamento ed all’imparzialità della pubblica
amministrazione.
Il delitto di abuso d’ufficio è un reato “proprio”, che può essere
commesso solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di
pubblico servizio che agisca nello svolgimento delle sue
funzioni.
Circa i contenuti di questo abuso, vi si faceva rientrare
l’incompetenza e la violazione di legge, e anche lo sviamento di
potere che si aveva quando il pubblico ufficiale avesse fatto uso
dei suoi poteri per uno scopo diverso da quello per cui gli erano
stati conferiti.
L’ingiustizia del vantaggio o del danno devono essere tali in sé,
e non come riflesso della violazione di norme o dell’omessa
astensione da parte del pubblico ufficiale.
Affinché sussista il reato, non è più sufficiente una condotta
“abusiva”, ma è necessario che questa si caratterizzi per la
sussistenza di cause di illegittimità specificatamente indicate
dalla norma incriminatrice, e che possono essere costituite da:
a)Violazione di leggi o di regolamenti;
b)Violazione dell’obbligo di astensione.
Quanto all’atto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio, che può assumere rilevanza ai fini della
sussistenza del reato, non deve necessariamente trattarsi di un
provvedimento amministrativo, potendo invece concretizzarsi
anche in una condotta materiale.
Corte di Appello di Palermo, Sezione IV, 30 Marzo 2010
Questa sentenza riguarda la sentenza posta in essere dall’imputato,
quale funzionario istruttore delle pratiche edilizie del comune di
Agrigento, che avrebbe posto in essere atti idonei univocamente ad
assicurare un ingiusto vantaggio patrimoniale alle ditte che avevano
presentato un piano di lottizzazione convenzionata da un area sita in
una contrada di Agrigento. In particolare, la condotta illecita veniva
individuata nel parere favorevole che l’imputato rilasciava sulla
proposta proveniente dalle predette ditte e formalizzata nel piano di
lottizzazione, di rilascio della concessione edilizia con lo scomputo
degli oneri di urbanizzazione in violazione dell’art. 15 della legge
regionale n. 71 del 1978.
La Suprema Corte affermato che, in tema di reato di abuso di ufficio,
la condotta dell’agente rileva penalmente solo se l’ingiusto vantaggio
patrimoniale è conseguito attraverso la violazione di legge o di
regolamento, con esclusione degli atti che hanno natura meramente
interpretativa o attuativa di normative preesistenti e che comunque
sono privi della forza normativa propria della legge di regolamento.
Nel caso di specie non si può ravvisare l’elemento oggettivo del
reato contestato all’imputato sia in relazione alla supposta
violazione di quella Circolare Assessoriale, che per altro non ha
carattere tassativo, ed ancor più in relazione agli altri atti
indicati nell’imputazione costituiti da una nota dello stesso
Assessorato ed un parere del Consiglio di Giustizia
Amministrativo siciliano che mai naturalmente efficacia
normativa possono intendervi aver assunto.
PQM
Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Agrigento
assolveva l’imputato dal reato di tentato abuso di ufficio con la
formula perché il fatto non sussiste.
Rilevazione e utilizzazione di segreti d’ufficio –
Art. 326 c.p.
Il bene tutelato dalla disposizione incriminatrice in esame,
nella parte in cui punisce la rivelazione del segreto d’ufficio, è il
buon funzionamento della pubblica amministrazione, che può
essere pregiudicato dalla rivelazione del segreto d’ufficio.
Quanto all’utilizzazione del segreto d’ufficio, il reato mira a
garantire la parità di condizioni tra i cittadini, evitando che
l’agente si avvantaggi sugli altri sfruttando le notizie segrete
conosciute per ragioni di ufficio.
Gli elementi del delitto di rivelazione di segreto d’ufficio sono:
a)Violazione dei doveri e abuso della qualità;
b)Le notizie d’ufficio;
c)La segretezza;
d)La rivelazione;
e)L’agevolazione;
Quanto invece all’utilizzazione, gli elementi del reato sono:
a)Avvalersi di notizie di ufficio;
b)Illegittimamente.
Rifiuto di atti d’ufficio e omissione –
Art. 328 c.p.
Il delitto di cui all’art. 328 c.p. è plurioffensivo, nel senso che lede,
oltre all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza
della pubblica amministrazione, anche quello del privato, leso
dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto.
Si tratta di un reato “proprio” che può essere commesso solo dal
pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che abbia
competenza a compiere l’atto richiesto.
Nel caso di organo collegiale l’illecito è configurabile, ricorrendo le
condizioni, non a carico di colui che ne ha la rappresentanza
esterna, ma dei singoli componenti dello stesso.
Risponde al reato il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio che, indebitamente, rifiuta un atto del suo ufficio che, per
ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o
di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo.
La norma disciplina due condotte:
a)Il rifiuto di atti d’ufficio (comma 1)
b)L’omissione di atti richiesti (comma 2).
Elementi essenziali della condotta criminosa sono:
a)L’atto di ufficio, che deve necessariamente rivestire
carattere di indifferibilità e doverosità;
b)Le ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di
ordine pubblico, o di igiene e sanità;
c)L’indebito. È indebita la condotta contraria ai doveri
dell’agente.
Presupposto dell’omissione è l’esistenza di un meccanismo di
“messa in mora”, attraverso una richiesta scritta dalla cui
ricezione decorre un termine di trenta giorni per la risposta.
La condotta consiste nel mancato compimento dell’atto
d’ufficio in assenza di una risposta che ne spieghi le ragioni.
La richiesta che determina l’insorgenza dell’obbligo della p.a. è
quella proveniente da un soggetto che abbia un interesse al
compimento dell’atto, riferito ad una specifica situazione
soggettiva sulla quale il provvedimento è destinato ad
incidere.
Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, 3 Dicembre 2009
“Il medico può rifiutare il ricovero di un paziente se
l’allarmismo non è giustificato”: parola di Cassazione che in
questa sentenza ha evidenziato che la condanna scatta
soltanto nei casi in cui l’urgenza del ricovero sia effettiva e
reale per l’esistente pericolo di conseguenze dannose alla
salute della persona. I supremi giudici chiariscono che non
rientra fra l’omissione di atti di ufficio un diniego di ricovero
ospedaliero caratterizzato per le modalità inurbane e volgari
con cui il medico si è espresso e non per l’antigiuridicità
richiesta dalla norma che punisce il rifiuto indebito di un atto
dell’ufficio che va compiuto senza ritardo.
Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, 2 Aprile 2009
La Suprema Corte ricorda come l’azione tipica di tale delitto
(omissione di atti d’ufficio) è integrata dal mancato compimento di
un atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle ragioni del
ritardo, entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse
con la conseguenza che il reato omissivo proprio è a consumazione
istantanea si intende perfezionato con la scadenza del predetto
termine.
La sentenza aggiunge che a maggior ragione resta ingiustificato il
silenzio omissivo del pubblico ufficiale, perchè una volta individuato
l’interesse qualificato alla conoscenza da parte del richiedente,
anche la risposta negativa dell’Ufficio adito, in termini di
indisponibilità, oppure di parziale disponibilità della
documentazione richiesta, fa parte del contenuto dell’atto dovuto al
cittadino, il quale sull’informazione negativa può organizzare
appunto “re cognita” la sua strategia di tutela oppure rinunciare in
modo definitivo ad ogni diversa sua pretesa.
I reati agroalimentari
(Delitti concernenti sostanze alimentari)
Tra le numerose norme che la legge n. 99/2009 ha inserito nel catalogo
dei reati-presupposto ex d.lg. 231, ne figurano 2 specificamente dedicate
alla protezione dei prodotti agroalimentari: art. 516 (vendita di
sostanze alimentari non genuine come genuine) e il nuovo art. 517
quater (contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di
origine dei prodotti agroalimentari).
Ciò che viene tutelato è innanzitutto la buona fede negli scambi
commerciali (mentre la salute dei cittadini resta ampiamente sullo
sfondo), sotto un ottica di tutela del consumatore il quale deve poter
aver fiducia nelle indicazioni contenute nelle “etichette” degli alimenti.
Per entrambi i delitti, all’ente si applica una sanzione pecuniaria che
può arrivare fino a 500 quote, mentre non sono previste sanzioni
interdittive.
Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine
(art. 516)
Questa disposizione si pone in un’ottica esclusivamente “economica” dato che la
non genuinità dell’alimento è cosa ben diversa dalla sua pericolosità, questo
elemento tra l’altro vale anche a distinguere tale delitto da quello di commercio
di sostanze alimentari contraffate o adulterate (previsto e punito dall’art. 442
del Codice Penale, che invece si pone in un’ottica di tutela della salute
pubblica).
L’interesse tutelato è quindi individuato nella buona fede degli scambi
commerciali, ovvero nell’onesto svolgimento dell’attività d’impresa.
Oggetto materiale del reato sono le sostanze non genuine, quanto al concetto di
genuinità ci sono diverse accezioni: alcune si basano sulle caratteristiche
sostanziali del bene che per esser genuino non deve aver subito alterazioni
nella sua composizione e pertanto sono genuini gli alimenti che conservano la
dimensione naturale della sostanza alimentare; una seconda accezione invece
si fonda su un dato formale intendendo la genuinità come conformità del
prodotto ai requisiti legali della normativa di settore.
Si tratta di un delitto a consumazione anticipata: per il suo perfezionamento
non è necessario un concreto atto di vendita ma basta invece l’attività
prodromica di “messa in commercio”.
Infine è un delitto solamente doloso: esso richiede la coscienza della non
genuinità della sostanza e la volontà di presentarla come genuina.
Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di
origine dei prodotti agroalimentari
(art. 517 quater)
Questo nuovo delitto punisce la contraffazione e l’alterazione delle
indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti
agroalimentari con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a
20.000 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto,
introduce nel territorio dello stato, detiene per la vendita, pone in vendita
con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione i
medesimi prodotti con le indicazioni o denominazioni contraffatte.
La fattispecie si pone in un’ottica di tutela delle cd. “indicazioni
geografiche”, viste non solo come una garanzia di qualità del prodotto ma
come un elemento di scelta da parte del consumatore che propende per
l’acquisto di un prodotto anche in base alla sua provenienza.
L’impatto che tali nuovi delitti possono avere sulle aziende è molto
rilevante, considerato che ad esempio anche i supermercati
organizzati in forma societaria potrebbero vedersi puniti ex 231.
Tra i presidi da porre in essere si possono menzionare da un lato i
controlli di qualità sulla merce da vendere, dall’altro le cautele
contrattuali verso i fornitori come garanzia sia della qualità che della
provenienza della merce.
Agromafia
.
(attività della criminalità organizzata nel settore agroalimentare)
Secondo il Primo Rapporto sui crimini agroalimentari in
Italia, realizzato da Coldiretti e EURISPES
Oggi raggiunge un volume di attività pari a 12,5 miliardi di euro
(5,6% dell’intero business criminale).
Possiamo distinguere 3 livelli di queste attività criminali:
1° livello: usura, estorsioni, abigeato e furti;
2° livello: controllo della manodopera (specie straniera e clandestina),
contraffazioni alimentari, stoccaggio illecito di rifiuti, controllo del
territorio per finalità proprie delle organizzazioni mafiose;
3° livello: reciclaggio di denaro sporco, drenaggio illegale di fondi
pubblici
CONSEGUENZE
CONSEGUENZE:
Concorrenza sleale verso gli imprenditori agricoli
Perdita della qualità dei prodotti e dell’occupazione
Omologazione dei consumi
Manipolazione dei prezzi finali con danno per i consumatori
Oggi i beni confiscati complessivamente dallo Stato alla criminalità
organizzata ammontano a 10.000, di cui il 45% è rappresentato da
possedimenti agricoli
Italian Sounding
È un fenomeno di notevole importanza per cui i prodotti realizzati con
materia prima estera ricordano, nel nome o nella confezione, il “made in
Italy”. Oggi rappresenta un giro d’affari che supera i 60 miliardi di euro
all’anno (due volte e mezzo il valore dell’export agroalimentare).
Cassazione penale, III sezione, 25 Marzo 2011
Il caso in questione riguarda il rigetto del ricorso avverso la sentenza che
ha ritenuto il colpevole del reati di cui all’art. 5, lett. B, della L. 283/1962
il titolare del ristorante che deteneva in deposito frigorifero prodotti ittici
in cattivo stato di conservazione. La parte ricorrente ipotizzava che la
fattispecie in oggetto fosse di danno e non di pericolo e che pertanto fosse
da escludere ogni responsabilità penale, vista l’assenza di un danno
igienico – sanitario.
Negli ultimi anni, sul tema degli alimenti in cattivo stato di
conservazione, si sono consolidate due tesi:
• quella della Corte di Cassazione che considera questa fattispecie un
“reato di pericolo presunto” nel senso che esso si realizza mediante la
condotta di conservazione del predetto alimento inidonea ad evitare
possibili condizioni di alterazione la cui effettiva realizzazione comporta
la presenza di distinte ipotesi di reato, dunque questo orientamento
focalizza l’attenzione sulla nozione di “stato di conservazione” inteso
come modalità di conservazione;
• quella delle Sezioni Unite per cui la fattispecie in esame è un reato
di pericolo tanto sotto il profilo della condotta (nel senso che esso si
perfeziona anche con la semplice detenzione al fine della vendita),
quanto sotto il profilo dell’oggetto di tutela penale nel senso che per la
sua configurabilità è sufficiente che le sostanze alimentari siano
destinate o avviate al consumo in condizioni che ne mettano in pericolo
l’igiene e la commestibilità.
Questa sentenza vuole sottolineare che l’art. 5, lett. b, della L. 286/1962
è un reato contravvenzionale di pericolo presunto che ha come obiettivo
quello di proteggere la salute del consumatore e non l’ethos del
consumatore, assicurando una protezione anche a quella sfera di
tranquillità che proviene dalla sicurezza che il prodotto sia giunto al
consumo delle cure igieniche imposte dalla sua natura. Dunque il bene
oggetto di tutela in materia di sicurezza alimentare è la salute pubblica
che il bene finale, ma vi è anche un bene intermedio individuato
nell’igiene, nella genuinità e nell’integrità degli alimenti.
Concludendo, questa sentenza vuole porre al centro la tutela del
consumatore la cui salute è lesa non solo se si verifica un danno ma
anche quando il bene è stato messo in pericolo. Il pericolo presunto è
quindi strumento necessario perché solo così si riesce ad anticipare la
tutela del bene salute a fasi prodromiche rispetto alla lesione.
Sarzanini Silvia, Laura Del Galdo e
Macagno Rossana