CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE NATURALI (F66) INFLUENZE DELLE SCOPERTE SULLE OSCILLAZIONI CLIMATICHE DEL QUATERNARIO SULLA TEORIA DEGLI EQUILIBRI PUNTEGGIATI RELATORE : PROF. MARCO FERRAGUTI RELATORE ESTERNO: Dott. EMANUELE SERRELLI CORRELATORE: PROF. MAURO CREMASCHI Elaborato finale di SILVIA MORLOTTI Matr. 756685 ANNO ACCADEMICO 2011-2012 “La relazione tra l’organismo e l’ambiente fa parte della terra di mezzo tra due discipline.” Stephen Jay Gould “Le tensioni a volte consentono di costruire ponti e nuove cognizioni sono spesso concentrate lungo la linea di frattura tra discipline” Niles Eldredge “Il problema è come si possano coniugare queste due contrastanti modalità percettive, da un lato la visione sensibile dell’amante della natura, dall’altro i modelli astratti proposti dal geologo sulla genesi e la trasformazione del territorio stesso.” Richard Fortey II INDICE INTRODUZIONE……………………………………………………………………...……2 1. Quello che Darwin sapeva a proposito dei cambiamenti climatici…………….…………6 2. La teoria degli Equilibri Punteggiati………………………………………………..……11 1.1. L’impronta diabolica della teoria………………………………………...…….11 1.2. Il gradualismo filetico………………………………………………………….12 1.3. Le specie biologiche e gli equilibri punteggiati………………………………..12 3. Breve storia delle conoscenze sul cambiamento climatico fino all’inizio degli anni Settanta…………………………………………………………………………...…………17 4. Riferimenti espliciti al cambiamento climatico all’interno del saggio sugli Equilibri Punteggiati……………………………………………………………………………..……26 5. Le colonne portanti della teoria e il loro rapporto con il cambiamento ambientale…….......................................................................................................................28 5.1. La speciazione allopatrica:……………………………………………………..28 - 5.1.1. Da Mendel alla Sintesi Moderna…………………………………….28 - 5.1.2. Attenzione al cambiamento ambientale nella teoria della speciazione allopatrica…………………………………………………………...………32 5.2. La discontinuità - 5.2.1. La teoria dell’evoluzione Quantica di Simpson…………..………….35 6. Contestualizzazione della teoria…………………………………………….……………39 6.1. Una nuova concezione del cambiamento ambientale…………….……………40 6.2. Jurgen Haffer: la teoria dei rifugi…………………………………….………..44 6.3. I modelli intergenealogici di Norman Newell…………………………………46 6.4. La figura di John Imbrie……………………………………………...………..49 7. Teorie successive…………………………………………………………………………50 8.1. La gerarchia ecologica di Eldredge……………………………………………50 8.2. Le teorie di Elizabeth Vrba………………………………………………….…55 CONCLUSIONE……………………………………………………………………………57 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………………61 1 INTRODUZIONE In questa tesi ho indagato le possibili influenze sulla teoria degli Equilibri Punteggiati (23) delle scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario, ottenute sia dagli studi geomorfologici (2, 80) e astronomici (1,10,71) dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, sia dalle scoperte derivanti dai carotaggi oceanici (117), antartici (95) e groenlandesi (50,13) degli anni Sessanta. Ogni teoria scientifica subisce inevitabilmente delle influenze riconducibili al contesto scientifico e culturale nel quale è stata formulata (78). Indagare queste influenze può rivelare elementi interessanti di connessione tra varie discipline ed aiutare a comprendere meglio sia le radici di una teoria sia le sue più ampie implicazioni nel contesto scientifico generale. A proposito di questo possiamo ritrovare un esempio illustre nella teoria dell’evoluzione per selezione naturale elaborata da Charles Darwin nel 1859 (17). Darwin elaborò la sua teoria in un preciso contesto storico e scientifico. Ho ritenuto importante, in primo luogo, andare a capire quali fossero le conoscenze di Darwin a proposito del cambiamento ambientale e climatico e quale fosse il ruolo di quest’ultimo all’interno della sua concezione di processo evolutivo. “Gli equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo filetico” è un saggio, pubblicato per la prima volta come capitolo del libro “Models in paleobiology” (23), scritto da due giovani paleontologi: Niles Eldredge e Stephen Jay Gould. L’anno è il 1972. La visibilità e l’autorevolezza dei suoi autori hanno fatto sì che le idee e i concetti esposti, anche se in qualche misura già affrontati in passato, avessero una risonanza eccezionale. Gould ed Eldredge affermavano la natura discontinua del processo evolutivo. La lenta e graduale trasformazione degli esseri viventi, sostenuta da Darwin in poi, non trovava riscontro, se non in rarissimi casi, nella documentazione fossile. Secondo Eldredge e Gould, il processo evolutivo sarebbe stato caratterizzato da lunghissimi periodi di stasi e da rapidi e improvvisi episodi di cambiamento. Dall’articolo di Gould ed Eldredge emergeva una visione della storia passata dal ritmo non uniforme, caratterizzato da improvvisi cambiamenti strutturali. La formazione di nuove specie non era il risultato di un lungo e graduale processo inarrestabile - stately unfolding o imponente dispiegamento - ma rappresentava un episodio fortuito e contingente nella storia della vita. Proprio questo schema irregolare, caratterizzato da picchi di cambiamento non uniformemente distribuiti lungo la storia della vita, è indice di un nuovo modo di intendere il processo evolutivo. Ho cercato di ricondurre l’approccio puntuazionista di Eldredge e Gould a una mutata concezione del cambiamento ambientale e dei suoi rapporti con l’evoluzione biologica. 2 Negli anni Sessanta si consolidano, infatti, le teorie tettoniche (110, 111, 112) e climatiche (13, 50, 95, 117) che rendono la nostra concezione dell’ambiente fisico, in cui gli organismi si trasformano, irregolarmente dinamica. La teoria degli equilibri punteggiati si colloca temporalmente nel decennio successivo, quando la teoria della tettonica a placche era ormai consolidata e l’oscillazione climatica del Quaternario documentata, almeno in parte, in modo preciso e quantitativo grazie ai carotaggi oceanici e di calotta glaciale. In questa tesi approfondirò solo le influenze legate alle scoperte sui cambiamenti climatici. Per inquadrare la mia ricerca ho voluto, in primo luogo, andare a capire quali fossero le conoscenze di Darwin a proposito del cambiamento ambientale e climatico e quale fosse il suo ruolo all’interno della concezione di processo evolutivo. Dopo un’estesa analisi del saggio originale sugli Equilibri Punteggiati ho inserito una breve ricostruzione delle conoscenze sulle oscillazioni climatiche del Quaternario fino all’inizio degli anni Settanta, che serve a tracciare una griglia in cui inserire le teorie evolutive che ho chiamato in causa. Ogni teoria evolutiva è stata formulata in un preciso momento storico, durante il quale esisteva una certa concezione dei cambiamenti climatici connessi con le ere glaciali. Successivamente ho analizzato i riferimenti espliciti a proposito del cambiamento climatico, contenuti nel saggio originale sugli Equilibri Punteggiati. Essi si rifanno ad alcune pubblicazioni di Gould (39, 40), citate ed esposte nel saggio, a proposito di alcune specie di gasteropodi polmonati pleistocenici, le Poecilozonites delle Bermuda. Questi studi, condotti alla fine degli anni Sessanta, testimoniano l’interesse, da parte di Gould, verso l’influenza che le oscillazioni climatiche pleistoceniche potevano avere sulla modificazione dei caratteri nelle specie. A questo punto ho voluto scomporre la teoria degli equilibri punteggiati evidenziandone i due pilastri portanti: - La teoria della speciazione allopatrica (68, 70) - La discontinuità di ritmo dell’evoluzione (89) Queste due teorie non sono state formulate da Gould ed Eldredge, ma sono state da loro messe in relazione, formando un quadro teorico più completo. La teoria della speciazione allopatrica è stata formulata la prima volta nel 1942, da Ernst Mayr (68), e poi ampliata nel 1963 (70). Il primo ad elaborare, invece, una teoria evolutiva discontinua nel ritmo fu George Gaylord Simpson, nel 1944 (89). Ho trovato perciò interessante andare ad analizzare i classici della Sintesi Moderna contenenti le prime formulazioni di queste due teorie, cercandovi riferimenti al cambiamento climatico, per 3 cercare di capire quanto Mayr e Simpson sapessero a proposito delle oscillazioni climatiche e quale ruolo vi attribuissero nel processo evolutivo da loro teorizzato. Dopodiché ho considerato fondamentale capire quale fosse il contesto in cui il saggio del 1972 fu pubblicato: quanto si parlava di cambiamento climatico nelle riviste scientifiche più generaliste? I biologi e naturalisti erano interessati alle scoperte sul cambiamento climatico? Consideravano il cambiamento ambientale importante a proposito della distribuzione degli organismi e nel processo evolutivo? La contestualizzazione ha riguardato l’analisi della concezione che si aveva in quel periodo dell’ambiente quale entità dinamica, tramite grafici che mostrano il numero di pubblicazioni in ambito geologico, a proposito della Tettonica a Placche e della variazione climatica, e in modo più specifico sui cambiamenti climatici del Quaternario, lungo gran parte del Novecento. Ma anche prima del 1972 si trovano alcuni articoli che correlano la presenza delle ere glaciali a fenomeni di speciazione. È del 1969 la teoria di Jurgen Haffer (46) secondo cui la radiazione adattativa della fauna ornitologica delle foreste amazzoniche sarebbe stata causata dalla frammentazione dell’habitat provocata dalle oscillazioni climatiche del Quaternario, che avrebbero provocato l’alternata espansione e frammentazione della copertura forestale. Al di là della veridicità o meno di questa teoria, detta “Teoria dei rifugi”, il lavoro di Haffer è solo un esempio tra i tanti che dimostra l’interesse di alcuni biologi e naturalisti verso le ricerche in campo paleoclimatico di quegli anni. Mentore di alcuni dei più importanti paleontologi del Novecento tra cui Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, Norman Newell è il primo ad attirare l’attenzione sui modelli intergenealogici di estinzione e speciazione come premessa logica a una visione della storia evolutiva episodica e discontinua e non uniforme e graduale (74, 75, 76, 77). La figura di John Imbrie, importante paleoclimatologo del Novecento, getta un ponte storicopersonale tra la figura di Stephen Jay Gould e il mondo delle ricerche paleoclimatologiche, con una serie di spunti di riflessione interessanti sul suo lavoro. Nell’ultima parte ho fatto riferimento ad alcuni scritti successivi di Niles Eldredge (26, 25, 27, 28) sulla relazione che lega il mondo biotico al mondo fisico, tramite una teoria di tipo gerarchico, e ho accennato alle teorie di Elisabeth Vrba (100, 101, 102, 103), le quali esplicitarono direttamente l’importanza fondamentale dei cambiamenti climatici in molti casi di radiazione, dai mammiferi africani (43), all’origine di Homo sapiens (103). Queste teorie furono sviluppate negli anni ’80, quando ormai le ricerche paleoclimatiche avevano preso il largo, grazie alle tecnologie ed ai metodi geochimici di datazione e ricostruzione delle passate condizioni climatiche, e rappresentano una 4 sintesi coerente di tutti gli argomenti che ho chiamato in causa: la teoria degli equilibri punteggiati, la speciazione allopatrica e le oscillazioni climatiche del Quaternario. Il clima controlla l’ambiente entro cui le specie nascono, muoiono e si trasformano. Da esso dipendono un numero impressionante di variabili ambientali: dallo sviluppo della vegetazione, basti pensare alla distribuzione dei piani altitudinali, all’estensione dei ghiacciai e ai fenomeni ad esso correlati, fino ai processi di erosione e accumulo delle strutture geologiche, il gradiente di umidità e temperatura che controlla il bilancio idrico, la forma dei fiumi, la formazione di laghi, il livello delle linee di costa (ecc.), solo per fare alcuni esempi. Il paesaggio viene modellato dal clima che quindi regola abitabilità e accessibilità degli habitat. Mentre dagli anni ‘80 in poi si può dire che la paleoclimatologia e l’evoluzionismo abbiano cominciato a parlarsi direttamente, il processo di avvicinamento è stato invece molto complesso. Entrambe le discipline hanno fornito una visione della storia della terra, della vita e dell’interazione tra le due, decisamente complessa, discontinua e contingente. L’oggetto di questa tesi è l’idea che la teoria degli Equilibri Punteggiati possa essere considerata una tappa fondamentale di questo processo di avvicinamento. 5 1. Quello che Darwin sapeva a proposito del cambiamento climatico Il rapporto tra organismo e ambiente, di cui il clima costituisce una variabile fondamentale, è sempre stato alla radice dello studio dell’evoluzione. Tutti gli organismi viventi, infatti, sono adatti all’ambiente in cui vivono e presentano caratteristiche peculiari che permettono loro di sopravvivere in certi ambienti. Questo è il punto di partenza di ogni teoria evolutiva. Risulta però più complesso andare a individuare il ruolo assegnato all’ambiente e alle sue trasformazioni all’interno del processo evolutivo. In particolare ho trovato utile distinguere tra quelle caratteristiche dell’ambiente fisico definibili statiche, come ad esempio le differenze tra un habitat e l’altro a seconda della latitudine e della quota, che si riflette in differenze di distribuzione degli organismi, e quelle definibili dinamiche, come le trasformazioni dell’ambiente stesso dovute principalmente a fenomeni geologici, nello specifico le variazioni geografiche e gli effetti del cambiamento climatico. Considero importante, prima di andare a cercare le connessioni tra la teoria degli equilibri punteggiati e le scoperte sul cambiamento climatico, tornare alle origini della teoria dell’evoluzione per analizzare il legame tra questa e la concezione che Darwin aveva del rapporto tra organismo e ambiente. Come ogni altra teoria scientifica, la teoria di Darwin è stata formulata in un preciso momento storico durante il quale vi era una certa concezione dei cambiamenti climatici connessa con le ere glaciali. In questo capitolo ho cercato di ricostruire, facendo riferimento all’opera principale di Darwin, l’Origine delle specie (17), cosa sapesse Darwin a proposito di ere glaciali e cambiamento climatico e come inserisse questi elementi nel suo quadro di modificazione dei viventi. Innanzitutto risulta chiaro come Darwin conoscesse e condividesse le teorie a proposito di passate ere glaciali. Nel capitolo 11, La distribuzione geografica, infatti, approfondisce l’argomento del ruolo del cambiamento climatico sulla distribuzione degli esseri viventi. “In Europa abbiamo prove chiarissime dell’esistenza di un periodo freddo, che ha interessato il paese dalle coste inglesi agli Urali, spingendosi fino a sud del Pirenei.” (17, p. 340) “Io ritengo che il mondo sia passato di recente attraverso uno di questi grandi cicli [climatici]” (17, p. 346). In particolare Darwin fa riferimento alle teorie di James Croll (10) (vedi Cap 3) perché esse implicano che i periodi glaciali, in un emisfero, provochino un riscaldamento di quello opposto. 6 Secondo Darwin questo sarebbe uno scenario illuminante per la distribuzione geografica delle specie. Infatti nella sesta edizione dell’Origine, Darwin riassume in modo succinto ma preciso le teorie di Croll e Lyell sul cambiamento climatico. “Il sig. Croll, in una serie di ammirevoli memorie, ha cercato di dimostrare che lo stato glaciale del clima è il risultato di varie cause fisiche, conseguenti ad un aumento dell’eccentricità dell’orbita terrestre. Tutte queste cause tendono allo stesso risultato; ma la più potente di tutte sembra essere l’influenza dell’eccentricità sulle correnti oceaniche. Secondo il sig. Croll ,i periodi di freddo ricorrono regolarmente ogni 10.000 o 15.000 anni; questi periodi sono talora molto rigidi, a causa di situazioni contingenti, la più importante delle quali, come ha dimostrato sir C. Lyell, è la disposizione relativa della terra e dell’acqua.” (17, pp. 348 nota 16). Darwin ha una concezione del mondo fisico soggetta a continui cambiamenti climatici e geografici. Questa concezione deriva soprattutto dalla sua formazione di geologo, dalle esperienze accumulate durante il suo viaggio intorno al mondo e dalle sue letture delle opere di Charles Lyell (67). All’interno dell’Origine delle Specie il suo interesse verso le caratteristiche dinamiche dell’ambiente fisico è focalizzato soprattutto a proposito della migrazione: “I mutamenti del clima devono aver avuto una forte influenza sulla migrazione: quando il clima era diverso, una data regione, attualmente invalicabile, poteva essere un’ampia via di transito per le migrazioni.” (pp. 330) “Là dove ora si estende il mare, in un’epoca passata, la terra può aver collegato insieme isole e persino continenti, consentendo in tal modo alle specie terrestri di passare da un punto all’altro. Non vi è geologo che metta in dubbio il fatto che, da quando esistono organismi viventi, si sono avute grandi variazioni di livello.” (pp. 330) Darwin si impegna molto ostinatamente a trattare l’argomento della migrazione, dedicandovi due lunghi capitoli, perché la presenza di popolazioni di organismi della stessa specie, o di specie molto simili, viventi in località separate e senza la possibilità di migrare dall’una all’altra, rappresenta una delle possibili critiche alla sua teoria in quanto porterebbe a concludere che le stesse specie sono state create indipendentemente in luoghi distinti. Invece il fatto che l’ambiente fisico possa aver subito dei mutamenti ingenti durante la storia della Terra permette a Darwin di superare questa difficoltà 7 Scrive infatti: “anche noi avremmo potuto essere dello stesso parere se Agassiz ed altri non avessero messo molto bene in rilievo l’influenza dell’era glaciale che, come vedremo subito, ci dà una spiegazione semplice di questi fatti. Disponiamo di prove tratte da una serie di fatti di ordine sia organico che inorganico, le quali ci dimostrano che, in un’epoca geologicamente molto recente, l’Europa Centrale e l’America Settentrionale subirono gli effetti di un clima artico” (p. 336). Come prove geomorfologiche della “incontrovertibile esistenza di una passata era glaciale” Darwin cita i fianchi scavati e le superfici lisciviate delle montagne scozzesi e gallesi, le morene dell’Italia Settentrionale, i massi erratici e i ghiacciai costieri statunitensi. Gli organismi viventi quindi, sia piante che animali, migrerebbero seguendo le fasce climatiche a loro più favorevoli. Le specie artiche si sarebbero diffuse nelle pianure dei continenti durante i periodi più freddi e, con il ritorno del caldo, si sarebbero trovate isolate sulle vette più alte, anche a migliaia di chilometri di distanza. In questo modo Darwin risolve il problema delle caratteristiche nella distribuzione degli organismi, che difficilmente avrebbero potuto essere spiegati in un contesto di ambiente fisico immutabile e statico. Ma il cambiamento climatico avrebbe un qualche tipo di ruolo nel processo di speciazione? Parlando ancora dei gruppi di organismi rimasti isolati a certe altitudini grazie al riscaldamento del clima, Darwin aggiunge: “Esse saranno state esposte a condizioni climatiche alquanto diverse. Per questo i loro rapporti reciproci saranno stati alterati, entro certi limiti, e quindi le specie saranno probabilmente andate incontro a modificazioni.” (p.338) Si fa riferimento, quindi, a diverse condizioni fisiche in grado di modificare prima di tutto i rapporti reciproci tra organismi, che a loro volta produrrebbero modificazioni nei caratteri delle specie. Nel quarto capitolo, intitolato La selezione naturale, uno dei nuclei fondamentali dell’esposizione del suo pensiero, dopo aver definito l’oggetto del capitolo come “conservazione delle variazioni favorevoli ed eliminazione delle variazioni nocive” (p.100), Darwin prende ad esempio teorico, per meglio esporre l’argomento, “il caso di un paese che subisca un mutamento fisico, di clima, per esempio.” Darwin analizza le conseguenze di questo mutamento climatico, secondo la sua concezione. Il mutamento fisico è visto, innanzi tutto, come causa di un mutamento nelle proporzioni numeriche che, nel caso in cui non fosse possibile l’immigrazione di altre forme di vita, provocherebbe delle “lacune nell’economia della natura”. In questo caso ogni lieve modificazione tenderebbe a 8 conservarsi, lasciando più libertà di azione alla selezione naturale. Quindi, in questo caso, il mutamento fisico, è visto come catalizzatore o aiutante della selezione naturale. Ma poche righe più in basso precisa: “Non credo che sia veramente necessario un grande cambiamento di ordine fisico, come un mutamento del clima, né che una non comune situazione di isolamento, che ostacoli l’immigrazione, sia veramente necessaria per produrre nuovi posti disponibili che la selezione naturale possa riempire modificando e migliorando qualche abitante suscettibile alla variazione”, infatti, fa notare Darwin, gli organismi non sono mai perfettamente adattati al loro ambiente, ma hanno sempre uno spazio di miglioramento in cui la selezione può agire. Per Darwin, la competizione è soprattutto biotica, non è indispensabile alcun cambiamento ambientale per far sì che i caratteri delle specie si modifichino. Esiste l’ambiente ed esiste l’organismo: gli organismi competono tra di loro e quelli più adatti all’ambiente sopravvivono e si riproducono. L’ambiente, e i suoi cambiamenti, possono entrare saltuariamente in scena, ma rimangono sullo sfondo. “Se, per esempio, un certo numero di specie, che si trovano in stretta competizione tra loro, migrano in massa in una nuova terra che, da allora in poi, rimane isolata, le modificazioni di queste specie saranno probabilmente scarse perché né la migrazione né l’isolamento possono da soli fare qualcosa. Questi principi servono solo a creare nuovi rapporti reciproci fra gli organismi e, in minor misura, fra gli organismi e le condizioni ambientali circostanti.” (p.327, sottolineature mie). In questo breve passaggio troviamo due concetti fondamentali: Il fatto che una specie isolata vada incontro a scarse modificazioni, perché ha meno occasioni di competizione biotica. L’ulteriore conferma della superiorità della competizione biotica sul rapporto organismoambiente per quanto riguarda la modificazione delle specie. Introduco qui un altro concetto fondamentale per il mio ragionamento che riguarda il gradualismo delle modificazioni. Il gradualismo darwiniano è una caratteristica dell’impostazione più matura della teoria dell’evoluzione. Secondo alcune ipotesi derivate dallo studio dei suoi Taccuini (82) è emerso come Darwin, tra il 1836 ed il 1844, avesse una visione saltazionista del processo evolutivo: “Non [c’è] un cambiamento graduale, se una specie si trasforma invero in un'altra deve essere per saltum” (16). Il suo successivo e radicale gradualismo affonda invece le sue radici, sicuramente almeno in parte, nell’influenza che l’attualismo in campo geologico ha esercitato sul suo pensiero, in contrapposizione al catastrofismo. L’attualismo ha infatti anche un significato di uniformità di 9 ritmo, un ritmo lento e costante in contrasto con le catastrofi delle teorie geologiche rivali della prima metà del IXX secolo (20, 24, 27). Nella biografia di Desmond & Moore (20) si legge: “Per Darwin, che lo guardava attraverso gli occhi di Lyell, il mondo era un’accumulazione di cambiamenti minuti, il tutto in modo naturale, graduale e lento”. La lettura delle opere di Lyell e le esperienze vissute sul Beagle, come il terremoto cileno del 1835 e le sue osservazioni a proposito della cordigliera Andina, che Darwin immagina come il prodotto di ripetuti sollevamenti e inabissamenti della crosta terrestre, disegnano nella mente del giovane naturalista “l’invincibile potenza dinamica della natura, moltiplicata per un tempo quasi inimmaginabile: ecco il paesaggio di sfondo dell’evoluzione, il modello di gradualità uniforme che poi Darwin estenderà al mondo vivente.” (82) Nel capitolo 10 dell’Origine, Successione degli organismi viventi, Darwin affronta l’idea dell’immutabilità delle specie contro la concezione di una loro lenta e graduale modificazione. Le specie si modificano lentamente e gradualmente: “Il processo di modificazione e quindi la comparsa delle forme affini devono essere lenti e graduali. Una specie dà luogo inizialmente a due o tre varietà, che col tempo si trasformano in specie le quali, a loro volta, producono con altrettanta lentezza altre specie, e via di seguito – in un modo che ricorda la suddivisione dei rami del tronco di un grosso albero – finché il gruppo diventa grande.” (p.302) Le varie specie, però, non avrebbero un ritmo di modificazione uniforme, ma esso potrà variare tra una specie e l’altra, “le specie appartenenti a diversi generi o a diverse classi non sono mutate con la stessa velocità né allo stesso modo” (p. 299), a causa del fatto che “la variabilità della singola specie è assolutamente indipendente da quella delle altre”(p. 300). Riassumendo: - Darwin aveva una conoscenza piuttosto avanzata nel campo dei cambiamenti climatici, in particolar modo dal 1872 in poi. - Darwin applica la sua visione di una terra dinamica dal punto di vista geologico a proposito della migrazione degli organismi - Il cambiamento ambientale non ha un ruolo importante nel processo di speciazione. - Il ritmo dell’evoluzione, nella sua formulazione matura, è lento e graduale, ma può variare tra una specie e l’altra. 10 2. La teoria degli Equilibri Punteggiati Il saggio del 1972, Punctuated equilibria an alternative to phyletic gradualism (23), scritto da Stephen Jay Gould (New York, 1941 – New York, 2002) e Niles Eldredge (Brooklyn, 1943), è un lavoro squisitamente teorico, paragonabile alla costruzione di un puzzle, a cui non è stato aggiunto alcun nuovo dato. Non fu pubblicato su una rivista scientifica, ma come capitolo di un libro di Thomas J. M. Schopf, intitolato Models in Paleobiology. Esso può essere definito come un saggio critico che si compone di molti elementi, nessuno dei quali totalmente originale. Originalità e genialità risiedono nell’accostamento dei vari elementi che, collegati tra loro, diedero vita ad un modello alternativo del processo evolutivo. Le citazioni presenti in questo capitolo si riferiscono tutte all’edizione italiana del saggio originale. 2.1. L’impronta diabolica della teoria Le prime pagine del saggio ospitano una riflessione epistemologica, ispirata alle teorie di Thomas Kuhn (63) e Paul Feyerabend (33). Il metodo induttivo non è applicabile, nella realtà del processo conoscitivo. Ogni teoria non emerge da una fredda e paziente ricerca di dati, ma è anzi la stessa teoria, cui in quel momento consciamente o inconsciamente ci riferiamo, ad influenzare la nostra percezione dei fenomeni e la selezione dei dati da raccogliere ed analizzare. “Le aspettative generate da una teoria colorano la nostra percezione ad un tale grado che i nuovi concetti raramente emergono da evidenze raccolte sotto l’influenza di una vecchia visione del mondo. Le nuove visioni devono esercitare la loro influenza prima che i fatti possano essere visti in una differente prospettiva”.(p. 221) Anche se non ce ne rendiamo conto, le nostre osservazioni sono sempre a favore o contro una particolare teoria. Nel caso in cui la teoria in uso sia inadeguata, essa non sarà mai confutata dai dati raccolti alla luce di questa teoria, ma dovrà essere soppiantata da un’altra teoria, nel caso in cui quest’ultima riesca a fornire un’interpretazione più adeguata dei dati. Non ha importanza quale sia l’origine della nuova teoria. La vecchia e inadeguata prospettiva che influenza le osservazioni dei paleontologi a proposito dell’evoluzione, è l’idea di gradualismo filetico. Una nuova teoria, elaborata in un contesto altro rispetto a quello della paleontologia, e più adeguata, secondo gli autori, ad interpretare la storia evolutiva, sarebbe quella che vede come processo prevalente quello della speciazione allopatrica. 11 2.2. Il gradualismo filetico I due autori identificano i principi essenziali del gradualismo filetico (109) in questo modo: Le nuove specie sorgono in seguito alla trasformazione di una popolazione antenata nelle sue discendenti modificate Questa trasformazione è lenta e regolare La trasformazione coinvolge grandi numeri: di solito l’intera popolazione antenata La trasformazione ha luogo in tutto l’ambito di distribuzione geografica della popolazione antenata, o almeno in gran parte di esso. Questa concezione affonda le sue radici nel pensiero Darwiniano. Secondo Darwin, infatti, le specie possono originarsi in due modi: per evoluzione filetica (trasformazione di un’intera popolazione) o per speciazione (in seguito alla divisione di una linea di discendenza). Nei punti in cui discusse la speciazione, però, Darwin continuò a ragionare attraverso i principi della trasformazione, considerando questa visione come un processo lento e graduale che produceva una lenta divergenza tra le forme. Se così fosse la documentazione paleontologica dovrebbe restituirci numerose serie ininterrotte di forme che sfumano gradatamente le une nelle altre, trasformazioni graduali di ogni carattere, e sviluppo lento e impercettibile di nuove strutture. Ma la documentazione fossile sembrava raccontare una storia completamente differente. Darwin spiegò l’incongruenza appellandosi all’imperfezione di tale documentazione e, come lui, la maggior parte degli studiosi successivi. 2.3. Le specie biologiche e gli equilibri punteggiati Il paragrafo centrale del saggio si apre con l’esposizione della difficoltà di conciliazione tra i concetti di specie biologica (70) e gradualismo filetico. Ovvero: qual è la natura della specie paleontologica? I biologi hanno affermato che la specie biologica, come popolazione di individui tra loro effettivamente o potenzialmente interfecondi, isolata riproduttivamente dagli altri gruppi, è un’entità naturale reale. Ma la definizione, dovuta all’ornitologo Ernst Mayr, si regge solo nell’accezione adimensionale: cioè le specie sono divise in qualunque momento temporale, come in un’istantanea, ma con il trascorrere del tempo i confini tra le forme viventi devono diventare indistinti. Come si può dividere una discendenza continua in una serie di segmenti ben definiti? Questo non è un problema reale, ma un dibattito sulle modalità di ordinamento delle informazioni, secondo gli autori, piuttosto sterile. Ciò che interessa davvero sono le implicazioni del concetto di specie biologica riguardo al funzionamento dei processi evolutivi. La teoria della 12 speciazione allopatrica, soprattutto, potrebbe modificare la nostra visione dell’origine delle unità tassonomiche. Segue una esposizione del concetto di speciazione allopatrica (70). “Il concetto fondamentale consiste nel dire che le nuove specie possono sorgere soltanto quando una piccola popolazione locale rimane isolata al margine dell’ambito di distribuzione geografica della sua specie genitrice. Popolazioni isolate di questo genere sono denominate isolati periferici. Un isolato periferico si trasforma in una nuova specie se si sviluppano dei meccanismi di isolamento capaci di impedire la riapertura del flusso genico, nel caso in cui la nuova forma incontri ancora la sua forma genitrice, in qualche momento futuro. Una conseguenza della teoria allopatrica è che le nuove specie fossili non si originano nel luogo in cui vivevano i propri antenati. È estremamente improbabile che si possa ricostruire la graduale divisione di una linea di discendenza seguendo semplicemente le vicende di una determinata specie attraverso i vari stadi di una colonna locale.”(p. 234). La maggior parte della divergenza morfologica si produrrebbe nelle prime fasi del processo di differenziazione, quando la popolazione è piccola e quindi ancora in grado di modificarsi in relazione alle condizioni locali. “Quindi nel record fossile non dobbiamo aspettarci di trovare divergenze graduali tra due specie imparentate tra loro. La maggior parte dei cambiamenti evolutivi morfologici accadono in un breve periodo di tempo relativamente alla durata di vita totale di una specie. Dopo che la specie discendente si è stabilizzata, potranno esserci solo piccoli cambiamenti evolutivi, a meno che le due specie tornino in simpatria per la prima volta. Queste semplici conseguenze della teoria allopatrica possono essere combinate in un pattern atteso del record fossile.” (p. 236). Troviamo poche forme di transizione perché solo in circostanze eccezionali possiamo essere in grado di identificare l’area approssimativa in cui la nuova specie ha avuto origine. Il fattore fondamentale è l’adattamento degli isolati ad una serie eterogenea di microambienti contrapposto ad un modello generale di stasi che persiste con il passare del tempo. Quindi i principi della speciazione allopatrica, secondo Gould ed Eldredge, sono: Le nuove specie sorgono in seguito ad una divisione delle linee di discendenza Le nuove specie si sviluppano velocemente A dare origine alla nuova specie è una piccola sottopopolazione della forma antenata La nuova specie si origina in una piccolissima parte dell’areale della specie ancestrale; in un’area isolata alla periferia dell’areale. Di conseguenza in ogni sezione locale che comprenda la specie ancestrale, il record fossile sull’origine della specie discendente consisterebbe in una discontinuità morfologica ben definita tra 13 le due forme. Perciò molte discontinuità nel record fossile sono reali; esprimono il modo in cui l’evoluzione agisce, e non i frammenti di un record fossile imperfetto. La speciazione allopatrica, quindi, è molto più adatta del gradualismo filetico, ad interpretare i dati empirici che sono i resti fossili. Questo perché una concezione graduale del cambiamento evolutivo non è in grado di comprendere come la speciazione sia innanzi tutto un processo ecologico e geografico. La concezione del gradualismo filetico “non emerge dai laboratori in cui si studia Drosophila, ma rappresenta un’ipotetica estrapolazione dei meccanismi evolutivi osservati dai genetisti” (p. 238). Inoltre sono pochissimi gli esempi paleontologici “classici” che potrebbero avvalorare una visione gradualista dell’evoluzione. La situazione, nella maggior parte dei casi in cui si postula il gradualismo, è quella di linee tratteggiate che connettono i campioni noti. La maggior parte delle analisi che si sforzano di illustrare il gradualismo filetico ricorrendo direttamente alla documentazione fossile, sono interpretazioni basate su un’idea preconcetta. Infatti i tre “cavalli di battaglia” della letteratura inglese (l’evoluzione del cavallo, il caso dell’echinoide del Cretaceo Micrastrer e l’ostrica del Giurassico Gryphacea) sono anch’essi meglio interpretabili ponendosi dal punto di vista della speciazione allopatrica. A questo punto Gould ed Eldredge presentano rispettivamente due casi di studio specifici. Gould (39, 40) ha analizzato l’evoluzione di Poecilozonites bermudensis zonatus Verril, un gasteropode polmonato, durante gli ultimi 300.000 anni del Pleoistocene delle Bermuda. Gli esemplari furono raccolti da una sequenza alternata di sedimenti eolici e terra rossa. Come si osserva nella fig.1, i nomi e le descrizioni delle formazioni, sono correlate con i periodi glaciali ed interglaciali. Distinti modelli di strisce colorate differenziano una popolazione orientale ed una occidentale di P. bermudensis zonatus. Il confine tra i due gruppi è netto. Gould (40) ha discusso le oscillazioni parallele di parecchi tratti morfologici in entrambi i gruppi, che consistono in modificazioni adattative quali risposte alle Fig. 1 (Tabella da Edredge, Gould, 1972) 14 variazioni climatiche controllate dalle glaciazioni. Entrambi i gruppi mostrano una stabilità per altri tratti che li distinguono dai loro parenti più stretti. Non esiste nessuna testimonianza che dimostri una divergenza graduale fra i due gruppi di P. B. zonatus orientale e occidentale. Gould ricostruisce poi un albero filogenetico che ipotizza la formazione di quattro popolazioni pedomorfiche a partire da P. b. zonatus, fornendo anche una spiegazione adattativa di questo processo. Ciò che più importa sottolineare di questo lavoro è: - L’attenzione prestata ai dati geografici - Una presenza stratigrafica discontinua - L’attenzione prestata alla morfologia In breve la sola attenzione prestata ai dati morfologici fornirebbe varie possibilità di alberi filogenetici graduali, ma un’interpretazione più completa considera complessivamente dati morfologici, stratigrafici e geografici e da questa deriva una visione punteggiata della filogenesi. Eldredge invece (24) presenta la storia filogenetica del trilobite Phacops rana Green del Devoniano medio dell’America Settentrionale che fornisce un altro esempio dell’effetto dei processi allopatrici qui ipotizzato. Fra i campioni di P. rana la maggiore quantità di variazione è presentata dalle caratteristiche della morfologia oculare. Le lenti sono disposte sulla superficie visiva dell’occhio secondo colonne verticali dorso-ventrali: il numero di queste colonne è la caratteristica più importante di variazione considerata da Eldredge. Il numero primitivo delle colonne dorso-ventrali, per tutti i tipi di Phacops rana dell’America settentrionale, è 18. Sembra che la forma a 17 colonne, cioè Phacops rana rana, sia sorta a partire da una popolazione a 18 colonne situata nella periferia nord-orientale dell’ambito cazenoviano di distribuzione geografica di Phacops rana, e si sia poi diffusa, sostituendo le popolazioni a 18 colonne che con ogni probabilità si estinsero nel corso di un prosciugamento generale dei mari dell’interno del continente. Quindi la riduzione delle colonne dorso-ventrali ebbe luogo in maniera allopatrica, alla periferia dell’ambito di distribuzione noto di Phacops rana e si diffuse in seguito ad un concomitante ed ingente cambiamento ambientale. Anche qui l’attenzione ai dettagli della geografia, consente un’interpretazione più letterale dei resti fossili e, in entrambi i casi, si tratta di eventi evolutivi rapidi che punteggiano una storia di stasi. Gould ed Eldredge stimano che le testimonianze fossili della maggior parte dei Metazoi provino le conseguenze di questa teoria in maniera più netta di quanto non siano in grado di provare quelle che derivano dal gradualismo filetico. 15 A questo punto i due autori estendono questa immagine per vedere quale sia lo stato della macroevoluzione alla luce della loro proposta. Per il gradualismo filetico la storia della vita apparirebbe come un dispiegamento lento e solenne in cui la maggior parte dei cambiamenti ha luogo in maniera lenta ed uniforme, così come la divisione delle linee di discendenza. L’estrapolazione dell’immagine alternativa dei due autori, invece, implica che “la storia di una linea di discendenza comprenda lunghi periodi di stabilità morfologica punteggiati qua e là da rapidi eventi di speciazione in sottopopolazioni isolate” (p. 254). Questa immagine prende il nome di teoria degli Equilibri Punteggiati. “Per una specie o più in generale per una comunità, la norma è la stabilità. La speciazione è un evento raro e difficile che punteggia un sistema caratterizzato da un equilibrio omeostatico.” (p. 260, sottolineature mie). 16 3. Breve storia delle conoscenze paleoclimatiche fino all’inizio degli anni Settanta All’interno della teoria degli Equilibri Punteggiati il rapporto che lega gli organismi con il loro ambiente risulta fondamentale. Per i due autori la speciazione è “innanzitutto un processo ecologico e geografico” (23) e la teoria da loro proposta rende ragione di questo rapporto in modo più completo di quanto avesse fatto, fino ad allora, la teoria del gradualismo filetico. Per il percorso che andrò a tracciare dovrò porre l’attenzione sulle caratteristiche dinamiche di un ambiente in continua ed irregolare variazione e disegnare i collegamenti tra il riconoscimento di tali caratteristiche ed i principi del processo evolutivo indicati dai vari scienziati nel corso del tempo. Perciò ho trovato utile ricostruire le principali tappe della paleoclimatologia, dal 1840, anno di pubblicazione dello Studio sui ghiacciai di Luis Agassiz (2) fino all’inizio degli anni Settanta, quando Eldredge e Gould diedero alle stampe il loro saggio sugli equilibri punteggiati. Per far questo ho cercato di ricostruire la sequenza delle scoperte facendo riferimento alle pubblicazioni più importanti ed ai rapporti di ricerca, con particolare attenzione all’anno di pubblicazione. Nella storia delle ricerche sull’instabilità climatica del Quaternario si individuano tre importanti filoni di ricerca: L’analisi dei proxy data (dati indiretti) geomorfologici e pedologici La ricerca delle cause fisiche e astronomiche dell’instabilità climatica La raccolta dati attraverso carotaggi di sedimenti oceanici e di calotta glaciale I primi due filoni di ricerca si sviluppano quasi contemporaneamente, ma il primato appartiene alla ricerca geomorfologica, infatti la prima formalizzazione della teoria glaciale è del 1840 e si fa corrispondere con la pubblicazione di Luis Agassiz Studio sui ghiacciai (2). In quest’opera l’autore si dedica allo studio della dinamica e geomorfologia glaciale e traccia uno scenario suggestivo: egli immagina la Svizzera, luogo di raccolta dei suoi dati, in un passato relativamente recente, ricoperta da uno spesso e continuo strato di ghiaccio tale da occupare l’intera vallata svizzera nordoccidentale, fino ai pendii meridionali del Jura. C’era dunque stato un tempo, relativamente vicino sulla scala dei tempi geologici, in cui la temperatura media globale era stata minore di quella attuale, tanto da permettere la formazione di ghiacciai così estesi anche a basse latitudini. Agassiz non fu il primo studioso ad ipotizzare la presenza di una passata era glaciale, ma fu il primo a formalizzarne l’ipotesi. Già l’ingegnere svizzero Ignaz Venetz, sette anni prima, aveva pubblicato Mémoire sur les Variations de la température dans les Alpes de la Suisse (99), dove 17 ipotizzava una copertura glaciale totale dell’Europa, da qualche parte nel tempo geologico. Inoltre in numerose pubblicazioni precedenti al 1840, tra cui Principles of Geology di Charles Lyell, si fa menzione di tracce geologiche o fossilifere di improvvisi cambiamenti climatici (67). Fig. 2 (Testo originale: Lyell, 1830) Era dunque chiaro che le ere glaciali avevano modificato l’ambiente, soprattutto dal punto di vista morfologico, e che questo fenomeno si era verificato più volte. Nonostante questo non si conosceva il numero né l’entità delle glaciazioni che si erano susseguite. Il primo schema di suddivisione delle fasi glaciali fu proposto da Albrecht Penck e Eduard Bruckner, studiosi tedeschi, che, studiando le morene delle valli alpine, collegate ai terrazzi fluvioglaciali, pubblicarono “Le Alpi nell’antica età glaciale” nel 1909 (80). Questo libro consisteva in uno studio geomorfologico sulle evidenze delle glaciazioni. Individuarono una teoria glaciale quadripartita: quattro glaciazioni denominate in base ad altrettanti tributari del Danubio, dove avevano individuato le rispettive cerchie moreniche: GUNZ MINDEL RISS WURM Separate da altrettanti interglaciali Gunz- Mindel Mindel-Riss Riss-Wurm Attuale Per quanto riguarda la datazione delle varie formazioni Penck e Bruckner usavano metodi relativi. Ad esempio attraverso lo studio dei paleosuoli (suolo la cui formazione possa essere riferita ad un ciclo pedogenetico nel passato, sia esso attualmente concluso o meno) (9). Più spesso è lo strato di suolo, che loro attribuiscono esclusivamente all’interglaciale, più la pedogenesi ha avuto tempo per agire. A questa categoria di suoli (Vetosuoli) appartiene il Ferretto, argilloso e 18 ricco di ferro, che presenta notevoli spessori nell’arco Alpino. Penck e Bruckner attribuivano la sua origine al Mindel-Riss, interglaciale particolarmente lungo, e usavano questo riferimento per la datazione delle altre formazioni. Ma un altro campo di ricerca si andava sviluppando parallelamente a quello geomorfologico: l’astronomia applicata alle variazioni climatiche. Parallelamente allo studio degli effetti dei cambiamenti climatici, infatti, si voleva indagare anche le cause di questo fenomeno. Nel 1842 (quindi solo due anni dopo la pubblicazione di Agassiz) Joseph Adhemar (1) fu il primo a collegare il verificarsi dell’era glaciale con effetti astronomici che comportano variazioni dell’irradiazione solare e, precisamente quei cambiamenti periodici del moto della Terra intorno al Sole previsti dalla teoria gravitazionale Newtoniana. Ma il vero teorico dell’origine astronomica dell’era glaciale fu lo scozzese James Croll. Egli è stato spesso considerato un “precursore di Milankovich” dalle idee inesatte, una sorta di curiosità storica. Al contrario le sue intuizioni sul legame tra fattori astronomici e geologici e su quello tra cosmologia e clima, influenzarono profondamente la scienza dell’epoca, in particolare Charles Lyell, che, seppure in polemica con Croll sulle cause geografiche ed astronomiche del cambiamento climatico, tenne conto delle teorie di quest’ultimo a partire dalla decima edizione del suo Principles of Geology. Darwin, che conosceva bene l’opera di Lyell, nella sesta edizione dell’Origine delle specie (17), dedica un paragrafo alla teoria di Croll. Come fa notare il Saturday Review, “Ogni studioso onesto ammetterà come gli scritti di Croll abbiano avuto una radicale influenza sulla discussione cosmologica. In un certo modo la sua influenza può essere paragonata a quella che ha avuto Darwin per la biologia evoluzionistica.” (86) Nella visione di Croll la storia della terra era stata caratterizzata da molteplici ere glaciali e in funzione del nostro discorso sono importanti due lettere, degli anni ’80 del IXX secolo, che Croll scrisse ad Alfred Russel Wallace e a Charles Darwin. A Wallace scrisse: “It is, I think, now beyond question that the Glacial epoch consisted of a succession of cold and warm periods, which must be accounted for in any theory of geological climate” (11). E a Darwin: “It is strange that many geologists are so reluctant to admit Interglacial periods, which so much upset the [received] theories of climate.” (11) 19 Nel 1875 pubblicò un libro dal titolo: “Clima e tempo nelle loro relazioni geologiche. Una teoria del cambiamento climatico della terra attraverso i secoli” (10). Croll affermava che: “Le vere cause del cambiamento climatico devono essere cercate nella relazione della nostra terra con il sole” (quindi nei suoi parametri orbitali) I fenomeni geologici e astronomici sono fisicamente correlati da una catena causale Il cambiamento dei parametri orbitali terrestri (precessione degli equinozi, eccentricità dell’orbita ed obliquità dell’asse terrestre), combinati con gli effetti di feedback, sarebbero stati “sufficienti a causare ogni cambiamento climatico estremo documentato dalle evidenze geologiche” (10). Croll calcola come l’eccentricità cambi con un periodo di 100.000 anni, e l’angolo di apertura del cono di precessione con 40.000 anni. Questi effetti combinati darebbero origine a irradiazioni molto diverse nei due emisferi a intervalli intorno ai 22.000 anni. La teoria di Croll venne abbandonata in quanto i suoi calcoli non sembravano accordarsi con le evidenze di un’era glaciale conclusasi 10.000 anni fa e perché le variazioni dell’irradiazione solare causate dalla variazione dei parametri orbitali non sembravano sufficienti ad innescare un cambiamento di temperatura tale da provocare un’era glaciale. Secondo Milankovich l’inadeguatezza della teoria di Croll consisteva nel poco peso dato alla variazione dell’obliquità dell’asse nei calcoli dell’irradiazione (59). All’inizio del XX secolo era quindi stato assodato, grazie ad evidenze geologiche, che la storia della terra comprendesse una storia di mutamento climatico consistente, la cui origine poteva essere astronomica oppure legata alla dinamica della crosta terrestre. Compito degli studiosi del Novecento fu quello di individuare metodi indiretti per ricavare informazioni sulla temperatura e sulla composizione chimica dell’atmosfera, degli oceani e della crosta terreste. Nel 1920 il matematico serbo Milutin Milankovich (1879-1958) riprese la teoria di Croll, ma con alcune fondamentali modifiche: Propose di attribuire le ere glaciali a periodi con estati relativamente fredde, anziché, come aveva fatto Croll, ad inverni molto freddi. Infatti se la stagione estiva è breve il ghiaccio formato in inverno non si scioglie del tutto e il bilancio di massa dei ghiacciai risulta positivo. L’aumento della copertura di ghiaccio avrebbe causato una maggior riflessione della radiazione solare, con un conseguente ulteriore raffreddamento della superficie 20 Incluse nei calcoli anche la variazione dell’obliquità dell’asse, oltre alla precessione degli equinozi e all’eccentricità dell’orbita (71). I suoi dati furono incrociati con quelli del geologo tedesco Wladimir Koppen (62), sulla storia dei ghiacciai alpini, ottenendo un accordo notevole tra i periodi glaciali e il verificarsi delle estati fredde. Milankovitch calcolò il Calendario equivalente di latitudine a 65°N per gli ultimi 600.000 anni (fig. 3). La linea è un’isoterma che indica la temperatura a 65°N da 600.000 anni fa fino al 1800. La curva indica la temperatura che in un determinato periodo c’era a 65°N indicando la temperatura attuale ad una certa latitudine. Ad esempio se la curva scende a 70° gradi vuol dire che in quel periodo la temperatura a 65°N era come quella che noi oggi abbiamo a 70°, quindi più fredda. Fig. 3 (Milankovitch, 1920) La temperatura considerata è la media del semestre estivo. I calcoli di Milankovitch non si accordavano, però, con la teoria della glaciazione quadripartita sostenuta da Penck e Bruchner. Come si vede dal grafico, secondo Milankovich si possono contare almeno undici picchi glaciali negli ultimi 600.000 anni e non quattro. La disputa pareva inconciliabile, serviva un altro tipo di dato indiretto, che indicasse con dei parametri precisi ciò che era effettivamente successo sulla superficie terrestre e non fosse stato falsato o reso incompleto da perturbazioni ambientali. Il metodo di raccolta dati che rivoluzionò la paleoclimatologia del Novecento fu quello dell’analisi isotopica delle carote estratte dai fondali marini e dalle calotte glaciali. La misura della concentrazione degli isotopi dell’ossigeno, applicata al ghiaccio ricavato dai carotaggi, come indicatore delle passate oscillazioni climatiche era stato proposto da Willi 21 Dansgaard nel 1954 (12). Nello stesso anno Cesare Emiliani, fondatore della paleoceanografia, aveva trovato una correlazione tra la quantità relativa di isotopi dell’ossigeno nel carbonato di calcio dei gusci dei foraminiferi e la temperatura dell’acqua marina superficiale al momento della loro morte e notò la possibilità di utilizzarlo come metodo di determinazione per gli studi paleoclimatologici basati sul materiale ricavato dai sedimenti di mare profondo (studiati fin dal secolo precedente per fini pratici di navigazione) (30). Entrambi presero spunto da un libro, pubblicato solo due anni prima da Harold Urey intitolato The Planets: Their Origin and Development, (96) uno dei primi lavori pionieristici riguardanti la composizione del sistema solare che conteneva alcuni spunti sull’uso degli isotopi dell’ossigeno e del deuterio (da lui isolato nel 1934) come sistemi di ricostruzione paleoclimatica. I primi carotaggi moderni furono le perforazioni oceaniche attuate dalla nave Globar Challenger all’interno del Deep See Drilling Project a partire dal 1968 che, però, si concentrarono sullo studio della stratigrafia e litologia dei sedimenti oceanici profondi in parecchi siti dell’Oceano Pacifico, come si legge nel primo rapporto del DSDP (117): “Objectives: They were to study the stratigraphy and lithology of deeper sediments of Sigsbee Abyssal Plain near the Sigsbee Scarp. This hole was drilled mainly to obtain operational practice in deep drilling and coring.” Non si fa cenno a obiettivi di ricostruzione paleoclimatica. Il primo importante studio paleoclimatico su una carota oceanica sarà quello attuato nel 1973 da Nicholas John Shackleton sulla carota V28-238, che stabilì su questi dati la Marine Isotopic Stages (scala di suddivisione temporale tra glaciali ed interglaciali tutt’ora in uso, che andò a soppiantare l’ormai superata nomenclatura quadripartita di Penck e Bruchner) (87) (fig.4). Fig. 4 (Shackleton, 1973) 22 Per quanto riguarda i carotaggi delle calotte glaciali, esse furono attuate in Groenlandia e sul continente Antartico. Le ricostruzioni paleoclimatiche non erano, inizialmente, il primo obiettivo neanche di queste perforazioni. Ad esempio nel rapporto sulla perforazione di Byrd Station, il primo carotaggio sul continente antartico, dell’estate boreale tra il 1967-68, si può leggere chiaramente l’obiettivo della perforazione (95): “…to obtain a hole completely penetrating the ice sheet for measuring the temperature profile, the flow within the sheet and the ice flow relative to the underlying bed and to provide a continuous, undisturbed core for investigating the physical, structural and geochemical properties of the ice.” Si andavano ad indagare quindi soprattutto le proprietà fisiche e strutturali del ghiaccio. La prima perforazione glaciale i cui dati vennero utilizzati per una ricostruzione paleoclimatica è quella Groenlandese di Camp Century. Il carotaggio venne attuato nell’estate boreale del 1966, quando una trivella alta 26 m e pesante 1100 kg, espressione della potenza tecnologica degli Stati Uniti, iniziò una perforazione al margine del continente Groenlandese, appunto nella stazione americana di Camp Century (50). Il progetto, diretto dalla CRREL (Cold Regions Research Engineering Laboratories) aveva come obiettivo l’estrazione di una carota di ghiaccio profonda 1390 metri che rese possibile, tra le altre analisi, ricostruire un profilo di temperatura fino a circa 110.000 anni fa, quindi per il Pleistocene superiore e tutto l’Olocene. Nell’ottobre del 1969, su Science, venivano pubblicati i primi risultati dell’analisi geochimica della carota groenlandese (13). L’analisi di questa carota di ghiaccio era stata infatti affidata al geochimico danese Willi Dansgaard, lo stesso che, già dagli anni Cinquanta, lavorava al metodo basato sul rapporto tra gli isotopi dell’ossigeno, 18 O e 16 O. Dai laboratori dell’università di Copenaghen uscivano, quindi, 100.000 anni di cambiamenti climatici, e i risultati si accordavano con buona precisione a quelli ottenuti grazie ad altre fonti, come le serie polliniche o i campioni di sedimento di mare profondo. Usando questo metodo Dansgaard estrae dalla carota di Camp Century informazioni preziosissime sull’andamento del clima, in particolare per quanto riguarda gli ultimi 15.000 anni (tutto l’Olocene e il Tardiglaciale). “La concentrazione di 18 O nelle precipitazioni, soprattutto alle alte latitudini, è determinata soprattutto dalla temperatura di formazione. L’abbassamento della temperatura di formazione provoca un abbassamento del contenuto di 18O nella neve e nella pioggia. Quindi un alto rapporto O 18 indica un clima più caldo.” 23 Dansgaard inizialmente si concentra sugli ultimi 15.000 anni. È chiarissimo il passaggio da Tardiglaciale a Olocene di 10.000 anni fa. Vi è un contrasto molto forte tra le oscillazioni che avvengono nell’Olocene e quelle Pleistoceniche: le prime sono numerose ma di limitata ampiezza (da -28 per mille a -30 per mille) mentre le seconde hanno un’ampiezza molto più estesa (da -44 per mille a -34 circa). Fig. 5 (Dansgaard, 1969) Dansgaard analizza in dettaglio la curva, sottolineando i periodi di minime e massime temperature che erano già state messe in evidenza da altre fonti, al fine di dimostrare l’affidabilità del metodo. Per quanto riguarda il Tardiglaciale riconosce i picchi di Alleroed e Boelling. Successivamente sposta la sua attenzione sulla carota intera e traccia un grafico di temperatura che arriva fino a 110.000 anni fa. Individua numerosi periodi caldi distribuiti tra i 15.000 anni fa e i 73.000, intervallati da periodi decisamente glaciali. Da 73.000 anni fa fino al limite della carota la temperatura si stabilisce a livelli Olocenici: ecco individuato l’interglaciale Eemiano. Questo grafico metteva in evidenza per la prima volta le brusche oscillazioni che il clima ha subito nell’ultima era glaciale e nel successivo interglaciale (l’Olocene) con una precisione nella datazione e una risoluzione di particolari che non era mai stata raggiunta. Era solo l’inizio di un campo di indagine fertile e affascinante che porterà Fig. 6 (Dansgaard, 1969) gli scienziati a ricostruire, con questo metodo, il clima fino a circa un 24 milione di anni fa. Per dare una visione d’insieme ho costruito un grafico con il numero di pubblicazioni, per ogni anno, trovate sul motore di ricerca delle riviste Science (114) e Nature (115) con parole chiave “Climatic Oscillation Quaternary”. Ho evidenziato, con le rispettive frecce I due articoli di Dansgaard ed Emiliani che proposero per la prima volta l’utilizzo del metodo basato sugli isotopi 16O-18O (12, 30). L’articolo di Dansgaard riguardante le analisi di Camp Century del 1969 (13) Si può notare come, dalla metà degli anni ’50, il numero di pubblicazioni su questo tema aumenti progressivamente. Ma mi fermo qui: all’inizio degli anni Settanta. 25 4. Riferimenti espliciti al cambiamento climatico nel saggio originale sugli Equilibri Punteggiati All’interno dell’articolo sugli equilibri punteggiati (23) si fa riferimento esplicitamente al cambiamento climatico nell’esposizione di un precedente studio di Gould su Poecilozonites bermudensis zonatus, un gasteropode polmonato. Questo studio fu pubblicato in due articoli (39, 40), nel 1969 sul Bulletin of the Museum of Comparative Zoology in forma estesa e su Science, in forma più breve, nel 1970 in un articolo dal titolo Coincidence of Climatic and Faunal Fluctuations in Pleistocene Bermuda. Questo è uno studio fondamentale per verificare la relazione tra la teoria degli equilibri punteggiati e il cambiamento climatico, infatti Gould scrive: “La relazione tra l’organismo e l’ambiente fa parte della terra di mezzo tra due discipline. Gli evoluzionisti indagano l’ambiente per quanto riguarda le forze selettive che portano all’adattamento, mentre i paleoclimatologi, che mancano di dati diretti, sperano di ricostruire i cambiamenti climatici attraverso le sue tracce organiche. […] Le glaciazioni del Pleistocene, in ogni caso, rappresentano un esperimento naturale per testare l’ipotesi di una precisa influenza del clima sulle forme e la diversità organica.” (40, trad mia) Per Gould quindi, le glaciazioni del Pleistocene rappresentano un esperimento ideale per verificare l’influenza del clima sull’evoluzione, in quanto sono costituite da cicli ripetuti, che permettono di verificare l’ipotesi grazie alla ripetizione del fenomeno. “Perché l’esperimento abbia successo dovrà verificarsi una corrispondenza di cicli climatici e di variazione faunistica per un certo numero di fluttuazioni ripetute.”(40) Gould cita alcuni studi di questo tipo che avrebbero già dato esito positivo tra cui il fenomeno della taglia dei mammiferi (64, 65), la direzione di avvolgimento nei foraminiferi (31) e un suo stesso studio, riguardante Poecilozonites sempre le delle Bermuda (39). Le chiocciole di terra in questione si ritrovano in entrambe le litologie che Fig. 7 (Gould, 1970) 26 caratterizzano i depositi pleistocenici delle Bermuda: suolo alterato e carbonato eolico, che riflettono i cicli interglaciale-glaciale. Gould si è concentrato sugli ultimi due cicli glaciali e, attraverso numerosi campionamenti, ha calcolato l’abbondanza percentuale di tutte le specie di questi gasteropodi in tutte le località. Nel grafico (fig. 7) si osservano alcuni dei fenomeni che hanno mostrato una correlazione significativa con il cambiamento climatico. A) Abbondanza percentuale di Gastrocopta rupicola B) Abbondanza percentuale di Thysanophora hypolepta C) Taglia degli adulti di Charichium bermudense D) La larghezza dell’ombelico in Thysanophora hypolepta E) Lo spessore del callo parietale di P. bermudensis zonatus delle Bermuda occidentali F) Spessore del callo parietale di P. bermudensis zonatus delle Bermuda orientali “Come il clima del Pleistocene alle Bermuda ha oscillato durante gli ultimi due cicli glaciali, si sono verificate delle corrispondenti variazioni nella forma e nella varietà delle chiocciole terrestri come eventi indipendenti”, queste variazioni sono state influenzate soprattutto dalla disponibilità di carbonato di calcio per la costruzione delle conchiglie. Quindi, solo due anni prima della pubblicazione della teoria degli equilibri punteggiati, Gould era interessato all’influenza che le oscillazioni climatiche pleistoceniche potevano avere sulla modificazione dei caratteri nelle specie. Questo avvalora la mia ipotesi, secondo la quale le scoperte sui cambiamenti climatici avrebbero avuto un ruolo nella formulazione della teoria. 27 5. Le colonne portanti della teoria Oltre ai riferimenti espliciti a proposito delle oscillazioni climatiche del Quaternario all’interno del saggio sugli equilibri punteggiati, ho considerato significativo andare a scomporre la teoria in questione per individuarne le colonne portanti, ovvero le teorie preesistenti su cui si basa la sua struttura logica, e trovare eventuali legami tra queste ultime e le scoperte sui cambiamenti climatici. Questo al fine di rendere più solido il collegamento tra la teoria degli equilibri punteggiati e le scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario. La teoria degli equilibri punteggiati si basa su due concetti portanti, che ne reggono la struttura: La teoria della speciazione allopatrica (68, 70) La discontinuità nel ritmo del processo evolutivo (89) Queste due teorie sono state pubblicate la prima volta negli anni Quaranta all’interno del contesto scientifico-culturale della Sintesi Moderna. 5.1. La teoria della speciazione allopatrica Eldredge e Gould scelgono di contrapporre la teoria della speciazione allopatrica a quella del gradualismo filetico. Senza la struttura logica di questo modello di speciazione la teoria degli Equilibri Punteggiati non avrebbe potuto essere formulata. Ma per comprendere il contesto in cui la teoria della speciazione allopatrica venne alla luce devo prima tracciare brevemente la storia della Sintesi Moderna e poi procedere analizzando il rapporto tra speciazione allopatrica e cambiamento ambientale. 5.1.1. Da Mendel alla Sintesi Moderna La prima parte del XX secolo fu un periodo esplosivo per la biologia evoluzionistica. La riscoperta del lavoro di Mendel, proprio nell’anno 1900, inaugurò un secolo di scoperte formidabili sull’ereditarietà. Risultò subito difficile, però, ai biologi e naturalisti dell’epoca, conciliare le scoperte in campo genetico con il principio darwiniano di selezione naturale. I primi genetisti mendeliani, come Hugo de Vries (104) e William Bateson (4), arrivarono a stravolgere l’idea di selezione naturale, abbracciando, invece, una concezione saltazionista dell’evoluzione secondo cui una nuova specie si originerebbe grazie ad una importante mutazione genetica che, in un sol balzo, porterebbe alla nascita di una nuova specie. Questa concezione saltazionista dominò la biologia evoluzionistica fino al 1915 e provocò una spaccatura tra la tradizione dei naturalisti darwiniani, i biometristi, e la nascente genetica, spostata su posizioni mutazioniste. 28 Dal 1910, però, dagli esperimenti di un gruppo di genetisti guidati da T. H. Morgan, della Columbia University emergeva come la maggior parte delle mutazioni fosse abbastanza piccola da permettere un cambiamento graduale nelle popolazioni. Morgan stesso rimase, però, fermo su posizioni mutazioniste. Se le popolazioni presentavano autonomamente e frequentemente la comparsa di caratteri diversi da quelli dei propri antenati, non poteva bastare questo a modificare le specie? Tra il 1915 e il 1934 R. A. Fisher (34), Sewall Wright (113) e J. B. S. Haldane (48) fondarono la genetica delle popolazioni, dimostrando come i geni che presentavano anche solo un piccolo vantaggio selettivo potevano entrare a far parte del pool genetico delle popolazioni. Spiegavano così, in termini di una nuova scienza, il concetto di adattamento. L’evoluzione era quindi definita come un cambiamento delle frequenze geniche in una popolazione, un cambiamento portato avanti attraverso la graduale selezione naturale di piccole mutazioni casuali. Questi lavori, però, ebbero un impatto relativamente limitato finchè non vennero elaborati da Dobzhansky, che rese comprensibili i modelli matematici anche agli altri biologi, rendendo chiari i concetti di specie e di speciazione che derivavano dalla genetica. Fisher, Wright e Haldane erano più interessati a definire come una popolazione si adatta al cambiamento ambientale, quindi alla dimensione verticale, temporale dell’evoluzione, mentre i naturalisti erano più interessati alla dimensione orizzontale, cioè a come nuove specie emergono da quelle parentali. La sintesi Fisheriana aveva quindi conciliato la concezione darwiniana e quella genetica a proposito dell’adattamento. Ma l’evoluzione ha a che fare con due processi in una certa misura distinti: 1- l’adattamento di una data popolazione attraverso il tempo (anagenesi) 2- l’origine e la moltiplicazione delle specie (cladogenesi). I naturalisti europei, già dai primi anni trenta, attraverso il loro lavoro di tassonomia e di ricostruzione della storia naturale, avevano elaborato delle teorie per spiegare la biodiversità esistente, che contenevano già i concetti di isolamento geografico e barriera riproduttiva. Ma risultava impossibile avere una piena comprensione del processo di speciazione senza prestare attenzione alle novità proposte dalla genetica, che nel frattempo aveva superato i modelli saltazionisti della prima ora, ma era totalmente all’oscuro delle teorie sulla speciazione elaborate dai naturalisti europei. Quindi, a dispetto del grande sviluppo sia della genetica che della tassonomia, aleggiava tra le due discipline una profonda atmosfera di incomprensione. 29 La conciliazione di questi due mondi rappresentava la sfida affrontata da una seconda sintesi: la cosiddetta Sintesi Moderna. “Sintesi” è, in realtà, un’espressione piuttosto ingannevole. Scrive Mayr nel 1999 (68): “At the time, in fact, we had no idea that we were creating a synthesis!” Si può parlare più propriamente di un periodo, tra il 1937 e il 1950, particolarmente fecondo per la biologia evoluzionistica, che riuscì in qualche modo a conciliarne le due anime. Le più importanti pubblicazioni di quel periodo, detto della Sintesi Moderna, furono. Genetics and the origin of species (Dobzhansky, 1937) Systematics and the origin of species (Ernst Mayr, 1942) Evolution: the modern synthesis (Huxley, 1942) The tempo and the mode in evolution (George Gaylord Simpson, 1944) Variation and evolution in plants (G. L. Stebbins, 1950) La prima opera a cui voglio far riferimento per ricostruire il ruolo dell’ambiente ed in particolare dei cambiamenti climatici all’interno dei classici della Sintesi Moderna è Evolution: The Modern Synthesis, di Julian Huxley (57). Fu questa opera a introdurre il termine “Sintesi Moderna”, infatti questa raccoglie la maggior parte delle idee sui processi evolutivi della prima metà del secolo. Risulta evidente la notevole attenzione riservata all’ambiente. Dall’indice dell’opera risulta chiaro come sia dato lo stesso peso sia agli aspetti genetici che a quelli ecologici del processo evolutivo, entrambi sotto l’egida del concetto di selezione naturale, difeso strenuamente da Huxley. Secondo le sua sintesi, un carattere è sempre un prodotto congiunto di una particolare composizione genetica e di una particolare serie di circostanze ambientali. Parlando di divergenza ecologica, Huxley sottolinea come lo studio della diversità sistematica sia basato soprattutto sulla divergenza ecologica adattativa. Descrive due tipi di isolamento: geografico ed ecologico; e all’interno della seconda categoria distingue anche quello ecoclimatico. La diversità delle condizioni climatiche è, infatti, un importante elemento di divergenza che, associato a barriere geografiche, può accelerare il processo di divergenza tra due sottospecie, che potranno così raggiungere il rango di “buone specie”. Huxley considera anche il cambiamento climatico nel tempo. Egli usa l’espressione “geographical changes” nel senso ampio del termine, intendendo sia trasformazioni topografiche che climatiche. “Tanto quanto un cambiamento geografico potrebbe isolare dei gruppi e quindi permettere loro di divergere, così, dopo un certo grado di divergenza, altri cambiamenti geografici potrebbero 30 permettere ai gruppi differenziati di tornare in contatto. Questo fenomeno sembra aver avuto una larga influenza sulle forme di vita esistenti, come potremmo aspettarci dal rapido cambiamento climatico e del livello del mare che si sono verificati dall’inizio del Pleistocene, ed ancora di più quelli che hanno preso piede dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 20,000 anni fa.” (p 243). Seguono numerosi esempi dopo di che precisa: “La spiegazione di tutti questi casi appare chiara. Nell’ultima era glaciale i ghiacciai alpini isolarono molte specie in gruppi occidentali o meridionali e orientali o nord-orientali. Il tipo esatto di separazione potrebbe essere differente per ogni specie. Questo permette la divergenza eco-geografica attraverso l’adattamento ad un clima mite come severo, oceanico oppure continentale. La divergenza procede così tanto che quando il ghiaccio si ritira e le due forme sono nuovamente in grado di espandere il proprio areale e di incontrarsi, esse non si incrociano più tra loro.” (p. 246, trad mia). Per quanto riguarda il ritmo dell’evoluzione Huxley scrive, nella prefazione: “In primo luogo l’evoluzione, così come viene rivelata dalle tendenze fossili è un processo essenzialmente continuo. Le unità costruttive dell’evoluzione, sotto forma di mutazioni, sono quanta discreti di cambiamento. Ma in primo luogo la maggioranza di esse (e la grandissima maggioranza di quelle che sopravvivono fino ad essere incorporate nella costituzione genetica delle cose viventi) è di piccola estensione; secondo, l’effetto di una data mutazione sarà differente secondo la combinazione dei geni modificatori presenti; e, terzo, il suo effetto può essere mascherato o cambiato dalla modificazione ambientale. Il risultato netto sarà che, a tutti i fini pratici, la maggior parte del cambiamento evolutivo sarà graduale, così da essere riconosciuto dallo spostamento progressivo di un valore medio da generazione a generazione.” Quindi i vari effetti genetici e ambientali sulle mutazioni, che sono discrete, rendono il ritmo del cambiamento graduale e continuo. Quindi, agli albori della Sintesi, nel 1942, i caratteri genetici e ambientali dell’evoluzione erano entrambi considerati importanti. Infatti la prima pubblicazione, in ordine cronologico, fu quella di un genetista nato naturalista: Theodosius Dobzhansky. In Genetics and the origin of species (21), egli riuscì a persuadere i suoi colleghi che entrambe le discipline potevano accettare il fatto che la speciazione si compone sia di variazione genetica che di selezione naturale. Dobzhansky dava molto rilievo all’indipendenza tra la selezione naturale e qualsiasi insieme di formulazioni precise dei principi dell’ereditarietà: i geni si replicano e si trasferiscono nell’ambito dei singoli organismi, la selezione naturale, d’altro canto, ha luogo nel contesto di intere popolazioni della stessa specie. Il processo ereditario vero e proprio apparterrebbe quindi alla “genetica fisiologica” mentre il contesto della selezione naturale sarebbe la “genetica della popolazione”. Ma si parla sempre e comunque di “genetica”. L’opera a questa complementare fu pubblicata cinque anni dopo da Ernst Mayr (68) e, come si legge nella 31 prefazione, questa aveva l’obiettivo di completare l’immagine dell’evoluzione grazie anche alle teorie tassonomiche sviluppate dai naturalisti. Il titolo, infatti, parlava chiaro: Systematics and the origin of species, from the view point of a zoologist. In questa opera Mayr esponeva per la prima volta la teoria della speciazione allopatrica. 5.1.2. Attenzione al cambiamento ambientale nell’elaborazione della teoria della speciazione allopatrica La teoria della speciazione allopatrica, anche se non sotto questo nome, venne esposta per la prima volta in Systematics and the origin of species. Questo modello di speciazione tende a privilegiare la geografia e le condizioni ecologiche come fattori evolutivi (68). “Una nuova specie si sviluppa all’interno di una popolazione isolata geograficamente dalla sua specie parentale. Questa acquisisce, durante questo periodo di isolamento, caratteri che causano o garantiscono l’isolamento riproduttivo quando le barriere esterne vengono meno.” (68, p. 155, trad mia). L’opera di Mayr non è una strenua difesa del concetto di selezione naturale nel processo di speciazione. Nel suo ragionamento il processo cruciale della speciazione non è la selezione, che è sempre presente in evoluzione, anche quando non si verifica alcun processo di speciazione, ma l’isolamento. Una popolazione, infatti, non è selezionata “allo scopo di” diventare una nuova specie, piuttosto l’acquisizione di meccanismi di isolamento riproduttivo, è solitamente un prodotto secondario della ristrutturazione genetica graduale di una popolazione isolata. Il ruolo cruciale affidato all’isolamento è molto interessante per il ragionamento che sto conducendo. L’ambiente acquisisce un ruolo fondamentale di interazione con l’organismo nel processo di speciazione. Scrive infatti Mayr: “La variazione dei caratteri tassonomici e lo sviluppo della divergenza e della discontinuità tra le categorie sistematiche, sono influenzate da un grande numero di fattori. La maggior parte dei fattori di cui dobbiamo discutere sono ambientali e dovremmo perciò parlare di un’“ecologia della speciazione” (p. 216, sottolineatura mia) Questi caratteri ambientali sono definiti da Mayr caratteri esterni mentre quelli fisiologici, sempre presenti, sono chiamati fattori interni. 32 I fattori ambientali sono analizzati soprattutto dal punto di vista statico, come differenze tra un ambiente e l’altro e negli organismi che li abitano, ma anche dal punto di vista dinamico dei cambiamenti ambientali. In particolare a proposito di cambiamenti climatici scrive: “Eventi climatici come il deterioramento del clima durante le glaciazioni pleistoceniche, il ritiro delle acque dalla piattaforma continentale tropicale durante il culmine della glaciazione, oppure la comparsa di vaste aree continentali grazie al ritiro dei ghiacci durante il periodo postPleistocenico, hanno tutti contribuito ad ingenti spostamenti delle popolazioni. Questi periodi di espansione degli areali hanno avuto soprattutto due tipi di effetto. Prima di tutto portarono ad un’espansione dell’areale ristretto di specie isolate, un processo spesso accompagnato dal passaggio di barriere geografiche minori, e dallo stabilirsi delle condizioni per l’inizio del processo di diversificazione, che è l’inizio di tutti gli eventi di speciazione. Secondariamente produssero una sovrapposizione di areali tra alcune popolazioni strettamente imparentate e altre specie allopatriche. In altre parole, questi eventi climatici, completano il processo di speciazione. L’espansione degli areali è quindi di vitale importanza, sia in relazione all’inizio che al completamento del processo di speciazione.” (p. 240) Animal species and Evolution, del 1963, è una delle opere più importanti della biologia evolutiva del Novecento, in quanto vi compare per la prima volta la definizione biologica di specie. È anche l’opera in cui è stato approfondito ed ampliato il concetto di speciazione allopatrica. Quando Mayr espone i diversi tipi di barriere che possono portare all’isolamento, inserisce nell’elenco anche le masse ghiacciate pleistoceniche dei continenti settentrionali, definendole come le barriere più potenti che abbia conosciuto la storia recente della terra. Cita poi alcuni studi (83, 19, 79, 64) su varie analisi di speciazione nel Pleistocene, sottolineando come si tratti di un nascente ed estremamente interessante campo di indagine: Autore, Data Rand, 1948 Titolo Glaciation, An Isolating Mayr cita questo studio a Factor in Speciation supporto del ruolo da lui attribuito alle glaciazioni come importanti meccanismi di isolamento. Rand cita numerose coppie di specie che si suddivisero in una 33 popolazione orientale ed una occidentale durante una delle fasi glaciali del Pleistocene. Deevey, 1949 Biogeography of the Imponente lavoro che Pleistocene ricostruisce la biogeografia del Pleistocene in Europa e Nord America. Peabody, Savage, 1958 Evolution of a coast range Descrive la funzione avuta da corridor in California and its un evento di regressione effect on the origin and oceanica plio-pleistocenica e dispersal of living amphibians da varie strutture fisiografiche and reptiles. nella speciazione di vari anfibi e rettili californiani. Kurten, 1959 Rate of evolution in fossil Disquisizione sul ritmo mammals dell’evoluzione nei mammiferi. Dimostrazione dell’origine di Ursus speleus da Ursus arctos durante la glaciazione di Mindel. Tabella 1 La teoria della speciazione allopatrica è la prima teoria a considerare fondante il rapporto organismo-ambiente, sia a livello teorico che a livello pratico, attribuendo all’ambiente, soprattutto nelle sue caratteristiche dinamiche, un ruolo importante nel processo di speciazione. Come scrive Telmo Pievani nell’introduzione all’edizione italiana del libro “L’equilibrio punteggiato”, la teoria della speciazione allopatrica introdusse un elemento nuovo, un evento geografico in alcun modo connesso con il valore adattativo delle specie e con le pressioni selettive in atto; “L’ecologia dell’evoluzione si allargò a un contesto molto più ampio di fattori ambientali, naturali, climatici, geografici e geologici. In particolare, le alterazioni e le oscillazioni climatiche diventarono decisive per spiegare molti eventi cruciali della storia naturale: un indizio che Gould ed Eldredge non si sarebbero lasciati sfuggire nei primi anni della loro carriera di ricercatori.” (42). 34 5.2. La discontinuità ed il cambiamento ambientale Il nucleo fondamentale della teoria degli equilibri punteggiati è la discontinuità nel ritmo dell’evoluzione. Il processo evolutivo sarebbe caratterizzato da eventi rapidi ed improvvisi di cambiamento in una generale e diffusa situazione di stasi. Questo modello è però radicalmente diverso da quello saltazionista, precedentemente proposto da altri come Otto Schindewolf (92) e Richard Goldshmidt (38). Il primo sosteneva che gli schemi di discontinuità osservabili nel mondo naturale richiedessero una spiegazione altra rispetto a quella della selezione darwiniana, mentre Goldshmidt sosteneva la presenza di improvvise mutazioni su larga scala che avrebbero formato nuovi gruppi evolutivi primari: i “mostri di belle speranze”. La differenza fondante è che, nel caso degli equilibri punteggiati, il ritmo accelerato è dato dall’innesco ecologico e non genetico come per i saltazionisti. 5.2.1. L’evoluzione Quantica George Gaylord Simpson, nel 1944, aveva già presentato una visione nella quale il ritmo dell’evoluzione non è uniforme, in quanto i fossili rispecchiano, in modo veritiero, una realtà discontinua. Simpson fu il primo a sospettare che le discontinuità presenti nella documentazione fossile potessero essere reali , il ritmo dell’evoluzione poteva cambiare. L’opera in questione è intitolata The Tempo and the Mode of Evolution (88). Simpson, quale paleontologo dei vertebrati, stabilì come i modelli della storia evolutiva che emergevano dalle osservazioni sul record fossile, avessero un valore informativo reale a proposito della natura dell'evoluzione. Questi modelli suggerivano come l'evoluzione, a volte, possa procedere ad un ritmo accelerato, con nuovi gruppi di organismi che apparivano improvvisamente nel record fossile. Scrive Eldredge (26) : "Il concetto di Evoluzione Quantica fu il primo contributo serio di un paleontologo ad una teoria evolutiva moderna". Nella prefazione alla prima edizione dell'opera, Simpson sottolinea il valore della paleontologia come unica disciplina in grado di verificare se i principi elaborati nei laboratori di genetica potessero essere validi anche in una visione più ampia, che comprendeva una quarta dimensione nella rappresentazione del processo evolutivo: il tempo. In particolare i paleontologi hanno quotidianamente a che fare con il ritmo dell'evoluzione, sottoposta alle condizioni naturali, e lo misurano e interpretano nelle sue accelerazioni e decelerazioni. L'incipit dell'opera infatti recita: "HOW FAST, as a matter of fact, do animals evolve in nature?". 35 Gli ultimi due capitoli sono quelli fondamentali per capire il ruolo del cambiamento climatico nel pensiero dell’autore: il capitolo VI, Organism and enviroment, e il capitolo VII, Modes of evolution. Nel primo, Simpson espone la sua visione piuttosto complessa del rapporto organismo-ambiente. In questa analisi l'organismo e l'ambiente hanno uguale peso nel processo evolutivo e, soprattutto, l'ambiente è considerato sia nelle sue caratteristiche statiche sia, parimenti, nelle sue caratteristiche dinamiche. Il concetto di adattamento sarebbe definito come la correlazione tra determinate caratteristiche genetiche e l'ambiente. L'adattabilità, di conseguenza, sarebbe la capacità di modificare il genotipo in relazione ai cambiamenti ambientali. Per definire l'adattamento in tutta la sua complessità ed a tutti i livelli, Simpson attua tre distinzioni: l'adattamento dell'individuo e quello del gruppo, l'adattamento fenotipico e quello genotipico e quello in condizioni statiche e dinamiche. Proseguendo nel ragionamento, Simpson distingue tra una relazione potenziale reciproca tra organismo e ambiente (prospective functions), ed una relazione realizzata. L'ambiente determina quali relazioni potenziali potranno essere realizzate e l'eredità degli organismi determina quali relazioni potenziali dell'ambiente potranno avere luogo, in un interscambio dinamico (fig.8). Le caratteristiche dell’organismo e dell’ambiente che noi osserviamo in natura sono quelle realizzate e nascono dalla sovrapposizione delle caratteristiche potenziali sia dell’organismo che dell’ambiente. In particolare: "I vari ambienti in cui l'organismo si imbatte e gli sconvolgimenti nelle condizioni ambientali, cambiano le caratteristiche realizzate degli organismi nei confronti dell'ambiente e inducono anche un cambiamento delle loro caratteristiche potenziali." (p. 184) Il concetto di caratteristiche potenziali dell'organismo nei confronti dell'ambiente, suggerisce l'importanza fondamentale, altrove esplicitata, data da Simpson al concetto di preadattamento. Il concetto di ambiente espresso da Simpson non include, però, le sole condizioni fisiche, ma anche la quantità di Fig. 8 (Simpson 1944, modificata) 36 risorse, il numero di competitori e nemici, tutte le forme di vita aventi rapporti con l’organismo, altri membri del gruppo, e anche l’organismo stesso, considerato come un elemento della propria realtà. L’ambiente è divisibile in un infinito numero di classi, grazie all’uso di un elevato numero di criteri di divisione. Per lo studio dell’ambiente in relazione all’organismo, Simpson elabora il concetto di zona adattativa, cioè un complesso di condizioni ambientali che determinano il tipo di adattamento di un dato gruppo di organismi. L’aspetto interessante è che anche le zone adattative evolvono, così come gli organismi: “Le zone adattative, non solo gli animali che le occupano, evolvono. Lo fanno dal punto di vista fisico, come nell’erosione delle montagne o l’espandersi del deserto in periodi climatici aridi, sia perché gli animali sono parte dei condizionamenti ambientali, e questi animali evolvono.” (p.190) Il corso della storia adattativa può essere rappresentato come una serie di “zone ecologiche” mobili attraverso cui gli organismi vivono e si riproducono, muovendosi e cambiando a loro volta. Nel capitolo successivo, The mode of evolution, viene elaborato un concetto di modello evolutivo composto da una combinazione complessa di tre elementi: speciazione, evoluzione filetica e modello quantico. Il processo tipico di speciazione è la differenziazione locale di due o più gruppi all’interno di una popolazione più ampia, in questo caso la direzione dell’evoluzione non è affatto lineare. Questo processo implicherebbe il cambiamento nelle proporzioni degli alleli e non la presenza necessaria di mutazioni. Le popolazioni coinvolte sono solitamente di piccola estensione, ma nella visione di Simpson l’isolamento non è affatto necessario, nonostante si parli di popolazioni divise approssimativamente in sottopopolazioni. L’evoluzione filetica, invece, disegna un cambiamento direzionale dei caratteri medi di una intera popolazione, a volte in risposta ad un cambiamento ambientale. Questo processo continua ininterrottamente, in ogni popolazione, indipendentemente dal loro tipo o grandezza e l’equilibrio organismo-ambiente viene sempre mantenuto stabile grazie a piccole e graduali modificazioni. Nell’evoluzione quantica questo equilibrio viene periodicamente spezzato e, nella migliore delle ipotesi, se ne forma un altro, pena l’estinzione del gruppo. Il termine evoluzione quantica, infatti, è applicato ad un cambiamento relativamente rapido di una popolazione biologica da una situazione instabile ad un nuovo equilibrio, ben distinto da quello della popolazione ancestrale. Questo processo caratterizzerebbe le classi sistematiche più ampie tra cui famiglie e ordini e si distinguerebbe nettamente dagli altri due processi. L’evoluzione quantica può verificarsi solo se sono presenti due requisiti: 37 1- deve rendersi disponibile una nuova zona adattativa (a causa di un cambiamento ambientale oppure per la scomparsa di un gruppo di organismi che lascia un vuoto nell’ecosistema) e 2- la popolazione che si appresta ad occuparla deve essere in qualche modo preadattata a quelle condizioni. In ogni caso le popolazioni coinvolte devono essere piccole ed interamente isolate. Lungo l’opera, Simpson fa più volte cenno ai cambiamenti ambientali ed in particolare alle oscillazioni climatiche Pleistoceniche (es. p 30 e 63). Nella sua concezione l’ambiente interagisce con l’organismo tanto quanto l’organismo interagisce con l’ambiente ed entrambi vanno incontro a cambiamenti ingenti e non regolari. A mio parere, è questo rapporto molto stretto organismo-ambiente, a determinare una visione discontinua del ritmo dell’evoluzione. 38 6. Contestualizzazione della teoria sugli Equilibri Punteggiati Dopo aver indagato se le radici della teoria degli equilibri punteggiati avessero qualche legame con le scoperte sul cambiamento climatico, mi dedicherò alla contestualizzazione della teoria nel periodo in cui essa fu elaborata, cioè all’inizio degli anni Settanta, cercando di ricostruire le relazioni tra questa pubblicazione e una nuova concezione dell’ambiente fisico che era emersa con forza nel ventennio precedente. I modelli elaborati nella prima metà del Novecento hanno reso la concezione dell’ambiente sempre più dinamica: sia grazie ai modelli tettonici elaborati negli anni Sessanta (110, 111, 112), sia grazie alle scoperte sull’oscillazione climatica (cap. 3). Non solo la terra cambia e si trasforma, ma può farlo anche in tempi molto più brevi di quanto si era immaginato fino a quel momento. “Oggi il concetto di cambiamento nella storia geologica è universalmente accettato. L’evoluzione organica, la trasformazione degli elementi chimici, i cambiamenti continui nella geografia, nell’atmosfera, nel clima, e in altri aspetti dell’ambiente fisico e biologico, sono dati per certi.” (77) 39 6.1. Una nuova concezione dell’ambiente Nel grafico seguente ho raccolto, tramite il motore di ricerca Microsoft Academic Search, le pubblicazioni, dagli anni Sessanta in poi, che riguardano le variazioni climatiche e la teoria della Tettonica a Zolle (110), i due campi di indagine che hanno reso più dinamica la nostra concezione dell’ambiente fisico. La storia delle scoperte sui cambiamenti climatici è stata discussa nel terzo capitolo. La teoria moderna della Tettonica a Placche data la sua nascita nel 1963, con le pubblicazioni di Tuzo Wilson (110, 111, 112), come sintesi globale dei contributi fino ad allora apportati dalla ricerca geologica, in particolare dagli studi di Alfred Wegener (108) ed Harry Hammond Hess (52). I rapporti tra le teorie tettoniche e la biologia evoluzionistica sono molteplici ed interessanti ma non costituiscono l’oggetto di questa tesi. Ambiente dinamico 3000 n° pubblicazioni 2500 2000 1500 Gould, Eldredge, 1972 1000 500 0 1960 1970 1980 1990 "Climatic variation" 2000 2010 "Plate tectonics" Come si può osservare dal grafico, l’articolo sugli Equilibri Punteggiati (23) si colloca una decina di anni dopo la formulazione della moderna teoria della Tettonica a Zolle, mentre per quanto riguarda le ricerche paleoclimatiche esse erano entrate nel vivo da pochi anni, grazie ai primi carotaggi che iniziavano a fornire dati precisi ed accurati che in alcuni casi confermarono e in altri smentirono le teorie astronomiche e quelle ricavate dalla geomorfologia. Per entrare più nello specifico, visti gli scopi di questa tesi, che vogliono indagare soprattutto le influenze sulla teoria degli Equilibri Punteggiati delle scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario, ho voluto inquadrare in modo più preciso il contesto in cui venne pubblicato l’articolo. 40 Ho costruito questo grafico inserendo, nel motore di ricerca digitale delle riviste Science e Nature (114, 115), le parole chiave “Climatic oscillation Quaternary”. Oscillazioni climatiche del Quaternario 35 30 n° pubblicazioni 25 Gould, Eldredge, 1972 20 15 10 5 0 1900 1920 1940 nature 1960 science 1980 2000 Ho considerato solo le riviste maggiormente diffuse e generaliste, in quanto indice migliore di quali scoperte hanno potuto più facilmente varcare i confini della propria disciplina ed influenzare altri campi d’indagine, come cercherò di dimostrare in questo caso. Il motore di ricerca utilizzato (114, 115) mi ha permesso di considerare un arco temporale che si estende per tutto il XX secolo. Si osserva una crescita del numero di pubblicazioni sull’argomento a partire dalla fine degli anni Cinquanta. L’articolo di Gould ed Eldredge (23) si colloca una quindicina di anni dopo il primo picco di pubblicazioni (del 1958) dopo il quale la frequenza di articoli sull’instabilità climatica del Quaternario è andata aumentando progressivamente, in particolar modo su Science. Risulta ancora più interessante andare a vedere in quanti casi le ricerche evolutive hanno fatto riferimento ai cambiamenti climatici e in particolare alle ere glaciali. Con lo stesso metodo ho costruito un terzo grafico che rappresenta il numero degli articoli in cui compaiono contemporaneamente le parole chiave -Ice age- e –Speciation-. 41 Questi sono articoli in cui la presenza delle ere glaciali viene collegata a fenomeni di speciazione, soprattutto di forme animali. In questi casi la paleoclimatologia è entrata in contatto con la biologia evoluzionistica. Ere glaciali e speciazione 12 n° pubblicazioni 10 8 Gould, Eldredge 1972 6 4 2 0 1900 1920 1940 nature 1960 science 1980 2000 Per la mia analisi sono importanti soprattutto i lavori pubblicati dal 1955 al 1971, che possono dare un’idea della concezione generale che uno scienziato evoluzionista dell’epoca, non specialista nel campo della Paleoclimatologia, poteva avere dei rapporti tra questa ed il suo campo di indagine. In questo intervallo temporale vorrei sottolineare in particolare i seguenti articoli, comparsi su Science. Autore, Data Titolo È l’articolo più citato a Dillon, 1956 Wisconsin Climate and Life proposito delle conseguenze Zones in North America delle oscillazioni climatiche sul biota Nord Americano. Riguarda uno studio a Ericson, Ewing, Wollin, 1963 Pliocene-Pleistocene Boundary in Deep-Sea Sediments proposito della comparsa improvvisa di alcuni bioindicatori nel periodo a cavallo tra il Pliocene ed il 42 Pleistocene. Raccoglie le conferenze di un simposio tenuto dalla Division of Zoology and Entomology of the Tenth Pacific Science Congress, tenuto ad Honolulu Darlington, 1964 Biogeography of Half the nel 1961, a proposito della World distribuzione delle specie nel Pacifico, con una certa attenzione ai “corridoi glaciali” che durante il Pleistocene connettevano l’Alaska e la Siberia orientale. Dove vengono confrontati il ritmo di speciazione e di Vuilleumier, 1969 Speciation in Tropical Environments estinzione ai tropici rispetto a quelli nelle altre fasce latitudinali. Questo viene poi correlato a modelli di stabilità e instabilità ambientale. Riconduce la biodiversità Haffer, 1969 Speciation in Amazonian forest birds dell’avifauna amazzonica alle oscillazioni climatiche del Quaternario: la teoria dei rifugi. Correlazione tra le oscillazioni Coincidence of Climatic and Gould, 1969 Faunal Fluctuations in Pleistocene Bermuda climatiche del Pleistocene e la fluttuazione di qualche carattere morfologico di alcune specie di gasteropodi pleistocenici. Vuilleumier, 1971 Pleistocene Changes in the Ricostruisce il ruolo delle Fauna and Flora of South oscillazioni climatiche 43 nell’evoluzione di varie America popolazioni animali Sud Americane Tabella 2 Come esempio di studio precedente all’articolo sugli equilibri punteggiati, considero significativo l’articolo del 1969 di Jurgen Haffer in cui la biodiversità della fauna ornitologica della foresta Amazzonica viene ricondotta alle recenti oscillazioni climatiche del Quaternario. 5.2. Jurgen Haffer: la teoria dei rifugi Nel giugno del 1969, pochi mesi dopo la pubblicazione dei risultati di Dansgaard sul carotaggio di Camp Century, sulla stessa rivista (Science) viene pubblicato un articolo di Jurgen Haffer, ornitologo e geologo tedesco (46). In questo articolo Haffer propone una spiegazione storica dell’immensa varietà della fauna ornitologica della foresta Amazzonica. Durante i numerosi periodi secchi glaciali del Pleistocene e post-pleistocenici, la foresta Amazzonica fu frammentata in numerose foreste di estensione minore, isolate le une dalle altre da tratti di vegetazione erbacea. Queste foreste avrebbero rappresentato delle “aree rifugio” per numerose popolazioni di animali, che si sarebbero poi differenziate durante il periodo di isolamento. Successivamente, durante i periodi interglaciali più umidi, la foresta avrebbe ripreso piede permettendo alle popolazioni di espandere nuovamente il proprio areale. Questa oscillazione nell’estensione delle foreste, causata dalle oscillazioni climatiche del Quaternario, si sarebbe ripetuta parecchie volte e avrebbe portato a una rapida differenziazione della fauna, in un tempo geologico relativamente recente. Il primo paragrafo dell’articolo titola “Le fluttuazioni climatiche durante il Quaternario”. L’attuale continuità della foresta Amazzonica sarebbe solo uno stadio della storia vegetazionale del Sud America. A supporto di questa tesi Haffer presenta numerosi studi palinologici, geomorfologici e zoologici e vegetazionali pubblicati Fig. 9 (Haffer, 1969) 44 tra gli anni 50 e 60. (3, 5, 6, 7, 35, 36, 37, 44, 45, 53, 85, 97). La maggior parte dell’articolo tratta di una ipotetica ricostruzione delle zone che avrebbero potuto ospitare i rifugi, in base a criteri climatici: Haffer assume che, durante le fasi secche, le precipitazioni nelle zone di attuale piovosità massima siano rimaste in concentrazione sufficiente da permettere la crescita continua di foreste anche nel passato. Una volta che le specie, arrivata una nuova fase umida, fossero rientrate in contatto, Haffer descrive tre scenari: 1- Sovrapposizione geografica, nel caso in cui il processo di speciazione fosse stato completato in modo da permettere la compatibilità ecologica, le nuove specie sopravvivono in condizioni di simpatria. 2- Esclusione geografica, nel caso in cui le specie risultino riproduttivamente isolate ma non compatibili dal punto di vista ecologico. La competizione ecologica porterebbe alla mutua esclusione. 3- Ibridizzazione, quando le specie non avessero ancora raggiunto l’isolamento riproduttivo completo. Il processo di speciazione di questi uccelli tropicali potrebbe essere quindi completato in meno di 20.000, 30.000 anni. La teoria dei rifugi, in questo specifico caso, si è rivelata priva di fondamento (61) perché gli studi molecolari sull’avifauna amazzonica hanno dimostrato che le varie specie hanno un’età genetica troppo antica per trovare una collocazione coerente nella sua ipotesi; inoltre, i tassi di speciazione non sembrano aumentare durante le glaciazioni. L’ultima era glaciale potrebbe però aver contribuito a portare a compimento il processo in popolazioni fra le quali fosse già in atto la divergenza – oppure, in altre popolazioni, avrebbe potuto innescare una divergenza che in seguito avrebbe portato alla speciazione. Questo articolo, insieme ad altri degli anni Sessanta (14, 49, 60, 68, 70, 72, 73, 94), pubblicato su una delle riviste più importanti del mondo scientifico, indica la presenza di un forte interesse, da parte di alcuni studiosi dell’evoluzione, verso le nuove scoperte nel campo dell’instabilità climatica del Quaternario. 45 5.3. I modelli intergenealogici di Norman Newell Norman Newell, geologo e paleontologo, fu una figura importante sia per il suo contributo scientifico sia come mentore di molti importanti paleontologi tra cui proprio Stephen Jay Gould e Niles Eldredge. Scrisse Gould nel 1989 (41): “Io sono stato studente di Norman Newell e tutto ciò che ho fatto nella mia carriera deve essere visto come una sua eredità”. Una parte importante del suo lavoro riguardò le estinzioni di massa e Newell fu uno dei pionieri in questo campo (75, 76). Fu, infatti, il primo a proporre l’analisi dei modelli intergenealogici riconducibili a cause fisiche. Nel 1967 pubblicò un articolo intitolato Rivoluzioni nella storia della vita (77) che riporta, a cappello, una citazione di George Gaylord Simpson “La storia degli organismi corre parallelamente con la storia fisica della terra, e con essa interagisce continuamente. È molto importante che la paleontologia cerchi di determinare, quando possibile, la sequenza dei fenomeni strettamente geologici” (92). L’obiettivo che Newell si propone in questo saggio è di dimostrare come la storia della vita sia decisamente più episodica che uniforme, così come la nostra scala geologica che, basandosi sul record fossile, riesce a dividere in modo netto un periodo dall’altro. Secondo l’autore la moderna paleontologia Fig. 10 (Newell, 1967) dovrebbe incorporare sia aspetti del vecchio catastrofismo che dell’attualismo. Il record stratigrafico evidenzia come i processi fisici e biologici abbiano fluttuato molto, in passato, variando sia in ampiezza che nel ritmo, a volte superando anche i limiti che noi abbiamo avuto modo di osservare lungo la nostra storia. Newell pensa che le evidenze portino alla conclusione che molti episodi significativi della storia geologica possano essere avvenuti in periodi di tempo molto limitati e che alcuni di questi implicassero condizioni ambientali per cui non abbiamo alcun termine di paragone. 46 “È utile tener presente il fatto che molti geologici, processi oggi, presentano un forte carattere di discontinuità nel loro procedere. Non c’è nessuna ragione a priori per concludere che il ritmo che noi oggi possa osserviamo Fig. 11 (Newell, 1967) essere rappresentativo di tutta la storia della terra.” I gap fisici nel record fossile, secondo Newell, risultano da cambiamenti geografici o climatici così ingenti da alterare grandemente le caratteristiche delle comunità organiche sia mediante il cambiamento ambientale che attraverso la migrazione. A proposito delle estinzioni di massa vengono analizzati i grafici di estinzione durante la storia della terra dei diversi gruppi tassonomici, divisi in vertebrati e invertebrati. Ad esempio invertebrati gli marini presentano un’accelerazione del tasso di estinzione alla fine del Cambriano, nel tardo Ordoviciano, nel tardo Devoniano, Cretaceo. Triassico I e vertebrati invece presentano picchi di estinzione alla fine del Devoniano, Fig. 12 (Newell, 1967) Permiano, Triassico e Cretaceo. C’è 47 anche un interessante parallelismo tra le percentuali di estinzione di alcune famiglie di ammonoidi e di rettili. Newell osserva “un’intrigante coincidenza nei picchi di estinzione di gruppi non imparentati tra loro”. Questo è il classico esempio di modello intergenealogico, cioè un fenomeno che coinvolge vari gruppi animali indipendentemente dalla loro linea genealogica. Sembra inoltre esserci una tendenza all’oscillazione tra periodi di estinzione globale, alla fine dei periodi della scala geologica, ed episodi di radiazione all’inizio dei periodi geologici seguenti. Grazie alla liberazione delle nicchie ecologiche dopo un diffuso fenomeno di estinzione, altri organismi possono diffondersi e radiare. Ma quale fenomeno potrebbe essere in grado di coinvolgere i più diversi gruppi di animali? Newell, per il principio di semplicità dell’ipotesi, cerca una causa, o un insieme di esse, che possano essere applicate a tutti i più grandi episodi di estinzione di massa. I rapporti tra organismo e ambiente sono estremamente complessi, per questo è difficile formulare un’ipotesi precisa, ma una possibile causa di un estinzione di massa può essere ricondotta, molto probabilmente, alla semplice perdita dell’habitat. La perturbazione ambientale con il conseguente aumento della pressione selettiva è, per Newell, imputabile soprattutto a: MIGRAZIONE (e conseguente competizione tra organismi nativi ed immigrati) IMPORTANTI CAMBIAMENTI CLIMATICI che modificano i modelli di temperatura e la distribuzione delle precipitazioni. Alla fine dell’era Pleistocenica si è osservata la scomparsa di numerosi mammiferi di grossa taglia. Tuttavia Newell considera i cambiamenti climatici troppo graduali per provocare delle vere e proprie estinzioni di massa. GRANDI E RELATIVAMENTE RAPIDI CAMBIAMENTI GEOGRAFICI nella distribuzione di continenti e mari. Newell fu il primo ad introdurre ipotesi intergenealogiche per spiegare la storia della vita. Gli sconvolgimenti ambientali, sia geografici che climatici, hanno avuto una grande influenza sugli episodi di estinzione e conseguente speciazione che hanno caratterizzato la storia della terra e che noi usiamo come confine tra un periodo e l’altro nella nostra scala geologica. Queste teorie hanno avuto sicuramente un’influenza sulla formazione scientifica di Gould ed Eldredge. 48 Il legame indissolubile organismo-ambiente e un’idea del cambiamento ambientale, improvviso e discontinuo, erano ormai nell’aria, anche alla Columbia University, due uffici più in là rispetto a quello in cui Gould ed Eldredge lavoravano alla loro teoria. 5.4. La figura di John Imbrie Può essere interessante, per individuare i legami tra il lavoro di Gould ed Eldredge e la paleoclimatologia, anche il fatto che John Imbrie, uno dei più famosi paleoclimatologi del Novecento, fosse uno dei relatori della tesi di dottorato di Stephen Jay Gould (42). Imbrie iniziò la sua carriera scientifica come biologo evoluzionista studiando i brachiopodi devoniani del bacino del Michigan. Nonostante la velocità di sedimentazione lenta e continua, in questo sito non si rilevava alcun cambiamento evolutivo lento e graduale. Al contrario, le 30 specie analizzate presentavano un prevalente pattern di stasi. Deluso da questi risultati (il suo obiettivo era infatti opposto: trovare elementi che permettessero di ricostruire un modello di cambiamento graduale) pubblicò i suoi risultati in una monografia tassonomica oggi introvabile (ne parla Gould (42) senza nemmeno citarla). “Lasciò quindi la sua professione per qualcosa di più produttivo” (42) e nel 1976 pubblicò, con Shackleton, uno degli articoli più importanti della storia della paleoclimatologia (51) che, grazie ai dati ricavati dai carotaggi oceanici nell’emisfero sud che si spingevano fino a 450.000 anni fa, verificò la teoria di Milutil Milankovich secondo cui i cambiamenti climatici a livello globale erano imputabili a cambiamenti dei parametri orbitali. 49 7. Teorie successive Credo che l’analisi di alcune teorie e articoli successivi possa gettare ulteriore luce sulle correlazioni che legano la teoria degli equilibri punteggiati alle scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario. A partire dagli anni Ottanta possiamo dire che la biologia evoluzionistica e la paleoclimatologia abbiano cominciato a parlarsi direttamente. Sono stati pubblicati parecchi studi che correlano studi di morfologia fossile ai cicli di Milankovich, in particolare per quanto riguarda il tardo Pleistocene (8, 55, 56, 54, 22). 8.1. La gerarchia ecologica di Eldredge Considero molto significativo che a partire dagli anni Ottanta Eldredge, coautore della teoria degli Equilibri Punteggiati, abbia elaborato una struttura teorica a proposito dell’evoluzione, che concentra molto l’attenzione sull’ambiente abiotico ed in particolare sull’aspetto dinamico dell’ambiente fisico. Eldredge, con questa teoria (27, 28), è alla ricerca di pattern concatenati di evoluzione biologica e storia della Terra. Per trovarli si concentra sugli ecosistemi, “quei miscugli dinamici di specie che formano i sistemi, piccoli e grandi, ove avviene il trasferimento biologico di materia ed energia” (27, p. 201). A differenza del paradigma ultradarwinista, che riconosce come principale e fondante attività dell’organismo quella riproduttiva (18, 109), Eldredge indentifica gli organismi primariamente come macchine per trasferire materia ed energia. La riproduzione stessa dipende, in ultima analisi da tale trasferimento. A detta di Eldredge (27), la biologia evolutiva si è stranamente disinteressata della natura dei legami che intercorrono tra evoluzione e mondo fisico. Gli ultradarwinisti vanno a scrutare all’interno, vedono come forza trainante la competizione tra geni od organismi. Nella loro prospettiva, il cambiamento ambientale segnala semplicemente uno slittamento delle condizioni al contorno. I paleobiologi sono sempre più convinti, invece, che i cambiamenti evolutivi coinvolgano spesso simultaneamente molte linee di discendenza della regione (effetto intergenealogico). Per questo, il regno ecologico, ed in particolare la sua componente abiotica, deve essere legato più esplicitamente al processo evolutivo. Esistono modelli ecologici e biogeografici conosciuti e studiati da tempo, come, ad esempio, la diversa numerosità di habitat tra gli ambienti dei tropici e quelli delle regioni polari. Poiché fenomeni come questo manifestano chiaramente elementi studiabili da entrambe le discipline (l’ecologia e la biologia evolutiva), tali pattern e le relative spiegazioni sono un indizio del possibile 50 aspetto di una teoria che colleghi storia evolutiva e processo ecologico. “Perturbazioni di questi pattern, in particolare nei sistemi ecologici, sembrano essere il cuore della maggior parte dei cambiamenti evolutivi” (27, p. 207). Il caso più semplice ed evidente è quello delle estinzioni di massa. Tuttavia i biologi, secondo Eldredge, avrebbero ignorato persino i più lampanti esempi della connessione con il mondo ecologico fino alla fine degli anni Sessanta, quando i paleontologi andarono a riscoprire i complessi modelli intergenealogici riconducibili a cause fisiche, a partire dagli studi di Norman Newell (77). “Allo stato attuale i paleobiologi sostengono, invece, che nulla di sostanziale avviene nell’evoluzione fino a quando eventi fisici non distruggono ecosistemi, a livello locale, regionale, oppure planetario. A quel punto vengono innescate le estinzioni e l’orologio evolutivo viene azzerato.” (27, p. 208). Secondo Eldredge quando gli ambienti si trasformano, ad esempio durante una glaciazione, le specie si spostano, effettuando, di norma, l’inseguimento dell’habitat. Se l’ambiente cambia troppo bruscamente, oppure il nuovo habitat idoneo non viene individuato, sopraggiunge l’estinzione. Bisogna però considerare anche che le specie non si spostano tutte con la stessa rapidità né tutte troveranno un terreno idoneo, per cui “la composizione di specie vegetali, animali fungine e microbiche, cambia al variare del clima.” (27, p. 214). Per dimostrare come il cambiamento evolutivo sia legato profondamente a cause ecologiche, è fondamentale sottolineare anche come il cambiamento agisca, sulla maggior parte delle specie di una regione, più o meno simultaneamente. Infatti “L’evoluzione va a braccetto con la degradazione e la ricostruzione degli ecosistemi e l’origine di nuove specie dipende per lo più dall’estinzione di quelle vecchie.” (27, p. 216). Come ho cercato di dimostrare in questa tesi, vi è un profondo legame tra la teoria degli equilibri punteggiati e una visione dell’evoluzione che considera l’ambiente ed i suoi cambiamenti come parte integrante del processo evolutivo, infatti Eldredge scrive: “Nei 540 milioni di anni di storia della vita complessa, assistiamo in continuazione a una stabilità degli ecosistemi che si può dire monotona. Una monotonia interrotta occasionalmente, ma fatalmente (nel lungo periodo) da puntuazioni di squilibri ambientali generalizzati nell’ecosistema, seguiti da estinzioni e alla fine da speciazioni.” (27, p. 218, sottolineatura mia) Eldredge fa anche riferimento alle teorie di Elizabeth Vrba. Spesso, infatti, può succedere che un forte cambiamento ambientale come l’arrivo di un era glaciale, provochi una frammentazione degli 51 habitat. Eldredge dichiara di condividere in pieno la prospettiva di Vrba secondo cui la frammentazione degli habitat, se può determinare l’estinzione, può favorire anche la speciazione. “La frammentazione dell’habitat, in particolare se improvvisa, la frammentazione con origini fisiche, è proprio quello che serve per causare la frammentazione riproduttiva, cioè la speciazione; e con altre parole ancora, l’evoluzione” (27, p. 221). Questo modello generale è la chiave per comprendere la connessione tra il mondo biotico e quello fisico della materia in movimento di cui la vita fa parte. Pertanto l’efficace concetto di Dobzhansky della gerarchia evolutiva, o genealogica, non riesce a stabilire un ponte con il mondo fisico. La gerarchia genealogica rappresenta una realtà del vivente considerata a livelli, in cui ogni livello è composto da entità che continuano a produrne altre: Geni Organismi Demi Specie • Che producono altri geni • Che producono altri organismi • Che producono altri demi • Che producono altre specie Taxa monofiletici Fig. 13 Questa continua produzione di altre entità all’interno della stessa categoria tiene in vita i livelli superiori attraverso il flusso dell’informazione genetica. L’elemento aggiuntivo elaborato da Eldredge è la gerarchia ecologica. Serviva infatti una struttura teorica che andasse a spiegare i fenomeni intergenealogici, cioè quelli che riguardano nello stesso tempo ed allo stesso modo più linee di discendenza che condividono uno spazio. Nel caso della gerarchia ecologica, o economica, l’interesse primario non è la riproduzione, ma le attività di acquisizione di energia da parte dell’organismo. La pura e semplice esigenza di vivere e sopravvivere, ad esempio mangiando e sfuggendo ai predatori, attiva la catena di interazioni che genera gli ecosistemi strutturati. Il gruppo di organismi che interagisce dal punto di vista ecologico 52 è detto avatar (“gruppo economicamente interattivo che svolge un ruolo concertato nel flusso dinamico di materia ed energia in un ecosistema locale” (27, p. 224)). Come livello, l’avatar corrisponderebbe al deme, ma non sempre i due concetti sono sovrapponibili in quanto la popolazione riproduttiva non coincide sempre, anzi quasi mai, con l’effettiva popolazione che scambia materia ed energia con l’ambiente. “Se il flusso dell’informazione genetica e l’incessante attività riproduttiva dei demi e degli organismi componenti sono ciò che mantiene in vita una specie, sono invece le interazioni fisiche ed economiche tra gli avatar di microrganismi, funghi, piante ed animali a far funzionare un ecosistema.” (27, p. 226) E poi aggiunge: “Non meno vitali per la dinamica interna degli ecosistemi sono gli impatti squisitamente fisici del clima e, naturalmente, le fonti fisiche ultime di energia.”(27, p. 226) Esistono quindi due sistemi gerarchici di entità biologiche, separate e distinte dalla loro funzione: L’attività principale a monte della gerarchia genealogica è la riproduzione, quella della gerarchia ecologica è il ricavo dell’energia e l’espletamento di altri compiti essenziali. GERARCHIA ECOLOGICA GERARCHIA GENEALOGICA ECOSISTEMI REGIONALI TAXA MONOFILETICI ECOSISTEMI LOCALI SPECIE AVATAR DEMI ORGANISMI ORGANISMI GENI Fig. 14 53 Per capire in che modo il mondo dell’evoluzione si connetta al mondo della realtà fisica, bisogna trovare il collegamento tra queste due gerarchie. Per Eldredge, la connessione principale tra i due sistemi gerarchici è la selezione naturale, che agisce al livello degli organismi (unico livello incluso in entrambe le gerarchie). Infatti l’evoluzione è, in prevalenza, il destino dell’informazione genetica in un contesto “economico”: il comportamento riproduttivo dei demi produce nuovi organismi che hanno caratteri anatomici, fisiologici e comportamentali differenti. In ambito economico alcuni di questi organismi avranno più successo. È qui che le due gerarchie si incontrano: le caratteristiche genetiche fanno la differenza in ambito economico e ciò che succede nel mondo economico influisce sul patrimonio genetico che viene trasmesso alla progenie. Spostandoci più in alto sulla scala, al livello “ecosistemi locali-specie”, Eldredge rileva una simmetria tra gradi di effetti sulla parte ecologica e i loro effetti sulla parte genealogica, e viceversa. Questo è il modello dello sloshing bucket, secondo cui è come se le connessioni tra gerarchie ecologiche ed evolutive corrispondessero al movimento dell’acqua in un secchio che viene percosso, se poniamo le due gerarchia ognuna ad un lato del secchio, più in alto arriva l’acqua sulle pendici di una gerarchia, più è probabile che sia superiore l’effetto risultante sull’altra gerarchia e viceversa. “Più forte è il trauma, più devastante è la distruzione dell’ecosistema. Più devastante è la distruzione, più in alto nella scala tassonomica è la rimozioni dei pacchetti di informazione genetica. Più alto è il livello della rimozione, più differente è l’informazione genetica superstite per ridare forma alla diversità della vita una volta rimosso il vettore dell’estinzione. Inoltre, maggiore è la disparità dell’informazione genetica da quello che un tempo aveva plasmato gli ecosistemi sulla Terra, più saranno differenti le nuove componenti e quindi i nuovi ecosistemi. Questo è il modello dello sloshing bucket delle interazioni tra due gerarchie. Così io credo, in sintesi, si evolva la vita.” (27, p. 233) A questo punto Eldredge arriva al nocciolo della questione: “Che cosa muove l’evoluzione? Per quanto riguarda me, per certi versi un tipico paleobiologo dell’inizio del XXI secolo, la vita rimane stabile finchè non interviene un fattore che smuove le cose, che “rimescola l’acqua nel secchio”. Quel qualcosa ha di solito natura fisica: meteore che impattano contro la terra, o grandi volumi di materiali piroclastici eruttati dai vulcani, o ancora gli effetti più sottili ma non meno devastanti del cambiamento climatico su scala mondiale.” (27, p. 234) 54 Sono i cambiamenti del paesaggio e le sue conseguenze sulla distribuzione delle sostanze nutritive, della piovosità e della temperatura, che controllano gli eventi di evoluzione della vita. L’esempio più ampio possibile, a livello globale, è quello dei cambiamenti tettonici regionali che modificano i pattern di circolazione oceanica, con profondi effetti sull’atmosfera e quindi sul clima mondiale. Considerando solo la gerarchia genealogica, si perde la possibilità di spiegare tantissimi modelli di evoluzione che caratterizzano la storia della vita. “Il mondo fisico non è un mero fondale dell’evoluzione della vita. Esso muta in modo regolare, comprensibile. Sono cambiamenti che hanno profondi effetti sull’evoluzione della vita: effetti evolutivi regolari e simili a leggi. Inoltre essi richiedono – anzi esigono- l’attenta considerazione razionale e l’incorporazione esplicita nella teoria evoluzionistica.” (27, p. 240). 8.2. Elisabeth Vrba e l’”Impulso di avvicendamento” Elisabeth Vrba, tra i maggiori esperti mondiali di evoluzione dei mammiferi, studia le influenze dei cambiamenti climatici sull’evoluzione a partire dai primi anni Ottanta (101). Le sue teorie, in modo particolare quella dell’”impulso di avvicendamento”, formano un quadro coerente degli elementi che ho chiamato in causa in questa tesi: • Le oscillazioni climatiche del Quaternario • La speciazione allopatrica • La teoria degli equilibri punteggiati “Una questione fondamentale rimane irrisolta: come il mondo fisico sia in relazione con l’evoluzione. Il cambiamento dell’ambiente fisico rappresenta un impulso necessario per la speciazione e l’estinzione? […] Come la speciazione è legata ai cicli climatici di Milankovich? Quale tipo di connessioni causali esistono tra le migrazioni su lunga distanza, il cambiamento climatico e la speciazione?” (103) Elisabeth Vrba si occupa soprattutto di antilopi africane (43) e ritiene che il cambiamento climatico globale di 2,8 milioni di anni fa, periodo che precede di poco l’inizio dell’era Quaternaria con la sua instabilità climatica (l’inizio del Quaternario si colloca infatti a 2,5 milioni di anni fa), sia alla base del drammatico avvicendamento nei bioti africani. La sua “ipotesi dell’impulso di avvicendamento” si basa su un’osservazione chiave: la distruzione degli habitat. Questo ha due conseguenze: 55 Un’alterazione rapida e profonda dell’habitat fa sì che le specie si spostino oppure si estinguano Lo stesso evento può provocare la comparsa di nuove specie, per inseguimento dell’habitat o per speciazione La distruzione degli habitat, infatti, porta spesso a separare le popolazioni e a provocare quindi una frammentazione delle specie. Questa frammentazione favorirebbe, accanto all’inseguimento degli habitat, anche un’accelerazione delle estinzioni e del numero di speciazioni riuscite, quello che Vrba definisce <<turnover pulse>>, impulso di avvicendamento (100). Infatti, nel caso in cui le modificazioni ambientali siano moderate, prevale il fenomeno dell’inseguimento dell’habitat (98), che provoca la migrazione, ma non l’estinzione né la speciazione, mentre nel caso in cui la perturbazione ecologica sia così rapida ed improvvisa da non permettere lo spostamento, molte specie si estingueranno, mentre altre si adatteranno a nuove nicchie ecologiche e si diversificheranno in modo esplosivo. Elizabeth Vrba applica questa teoria anche alla storia dell’origine di Homo sapiens (102), individuando due impulsi di avvicendamento a 5 e a 2,5 milioni di anni fa, in corrispondenza di sconvolgimenti climatici. Scrive Elisabeth Vrba nel 1995, in un volume intitolato Paleoclimate and Evolution (103), “Concludo che, nella maggior parte dei casi, l’allopatria e il conseguente riadattamento delle popolazioni, non passano solo attraverso la competizione biotica, ma sono, in ultima analisi, le conseguenze di un cambiamento dell’ambiente fisico. Queste affermazioni sono avvalorate dalle recenti evidenze del fatto che oscillazioni climatiche astronomiche hanno avuto effetti importanti, regolari e frequenti sugli habitat delle specie”. 56 CONCLUSIONE L’influenza delle scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario ottenuta dai primi carotaggi oceanici, antartici e groenlandesi, della seconda metà degli anni Sessanta, sull’origine della teoria degli equilibri punteggiati non è stata diretta (29), ma dalla ricerca dei punti di contatto tra le due discipline è emersa una storia molto più complessa, che vede i due campi di ricerca intrecciarsi, fin dai tempi di Darwin. Questo intreccio si inserisce nel tema più ampio del rapporto tra evoluzione biologica e ambiente. Ho analizzato come Darwin possedesse già una concezione fortemente dinamica dell’ambiente geologico e fosse ben informato sulle teorie glaciali del suo tempo. La sua visione geologica della terra in termini attualistici ha in qualche modo influenzato la sua concezione gradualistica della trasformazione degli esseri viventi. Per Darwin dunque, l’ambiente è dinamico ma cambia in modo lento e graduale e allo stesso modo si comportano le specie: le loro trasformazioni lungo una stessa linea filetica sono uniformi. L’importanza da lui attribuita alla competizione biotica mette, però, decisamente in ombra il rapporto organismo-ambiente, per cui le trasformazioni dell’ambiente fisico possono accelerare l’azione della selezione naturale, ma non hanno un ruolo fondamentale nel processo di speciazione. La teoria degli equilibri punteggiati non contiene concetti del tutto originali, ma è stata pubblicata in un periodo in cui i principi chiamati in causa potevano essere finalmente recepiti, in quanto la nuova idea di ambiente dinamico e caratterizzato da un ritmo di cambiamento irregolare si conciliava con una concezione di cambiamento evolutivo discontinuo, caratterizzato da lunghi periodi di stasi e brevi picchi di cambiamento. Lo studio di Gould sulle Poecilozonites delle Bermuda, indica come lo scienziato fosse incline a considerare gli effetti del cambiamento climatico sull’oscillazione dei caratteri di questi organismi. Ho trovato gli elementi che collegano le colonne portanti della teoria, riconducibili alla speciazione allopatrica e all’evoluzione quantica di Simpson, con gli studi sui cambiamenti climatici e le ere glaciali. La teoria della speciazione allopatrica infatti, basata sull’importanza dell’isolamento riproduttivo, inserisce un elemento nuovo, un evento geografico in alcun modo connesso con il valore adattativo delle specie e con le pressioni selettive in atto. L’importanza attribuita da Mayr all’isolamento fa sì che le barriere geografiche, costituite da elementi del paesaggio (bracci di mare, fiumi, catene montuose, ghiacciai ecc.), determinino quando e quali popolazioni si modificheranno e raggiungeranno l’isolamento riproduttivo formando una nuova specie. In quest’ottica è naturale come i cambiamenti di questi elementi geografici risultino determinanti per il processo evolutivo. 57 La teoria dell’evoluzione quantica di Simpson è la prima teoria a portare avanti un modello di evoluzione dal ritmo non uniforme e questa si collega con un complicata interazione organismoambiente che rende possibile la comparsa di nuovi caratteri nelle specie. Nella visione di Simpson l’ambiente e l’organismo hanno pari dignità di ruolo nel processo evolutivo. La contestualizzazione della teoria degli equilibri punteggiati è risultata essenziale per riuscire a tracciare un ponte tra quest’ultima e le scoperte sul cambiamento climatico (fig. 13). L’articolo di Gould ed Eldredge si colloca: Tre anni dopo la pubblicazione delle analisi di Camp Century (1969), primo carotaggio di calotta glaciale a restituirci una serie di temperature precisa e datata fino al 100.000 anni fa. Nove anni dopo la formulazione della teoria moderna della Tettonica a placche (1963) Cinque anni dopo la formulazione dei modelli intergenealogici di Newell (1967) Nel decennio successivo ad una serie importante di pubblicazioni che riguardano la connessione tra ere glaciali e speciazione. Le teorie pubblicate negli anni Sessanta, che riguardano il rapporto ere glaciali-speciazione, fanno da premessa ad una concezione della cladogenesi a diretto contatto con l’ambiente fisico. La teoria degli Equilibri Punteggiati è paragonabile alla costruzione di un puzzle, i cui pezzi sono stati ordinati in un quadro coerente ed innovativo. Proprio l’integrazione di questi concetti rivela il quadro che ho cercato di ricostruire in questa tesi. Da una parte si ritrovano le scoperte geologiche degli anni Sessanta, che ci restituiscono una concezione dell’ambiente fisico in perenne ed irregolare cambiamento; dall’altra una nuova attenzione verso il rapporto ambiente-organismo come caratteristica fondamentale del processo evolutivo, derivante dalle teorie di Mayr e Simpson, dai modelli intergenealogici di Newell e da quella serie di studi riguardanti il rapporto ere glacialispeciazione (fig. 14). Infine le teorie degli anni Ottanta di Elizabeth Vrba conciliano gli elementi chiamati in causa: la speciazione allopatrica, gli equilibri punteggiati e i cambiamenti climatici del Quaternario. Sono illuminanti le teorie successive di Eldredge che riguardano l’importanza fondamentale dell’ambiente fisico. La teoria dello sloshing bucket e quella della gerarchia ecologica rappresentano un punto di arrivo nel percorso sulla considerazione del rapporto organismoambiente fisico che, in quest’ottica, sarebbe iniziata proprio negli anni Sessanta e di cui la teoria degli Equilibri Punteggiati rappresenta una tappa fondamentale. 58 Fig. 13 Fig. 13 59 RAPPORTO ORGANISMO AMBIENTE •Speciazione allopatrica •Evoluzione Quantica •Modelli intergenealogici • Teorie speciazioneere glaciali Equilibri Punteggiati AMBIENTE IRREGOLARMENTE DINAMICO •Scoperte sul cambiamento climatico •Teorie tettoniche Fig. 14 In questa tesi ho analizzato solo alcune delle relazioni che legano il modello degli equilibri punteggiati con le scoperte sulle oscillazioni climatiche del Quaternario. Rimangono soprattutto da approfondire in futuro: Un’analisi approfondita della letteratura epistemologica a proposito dei legami tra cambiamenti dell’ambiente fisico ed evoluzione Una ricerca più approfondita della conoscenze paleoclimatiche di Eldredge e Gould I legami tra cambiamento ambientale e speciazione allopatrica Una contestualizzazione storico-scientifica più ampia della teoria 60 BIBLIOGRAFIA 1. Adhémar, J., 1842, Révolutions de la mer, déluges périodiques, Paris, Carilian-Goeury & V. Dalmont 2. Agassiz, L., 1840 Études sur les glaciers, Neuchâtel, privately published (English translation, Studies on glaciers ; Hafner, New York, 1967.) 3. Aubreville, A., 1962, Savanisation tropicale et glaciations quaternaires, Adansonia vol. 2 pp. 16 4. Bateson, W. 1908, The methods and scope of genetics. Cambridge, University Press 5. Bigarella, J. J., De Andrade, G. O., 1965, Contribution to the study of the Brazilian Quaternary, Geol. Soc. Amer. Spec. Paper 84 6. Cailleux, A.,Tricart, J., 1957, Zones fitogeographiques et mo- noclimatiques du quartenaire, dans le Brésil Compt Rend. Soc. Biogeograph. vol. 293, pp. 7 7. Cole, M. M., 1960, Cerrado, Caatinga, and Pantanal : distribution and origin of the savanna vegetation of Brazil, Geograph. J. vol. 126 pp. 166 8. Cope, G. R., 1979, Late cenozoic fossil coleoptera: evolution, biogeography, ecology, Ann. Rev. Ecol. Syst. Vol. 10, pp. 247-267 9. Cremaschi, M., 2000, Manuale di Geoarcheologia, Laterza 10. Croll, J., 1875, Climate and Time in Their Geological Relations. A theory of secular change, London: Daldy, Isbister, & Co 11. Croll to A.R. Wallace, 24 July 1880, in Irons, pp. 359; Croll to Charles Darwin, 3 Nov. 1886, in Irons, pp. 431. 12. Dansgaard, W, 1954, The 18O abundance in fresh water, Geochimica and Cosmochimica acta, vol. 6, Issues 5-6, pp. 241-260 13. Dansgaard, W., J.Moller, and C.C. Langway, Jr, 1969, One thousand centuries of climatic record from Camp Century on the Greenland ice sheet. Science, 166, pp. 377-381. 14. Darlington, P. J., 1957, Zoogeography, Wiley, New York. 15. Darlington, P. J., 1964, Biogeography of Half the World, Science, vol. 144, pp. 708-709 16. Darwin, C., Taccuini 1836-1844, Laterza Roma-Bari 2008. 17. Darwin, C., 1859, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, trad it. L’origine delle specie, Balducci, Grandi Tascabili Economici Newton 18. Dawkins R., 1976, The selfish gene, Trad it. Il gene egoista, Mondadori, Milano 1994 19. Deevey, E. S., Jr. 1949 Biogeography of the Pleistocene. Bull. Geol. Soc. Amer.vol. 60 pp. 1315-1416 61 20. Desmond, A., Moor, J., 1991, Darwin, Michael Joseph, London, trad it. Vita di Charles Darwin, Bollati Boringhieri 20b. Dillon, L.,S., 1956, Wisconsin Climate and Life Zones in North America, Science vol. 123, pp. 167–176 21. Dobzhansky, T., 1937, Genetics and the origin of species, , Columbia University Press, 1937 22. Dupont, L. M., Leroy, S. A. G., 1995, Steps toward drier climatic condition in Northwestern Africa during the upper Pliocene, in Paleoclimate and Evolution in in Vrba, E., Denton, G. H., Patridge, T. C., 1995, Paleoclimate and Evolution, with enfasis on human origins. Yale University Press/New haven and London 23. Eldredge, N. e S.J. Gould. 1972, Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism. In T.J.M. Schopf, Models in Paleobiology. San Francisco: Freeman, Cooper & Co., pp. 82-115, Trad. it. “Gli equilibri punteggiati: un’alternativa al gradualismo filetico”, in Eldredge, N., Strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze. 24. Eldredge, N., 1972, Systematics and evolution of Phacops rana (Green, 1832) and Phacops iowensis Delo, 1935 (Trilobita) in the Middle Devonian of North America, Bulletin of the American museum of natural history, 1972, 47, pp. 45-114. 25. Eldredge, N., 1985, Time Frames, Simon and Schuster, New York, trad it. Le strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze. 26. Eldredge, 1995, The great debate at the high table of evolutionary theory, N. Eldredge, 1995, John Wiley & Sons, New York, trad it. Ripensare Darwin, Biblioteca Einaudi 27. Eldredge, N., 1999, The Pattern of Evolution, New York, Free- man; trad. it. 2002, Le trame dell'evoluzione, Milano, Cortina Editore. 28. Eldredge, N., 2003, The sloshing bucket: How the physical realm controls evolution. New York: Oxford University Press; pp. 3–32. 29. Eldredge N., Contatto personale, 11-05-12, Venezia. 30. Emiliani, C., 1954, Depth habitats of some species of pelagic foraminifera as indicated by oxygen isotope ratios. American Journal of Science vol 252 pp. 149–158 31. Ericson, D. B., 1959, Coiling Direction of Globigerina pachyderma as a Climatic Index, Science, vol.130, pp. 219 32. Ericson, D. B., Ewin, M., Wolling, G., 1963. Pliocene.Pleistocene boundary in deep sediments. Science, vol. 139, pp. 727-737 62 33. Feyerabend, P., Colodny, R. G., 1965, “Problems of Empiricism”, Beyond the Edge of Certainty: Essays in Contemporary Science and Philosophy, New Jersey: Prentice-Hall, pp. 145–260 34. Fisher, R., 1915, Frequency Distribution of the Values of the Correlation Coefficient in Samples from an Infinitely large Population, Biometrika vol. 10, issue 4, pp. 507-521 35. Garner, H. F., 1959, Stratigraphic-sedimentary significance of contemporary climate and relief in four regions of the Andes Montains, Bull. Geol. Soc. Amer.vol. 70 pp. 1870 36. Garner, H. F., 1966, Derangement of the Rio Caroni, Venezuela, Rev. Geomorphol. Dynamique vol.2, pp. 54 37. Garner, H. F., 1967, Rivers in the making, Sci. American vol. 216 pp. 84 38. Goldschmidt R., 1940, The material basis of evolution, Yale University Press, New Haven, Conn 39. Gould, S. J., 1969, An evolutionary microcosm: Pleistocene and recent history of the land snail P. (Poecilozonites) in Bermuda, Bulletin of the museum of comparative zoology, vol. 138, pp. 407-531 40. Gould, S. J., 1970, Coincidence of climatic and faunal fluctuations in Pleistocene Bermuda, Science, vol. 168 pp. 572-73 41. Gould, S. J., 1989, Wonderful Life, New York. W. W. Norton & Company, p. 140. 42. Gould, S. J., 2007, L’equilibrio punteggiato, Codice Edizioni 43. Greenacre, M. J., Vrba, E. S., 1985, Graphical display and interpretation of antelope census data in African wildlife area, South Africa Statistical Journal, vol. 19, Issue: 2 , pp. 140 44. Haffer, J., 1967, Speciation in Colombian forest birds west of the Andes, American Museum Novitates, n° 2294, pp.1–57 45. Haffer, J., 1968, Über die Entstehung der nördlichen Anden und das vermutliche Alter columbianischer Vogelarten, Journal of Ornithology vol. 109 pp. 67 46. Haffer, J., 1969, Speciation in Amazonian forest birds, Science, Vol.165, pp. 131-137 47. Haffer, J., 2008, The origin of modern ornithology in Europe. Archives of natural history vol. 35 (1), pp. 76–87 48. Haldane, J. B. S., A Mathematical Theory of Natural and Artificial Selection, a series of papers beginning in 1924-1934, Proceedings of the Cambridge Philosophical Society (link: http://en.wikipedia.org/wiki/A_Mathematical_Theory_of_Natural_and_Artificial_Selection) 63 49. Hall, P., 1963, The francolins a study in speciation, Bull. Brit. Museum Zool. vol. 10, pp. 105 50. Hansen, L.B., and C.C. Langway, Jr. 1966. Deep core drilling in ice and core analysis at Camp Century, Greenland, 1961-1966. CREEL Spec. Report 126, no.5, pp. 207-208 51. Hays, J. D., Imbrie, J., Shackleton, N. J., 1976, Variations in the Earth's Orbit: Pacemaker of the Ice Ages, Science vol. 194, pp. 1121–1132 52. Hess, H. H, 1962, History Of Ocean Basins, in in: Petrologic Studies: A Volume in Honor of A. F. Buddington Bolder, Princeton University, Princeton. 53. Hester, J., 1966, Late Pleistocene Environments and Early Man in South America, The American Naturalist, vol. 100, pp. 383 54. Hooghiemstra H., 1995, Enviromental and paleoclimatic evolution in late PlioceneQuaternary Columbia, in Pleoclimate and Evolution in Vrba, E., Denton, G. H., Patridge, T. C., 1995, Paleoclimate and Evolution, with enfasis on human origins. Yale University Press/New haven and London 55. Howard, W. R., 1985. Late Quaternary southern Indian ocean circulation. S. Afr. J. Sci. vol. 81 pp. 253-254 56. Hunley, B., and Webb, T., 1989. Migration: species’ response to climatic variations caused by changes in the earth’s orbit. J. Biogeog. Vol. 16, pp. 5-19 57. Huxley, J., 1942, Evolution: the modern synthesis, Bradford and Dickens dryaton house, London W.C.I. 58. Imbrie, J., Imbrie, K. P., 1979, Ice Ages: Solving the Mystery, Short Hills NJ: Enslow Publishers 59. Irons, J. C., 1896. Autobiographical Sketch of James Croll with Memoir of his Lifeand Work. Edward Stanford, London. 60. Keast, A., 1961, Bird speciation in Australian continent, Bull. Museum Comp. Zool. vol. 123, pp. 305 61. Klicka, J., Zink, R. M., 1997, The Importance of Recent Ice Ages in Speciation: A Failed Paradigm, Science, Vol. 277 no. 5332 pp. 1666-1669. 62. Koppen, W., Wegener, A., 1924, Die klimate der geologischen vorzeit. Berlin (Gebrüdr Borntraeger) 63. Kuhn, T., 1962, The Structure of Scientific Revolutions, , Chicago University Press 64. Kurten, B., 1959, Rates of evolution in fossil mammals. Cold Spring Harbour Symp. Quant. Biol. vol. 24, pp. 205-215 64 65. Kurten, B., 1960, Chronology and faunal evolution of the earlier European glaciations, Soc. Sci. Fenn. Comment. Biol. vol. 21, pp. 1 66. Kurten, B., 1965, The carnivora of the Palestine caves, Acta Zool. Fenn. vol. 107, pp. 1 67. Lyell, C.,1830-1833, Principles of geology, London: J. Murray 68. Mayr, E. 1942 Systematics and the Origin of Species, Columbia University Press. Edizione del 1999 con prefazione dell’autore. 69. Mayr, E. 1959, Agassiz, Darwin, and Evolution, Harvard Library Bulletin. Vol. 13, pp. 165–194 70. Mayr, E., 1963, Animal species and Evolution, Harvard University Press Cambridge 71. Milankovich, M., 1920, , Teoria matematica dei fenomeni termici prodotti dalla radiazione solare, Pubblicazioni dell’Accademia delle Scienze e delle Arti Serba , da Gauthiers-Villards a Parigi. 72. Moreau, R. E., 1963, Vicissitudes of the African biomes in the late Pleistocene, Proc. Zool. Soc. London vol. 141, pp. 395 73. Moreau, R. E., 1966, The birds faunas of Africa and its Islands, Academic Press, New York 74. Newell, N. D. 1959, The Nature of the Fossil Record, Proceedings, American Philosophical Society vol. 103 (2) pp. 264-285. 75. Newell, N., 1963, Crisis in the history of life, Scientific American vol 208 pp. 77 76. Newell, N., 1965, Mass extinctions at the end of the cretaceous period, Science vol 149 pp. 922 77. Newell, N. D., 1967, Revolutions in the History of Life, In Uniformity and Simplicity. Boulder CO: Geology Society of America, pp. 63–91. 78. Pel, W., 1966, Le idee biologiche di Harvey. Aspetti scelti e sfondo storico, traduzione di Adriano Carugo, Feltrinelli, Milano 1979 79. Peabody, F. E., Savage, J. M., 1958, Evolution of a coast range corridor in California and its effects on the origin and dispersion of living amphibians and reptiles. American Association Advancement Science, Publication vol. 51, pp. 159- 86 80. Penck, A., Brückner, E, 1909, Die Alpen im Eiszeitalter, Leipzig, Tauchnitz 81. Pievani, T., 2005, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza 82. Pievani, T., 2012, Introduzione a Darwin, Laterza 83. Rand, A. L., 1948, Glaciation, an isolating factor in speciation. Evolution vol. 2 pp. 314321 65 84. Ridley, M., 2004, Evolution Third Edition, Blackewll Science Ltd, a Blackwell Publishing Company 85. Routland, R. W. R., Guest, J. E., Grasty, R. L., 1965, Isotopic Ages and Andean Uplift, Nature vol. 208, pp. 677 86. Saturday Review, Oct. 1887, cited in Irons, pp. 438. 87. Shackleton, N., 1973, Oxygen isotope and palaeomagnetic stratigraphy of Equatorial Pacific core V28-238: Oxygen isotope temperatures and ice volumes on a 105 year and 106 year scale. Quaternary Research, vol.3 pp. 39 88. Simpson, G. G., 1944, The tempo and the mode of evolution, Columbia University Press 89. Simpson, 1949, The meaning of evolution, Yale University Press 90. Simpson G. C., 1953, The major features of evolution, Columbia University Press, New York 91. Simpson, G. G., 1963, Historical Science, in Albritton, Claude C., Jr, The fabric of geology: Standford, Calif., Freeman, Cooper & Co, P.372 92. Shindelwolf, O., 1936, Paleontology, development, and genetics: A critique and synthesis, Berlin: Gebrüder Bornträger. 93. Stebbins, G. L., 1950, Variation and evolution in plants, , Columbia University Press, New York 94. Stressmann, E., 1939, Die Vogel von Celebes J. Ornithol. vol. 87, pp. 409 95. Ueda, H. T., Garfield, D. E., 1970, Deep core drilling at Byrd Station, Antarctica. Cold Regions Research and Engineering Laboratory, Hanover, New Hampshire 03755, U.S.A. 96. Urey, H.C., 1952, The Planets: Their Origin and Development. New Haven, Conn.: Yale Univ. Press 97. Van der Hammen, T., Gonzales, E., 1961, Upper Pleistocene and Holocene climate and vegetation of the Sabana de Bogotá (Colombia). Leidse Geol. Mendedel, vol. 25, pp. 261 98. Van Valen, L., 1985, A theory of origination and extinction, Evolutionary Theory, vol. 10, pp.1-13 99. Venetz, I., 1833, Mémoire sur les Variations de la température dans les Alpes de la Suisse, Zurich: Orelli Fussli 100. Vrba, E. S., 1985, Enviroment and Evolution: alternative cases of the temporal distribution of evolutionary events, South African Journal of Science, LXXXI, pp. 229-36 101. Vrba, E. S., Burckle, L. H., Denton, G. H., 1985, Paleoclimate and evolution 1. Proceedings of a workshop held at lamont Doherty geological observatory of 66 Columbia- University, Palisades, New York in September 1984. South Africa Journal of Science, vol 81, issue 5, pp. 224 102. Vrba, E. S., Denton, G. H., Prentice, M. L., 1989, Climatic influence on early hominid behavioue, Ossa, n°14, pp. 127-156 103. Vrba, E., Denton, G. H., Patridge, T. C., 1995, Paleoclimate and Evolution, with enfasis on human origins. Yale University Press/New haven and London 104. Vries, H., Darbishire, A. D., Farmer, J. B., 1909-1910, The mutation theory, Chicago,Open Court Publishing Company 105. Vuilleumier, B., S., 1971, Pleistocene Changes in the Fauna and Flora of South America, Science, Vol. 173 no. 3999 pp. 771-780 106. Vuilleumier, F., 1969, Speciation in Tropical Environments Science, pp. 210-211. 107. Vuilleumier, F.,1999, Biogeography on the Eve of the Twenty-first Century: Towards an Epistemology of Biogeography. Proceedings of the 22nd International Ornithological Congress, Durban, Ostrich vol. 70 pp. 89-103. 108. Wegener, A., 1915, Die Entstehung der Kontinente und Ozeane. Trad eng. The Origin of Continents and Oceans, Dover pubblications, 1966. 109. Williams G. C., 1966, Adaptation and natural selection: a critique of some current evolutionary thought, Princeton University Press, Princeton, NJ 110. Wilson, T. J., 1963, Continental drift, Scientific American , vol. 208, no. 4, pp. 86- 103 111. Wilson, T. J., 1963, Hypothesis of Earth's Behaviour, Nature , vol. 198, no. 4884, pp. 925-929 112. Wilson, T.J., 1963, Evidence from Islands on the Spreading of Ocean Floors, Nature , vol. 198, no. 4884, pp. 925-929 113. Wright, S., 1931, Statistical methods in biology, Journal of the American Statistical Association Volume 26, Issue 173A. Siti 114. http://www.sciencemag.org/search 115. http://www.nature.com/search/adv_search 116. web.mit.edu/raffaele/www/files/FerrariFerrariAccademia05.pdf 117. Rapporti originali del progetto su http://www.deepseadrilling.org/ 118. http://academic.research.microsoft.com/ con parole chiave “Climatic Variation” e “Plate tectonics” 119. http://it.wikipedia.org/wiki/Glaciazione#cite_note-7 67 RINGRAZIAMENTI Ringrazio tantissimo i miei relatori: Prof. Marco Ferraguti, Dott. Emanuele Serrelli e Prof. Mauro Cremaschi, per la disponibilità e la passione con cui mi hanno aiutato a dare forma alle mie idee. Ringrazio anche Valter Maggi per le utili indicazioni riguardo la storia dei carotaggi antartici. Voglio ringraziare ancora, ed in particolare, Marco Ferraguti per aver colto le mie inclinazioni e aver permesso la realizzazione di questa tesi “un po’ strana” , oltre che per la sua disponibilità infinita a discutere sui miei dubbi e perplessità. Ho imparato più cose grazie ai suoi “consigli da zio” che da tanti libri e conferenze! 68