IL DIRITTO PENALE Nozione Il diritto penale è quel complesso di norme giuridiche con cui lo Stato, mediante la minaccia di una sanzione (pena), proibisce determinati comportamenti umani, considerati contrari ai fini che esso persegue (reati). La funzione del diritto penale è la difesa della società contro il reato per assicurare le condizioni essenziali della convivenza, predisponendo le sanzioni penali a difesa di beni giuridici o valori ritenuti in un dato periodo storico socialmente più rilevanti. Caratteri o Il diritto penale presenta i seguenti caratteri: a)È diritto statuale: lo Stato è l’unico soggetto che ha il potere di emanare norme penali (principio di stretta legalità); ciò non si verifica negli altri rami del diritto ove altri Enti pubblici hanno il potere di emanare atti normativi (leggi regionali, regolamenti comunali, Statuti etc.) b)È diritto pubblico: il diritto penale è una parte del diritto pubblico (interno) dello Stato che disciplina i rapporti tra ente pubblico e tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Mira a tutelare l’interesse pubblico dello Stato alla conservazione e al progresso della società, protegge in via diretta ed immediata interessi individuali (la vita, la proprietà, nelle ipotesi di omicidio e furto), tutela sempre l’interesse dello Stato ad una pacifica e ordinata convivenza sociale (si pensi, ad esempio, alla vendetta); c)È diritto autonomo: il diritto penale è un diritto autonomo, originario e completo nel senso che mutua i suoi concetti nell’ambito dei suoi principi fondamentali. La norma penale - Definizione ed elementi costitutivi Norma penale in senso stretto può ritenersi solo quella disposizione di legge che vieta un determinato comportamento, prevedendo, in caso di trasgressione, l’inflizione di una pena. Gli elementi costitutivi della norma incriminatrice sono: • il precetto: comando o divieto di compiere una determinata azione; • La sanzione: conseguenza giuridica che deriva dall’inosservanza del precetto. - Caratteri della norma penale L’imperatività, la norma, una volta entrata in vigore diviene obbligatoria per tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato La statualità, in quanto la norma penale deriva soltanto dallo Stato. Non sono norme penali quelle previste negli Statuti degli enti (pubblici o privati) né quelle contenute nelle convenzioni internazionali. Allo Stato è riservato il monopolio del diritto penale. Le fonti del Diritto Penale e il Principio di Legalità Nel diritto penale il numero delle fonti è più limitato rispetto agli altri rami del diritto: l’art. 25 Cost. pone un’espressa riserva di legge. Il legislatore ha riservato allo Stato ogni competenza normativa in materia penale, e, ha disposto che fonti del diritto penale siano solo la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati (il decreto legge e il decreto legislativo). Il principio di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege) La materia delle fonti del diritto penale è regolata dal principio di legalità, sancito dalla costituzione (art. 25 commi 2 e 3) e dal codice penale (artt. 1 e 199). La sua definizione si trae dalle norme. L’art. 25 Cost. commi 2 e 3 afferma: - “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; - “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Questi principi sono confermati dagli artt. 1 e 199 del codice penale. Per l’art.1 “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. Infine, per l’art. 199 “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”. Conseguenze del principio di legalità Corollari del principio di legalità sono: Principio della riserva di legge; Principio di tassatività; Principio di irretroattività. a) La riserva di legge. legge Secondo tale principio un fatto non può essere punito se non esiste una legge che lo consideri reato. Norma penale in bianco (art. 650 c.p.) Sono tali quelle norme dove la sanzione è determinata e il precetto è formulato in modo generico dovendo esser specificato o completato da un regolamento, un provvedimento o da un atto amministrativo. b) La tassatività o principio di determinatezza. Esso comporta per il legislatore il dovere di procedere, al momento della creazione della norma penale, ad una chiara e precisa determinazione del fatto punibile, affinché sia inequivocabilmente e tassativamente stabilito ciò che rientra nella sfera del penalmente illecito e di ciò che è lecito. Differenze Mentre il principio della riserva di legge ha la finalità di evitare indebite ingerenze del potere esecutivo, il principio di tassatività, mira ad evitare abusi da parte del potere giudiziario in sede di attuazione della legge penale, vietandogli di farne applicazione al di fuori dei casi previsti. c) L’irretroattività. L’applicazione di tale principio (sancito dall’art. 11 delle preleggi e dall’art. 25 comma 2 Cost.) comporta l’inapplicabilità della legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore. È vietata l’ultrattività della legge penale e cioè la sua applicazione a fatti commessi dopo la sua abrogazione. Successioni di leggi penali Disciplina particolare e in parte derogatoria a tali principi si ha nel caso di successione di leggi penali nel tempo. Tale fenomeno prende in considerazione l’ipotesi del sopravvenire di una legge penale ad un’altra stabilendo la retroattività della legge più favorevole al reo. Le fonti principali del diritto penale italiano sono costituite dal Codice Penale Rocco emanato con R.D. 19-10-1930 n. 1398 ed entrato in vigore l’1-7-1931 e dalle leggi speciali in materia penale che prevedono ulteriori ipotesi di reato. Nel corso degli anni il codice ha subito numerose modifiche, soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana. Attraverso l’intervento della Corte Costituzionale e norme modificatrici, si è cercato di coordinare l’originario impianto normativo con i principi informatori dell’ordinamento democratico (es. il D. Lgs. 10-8-1944, n. 224 che ha abolito la pena di morte). La complessità del sistema delle fonti e il sovrapporsi di leggi disciplinanti la stessa materia (es. il diritto penale tributario) hanno fatto di che si auspichi una riforma totale del codice penale. Il codice penale si divide in tre libri: - Libro I – concerne la parte generale comune a tutti i reati; - Libo II – elenca partitamente i singoli delitti; - Libro III – elenca le contravvenzioni. Soggetti ed oggetto del reato Da un punto di vista giuridico è reato quel comportamento umano volontario (azione od omissione) che il legislatore ritiene contrario ai fini dello Stato ed al quale collega l’applicazione di una sanzione penale come conseguenza. Soggetto attivo Autore o soggetto attivo del reato è colui che attua il comportamento vietato dalla norma incriminatrice. Tutte le persone fisiche possono essere soggetti attivi del reato, hanno cioè l’attitudine ad attuare comportamenti penalmente rilevanti, senza distinzioni di età, sesso od altre condizioni soggettive essendo tutte dotate di capacità penale. L’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono il reato, ma sono rilevanti solo ai fini della concreta applicabilità della pena. Distinzioni in relazione al soggetto attivo - reati comuni: sono quelli che possono essere attuati da qualunque soggetto, indipendentemente dalle caratteristiche soggettive. In questo caso la norma fa riferimento a “chiunque” (es. chiunque cagiona la morte di un uomo omicidio: art. 575); - reati propri: possono essere attuati solo da soggetti che rivestano determinate qualifiche, ovvero si trovino in una determinata situazione materiale o giuridica (così solo chi è testimone in un processo può commettere il reato di falsa testimonianza, art. 372) Il reato può essere commesso anche da più soggetti. Tale pluralità può essere: - necessaria, ovvero la stessa norma incriminatrice prevede alcune figure di reati che per essere attuate devono esser commesse da più persone (es. la rissa art. 588; l’incesto art. 564). In tal caso si parla di reato plurisoggettivo (a concorso necessario); - Oppure la pluralità di soggetti non è necessaria ed allora il reato sarà monosoggettivo: non esclude, però, nel caso concreto che più soggetti possano commettere il reato (cd. concorso eventuale). L’ipotesi di concorso eventuale può verificarsi anche nei reati plurisoggettivi, se vi partecipano altri soggetti in aggiunta al numero minimo di persone previste dalla legge per commettere il reato. Esclusione Dall’insieme dei soggetti attivi del reato vanno escluse le persone giuridiche (es. le società) poiché la responsabilità penale è esclusivamente personale (art. 27 Cost.). Ai sensi del D. Lgs. 8-6-2001, n. 231 sono state configurate ipotesi di responsabilità diretta (pur se amministrativa) di enti connesse alla commissione di reati nell’interesse o a vantaggio degli stessi da parte di soggetti che, in seno agli enti, rivestono un ruolo apicale o solo subordinato. Soggetto passivo Il soggetto passivo del reato (il codice si riferisce a questa come alla “persona offesa dal reato) è il titolare del bene o dell’interesse che la norma giuridica tutela e che è pertanto leso dal comportamento umano costituente il reato. Oggetto giuridico del reato Oggetto giuridico (bene protetto) del reato è il bene o l’interesse protetto dalla norma penale (es. nel delitto di omicidio l’oggetto giuridico è la vita umana, bene protetto dalla norma penale che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo). Il danno “penale” (o criminale: ANTOLISEI) prodotto dal reato consiste nell’offesa del bene giuridico tutelato. Tale offesa costituisce il cd. evento giuridico, che si verifica ogni volta che si commette un reato. L’offesa arrecata dal reato può assumere due forme: lesione o messa in pericolo, a seconda che sia concretamente leso il bene tutelato, oppure sia stato solo minacciato (es. tentato omicidio). I reati si distinguono in: - reati di danno, per la sussistenza dei quali è necessario che il bene tutelato sia distrutto o comunque leso; - reati di pericolo, per i quali basta che il bene sia stato minacciato. Per accertare l’esistenza del pericolo, il giudice deve riportarsi al momento in cui la condotta fu posta in essere (cd. Giudizio ex ante) e valutarne tutti i possibili effetti. Delitti e contravvenzioni I reati si distinguono in due grandi categorie: delitti e contravvenzioni. Il Codice Penale all’art. 39 stabilisce che il criterio di distinzione è costituito dal diverso tipo di sanzione per essi previsto, ha adottato, quindi, un criterio formale: - I delitti sono i reati puniti con le pene dell’ergastolo, della reclusione e della multa; - Le contravvenzioni sono i reati puniti con le pene dell’arresto e dell’ammenda. Elementi del reato Generalità Nella struttura del reato si distinguono due specie di elementi: a)Elementi essenziali, indispensabili per la stessa esistenza del reato e la mancanza, anche solo di uno di essi, esclude che il comportamento umano considerato abbia integrato il fatto previsto dalla norma incriminatrice; b)Elementi accidentali, la cui presenza non influisce sull’esistenza del reato, ma solo sull’entità della pena (circostanze aggravanti ed attenuanti: artt. 61 e 62). Gli elementi essenziali del reato si distinguono a loro volta in: -Generali, si riscontrano in tutti i reati e sono disciplinati nella parte generale del codice; -Speciali, compongono le singole figure di reato in aggiunta a quelli generali. Nell’ambito del reato ci sono due elementi essenziali generali: - Un elemento oggettivo (fatto materiale) costituito dall’azione od omissione, dall’evento naturalistico e dal rapporto di causalità che deve intercorrere tra condotta ed evento; - Un elemento soggettivo (colpevolezza), costituito dall’atteggiamento psicologico richiesto dalla legge per la commissione di un dato reato (dolo, colpa). L’elemento oggettivo L’elemento oggettivo del reato è costituito da: a) Una condotta umana materialmente estrinsecantesi nella realtà esteriore (azione in senso lato), cioè un comportamento dell’uomo. La condotta può essere: 1. positiva, quando si concreta in un movimento muscolare del soggetto; 2. negativa, quando si concreta in un’omissione. b) l’evento, cioè l’effetto o il risultato della condotta umana che il diritto prende in considerazione per ricollegare al suo verificarsi conseguenze giuridiche; c) Il rapporto di causalità che consiste nel legame che deve intercorrere tra il comportamento che costituisce reato e la conseguenza che esso produce, per cui può dirsi che la seconda è effetto del primo. L’elemento soggettivo (la colpevolezza) Per aversi reato, oltre al fatto materiale, occorre un nesso psichico tra il soggetto agente e l’evento lesivo. Il principio di colpevolezza è affermato dalla stessa costituzione che stabilisce la responsabilità penale è personale. La colpevolezza consiste nel giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso e d è stato ribadito, quale fondamento e misura della pena, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 346/1988. La colpevolezza (può assumere forma di dolo e della colpa) non è solo un elemento del reato, ma è anche criterio di commisurazione della sanzione penale. Anche dal grado di colpevolezza del reo (oltre che al danno arrecato) dipende la sanzione da comminarsi al reo. Dolo, colpa e preterintenzione Il dolo È la forma più frequente che assume la volontà colpevole (art. 42, comma2). Il delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza di un delitto è dall’agente prevenuto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (art. 43) (es. il soggetto vuole uccidere una persona ed esplode, a tale scopo, un colpo di pistola al suo indirizzo, conseguendo l’evento prefissatosi). Il dolo presuppone: un momento rappresentativo: occorre che l’agente si prefiguri anticipatamente la visione del fatto che sta per commettere; un momento volitivo: occorre che la volontà dell’agente sia rivolta all’effettiva ed univoca realizzazione del fatto stesso. Il giudice è chiamato a valutare l’intensità del dolo, per stabilire la gravità del reato e la determinazione e quantificazione della pena (art. 133, comma 1). Per questo scopo dovrà avvalersi di una serie di fattori quali la durata del proposito criminoso, la consapevolezza da parte del reo del disvalore della propria azione, il diverso atteggiamento al momento volitivo. Si distinguono varie forme di dolo: le classificazioni sono necessarie per valutare sia l’intensità dell’elemento volitivo in capo al soggetto agente (maggiore è l’intensità, maggiore sarà la pena), sia il momento in cui tale elemento effettivamente sorga e si rafforzi (determinante nel caso in cui il delitto sia rimasto allo stadio del tentativo), sia eventualmente le motivazioni interiori che hanno spinto un soggetto a compiere un determinato fatto (in genere giuridicamente irrilevanti, ma in determinati casi essenziali per il configurarsi del reato stesso). Considerando il rapporto tra evento voluto ed evento realizzato, di solito si distingue tra: a)Dolo diretto (o intenzionale), la volontà del soggetto agente ha direttamente di mira l’evento che si è concretamente realizzato; b)Dolo eventuale, la volontà del soggetto agente ha ad oggetto conseguenze diverse o ulteriori rispetto a quelle effettivamente realizzate, e tuttavia, rispetto agli eventi non direttamente voluti, l’agente abbia assunto un atteggiamento di accettazione dell’eventualità che si verificassero (Tizio spara a Caio in mezzo alla folla, accettando il rischio che i suoi colpi possano determinare la morte di altre persone oltre a quella del soggetto preso di mira). Riferendosi al momento in cui la volontà si concretizza rispetto alla realizzazione dell’evento, si può distinguere tra: 1.Dolo antecedente; 2.Dolo concomitante; 3.Dolo susseguente. Dolo antecedente e susseguente sono irrilevanti. Il primo in quanto la volontà non rileva fino a che non si concretizzi almeno nel compimento di tentativi per determinare l’evento. [cogitationis poenam nemo patitur]. Il secondo in quanto l’approvazione di un evento già verificatosi non può essere considerato idoneo ad incidere sullo svolgimento degli accadimenti. È rilevante il solo dolo che sussista al momento del fatto e perduri per tutto il tempo in cui la condotta rientra nella signoria del soggetto. Prendendo in considerazione le motivazioni interne che induco il soggetto ad agire, si può distinguere tra: a)Dolo generico, sufficiente per la configurabilità del reato, la legge richiede la rappresentazione e la volontà del fatto descritto dalla norma incriminatrice; b)Dolo specifico, previsto espressamente per determinate figure delittuose, la legge richiede che il soggetto agisca per un fine preciso, la cui realizzazione non è necessaria per la configurabilità del reato (es. il furto è commesso sempre al fine di trarre un profitto per sé o per altri). La colpa Per l’art. 43 il delitto “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se prevenuto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (colpa generica) ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).” Si ha colpa in tutti i casi in cui il soggetto ha agito con scarsa attenzione o con leggerezza, senza adottare quelle misure e quelle precauzioni che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. Dalla definizione data risulta che, per la sussistenza del reato, occorre: - che la condotta sia attribuibile al volere del soggetto (art. 42, comma 1); - che manchi la volontà dell’evento, in quanto tale volontà caratterizza il dolo; - che il fatto sia dovuto ad imprudenza, negligenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La colpa può essere distinta in: a)Colpa generica, quando deriva da: • Imprudenza, consiste nell’aver agito nonostante le regole cautelari lo sconsigliassero; • Negligenza, consiste nell’aver agito senza l’accortezza e l’attenzione che sarebbero state necessarie. • Imperizia, consiste nell’inettitudine o nella scarsa preparazione professionale, di cui il soggetto e perfettamente cosciente. b) Colpa specifica, che deriva dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, cioè dalla violazione di norme che, imponendo determinate cautele, mirano a prevenire proprio eventi del tipo cagionato dal soggetto (es. un disastro cagionato dall’esplosione di una fabbrica ove materi esplodenti venivano lavorate senza il rispetto delle norme di prevenzione vigenti); c) Colpa propria, è la forma normale di colpa, si ha in tutti i casi in cui l’evento non è voluto dall’agente; d) Colpa impropria: si ha quando l’evento è voluto dall’agente ma la legge stabilisce in via eccezionale che l’agente risponde ugualmente a titolo di colpa. I casi di colpa impropria sono i seguenti: l’errore di fatto determinato da colpa (art. 47, comma 1), l’eccesso colposo nelle cause di giustificazione (art. 55), l’erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione (art. 59, comma 3). Nell’ambito del concetto di colpa si possono distinguere ulteriormente: - la colpa incosciente, ricorre quando oltre alla mancanza di volontà di realizzare l’evento esso non è stato nemmeno previsto; - la colpa cosciente, si ha quando il soggetto abbia previsto l’evento senza, tuttavia, averlo voluto. In questo caso il soggetto ha agito con la sicura convinzione che l’evento, pur previsto, non si sarebbe verificato; - la colpa professionale, riguarda attività di per sé pericolose ma che l’ordinamento consente, in quanto produttive di conseguenze socialmente utili (es. circolazione stradale, sperimentazione scientifica, uso di risorse nucleari). In particolare l’attività medico-chirurgica la cui valutazione, ai fini della responsabilità penale dei medici, è risultata alquanto controversa. La preterintenzione L’art. 42 comma 2 c.p. stabilisce che “il delitto è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione o dall’omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. Nella preterintenzione vi è la volontà di un evento minore, che ne rappresenta la base dolosa, ed una mancanza di volontà rispetto all’ evento più grave, che è comunque conseguenza (ulteriore) della condotta dell’agente. Struttura del reato Elementi accidentali Elementi essenziali (influiscono con l’entità della pena) E. OGGETTIVO (fatto materiale) Azione E. SOGGETTIVO (colpevolezza) Dolo • Diretto • Naturale • Antecedente • Concomitante • Successorio • Generico • Specifico Colpa Generica Evento Rapporto di causalità Specifica Propria Impropria Cosciente Incosciente Professionale Preterintenzione Attenuanti Circostanze Aggravanti La responsabilità oggettiva Tratti caratteristici: L’esistenza di una condotta e di un evento, legati da un nesso causale e corrispondente ad una fattispecie di reato; Mancanza di dolo o colpa dell’agente nella produzione dell’evento; Attribuzione del fatto all’agente sulla base del semplice rapporto di causalità; Attribuibilità della condotta al volere dell’agente, ai sensi dell’art. 42, comma 1. Ipotesi di responsabilità oggettiva a)Il delitto preterintenzionale; b)I delitti aggravati dall’evento, in cui l’evento dannoso che deriva dalla condotta criminosa del soggetto è posto a carico dello stesso sulla base del solo rapporto di causalità (es. lesione o morte derivata dall’abuso dei mezzi di correzione art. 571). È stata accolta la tesi che pone il principio di colpevolezza a fondamento di qualsiasi responsabilità penale. Devono ritenersi inammissibili tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva cd “pura”, mentre possono ritenersi legittime tutte quelle ipotesi in cui uno o più elementi non essenziali del fatto non siano coperti dal dolo o dalla colpa dell’agente. Cause di esclusione del reato Per l’esistenza di un reato oltre alla presenza di un comportamento umano cosciente e volontario (conforme alla norma incriminatrice), è necessario che non ricorrano cause soggettive od oggettive di esclusione del reato. Cause oggettive di esclusione del reato Sono comunemente denominate anche cause di giustificazione o scriminanti. L’esistenza di una causa di giustificazione esclude l’antigiuridicità del fatto, ovvero il contrasto del fatto con un precetto dell’ordinamento giuridico. Quando si realizza una scriminante il bene giuridico che la norma penale intende preservare, non è più tutelato poiché in concreto vi sono altri interessi di livello superiore. Le cause di giustificazione previste dalla legge sono: 1) Il consenso dell’avente diritto (art. 50) Il consenso del titolare del bene o del diritto protetto dalla norma esclude illiceità di un fatto che normalmente arrecherebbe offesa, in quanto viene a priori a cadere la possibilità di danno privato. Deve trattarsi però di diritti disponibili; non tale ad es. la vita e infatti costituisce reato l’omicidio del consenziente. 2) L’esercizio di un diritto (art. 51) Il titolare di un diritto, nell’esercizio di esso, può compiere alcuni atti che normalmente costituiscono reato, rimanendo immune da pena. Presupposti della scriminante sono: - l’esistenza di un diritto; - che il diritto sia esercitato dal suo titolare; - che l’esercizio di esso non superi i limiti imposti dalla sua natura e dall’esistenza di diritti altrui. Es. il diritto di cronaca esercitato nei limiti suddetti esclude il reato di diffamazione. 3) L’adempimento del dovere (art. 51) Nell’ipotesi considerata il comportamento del soggetto non costituisce reato in quanto lo stesso non aveva facoltà di scelta, ma era tenuto a metterlo in atto dovendo adempiere ad un dovere; del fatto risponderà il superiore gerarchico che ha impartito l’ordine (art. 51, comma 2) Il dovere può derivare: a)da una norma giuridica, comprensiva di qualsiasi regola di diritto sia scritta che consuetudinaria, sia del potere legislativo che esecutivo; b)da un ordine dell’Autorità, inteso come qualsiasi manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad un inferiore gerarchico affinché tenga un determinato comportamento. Presupposto della scriminante è l’esistenza tra il superiore e l’inferiore di un rapporto di subordinazione di diritto pubblico. 4) Legittima difesa (art. 52) Purché vi sia un pericolo attuale per il proprio od altrui diritto, derivante da una aggressione ingiusta da parte di un terzo, il soggetto può reagire compiendo in danno all’aggressore un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto minacciato e sia proporzionata all’offesa. È talvolta ammessa la legittima difesa anticipata. Requisiti dell’aggressione perché ricorra la scriminante sono: - Oggetto dell’offesa deve essere un diritto; - L’offesa deve essere ingiusta, cioè contraria al diritto; - Il pericolo minacciato deve essere attuale; - Il pericolo non deve essere stato determinato volontariamente dall’agente. Agli stessi fini la reazione deve essere: - Costretta; - Necessaria; - Proporzionata all’offesa (proporzione tra il male minacciato e quello inflitto). A seguito dei correttivi operati sulla previsione dalla nuova legge in materia di legittima difesa, è stata introdotta un’ipotesi nella quale, in deroga alla regola generale, la sussiastenza del rapporto proporzionale fra la reazione dell’aggredito e l’offesa minacciata viene presunta “ex lege” (sottratta alla valutazione del giudice), nel caso in cui il fatto avvenga nel domicilio dell’aggredito o nel suo luogo di lavoro. Si esclude la punibilità di chi, legittimamente presente in uno dei luoghi indicati, usi un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o altrui incolumità, ovvero i beni propri o altrui, nel caso in cui non vi sia desistenza e sussista un pericolo d’aggressione. 5) Uso legittimo delle armi (art. 53) L’art. 53 stabilisce che “non è punibile il pubblico ufficiale che, al di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di omicidio volontario, rapina a mano armata etc.”. 6) Stato di necessità (art. 54) Ricorrendo il pericolo attuale di un danno grave alla persona e purché la situazione di pericolo non sia stata causata dallo stesso soggetto (con dolo o per colpa), il soggetto può compiere in danno di un terzo un’azione che normalmente costituisce reato, sempre che questa sia assolutamente necessaria per salvarsi e sia proporzionata al pericolo, e sempre che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo stesso. Presupposti Perché ricorra lo stato di necessità occorre: -l’esistenza di una situazione di pericolo attuale, da cui possa derivare un danno grave alla persona la quale non lo abbia causato né sia tenuto ad esporsi; - un’azione lesiva assolutamente necessaria per salvarsi e proporzionata al pericolo. Anche nell’ipotesi dell’articolo 54, l’azione necessitata può essere determinata dall’esigenza di preservare oltre che un diritto dell’agente un diritto di un terzo. L’eccesso colposo (art. 55) Si ha quando pur sussistendo i presupposti di fatto della causa di giustificazione, il soggetto colposamente ne travalica i limiti in quanto non vengono rispettate le regole ed i limiti che presiedono essa. Le scriminanti putative (art.59) Altra regola comune a tutte le scriminanti finora esaminata è quella dettata dall’art. 59, comma 1, secondo cui se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono valutate a suo favore. Si dà valore alla scriminante putativa, equiparata quanto all’efficacia, all’effettiva ricorrenza della scriminante. Cause soggettive di esclusione del reato Sono le cd. “scusanti”, che fan venir meno la colpevolezza, cioè l’elemento soggettivo del reato. Pur sussistendo il fatto materiale, il reato non si completa o per mancanza della volontà della condotta (nesso psichico) ovvero per la mancanza di dolo o colpa. a) Escludono il nesso psichico (coscienza e volontà dell’azione ex art. 42): 1)Incoscienza indipendente dalla volontà: si ha in tutti i casi in cui il soggetto pone in essere un fatto costituente reato in stato di totale incoscienza che non può farsi risalire alla sua volontà, neppure a titolo di colpa (es. azioni che il soggetto compie agitandosi in preda al delirio di una malattia); 2) forza maggiore (art. 45): consiste in una forza esterna all’uomo che per il suo potere superiore costringe inevitabilmente il soggetto all’azione, anche contro la sua volontà (es. un operaio che lavora su un’impalcatura viene sbalzato a terra da un violento colpo di vento causando la morte di un passante); 3) Costringimento fisico (art. 46): è un’ipotesi di forza maggiore in virtù della quale l’autore del reato è lo strumento di altro soggetto che è l’unico responsabile del reato. b) Escludono il dolo o la colpa: 1) il caso fortuito (art. 45): quando si verifica per effetto del comportamento dell’agente, un evento da lui non voluto, né da lui causato per imprudenza o negligenza (es. un automobilista che investe un ciclista che, colpito da un malore, gli taglia improvvisamente la strada senza che lui possa far nulla per evitare l’investimento); 2) l’errore sul fatto costituente reato (art. 47): consiste in una inesatta percezione della realtà del soggetto che ritenga di porre in atto un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale. L’errore di fatto, per essere rilevante, deve essere: - essenziale, deve cadere su uno o più degli elementi essenziali richiesti per l’esistenza del reato (es. colui che asporta una cosa altrui credendola propria non commette furto). Non è essenziale l’errore che ricade sull’oggetto del reato (es. Tizio crede di uccidere Caio mentre in realtà uccide Sempronio: risponderà comunque di omicidio); - scusabile, cioè tale che al soggetto non possa esser mosso alcun rimprovero per esser caduto in errore. Imputabilità Generalità Il reo è l’autore di un fatto previsto dalla legge come reato. Presupposto per la punibilità del reo è la sussistenza al momento della commissione del fatto, della capacità di intendere e di volere (cd. “imputabilità” art. 85). La capacità di intendere è la capacità del soggetto di rendersi conto del valore sociale dell’atto che compie e del fatto che esso sia in contrasto con le esigenze della vita comune. La capacità di volere consiste nell’idoneità della persona a determinarsi in modo autonomo, resistendo agli impulsi che gli derivano dal mondo esterno. Sono previsti dalla legge alcune cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità. Per effetto delle prime la capacità di intendere e di volere risulta esclusa, mentre allorché ricorrono le seconde, essa, senza essere esclusa, risulta gradatamente diminuita. Sono situazioni in cui l’agente non è punibile perché immaturo (i processi formativi non si sono sviluppati completamente) ovvero perché affetto da alterazioni di natura patologica derivanti da infermità di mente. Casi Distinguiamo i seguenti casi: 1)La minore età (artt. 97 e 98) Bisogna distinguere due diverse fasce di età del minore: -Periodo che va fino ai 14 anni compiuti, è categoricamente esclusa ogni capacità di intendere e di volere da parte del minore che compie un reato; -Periodo che va dai 14 ai 18 anni, in cui non vige alcuna presunzione di incapacità e l’imputabilità del minore deve essere accertata caso per caso dal giudice (se l’imputabilità sussiste, il minore è assoggettato a pena, ma questa è diminuita). 2)Vizio di mente (artt. 88 – 89) È lo stato di mente derivante da infermità che esclude o diminuisce la capacità di intendere e volere, A seconda del suo grado, il vizio può essere: -totale, se esclude la capacità (il soggetto non è imputabile); -Parziale, se per effetto di essa la capacità è soltanto ridotta (il soggetto fruirà di una diminuzione di pena). Gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità (art. 90) Non è necessario che lo stato di infermità sia permanente, né deve essere di natura esclusivamente psichica, potendo esso derivare da un’infermità fisica. Se il vizio di mente si verifica dopo la commissione del reato, trovano applicazione gli artt. 71 e 73 c.p.p 3) Sordomutismo (art. 96) Esso è causa di non imputabilità quando, per effetto di tale anomalia, il soggetto non sia capace di intendere e di volere. Poiché la scienza medica ha fatto notevoli progressi nella cura di questa malattia, il legislatore non ha adottato una soluzione definitiva ed escludendo una presunzione di incapacità ha lasciato tale soluzione all’accertamento caso per caso dell’esistenza o meno della capacità di intendere e volere. Pertanto: - Quando si riconosce che la capacità di intendere e volere è piena, il sordomuto viene considerato imputabile; - se, invece, si accerta che la capacità non sussiste, egli è parificato all’individuo affetto da vizio totale di mente; - se si stabilisce, infine che essa è grandemente scemata è parificato all’individuo affetto da vizio parziale di mente. 4) L’ubriachezza (art. 91) Essa, se è accidentale, cioè non dipende da colpa del soggetto, esclude l’imputabilità. Se, invece, è volontaria o preordinata (quando il soggetto si è ubriacato proprio allo scopo di commettere il reato o per prepararsi una scusa), l’imputabilità non è esclusa né diminuita (in questa seconda ipotesi, si ha un aumento di pena). La stessa disciplina si applica in caso di uso di sostanze stupefacenti. L’ubriachezza abituale disciplinata dall’art. 94 c.p. comporta un aumento di pena e l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia. 5) Intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti (artt. 94 e 95) Si verifica quando per effetto dell’abuso prolungato di droga o di sostanze alcoliche, si produce un’alterazione psichica del soggetto tipica del vizio di mente. Si applicano le norme degli artt. 88 e 89 (vizio totale o parziale di mente). Tale situazione va distinta dall’ipotesi in cui il soggetto versi in stato di ubriachezza abituale o da chi è abitualmente dedito all’uso di droghe. In tal caso il soggetto subisce un aumento di pena poiché si ritiene che per costui lo stato di incapacità sia transeunte e non stabile come in caso di cronica intossicazione. Conclusioni Se l’incapacità di intendere o di volere è totale il soggetto è esente da pena, ma può essere sottoposto ad una misura di sicurezza se riconosciuto pericoloso. Se l’incapacità è parziale il soggetto andrà condannato ad una pena minore di quella prevista dal codice per il reato commesso. Le norme dell’imputabilità non si applicano a chi si è messo in stato di incapacità di intendere e volere al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa. Ne sono applicazioni l’ubriachezza preordinata e l’uso di stupefacenti preordinato. La capacità di delinquere Una forma di pericolosità criminale che delinea una figura di autore di reato è la recidiva (art. 99 c.p.). Recidiva è la condizione personale di chi, dopo esser stato condannato, con sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo, ne commette un altro. La recidiva (la cui disciplina è stato oggetto di riforma ad opera della L. 5-12-2005, n. 251, nota come “legge ex Cirielli”), si distingue in: 1)semplice: è recidivo semplice chi, dopo esser stato condannato per un delitto non colposo, ne commetta un altro. Questi può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo (aumento obbligatorio ove si tratti di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a c.p.p.). 2) Aggravata: comprende la recidiva specifica, se il nuovo delitto non colposo sia della stessa indole, la recidiva infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo sia stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente, nonché la recidiva vera e finita, configurabili, rispettivamente, nel caso in cui il nuovo delitto non colposo sia stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione della pena. In tali ipotesi, la pena può essere aumentata fino alla metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non colposo. Qualora non concorrano più circostanze fra quelle appena descritte (cd. Recidiva pluriaggravata), l’aumento di pena è della metà; 3) Reiterata: è recidivo reiterato chi, già da recidivo, commetta un altro delitto non colposo. In tal caso l’aumento di pena è della metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non colposo, se chi lo commette è un recidivo semplice, mentre è di due terzi ove chi lo commette è un recidivo aggravato Il concetto di pena e la determinazione di essa Generalità La pena (cd. Pena criminale) è la sanzione giuridica irrogata dallo Stato a carico di colui che ha violata un precetto della legge penale; l’irrogazione avviene mediante un particolare procedimento (processo penale). Le pene si distinguono in: - principali, inflitte dal giudice con la sentenza di condanna; - sostitutive delle pene (principali) detentive (categoria introdotta dalla legge); - accessorie, che derivano automaticamente dalla condanna anche senza un’espressa dichiarazione del giudice. Caratteri della pena A)La pena è personalissima: essa colpisce solo l’autore del reato (art. 27 Cost. “la responsabilità penale è personale”); B)L’applicazione della pena è rigorosamente disciplinata dalla legge per cui: - la pena è inflitta solo nei casi stabiliti dalla legge: non si possono irrogare se non le pene previste e consentite dalla legge (nulla poena sine lege); - l’applicazione della pena è devoluta all’Autorità Giudiziaria, la quale infligge la pena con la garanzia del procedimento penale, la pena inflitta può essere revocata solo nei casi stabiliti dalla legge, cioè in virtù di una norma di legge o dell’esercizio di una prerogativa sovrana (amnistia. Indulto, grazia); C)La pena, una volta minacciata per un determinato fatto, è sempre applicata all’autore della violazione (cd. Inderogabilità) D)La pena è proporzionata al reato. Pene principali (art. 17 ss.) Le pene principali sono: 1)Per i delitti: a) ergastolo: privazione della libertà personale per l’intera durata della vita del condannato; b) reclusione: privazione della libertà personale per un periodo di tempo che va da 15 giorni a 24 anni; c) multa: pena pecuniaria che va da 5 euro a 5.164 euro; 2)Per le contravvenzioni: a) arresto, pena detentiva che va da 5 giorni a 3 anni; b) ammenda, pena pecuniaria che va da 2 euro a 1032 euro. Strumenti applicabili dal giudice di pace Con l’entrata in vigore (2 gennaio) del D. Lgs. 274/2000 attuativo della delega di cui alla L. 468/1999 riguardante l’attribuzione di competenza penale al Giudice di pace, è stato ridisegnato il sistema sanzionatorio dei reati, con uno specifico sistema che, salvando la sola pena pecuniaria, sostituisce le pene privative della libertà personale con misure alternative alla detenzione, quali l’obbligo di permanenza domiciliare e la prestazione di lavoro di pubblica utilità, sulla base di criteri che tengono conto della sanzione originaria delle singole fattispecie. Pene sostitutive Le pene sostitutive delle pene detentive brevi sono: 1) La semidetenzione (art. 55 L. 689/1981); 2) La libertà controllata (art. 56 L. 689/1981); 3) La pena pecuniaria di specie corrispondente. Pene accessorie (art. 19 ss.) Le pene accessorie sono: 1)Interdizioni dai pubblici uffici (perpetua o temporanea); 2)Interdizione da una professione o da un’arte; 3)Interdizione legale; 4)Interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; 5)L’incapacità di contrattare con la P.A. 6)L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego; 7)Decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dal suo esercizio; 8)Sospensione dall’esercizio di una professione o un’arte; 9)Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; 10)Pubblicazione della sentenza di condanna; 11)Pene accessorie previste da leggi speciali. Determinazione della pena Tranne qualche eccezione, la pena per i singoli reati è indicata tra un massimo e un minimo e spetta al giudice, caso per caso, determinare la pena da infliggere, godendo così di un ampio potere discrezionale, pur se è tenuto ad indicare in motivazione le ragioni della sua concreta determinazione. Il giudice si deve però basare sui criteri previsti dall’art. 133. Egli deve tener conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole. La gravità del reato va desunta: 1)Dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2)Dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3)Dall’intensità del dolo o dal grado della colpa. La capacità a delinquere del colpevole va desunta: 1)Dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2)Dai precedenti penali e giudiziari, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedente al reato; 3)Dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4)Dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. Nozioni introduttive I delitti contro la pubblica amministrazione sono disciplinati dal titolo II del secondo libro del codice penale in cui confluiscono tutte quelle fattispecie che impediscono, ostacolano o turbano il regolare svolgimento dell’attività amministrativa, legislativa e giudiziaria dello Stato. Essi sono divisi in due classi: a)Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (capo I); b)Delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (capo II). I soggetti investiti di mansioni di interesse pubblico L’art. 357 c.p. definisce pubblici ufficiali coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziari o amministrativa, precisando che quest’ultima va identificata in quella disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà o del suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. L’art. 359 definisce come persone che esercitano un servizio di pubblica necessità: a)I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato; b)I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione. I pubblici ufficiali Prima della modifica dell’art. 357 c.p., le prevalenti teorie che si erano contese il campo nell’identificazione del pubblico ufficiale erano le seguenti: a)Teoria della rappresentanza dell’ente pubblico. Secondo questo orientamento, il pubblico ufficiale deve identificarsi in colui che ha la rappresentanza dell’ente pubblico, nel senso che forma o concorre a formare la volontà di questo e lo rappresenta nel suo esercizio; b)Teoria della natura dell’attività della pubblica amministrazione. Secondo tale indirizzo, sono pubblici ufficiali coloro che svolgono l’attività giuridica della pubblica amministrazione, intesa come quella diretta al conseguimento di fini essenziali dello Stato, mentre sono incaricati di pubblico servizio quelli preposti all’attività sociale della pubblica amministrazione, che tende al raggiungimento di fini utili, ma non essenziali, per i consociati. c) Teoria del potere di imperio. Secondo tale teoria, solo la qualifica di pubblico ufficiale è caratterizzata dall’esercizio di un potere di supremazia che è espressione di un potere giuridicamente superiore a quello dei cittadini. Ad essa è stato obiettato di non permettere di ricondurre alla nozione di pubblico ufficio le funzioni di pubblica certificazione e quelle che si svolgono all’interno della pubblica amministrazione, senza tradursi in relazioni con gli altri cittadini. L’art. 357 enuncia esplicitamente le funzioni del pubblico ufficiale. Il problema si pone per quanto riguarda l’individuazione di coloro che svolgono pubbliche funzioni amministrative. Il secondo comma dell’art. 357 stabilisce che rientrano in tale classe di mansioni: a)Le attività di coloro che formano o concorrono s formare la volontà dell’ente pubblico; b)Quelle di coloro che lo rappresentano di fronte agli estranei. Gli indicatori di un pubblico servizio Ai sensi dell’art. 358 c.p. va considerata persona incaricata di un pubblico servizio colui il quale, a qualunque titolo, presta un pubblico servizio, ovvero un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, nelle stesse forme della pubblica funzione, ma non caratterizzata dai poteri tipici di questa . Si tratta di una figura a carattere residuale: sono infatti incaricati di pubblico servizio coloro che non sono né pubblici ufficiali né esercenti un servizio di pubblica necessità. Esempi di tali figure sono: esattori ENEL, impiegati tecnici degli istituti di credito di diritto pubblico, dipendenti RAI, impiegati ACI, autisti di aziende di trasporto pubblico, guardie giurate. Le persone esercenti un servizio di pubblica necessità L’art. 359 c.p. include nella categoria in esame due gruppi di presone: a)I privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato; b)I privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione. Nella prima categoria rientrano, ad esempio, gli avvocati (per l’esercizio di tale professione la legge stabilisce una speciale abilitazione) che assurgono alla qualifica sopra citata quando la legge stabilisca l’obbligo di avvalersi della loro partecipazione per il compimento di un atto. DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI Il peculato È un “reato proprio”, in quanto non può essere commesso solo da chi abbia la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Tale qualifica deve sussistere nel momento in cui il soggetto entra nel possesso o nella disponibilità del bene, mentre è irrilevante che permanga al momento in cui egli se ne appropri effettivamente. La nozione di pubblico servizio deve essere intesa in senso oggettivo, va valutata in relazione al tipo di attività concretamente svolta. Commette il delitto in esame il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che si appropria del denaro o di altra cosa mobile altrui di cui il soggetto attivo abbia possesso o la disponibilità per motivi attinenti al suo ufficio o servizio. Elementi del reato sono: a)Il possesso o la disponibilità del bene da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. L’oggetto materiale del delitto di peculato può essere costituito da denaro o da ogni altra cosa mobile. b)L’appropriazione. Si verifica quando il soggetto compie, in relazione alla cosa oggetto del reato, un atto che sia manifestazione della volontà di considerarla come propria, e cioè si comporti, nei confronti della stessa, non più come soggetto che ne ha la disponibilità ma come proprietario. Nell’aprile 1990 è stata eliminata l’ipotesi della distrazione del bene, cioè della sua utilizzazione per un fine diverso da quello istituzionale. Sulla punibilità del peculato per distrazione sono state formulate varie teorie, quella prevalente è che esso rimane sanzionabile. Diversa ipotesi è quella integrata dal peculato d’uso (L. 26 aprile 1990 n. 86) che costituisce una fattispecie autonoma di reato, in cui il fine perseguito dall’agente costituisce elemento specializzante, ed è ravvisabile quando il colpevole “ha agito al dolo scopo di fare uso momentaneo della cosa” (art. 314 comma 2 c.p.). L’uso deve essere: Immediato (deve avvenire subito dopo l’appropriazione) Di breve durata (tale che la sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale non comprometta la funzionalità della P.A.) Corte di Cassazione, Sezione VI, 5 Novembre 2002 Ai fini della configurabilità del reato di peculato è necessario che la cosa mobilie di cui si appropria l’agente abbia un valore economico apprezzabile, sia esso intrinseco alla cosa in sé, sia derivante dal fatto dell’agente medesimo o di altri. Devesi pertanto ritenere che sussista detta condizione qualora l’appropriazione abbia ad oggetto banconote false di cui sia stato disposto il sequestro, essendo ad esse attribuibile un valore economico sia per la pubblica amministrazione, sia per lo stesso agente. Corte di Cassazione, Sezione VI, 11 Aprile 2005 Il carattere plurioffensivo del peculato (posto a tutela, oltre che del patrimonio anche della legalità, dell’efficienza, della probità e dell’imparzialità della pubblica amministrazione) non vale a rendere irrilevante il valore e/o l’utilità economicamente apprezzabile o comunque sfruttabile a fini patrimoniali della cosa sottratta. Ne consegue, pertanto, l’insussistenza del reato nell’ipotesi dell’uso momentaneo dell’autovettura di servizio per fini privati (nella specie in una sola circostanza), giacchè in tal caso, anche per l’estrema esiguità di valore dei beni oggetto di appropriazione, questa non si protrae per il tempo sufficiente a determinare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale. Corte di Cassazione, Sezione VI, 20 Luglio 2006 L’indebito uso, per scopi personali, dell’utenza telefonica di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità per ragioni di ufficio, comportando l’appropriazione da parte dell’agente, senza possibilità di immediata restituzione, di energie costituite da impulsi elettronici entrati a far parte della P.A., è suscettibile di dar luogo alla configurabilità non del peculato d’uso ma del peculato ordinario sempre che possa riconoscersi un apprezzabile valore economico agli impulsi utilizzati per una singola telefonata, ovvero anche per l’insieme di più telefonate quando queste siano talmente ravvicinate nel tempo da poter essere considerate come costituenti un’unica condotta. Malversazione a danno dello Stato Art. 346bis c.p. L’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice è quello alla corretta gestione delle risorse pubbliche destinate a fini di incentivazione economica, quindi a reprimere le frodi successive al conseguimento di prestazioni pubbliche che si concretizzano nell’elusione del vincolo di destinazione delle somme erogate. La norma presuppone che autore del reato non sia un appartenente a quegli specifici settori della P.A. che sono preposti alle procedure di erogazione o di controllo delle sovvenzioni (ed è in questo senso limitato che va intesa la locuzione “estraneo alla pubblica amministrazioe”). Si ritiene che la fattispecie incriminatrice integri un’ipotesi di reato “proprio”, in quanto può essere commesso solo da un soggetto beneficiario di un finanziamento pubblico. Concussione – Art. 317 c.p. Il delitto in esame rientra nella categoria dei reati plurioffensivi, in quanto l’interesse tutelato è duplice: a)Il decoro e l’imparzialità della pubblica amministrazione, imposto dall’art. 97, comma 3 della Costituzione; b)Il diritto del singolo a disporre del proprio patrimonio in libertà. Si tratta di un reato “proprio”, che può essere posto in essere solo dal pubblico ufficiale e dall’incaricato di pubblico servizio. Elementi della condotta sono i seguenti: a) l’abuso delle qualità o dei poteri. Con tale espressione si indicano due profili: 1. l’abuso delle qualità, si verifica quando l’agente fa valere la sua posizione, connessa allo svolgimento di una pubblica funzione, al fine di indurre o costringere gli altri all’indebita promessa o dazione. 2. l’abuso dei poteri, si realizza quando questi vengo esercitati secondo criteri volutamente diversi da quelli imposti dalla loro natura; b) Il “mentus publicae potestatis”. È quello stato di timore o di paura che è ingenerato nel privato della situazione di preminenza di cui usufruisce il pubblico ufficiale, e si caratterizza differentemente a seconda che il soggetto passivo sia sottoposto ad una costrizione ovvero a un’induzione; c) La costrizione e l’induzione. Il reato di concussione può commettersi per costrizione o per induzione; d) La dazione e la promessa indebita. La dazione si concretizza nel passaggio di un bene dalla disponibilità di un soggetto a quella di un altro, e può assumere le forme più diverse. La promessa, invece, consiste nella manifestazione di un impegno, apparentemente valido, ad effettuare in futuro una prestazione. Essa può essere fatta in qualsiasi modo e non richiede forme particolari. La prestazione è indebita quando non è dovuta, per legge o per consuetudine al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, né alla pubblica amministrazione. I reati di corruzione: generalità In senso generico, la corruzione consiste in un accordo fra un pubblico funzionario ed un privato in virtù del quale il primo accetta dal secondo un compenso indebito come corrispettivo di un atto relativo all’esercizio delle sue attribuzioni. Sotto il profilo del tipo di atto di ufficio che costituisce l’oggetto del delitto di corruzione può distinguersi tra a)Corruzione per un atto di ufficio (corruzione impropria: art. 318 c.p.); b)Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria: art. 319c.p.); c)Corruzione in atti giudiziari. Sotto il profilo soggettivo si distingue tra: a)Corruzione attiva, quando si guarda alla condotta del soggetto che dà o promette una retribuzione; b)Corruzione passiva, quando si fa riferimento al comportamento di chi riceve detta promessa o dazione. Corruzione per un atto di ufficio (corruzione impropria) – Art. 318 c.p. Nel caso di corruzione impropria antecedente si ritiene, da parte di alcuni, che anche tale interesse venga ad essere oggetto di lesione, dato che l’intervento di un baratto tra il privato e la pubblica amministrazione viene necessariamente ad incidere sulla correttezza ed il funzionamento di quest’ultima. Il reato in esame è un reato “proprio”. Elementi costituenti sono: a)l’accordo; b)La competenza del funzionario o dell’impiegato; c)L’atto di ufficio; d)La retribuzione (si tratta del compenso che il privato dà e che il funzionario accetta, consiste in una prestazione in denaro od altra utilità che abbia il carattere di un corrispettivo per l’atto di ufficio compiuto dal secondo). La retribuzione deve essere non dovuta. Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (corruzione propria) - Art. 319 c.p. Il reato è disciplinato dagli artt. 319, 320 e 321 c.p. Mentre la prima norme descrive quella che è la condotta incriminata, la seconda parifica al pubblico ufficiale l’incaricato di pubblico servizio, e la terza prevede la punibilità del corruttore. Si tratta di un reato “proprio”, che può essere commesso tanto del pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, anche se non svolga le mansioni di pubblico impiegato. Anche nella corruzione propria rientrano due diverse condotte: a)Quella del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio), che per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, quale retribuzione non dovuta, o ne accetta la promessa (corruzione propria antecedente); b)Quella del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) il quale riceve la retribuzione non dovuta per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria susseguente). Corruzione in atti giudiziari – Art. 319ter c.p. L’art. 319ter punisce autonomamente l’ipotesi in cui i fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p. siano stati commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo. Si tratta di un reato autonomo e non di un’aggravante delle ipotesi di corruzione. Il reato in esame può essere commesso solo dei pubblici ufficiali e non dagli incaricati di pubblico servizio. L’elemento caratterizzante della corruzione in atti giudiziari è quello di favorire o danneggiare una parte del processo. Anche se espressamente non previsto dalla norma incriminatrice, tale finalità deve essere ingiusta. Parte è la persona fisica o giuridica che abbia proposto o nei cui confronti sia stata proposta una domanda giudiziale. Abuso d’Ufficio – Art. 323 c.p. Interesse tutelato dalla norma incriminatrice in esame è quello del buon andamento ed all’imparzialità della pubblica amministrazione. Il delitto di abuso d’ufficio è un reato “proprio”, che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che agisca nello svolgimento delle sue funzioni. Circa i contenuti di questo abuso, vi si faceva rientrare l’incompetenza e la violazione di legge, e anche lo sviamento di potere che si aveva quando il pubblico ufficiale avesse fatto uso dei suoi poteri per uno scopo diverso da quello per cui gli erano stati conferiti. L’ingiustizia del vantaggio o del danno devono essere tali in sé, e non come riflesso della violazione di norme o dell’omessa astensione da parte del pubblico ufficiale. Affinché sussista il reato, non è più sufficiente una condotta “abusiva”, ma è necessario che questa si caratterizzi per la sussistenza di cause di illegittimità specificatamente indicate dalla norma incriminatrice, e che possono essere costituite da: a)Violazione di leggi o di regolamenti; b)Violazione dell’obbligo di astensione. Quanto all’atto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che può assumere rilevanza ai fini della sussistenza del reato, non deve necessariamente trattarsi di un provvedimento amministrativo, potendo invece concretizzarsi anche in una condotta materiale. Corte di Appello di Palermo, Sezione IV, 30 Marzo 2010 Questa sentenza riguarda la sentenza posta in essere dall’imputato, quale funzionario istruttore delle pratiche edilizie del comune di Agrigento, che avrebbe posto in essere atti idonei univocamente ad assicurare un ingiusto vantaggio patrimoniale alle ditte che avevano presentato un piano di lottizzazione convenzionata da un area sita in una contrada di Agrigento. In particolare, la condotta illecita veniva individuata nel parere favorevole che l’imputato rilasciava sulla proposta proveniente dalle predette ditte e formalizzata nel piano di lottizzazione, di rilascio della concessione edilizia con lo scomputo degli oneri di urbanizzazione in violazione dell’art. 15 della legge regionale n. 71 del 1978. La Suprema Corte affermato che, in tema di reato di abuso di ufficio, la condotta dell’agente rileva penalmente solo se l’ingiusto vantaggio patrimoniale è conseguito attraverso la violazione di legge o di regolamento, con esclusione degli atti che hanno natura meramente interpretativa o attuativa di normative preesistenti e che comunque sono privi della forza normativa propria della legge di regolamento. Nel caso di specie non si può ravvisare l’elemento oggettivo del reato contestato all’imputato sia in relazione alla supposta violazione di quella Circolare Assessoriale, che per altro non ha carattere tassativo, ed ancor più in relazione agli altri atti indicati nell’imputazione costituiti da una nota dello stesso Assessorato ed un parere del Consiglio di Giustizia Amministrativo siciliano che mai naturalmente efficacia normativa possono intendervi aver assunto. PQM Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Agrigento assolveva l’imputato dal reato di tentato abuso di ufficio con la formula perché il fatto non sussiste. Rilevazione e utilizzazione di segreti d’ufficio – Art. 326 c.p. Il bene tutelato dalla disposizione incriminatrice in esame, nella parte in cui punisce la rivelazione del segreto d’ufficio, è il buon funzionamento della pubblica amministrazione, che può essere pregiudicato dalla rivelazione del segreto d’ufficio. Quanto all’utilizzazione del segreto d’ufficio, il reato mira a garantire la parità di condizioni tra i cittadini, evitando che l’agente si avvantaggi sugli altri sfruttando le notizie segrete conosciute per ragioni di ufficio. Gli elementi del delitto di rivelazione di segreto d’ufficio sono: a)Violazione dei doveri e abuso della qualità; b)Le notizie d’ufficio; c)La segretezza; d)La rivelazione; e)L’agevolazione; Quanto invece all’utilizzazione, gli elementi del reato sono: a)Avvalersi di notizie di ufficio; b)Illegittimamente. Rifiuto di atti d’ufficio e omissione – Art. 328 c.p. Il delitto di cui all’art. 328 c.p. è plurioffensivo, nel senso che lede, oltre all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione, anche quello del privato, leso dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto. Si tratta di un reato “proprio” che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che abbia competenza a compiere l’atto richiesto. Nel caso di organo collegiale l’illecito è configurabile, ricorrendo le condizioni, non a carico di colui che ne ha la rappresentanza esterna, ma dei singoli componenti dello stesso. Risponde al reato il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, indebitamente, rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo. La norma disciplina due condotte: a)Il rifiuto di atti d’ufficio (comma 1) b)L’omissione di atti richiesti (comma 2). Elementi essenziali della condotta criminosa sono: a)L’atto di ufficio, che deve necessariamente rivestire carattere di indifferibilità e doverosità; b)Le ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico, o di igiene e sanità; c)L’indebito. È indebita la condotta contraria ai doveri dell’agente. Presupposto dell’omissione è l’esistenza di un meccanismo di “messa in mora”, attraverso una richiesta scritta dalla cui ricezione decorre un termine di trenta giorni per la risposta. La condotta consiste nel mancato compimento dell’atto d’ufficio in assenza di una risposta che ne spieghi le ragioni. La richiesta che determina l’insorgenza dell’obbligo della p.a. è quella proveniente da un soggetto che abbia un interesse al compimento dell’atto, riferito ad una specifica situazione soggettiva sulla quale il provvedimento è destinato ad incidere. Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, 3 Dicembre 2009 “Il medico può rifiutare il ricovero di un paziente se l’allarmismo non è giustificato”: parola di Cassazione che in questa sentenza ha evidenziato che la condanna scatta soltanto nei casi in cui l’urgenza del ricovero sia effettiva e reale per l’esistente pericolo di conseguenze dannose alla salute della persona. I supremi giudici chiariscono che non rientra fra l’omissione di atti di ufficio un diniego di ricovero ospedaliero caratterizzato per le modalità inurbane e volgari con cui il medico si è espresso e non per l’antigiuridicità richiesta dalla norma che punisce il rifiuto indebito di un atto dell’ufficio che va compiuto senza ritardo. Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, 2 Aprile 2009 La Suprema Corte ricorda come l’azione tipica di tale delitto (omissione di atti d’ufficio) è integrata dal mancato compimento di un atto dell’ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle ragioni del ritardo, entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse con la conseguenza che il reato omissivo proprio è a consumazione istantanea si intende perfezionato con la scadenza del predetto termine. La sentenza aggiunge che a maggior ragione resta ingiustificato il silenzio omissivo del pubblico ufficiale, perchè una volta individuato l’interesse qualificato alla conoscenza da parte del richiedente, anche la risposta negativa dell’Ufficio adito, in termini di indisponibilità, oppure di parziale disponibilità della documentazione richiesta, fa parte del contenuto dell’atto dovuto al cittadino, il quale sull’informazione negativa può organizzare appunto “re cognita” la sua strategia di tutela oppure rinunciare in modo definitivo ad ogni diversa sua pretesa. I reati agroalimentari (Delitti concernenti sostanze alimentari) Tra le numerose norme che la legge n. 99/2009 ha inserito nel catalogo dei reati-presupposto ex d.lg. 231, ne figurano 2 specificamente dedicate alla protezione dei prodotti agroalimentari: art. 516 (vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine) e il nuovo art. 517 quater (contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari). Ciò che viene tutelato è innanzitutto la buona fede negli scambi commerciali (mentre la salute dei cittadini resta ampiamente sullo sfondo), sotto un ottica di tutela del consumatore il quale deve poter aver fiducia nelle indicazioni contenute nelle “etichette” degli alimenti. Per entrambi i delitti, all’ente si applica una sanzione pecuniaria che può arrivare fino a 500 quote, mentre non sono previste sanzioni interdittive. Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516) Questa disposizione si pone in un’ottica esclusivamente “economica” dato che la non genuinità dell’alimento è cosa ben diversa dalla sua pericolosità, questo elemento tra l’altro vale anche a distinguere tale delitto da quello di commercio di sostanze alimentari contraffate o adulterate (previsto e punito dall’art. 442 del Codice Penale, che invece si pone in un’ottica di tutela della salute pubblica). L’interesse tutelato è quindi individuato nella buona fede degli scambi commerciali, ovvero nell’onesto svolgimento dell’attività d’impresa. Oggetto materiale del reato sono le sostanze non genuine, quanto al concetto di genuinità ci sono diverse accezioni: alcune si basano sulle caratteristiche sostanziali del bene che per esser genuino non deve aver subito alterazioni nella sua composizione e pertanto sono genuini gli alimenti che conservano la dimensione naturale della sostanza alimentare; una seconda accezione invece si fonda su un dato formale intendendo la genuinità come conformità del prodotto ai requisiti legali della normativa di settore. Si tratta di un delitto a consumazione anticipata: per il suo perfezionamento non è necessario un concreto atto di vendita ma basta invece l’attività prodromica di “messa in commercio”. Infine è un delitto solamente doloso: esso richiede la coscienza della non genuinità della sostanza e la volontà di presentarla come genuina. Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (art. 517 quater) Questo nuovo delitto punisce la contraffazione e l’alterazione delle indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a 20.000 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello stato, detiene per la vendita, pone in vendita con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione i medesimi prodotti con le indicazioni o denominazioni contraffatte. La fattispecie si pone in un’ottica di tutela delle cd. “indicazioni geografiche”, viste non solo come una garanzia di qualità del prodotto ma come un elemento di scelta da parte del consumatore che propende per l’acquisto di un prodotto anche in base alla sua provenienza. L’impatto che tali nuovi delitti possono avere sulle aziende è molto rilevante, considerato che ad esempio anche i supermercati organizzati in forma societaria potrebbero vedersi puniti ex 231. Tra i presidi da porre in essere si possono menzionare da un lato i controlli di qualità sulla merce da vendere, dall’altro le cautele contrattuali verso i fornitori come garanzia sia della qualità che della provenienza della merce. Agromafia . (attività della criminalità organizzata nel settore agroalimentare) Secondo il Primo Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, realizzato da Coldiretti e EURISPES Oggi raggiunge un volume di attività pari a 12,5 miliardi di euro (5,6% dell’intero business criminale). Possiamo distinguere 3 livelli di queste attività criminali: 1° livello: usura, estorsioni, abigeato e furti; 2° livello: controllo della manodopera (specie straniera e clandestina), contraffazioni alimentari, stoccaggio illecito di rifiuti, controllo del territorio per finalità proprie delle organizzazioni mafiose; 3° livello: reciclaggio di denaro sporco, drenaggio illegale di fondi pubblici CONSEGUENZE CONSEGUENZE: Concorrenza sleale verso gli imprenditori agricoli Perdita della qualità dei prodotti e dell’occupazione Omologazione dei consumi Manipolazione dei prezzi finali con danno per i consumatori Oggi i beni confiscati complessivamente dallo Stato alla criminalità organizzata ammontano a 10.000, di cui il 45% è rappresentato da possedimenti agricoli Italian Sounding È un fenomeno di notevole importanza per cui i prodotti realizzati con materia prima estera ricordano, nel nome o nella confezione, il “made in Italy”. Oggi rappresenta un giro d’affari che supera i 60 miliardi di euro all’anno (due volte e mezzo il valore dell’export agroalimentare). Cassazione penale, III sezione, 25 Marzo 2011 Il caso in questione riguarda il rigetto del ricorso avverso la sentenza che ha ritenuto il colpevole del reati di cui all’art. 5, lett. B, della L. 283/1962 il titolare del ristorante che deteneva in deposito frigorifero prodotti ittici in cattivo stato di conservazione. La parte ricorrente ipotizzava che la fattispecie in oggetto fosse di danno e non di pericolo e che pertanto fosse da escludere ogni responsabilità penale, vista l’assenza di un danno igienico – sanitario. Negli ultimi anni, sul tema degli alimenti in cattivo stato di conservazione, si sono consolidate due tesi: • quella della Corte di Cassazione che considera questa fattispecie un “reato di pericolo presunto” nel senso che esso si realizza mediante la condotta di conservazione del predetto alimento inidonea ad evitare possibili condizioni di alterazione la cui effettiva realizzazione comporta la presenza di distinte ipotesi di reato, dunque questo orientamento focalizza l’attenzione sulla nozione di “stato di conservazione” inteso come modalità di conservazione; • quella delle Sezioni Unite per cui la fattispecie in esame è un reato di pericolo tanto sotto il profilo della condotta (nel senso che esso si perfeziona anche con la semplice detenzione al fine della vendita), quanto sotto il profilo dell’oggetto di tutela penale nel senso che per la sua configurabilità è sufficiente che le sostanze alimentari siano destinate o avviate al consumo in condizioni che ne mettano in pericolo l’igiene e la commestibilità. Questa sentenza vuole sottolineare che l’art. 5, lett. b, della L. 286/1962 è un reato contravvenzionale di pericolo presunto che ha come obiettivo quello di proteggere la salute del consumatore e non l’ethos del consumatore, assicurando una protezione anche a quella sfera di tranquillità che proviene dalla sicurezza che il prodotto sia giunto al consumo delle cure igieniche imposte dalla sua natura. Dunque il bene oggetto di tutela in materia di sicurezza alimentare è la salute pubblica che il bene finale, ma vi è anche un bene intermedio individuato nell’igiene, nella genuinità e nell’integrità degli alimenti. Concludendo, questa sentenza vuole porre al centro la tutela del consumatore la cui salute è lesa non solo se si verifica un danno ma anche quando il bene è stato messo in pericolo. Il pericolo presunto è quindi strumento necessario perché solo così si riesce ad anticipare la tutela del bene salute a fasi prodromiche rispetto alla lesione. Sarzanini Silvia, Laura Del Galdo e Macagno Rossana