IL CODICE PENALE

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IL CODICE PENALE
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R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398. Approvazione del
testo definitivo del Codice penale (Suppl. alla
Gazzetta Ufficiale n. 251 del 26 ottobre 1930).
Vittorio Emanuele III
per grazia
di Dio e per volontà
della Nazione Re d’Italia
Vista la legge 24 dicembre 1925, n. 2260, che delega al Governo del Re la facoltà di emendare il codice
penale;
Sentito il parere della Commissione parlamentare,
a’ termini dell’articolo 2 della legge predetta;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro
Segretario di Stato per la giustizia e gli affari di culto;
1. Il testo definitivo del codice penale portante la
data di questo giorno è approvato ed avrà esecuzione
a cominciare dal 1° luglio 1931.
2. Un esemplare del suddetto testo definitivo del
codice penale, firmato da Noi e contrassegnato dal
Nostro Ministro Segretario di Stato per la giustizia e gli
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affari di culto, servirà di originale e sarà depositato e
custodito nell’Archivio del Regno.
3. La pubblicazione del predetto codice si eseguirà
col trasmetterne un esemplare stampato a ciascuno
dei Comuni del Regno, per essere depositato nella sala
comunale, e tenuto ivi esposto, durante un mese successivo, per sei ore in ciascun giorno, affinché ognuno
possa prenderne cognizione.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del
sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale
delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a S. Rossore, addì 19 ottobre 1930.
VITTORIO EMANUELE
Mussolini–Rocco
Visto, il Guardasigilli: Rocco.
Registrato alla Corte dei Conti, addì 22 ottobre
1930 – Atti del Governo, registro 301, foglio 58.
Mancini
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TITOLO I – LEGGE PENALE
LIBRO I
DEI REATI IN GENERALE
TITOLO I
DELLA LEGGE PENALE
1. Reati e pene: disposizione espressa di legge. –
Nessuno può essere punito (132) per un fatto che non
sia espressamente preveduto come reato dalla legge
(40, 42, 85), né con pene che non siano da essa stabilite
(199; 25 Cost.) (1).
(1) L’art. 1, primo comma, della L. 24 novembre 1981, n. 689,
in tema di depenalizzazione, stabilisce che nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della
violazione.
SOMMARIO:
a) Principio di legalità;
b) Norma penale in bianco.
a) Principio di legalità.
l L’applicazione di una pena accessoria extra
o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio
in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità,
nella specie e nella durata, e non derivi da errore
valutativo del giudice della cognizione. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 12 febbraio 2015, n. 6240
(c.c. 27 novembre 2014), Basile. [RV262327]
l Il principio di legalità della pena è vincolante non solo quando venga applicata una pena
non prevista o diversa da quella contemplata dalla
legge, ma anche quando venga applicata una pena
che esula dalle singole fattispecie legali penali perché pena legale è anche quella risultante dalle varie
disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, tra le quali rientrano le norme sulle circostanze aggravanti. (Affermando tale principio la Cassazione ha eliminato la pena della multa inflitta per
il reato di corruzione ai sensi dell’art. 24, comma 2,
c.p. che consente l’aggiunta della pena della multa
per i delitti determinati da motivi di lucro puniti
con la sola reclusione: all’uopo ha considerato che
il reato ascritto all’epoca dei fatti era punito con
la pena congiunta della reclusione e della multa e
che pertanto, per il principio di legalità della pena,
esso rimaneva fuori della previsione aggravatoria
di cui al suddetto articolo). * Cass. pen., sez. VI, 2
luglio 1994, n. 7505 (ud. 25 marzo 1994), Caputo.
l Il principio di stretta legalità vigente in diritto penale impone al giudice di attenersi alla
precisa dizione della norma incriminatrice, senza
indulgere a interpretazioni analogiche e, ove la
norma del tutto chiara non sia, di attenersi all’interpretazione giurisprudenziale imperante, che la
abbia esplicitata, ad evitare diverse interpretazioni che espongano il cittadino a responsabilità di
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Art. 1
maggior contenuto a quelle cui il cittadino medesimo, in base al principio di cui all’art. 1 c.p.,
era espressamente chiamato dalla norma incriminatrice e dalla giurisprudenza al riguardo. (Nella
specie, relativa ad annullamento senza rinvio
perché il fatto non costituisce reato di sentenza di
condanna per avere l’imputato effettuato scarichi
dai servizi civili, in un fosso adiacente alla propria
fabbrica senza avere richiesto la prescritta autorizzazione, la S.C. ha osservato che la coincidenza dell’epoca dell’accertamento dello scarico con
quella del mutamento della giurisprudenza imperante, che non richiedeva l’autorizzazione, avrebbe imposto come soluzione obbligata l’assoluzione dell’imputato, la quale, oltreché dettata dall’art.
5 c.p. nella lettura fattane dalla Corte costituzionale, è suggerita, prima ancora, dal principio di
stretta legalità). * Cass. pen., sez. III, 19 gennaio
1994, n. 435 (ud. 6 ottobre 1993), Garofoli.
l La norma intesa come imperativo o come
giudizio ipotetico è sempre un unicum che proviene dal legislatore, il quale, anche quando collega il precetto alla sanzione, pur se attraverso
un rinvio ad altre norme, è investito al riguardo
di una competenza esclusiva, non esercitabile in
funzione surrogatoria dall’interprete della legge.
(Fattispecie in tema di reati militari). * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 15 giugno 1984, n. 5655 (ud. 26
maggio 1984), Sommella.
l La sanzione da applicare ad una fattispecie
che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in
legislatore con mancata incidenza negativa sia
sul principio di sia sulla stessa efficacia deterrente delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare,
con l’intervento del giudice il comportamento del
soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica commentoria legislativa. (Applicazione in tema di reati militari puniti
dagli artt. 186 e 189 cod. pen. mil. pace dichiarati
costituzionalmente illegittimi nella parte sanzionatoria con la prospettazione delle punibilità da
applicare a tutte le fattispecie di insubordinazione militare le sanzioni punite dalla legge penale
comune). * Cass. pen., Sezioni Unite, 15 giugno
1984, n. 5655 (ud. 26 maggio 1984), Sommella.
l Il principio di legalità della pena (art. 1 c.p.)
è violato qualora venga applicata una pena non
prevista o diversa da quella prevista dalla legge
per un determinato reato. Rientra, tuttavia, nel
concetto di legalità anche la pena comminata
dalle singole fattispecie penali, nonché quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, nelle quali disposizioni,
oltre le norme sulle circostanze (aggravanti o attenuanti) va ricompresa la normativa concernente il trattamento sanzionatorio previsto dall’art.
81 c.p.* Cass. pen., Sezioni Unite, 8 giugno 1981,
n. 5690 (ud. 7 febbraio 1981), Viola.
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
b) Norma penale in bianco.
l La norma o la prescrizione di rinvio, espressamente richiamata a completamento del precetto, viene a svolgere una funzione integratrice
della norma penale in bianco e ad essere, quindi,
in essa incorporata. Ne discende che la norma in
bianco non è in contrasto con la riserva di legge di
cui all’art. 25 Cost. poiché, attraverso il suddetto
procedimento di integrazione, la fonte immediata della norma penale resta pur sempre la legge
(in senso formale o sostanziale), mentre la norma
regolamentare o l’atto della pubblica amministrazione riveste il ruolo di completamento ed integrazione del precetto nei limiti e con il contenuto
indicati con sufficiente specificazione dalla norma
primaria. (Nella specie tale rapporto di integrazione è stato individuato nell’art. 58 del regolamento
di esecuzione del t.u. delle leggi di P.S. e l’art. 221
del t.u. medesimo, definita norma penale in bianco). * Cass. pen., Sezioni Unite, 30 giugno 1984,
n. 6176 (ud. 24 marzo 1984), Romano.
2. Successione di leggi penali (1). – Nessuno può es-
sere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (25 Cost.).
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e,
se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli
effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge
posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria,
la pena detentiva inflitta si converte immediatamente
nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (2).
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato
e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile (648 c.p.p.) (3).
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non
si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti
(14 prel.).
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decreto legge e nei casi di un decreto legge convertito
in legge con emendamenti (77 Cost.) (4).
(1) Si vedano gli artt. 10, 12 e 15 delle disposizioni sulla legge
in generale del codice civile.
(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 14 della L. 24 febbraio 2006, n. 85.
L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si applicano, in quanto
compatibili, gli articoli 101 e 102 del D.L.vo 30 dicembre 1999, n.
507.
(3) L’art. 30, quarto comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87,
contenente norme sul funzionamento della Corte costituzionale,
stabilisce che, qualora in applicazione di una norma dichiarata
incostituzionale sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di
condanna, ne cessino l’esecuzione e tutti gli effetti penali.
(4) La Corte costituzionale con sentenza 19 febbraio 1985,
n. 51 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma
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nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le
disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo articolo.
SOMMARIO:
a) Ambito di operatività;
b) Abolitio criminis;
c) Applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo;
d) Leggi eccezionali o temporanee;
e) Disposizioni contenute in un decreto legge;
f) Casistica; f-1) Consumo di gruppo di stupefacenti; f-2) Circolazione stradale; f-3) Reati fallimentari; f-4) Reati societari; f-5) Servizio militare;
f-6) Reati in tema di paesaggio; f-7) Oltraggio a
pubblico ufficiale; f-8) Reati edilizi; f-9) Trasporto
di oli minerali; f-10) Ricettazione; f-11) Adesione
della Romania alla U.E; f-12) Reati doganali; f-13)
Falsità in valori di bollo; f-14) Danneggiamento;
g) Associazione per delinquere.
a) Ambito di operatività.
l Non viola il principio di legalità, anche convenzionale, l’interpretazione giurisprudenziale
della legge penale in senso sfavorevole all’imputato, rispetto a precedenti decisioni, nella misura
in cui la possibilità di letture diverse della norma
incriminatrice non discenda da una patologica
indeterminatezza della fattispecie, e l’interpretazione sfavorevole sia comunque razionalmente
correlabile al significato letterale della previsione.
(Fattispecie in tema di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, rispetto alla quale la
S.C. ha precisato che la sentenza della Corte EDU,
14 aprile 2015, Contrada c. Italia si è mossa da
una premessa errata, laddove ha ritenuto che il
suddetto reato abbia origine giurisprudenziale,
quando invece si fonda, nel rispetto del principio
di legalità, sulla combinazione tra la norma incriminatrice speciale e l’art. 110 cod. pen.). * Cass.
pen., sez. V, 12 ottobre 2016, n. 42996 (c.c. 14 settembre 2016), P.M., P.C. in proc. Ciancio Sanfilippo. [RV268203]
l In tema di pubblicazione della sentenza di
condanna, le modifiche apportate all’art. 36 cod.
pen. dall’art. 37, comma 18, del D.L. 6 luglio 2011,
n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111,
non hanno introdotto nel sistema penale una
nuova sanzione accessoria, ma hanno diversamente modulato il contenuto di pena accessoria
già prevista, sostituendo alla tradizionale forma
di pubblicazione sulla stampa quella via "internet", così determinando un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art.
2, quarto comma, cod. pen., con la conseguenza
che non è applicabile ai fatti pregressi la nuova
disciplina, in quanto maggiormente afflittiva. *
Cass. pen., sez. II, 1 febbraio 2016, n. 4102 (ud. 12
gennaio 2016), Diop. [RV267285]
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TITOLO I – LEGGE PENALE
l Le disposizioni inserite nella legge 28 aprile
2014, n. 67, che prevedono la delega al Governo
per la depenalizzazione di una serie di reati ivi
elencati, non hanno effetti immediatamente abrogativi, i quali, invece, sono subordinati all’emanazione dei decreti delegati, avendo la legge delega
natura di atto normativo strumentale alla futura
produzione legislativa, cui spetta anche la previsione di meccanismi compensatori, quali adeguate sanzioni civili. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza del giudice di pace
che aveva disposto il proscioglimento per i reati di
cui agli artt. 633 e 635 cod. pen., ritenendo intervenuta la depenalizzazione degli stessi per effetto
dell’art. 2 della legge n. 67 del 2014). * Cass. pen.,
sez. II, 22 giugno 2015, n. 26216 (ud. 3 giugno
2015), P.G. in proc. Mercurio e altro. [RV264398]
l Non può trovare applicazione la legge
penale modificativa più favorevole entrata in vigore dopo la sentenza della Corte di cassazione
che dispone l’annullamento con rinvio ai soli fini
della determinazione della pena, ma prima della
definizione di questa ulteriore fase del giudizio,
poiché i limiti della pronuncia rescindente determinano l’irrevocabilità della decisione impugnata
in ordine alla responsabilità penale ed alla qualificazione dei fatti ascritti all’imputato. (Fattispecie
relativa a condanna per concussione annullata limitatamente alla individuazione della pena prima
dell’approvazione della legge 6 novembre 2012, n.
190). * Cass. pen., Sezioni Unite, 14 aprile 2014,
n. 16208 (ud. 27 marzo 2014), C. [RV258654]
l Le disposizioni concernenti l’esecuzione
delle pene detentive e le misure alternative alla
detenzione, non riguardando l’accertamento del
reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le
modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, (in
assenza di una specifica disciplina transitoria),
soggiacciono al principio "tempus regit actum" e
non alle regole dettate in materia di successione
di norme penali nel tempo. (Principio affermato
in relazione alla modifica dell’art. 4 bis della legge
n. 354 del 1975, relativo alla previsione della concedibilità dei permessi premio ai detenuti per il
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione solo in caso di collaborazione con la giustizia).
* Cass. pen., sez. I, 12 marzo 2013, n. 11580 (5
febbraio 2013), Schirato. [RV255310]. Conforme,
Cass. pen., sez. I, 17 marzo 1993, n. 108 (c.c. 14
gennaio 1993), Primerano.
l In presenza di una successione di leggi che
comporti la depenalizzazione di una fattispecie
in precedenza prevista come reato, le sanzioni
amministrative trovano immediata applicazione
nel caso in cui il giudizio penale instaurato nella
vigenza della legislazione precedente non risulti
concluso alla data di entrata in vigore della legge
di depenalizzazione. * Cass. pen., sez. fer., 7 novembre 2011, n. 40146 (ud. 23 agosto 2011), Zhu.
[RV251659]
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Art. 2
l Il criterio di ragguaglio di euro 250 di pena
pecuniaria per un giorno di pena detentiva di
cui all’art. 135 c.p. come modificato per effetto
dell’art. 3, comma sessantaduesimo, della L. n. 94
del 2009, non si applica, ai fini della sostituzione
"ex" art. 53 L. n. 689 del 1981, ai fatti commessi
prima dell’entrata in vigore della predetta modifica in quanto norma meno favorevole rispetto
alla disciplina pregressa. * Cass. pen., sez. III, 19
maggio 2011, n. 19725 (ud. 14 aprile 2011), Proia.
[RV250333]
l Il principio "tempus regit actum" riguarda
solo la successione nel tempo delle leggi processuali e non anche delle interpretazioni giurisprudenziali di queste ultime. * Cass. pen., sez. II, 25
maggio 2010, n. 19716 (c.c. 6 maggio 2010), Merlo. [RV247114]
l In caso di successione di disposizioni diverse concernenti misure alternative alla detenzione,
che non attengono né alla cognizione del reato,
né all’irrogazione della pena, ma alle modalità
esecutive di questa, non operano le regole dettate dall’art. 2 c.p., né il principio costituzionale
di irretroattività delle disposizioni "in peius", ma
quelle vigenti al momento della loro applicazione.
(Nella specie si è ritenuta corretta la dichiarazione di inammissibilità, nella vigenza del D.L. 23
febbraio 2009 n. 11, quando esso era in corso di
conversione, di un’istanza di affidamento in prova
al servizio sociale presentata da condannato per
delitto di cui all’art. 609-quater c.p., commesso
prima dell’entrata in vigore del predetto decretolegge; ed è stata tuttavia annullata con rinvio la
decisione impugnata, sul rilievo di una modificazione "in melius" introdotta dalla successiva legge
di conversione n. 38 del 2009 in ordine ai presupposti di concessione della misura). * Cass. pen.,
sez. I, 3 settembre 2009, n. 33890 (c.c. 26 giugno
2009), Miglioranza. [RV244831]
l In tema di successione di leggi nel tempo, il
principio di irretroattività della legge penale opera con riguardo alle norme incriminatrici e non
anche alle misure di sicurezza, sicché la confisca
obbligatoria del veicolo, con il quale sia stato
commesso il reato di guida in stato di ebbrezza
con accertamento di un tasso alcolemico superiore a g. 1,5 per litro, trova applicazione anche relativamente ai fatti commessi prima dell’entrata in
vigore dell’art. 4 della L. n. 125 del 2008, che l’ha
introdotta. * Cass. pen., sez. IV, 5 marzo 2009, n.
9986 (c.c. 27 gennaio 2009), P.G. in proc. Favè.
[RV243297]
l In tema di successione di leggi penali, la
modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se
tale norma è integratrice di quella penale oppure
ha essa stessa efficacia retroattiva. (Nella specie,
la Corte ha ritenuto che l’adesione della Romania
all’Unione europea, con il conseguente acquisto
da parte dei rumeni della condizione di cittadini
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
europei, non ha determinato la non punibilità del
reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine del
questore di allontanamento dal territorio dello
Stato commesso dagli stessi prima del 1° gennaio 2007, data di entrata in vigore del Trattato
di adesione, in quanto quest’ultimo e la relativa
legge di ratifica si sono limitati a modificare la situazione di fatto, facendo solo perdere ai rumeni
la condizione di stranieri, senza che tuttavia tale
circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente sul reato già commesso). * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 16 gennaio 2008, n. 2451 (ud. 27
settembre 2007), P.G. in proc. Magera. Conforme, Cass. pen., sez. I, 6 marzo 2008, n. 10265
(ud. 28 febbraio 2008), P.G. in proc. Cristofan.
[RV238197]
l La nuova formulazione delle norme che
prevedono i delitti di false comunicazioni sociali
(artt. 2621 e 2622), nel testo introdotto dall’art.
1 D.L.vo 11 aprile 2002, n.61, non ha comportato l’abolizione totale dei reati precedentemente
contemplati, ma si pone in rapporto di continuità normativa con la fattispecie previgente, determinando una successione di leggi con effetto
parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti,
commessi prima dell’entrata in vigore del citato
D.L.vo, che non siano riconducibili alle nuove
fattispecie criminose. (Nella specie la Corte ha
annullato con rinvio la decisione dei giudici di
merito che aveva assolto gli imputati dal reato ex
art. 2621 c.c. perché il fatto non è preveduto dalla
legge come reato anziché di procedere ad accertamento al fine di stabilire se l’originaria condotta
contestata contenesse o meno tutti gli elementi
richiesti dalla nuova normativa). * Cass. pen., sez.
V, 20 ottobre 2004, n. 40823 (ud. 7 luglio 2004),
P.M. in proc. Preatoni ed altro. [RV230258]
l La fattispecie previgente dell’art. 2631 c.c.
che disciplinava il conflitto di interessi non è stata
riprodotta, a seguito dell’introduzione del D.L.vo n.
61 del 2002, nel vigente art. 2631 c.c. che prevede
la violazione amministrativa di omessa convocazione dell’assemblea, ed è solo in parte riprodotta
dal vigente art. 2634 c.c. che disciplina l’infedeltà
patrimoniale; ne consegue – nell’ipotesi in cui il reato contestato all’imputato sia quello previsto dal
previgente art. 2631 c.c. e non siano ravvisabili gli
estremi della fattispecie criminosa di cui al vigente
art. 2634 c.c. – che il giudice ha il dovere di assolvere l’imputato e non può ordinare la trasmissione
degli atti all’Autorità amministrativa. * Cass. pen.,
sez. V, 26 febbraio 2004, n. 8673 (ud. 11 dicembre
2003), Torrisi e altro. [RV228744]
l La disciplina relativa alla successione delle
leggi penali (art. 2 c.p.) si applica qualora la disposizione richiamata da una «norma penale in bianco» sia modificata o abrogata, ovvero nell’ipotesi
in cui venga modificata una norma «definitoria»
– ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in
una o più disposizioni incriminatrici, concorren-
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do a individuare il contenuto del precetto penale
– oppure, infine, nel caso in cui una disposizione
legislativa commini una sanzione penale per la
violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto
o in parte. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato l’affermazione di penale responsabilità di un
sindaco in ordine al delitto di cui all’art. 323 e ha
escluso l’applicabilità del’art. 2 c.p. alla luce dell’abrogazione, ad opera dell’art. 136 del D.P.R. n.
380 del 2001, dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985
e della previsione, contenuta nell’art. 31 del citato
D.P.R. 380/2001, secondo la quale il soggetto titolare del potere-dovere di provvedere in merito alle
ingiunzioni di di demolizione, rimozione, ripristino non è il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale). * Cass. pen.,
sez. II, 4 febbraio 2004, n. 4296 (ud. 2 dicembre
2003), Stellaccio. [RV228152]
l In tema di false comunicazioni sociali, al
fine di verificare se i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61, siano sussumibili nell’attuale fattispecie criminosa
di cui all’art. 2622 c.c. occorre che tutti gli elementi richiesti dalla nuova disciplina (quali, ad
esempio, il superamento delle soglie di punibilità)
siano stati contestati e abbiano formato oggetto
di accertamento in contraddittorio. Ne consegue
che nel giudizio di cassazione, nel quale la Corte è
chiamata a decidere sulla base di un accertamento già compiuto dal giudice di merito, se i nuovi
elementi non hanno formato oggetto di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-reato rientra nell’ambito dell’abolitio criminis. * Cass. pen.,
sez. V, 26 novembre 2003, n. 45712 (c.c. 3 ottobre
2003), Fodde. [RV226918]
l In tema di successione di leggi penali nel tempo, la punibilità di un fatto commesso nel vigore di
una norma generale, che sia stata sostituita da una
norma speciale, non costituisce applicazione retroattiva di questa, ma piuttosto ne esclude l’efficacia
abolitrice per la porzione della fattispecie prevista
dalla norma generale che coincide con quella della
norma successiva, salvo che il legislatore con la
medesima legge speciale stabilisca, in deroga alla
disposizione dell’art.2, terzo comma, c.p., la non
punibilità dei reati in precedenza commessi. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 16 giugno 2003, n. 25887 (ud.
26 marzo 2003), Giordano ed altri. [RV224608]
l In tema di false comunicazioni sociali, il
dato che emerge con evidenza dalla nuova disciplina introdotta con il D.L.vo 11 aprile 2002, n.
61, è rappresentato dalla suddivisione dell’originaria unica fattispecie nelle due, oggetto dei nuovi
artt. 2621 (come figura contravvenzionale) e 2622
(come figura delittuosa) del codice civile. L’area di
punibilità del vecchio art. 2621 c.c. risulta, da un
lato fortemente circoscritta, attraverso le novità
introdotte, e dall’altro, articolata nelle due nuove
disposizioni. Nell’ambito di una fattispecie alquanto ampia, specie nell’interpretazione che ne
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TITOLO I – LEGGE PENALE
aveva dato la giurisprudenza, sono state ritagliate
fattispecie molto più circoscritte e assai più blandamente punite, ma deve riconoscersi che i fatti
rientranti nelle nuove previsioni erano punibili anche in base al precedente testo dell’art. 2621 c.c.,
dovendo perciò concludersi che i fatti commessi
sotto il vigore della precedente legge, nei limiti in
cui rientrano nella previsione della nuova legge,
rimangono punibili, a norma dell’art. 2, comma 3,
c.p., mentre gli altri non costituiscono più reato,
per un effetto abolitivo delle nuove disposizioni
che a norma dell’art. 2, comma 2, c.p., travolge anche il giudicato di condanna. * Cass. pen., Sezioni Unite, 16 giugno 2003, n. 25887 (ud. 26 marzo
2003), Giordano ed altri, in Riv. pen. 2003, 700.
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, comma
2, c.p., sono norme extrapenali integratrici solo
quelle che determinano, o concorrono a determinare, il contenuto del precetto penale. Tali non
sono, con riguardo ai reati fallimentari, le norme
civilistiche (artt. 10 e 11 R.D. 16 marzo 1942, n.
267 – Disciplina del fallimento, applicabili anche
al socio illimitatamente responsabile di società fallita, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 66 del 1999), che disciplinano i limiti temporali entro cui deve intervenire la pronuncia della
sentenza dichiarativa di fallimento, elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che le vicende relative alle predette norme restano ininfluenti
rispetto al fatto di reato anteriormente commesso.
* Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2002, n. 41499
(c.c. 26 settembre 2002), Crescenzo. [RV222978]
l La fattispecie di bancarotta impropria da
reato societario di cui all’art. 223 della legge fallimentare, come sostituita dall’art. 4 del D.L.vo 11
aprile 2002, n. 61, si pone in rapporto di specialità rispetto alla precedente, in quanto introduce,
come elemento nuovo ed ulteriore rispetto alla
precedente formulazione, il rapporto di causalità tra il delitto di false comunicazioni sociali, od
altro reato societario tra quelli specificamente richiamati dalla norma, ed il dissesto della società
fallita. Trattandosi, tuttavia, di specialità per aggiunta, deve ritenersi che essa comporti una totale abolizione della fattispecie abrogata, in quanto
l’elemento aggiuntivo è tale da attribuire alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto diverso da quello della precedente fattispecie. In questa, infatti, assumeva rilievo la sola idoneità della
condotta a rappresentare falsamente le condizioni economiche della società, nella nuova configurazione, invece, assume rilievo soprattutto la sua
idoneità a contribuire al dissesto dell’impresa.
L’abolizione del più grave delitto di cui all’art. 223
legge fallimentare non esclude, nondimeno, la
configurabilità, in concreto, dell’ipotesi residuale
del falso in bilancio, in quanto fattispecie generale rispetto a quella della bancarotta impropria. *
Cass. pen., sez. V, 16 ottobre 2002, n. 24622 (ud. 8
ottobre 2002), Benzi ed altri. [RV222432]
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Art. 2
l La nuova formulazione del reato di false
comunicazioni sociali, introdotta dal D.L.vo 11
aprile 2002, n. 61, e quella precedente configurano
fattispecie omogenee sia per la struttura portante,
consistente nella falsa rappresentazione delle condizioni economiche della società, sia per il significato lesivo della condotta. Le stesse si differenziano, invece, solo per l’introduzione, nella nuova
formula, di limiti quantitativi di rilevanza penale in
relazione all’entità dei dati economici falsamente
rappresentati. Pertanto, stante il rapporto di specialità per specificazione, sussiste continuità e non
abrogazione rispetto alla precedente norma, tranne
che per la mancata previsione, tra i soggetti attivi
qualificati, dei soci fondatori e dei promotori, rispetto ai quali si è avuta abolizione secca del reato.
Passando dall’analisi astratta delle due formulazioni normative all’esame della fattispecie concreta
risultante dal capo d’imputazione, potrà aversi, in
applicazione della norma di cui all’art. 2, comma
terzo, c.p., che per i fatti rientranti in entrambe le
fattispecie, quella precedente e quella speciale, risulterà applicabile la norma più favorevole tra le
due; per i fatti rientranti solo nella norma generale
si avrà invece abolitio criminis, con la revoca anche delle sentenze definitive. (Nel caso di specie, la
Suprema Corte, dopo aver affermato che il reato
di false comunicazioni sociali può residuare all’originaria contestazione di bancarotta fraudolenta
impropria, ha ritenuto che, avuto riguardo alla
contestazione, sarebbe stata applicabile la contravvenzione prevista dal nuovo testo dell’art. 2621 c.c.,
rispetto alla quale, nondimeno, risultava ormai maturato il più breve termine prescrizionale, sicché,
qualificato l’originario reato di bancarotta fraudolenta impropria come contravvenzione di cui al
nuovo art. 2621 c.c., ha annullato l’impugnata sentenza senza rinvio per intervenuta prescrizione). *
Cass. pen., sez. V, 16 ottobre 2002, n. 34622 ud. (8
ottobre 2002, Benzi ed altri. [RV222433])
l Il reato di false comunicazioni sociali di cui
all’art. 2621 c.c., nella formulazione introdotta dal
D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61, non presenta differenze strutturali rispetto alla fattispecie descritta nella
precedente formulazione della norma incriminatrice, identici essendo rimasti l’interesse protetto,
l’indicazione dei soggetti attivi del reato e l’esigenza del dolo specifico, precedentemente espressa
con la parola «fraudolentemente» ed attualmente
con le parole «intenzione di ingannare i soci o il
pubblico al fine di conseguire per sé o per altri un
ingiusto profitto» (dizione più puntuale e specifica
rispetto al vecchio testo). Le differenze risultano
quindi limitate alle soglie di punibilità, all’intensità della pena ed a vari elementi circostanziali del
reato, per cui, essendovi continuità tra le due fattispecie, va applicata, per i fatti pregressi, quella più
favorevole al reo, previa verifica che la concreta
contestazione del fatto sia tale da integrare il reato
anche nella sua nuova formulazione. * Cass. pen.,
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
sez. V, 19 giugno 2002, n. 23449 (ud. 21 maggio
2002), Fabri ed altro. [RV221921]
l In tema di falso in bilancio, a seguito
dell’entrata in vigore del D.L.vo 11 aprile 2002,
n. 61, si è verificato un fenomeno di successione
di norme nell’ambito del quale la vigente disciplina si pone in rapporto di specialità rispetto alla
precedente. Infatti, la fattispecie astratta, originariamente delineata dal legislatore, risulta ricompresa in quella ora incriminata con l’aggiunta di
elementi specializzanti (come la tipicizzazione
del dolo specifico, l’idoneità delle false esposizioni e delle omesse comunicazioni ad indurre in
errore i destinatari, la previsione di un evento di
danno nell’ipotesi delittuosa di cui al nuovo art.
2622 c.c., peraltro punibile a querela di parte),
sicché, mentre i fatti attualmente punibili già lo
erano in precedenza, non tutti quelli rilevanti penalmente in passato lo sono tuttora. Pertanto, è
necessario accertare se la concreta contestazione
contenga i nuovi elementi in modo da rendere
possibile la difesa. (Nel caso di specie, la suprema
Corte ha ritenuto che, esclusa la punibilità della
condotta con riferimento all’ipotesi delittuosa di
cui al nuovo art. 2621 c.c., per quanto riguardava
la contravvenzione non era enunciato nell’imputazione, e conseguentemente verificato, il duplice
intento in cui deve concretarsi il dolo specifico
né l’idoneità oggettiva dell’azione ad ingannare,
sicché, non rientrando la condotta ascritta nella
vigente previsione legislativa, si imponeva l’annullamento della sentenza impugnata con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge
come reato, con eliminazione della relativa pena).
* Cass. pen., sez. V, 3 giugno 2002, n. 21532 (ud. 8
maggio 2002), Torrenti. [RV222429]
l La disciplina relativa alla successione delle
leggi penali (art. 2 c.p.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme extra-penali e degli
atti o fatti amministrativi che non incidono sulla
struttura essenziale e circostanziata del reato, ma
si limitano a precisare la fattispecie precettiva,
delineando la portata del comando, che viene a
modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta ipotesi, rimane fermo il
disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti al
momento del fatto (Principio affermato in tema di
responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge
4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza
di norme regolamentari contenute nel D.M. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal D.M. 25 gennaio
2001). * Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2002, n.
18193 (ud. 12 marzo 2002), Pata V. [RV221943]
l Il principio di irretroattività della legge
penale, sancito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma secondo, Cost., è operante nei riguardi delle norme
incriminatrici e non anche rispetto alle misure
di sicurezza, sicché la confisca può essere dispo-
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52
sta anche in riferimento a reati commessi nel
tempo in cui non era legislativamente prevista
ovvero era diversamente disciplinata quanto a
tipo, qualità e durata. (Fattispecie nella quale, in
sede di patteggiamento, il giudice aveva rigettato
la richiesta del P.M. di confisca delle autovetture usate per commettere il reato di agevolazione
dell’ingresso clandestino in Italia di cittadini extracomunitari e la S.C., investita di ricorso sul
punto, ha ritenuto legittima la statuizione sulla
base del diritto vigente all’epoca del fatto, pur disponendo, poi, direttamente essa stessa la misura
di sicurezza, in forza del sopravvenuto art. 2 del
decreto legislativo n. 113 del 1999, contemplante
espressamente la confisca del mezzo di trasporto «anche nel caso di applicazione della pena su
richiesta delle parti». * Cass. pen., sez. I, 7 luglio
1999, n. 3717 (c.c. 19 maggio 1999), P.G. in proc.
Musliu. Conforme, quanto al principio, Cass.
pen., sez. I, 16 marzo 2006, n. 9269 (c.c. 1 marzo
2006), Colombari. [RV213941]
l In tema di abuso di ufficio, a seguito della
nuova formulazione dell’art. 323 c.p. ad opera
della legge 16 luglio 1997, n. 234, occorre verificare, in base all’art. 2 c.p., riguardante la successione delle leggi penali nel tempo, se le condotte
contestate all’imputato sulla base della fattispecie
previgente siano tali da integrare reato anche in
base al nuovo testo del predetto articolo; e ciò
tenendo presente che la nuova fattispecie, al fine
di realizzare una maggiore tipicizzazione della
condotta del pubblico ufficiale, richiede specificatamente che questi abbia agito intenzionalmente
in violazione di leggi o di regolamenti; che essa
configura ora un reato di evento, postulando che
il comportamento del pubblico ufficiale abbia
determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale
per sé o per altri ovvero un danno ingiusto per
altri; che essa contempla la sussistenza del carattere patrimoniale del vantaggio ingiusto, mentre
tale carattere, prima della novella, valeva solo a
contraddistinguere la ipotesi più grave di cui al
comma secondo dell’art. 323 c.p. previgente. *
Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 1998, n. 2328 (ud.
14 gennaio 1998), Branciforte ed altro. In termini, Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 1997, n. 11204,
P.M. in proc. Vitarelli ed altri. [RV209781]
l L’art. 2 c.p. che regola la successione nel
tempo della legge penale, riguarda quelle norme
che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato, comprese quelle norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione della
fattispecie incriminatrice nonché le leggi costituenti indispensabile presupposto o comunque
concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto. Esula da tale normativa la successione di atti o fatti amministrativi che, senza
modificare la norma incriminatrice o comunque
su di essa influire, agiscano sugli elementi di fatto
– modificandoli – sì da non renderli più sussumibili sotto l’astratta fattispecie normativa. (Fatti-
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53
TITOLO I – LEGGE PENALE
specie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità dell’art. 468 c.p., alla contraffazione dei sigilli
posti sulla calotta del contatore elettrico per non
essere più l’Enel, a seguito della legge n. 395 del
1992, ente pubblico economico). * Cass. pen., sez.
V, 8 maggio 1997, n. 4114 (ud. 25 febbraio 1997),
De Lisi. [RV207479]
l In virtù del combinato disposto degli artt.
199 e 200 c.p. e dei principi affermati dall’art.
25 Cost., deve escludersi che in tema di applicazione delle misure di sicurezza operi il principio
di irretroattività della legge di cui all’art. 2 c.p.,
sicché le misure predette sono applicabili anche
ai reati commessi nel tempo in cui non erano legislativamente previste ovvero erano diversamente
disciplinate quanto a tipo, qualità e durata. (Fattispecie relativa all’applicazione della confisca
prevista dall’art. 12 sexies D.L. 8 giugno 1992 n.
306 – come introdotto all’art. 2 D.L. 20 giugno
1994 n. 399 – ad un reato di usura commesso precedentemente all’entrata in vigore delle predette
disposizioni). * Cass. pen., sez. II, 6 marzo 1997,
n. 3651 (c.c. 3 ottobre 1996), Sibilia. [RV207140]
l Quando la legge punisce condotte contrarie
a prescrizioni poste con atto amministrativo, che
influisce su singoli casi, l’emanazione di nuovi
atti, o il mutamento del loro contenuto, non costituiscono novazione legislativa rilevante ex art.
2 comma secondo c.p., in quanto non si prospetta
alcuna modificazione di regole generali di condotta. Invero tale atto amministrativo (che, nel caso
in esame, prevedeva i limiti di accettabilità degli
scarichi valevoli per l’insediamento dell’imputato)
integra il precetto penale in un elemento normativo della fattispecie; cioè l’atto amministrativo è
il presupposto di fatto della legge penale incriminatrice, la quale ne sanziona la trasgressione. Ne
deriva che il mutamento dell’atto amministrativo
non comporta una differente valutazione della
fattispecie legale astratta, bensì determina la modifica del precetto e l’instaurazione di una nuova
fattispecie incriminatrice, sicché, regolando le
due norme fatti storicamente diversi, non sorge
problema di successione di leggi. (Nella specie,
relativa a rigetto di ricorso, era stata dedotta violazione dell’art. 2 c.p. per non avere la corte di
merito ritenuto applicabile la regola della retroattività della legge più favorevole; ciò in quanto il
valore dei solventi organici era conforme ai nuovi,
e più permissivi, limiti fissati dal consorzio interprovinciale successivamente alla commissione del
reato). * Cass. pen., sez. III, 18 ottobre 1996, n.
9163 (ud. 24 settembre 1996), Rizzi. [RV206419]
b) Abolitio criminis.
l La Corte di cassazione deve rilevare la "abolitio criminis", sopravvenuta alla sentenza impugnata, anche nel caso di ricorso inammissibile ed
indipendentemente dall’oggetto dell’impugnazione, atteso il principio della ragionevole durata del
processo, che impone di evitare una pronunzia di
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Art. 2
inammissibilità che avrebbe quale unico effetto
un rinvio della soluzione alla fase esecutiva. (Fattispecie in tema di ingiuria). * Cass. pen., sez. V,
18 ottobre 2016, n. 44088 (ud. 2 maggio 2016),
Pettinaro e altri. [RV267751]
l In materia di successione di leggi penali, in
caso di modifica della norma incriminatrice, per
accertare se ricorra o meno "abolitio criminis" è
sufficiente procedere al confronto strutturale tra
le fattispecie legali astratte che si succedono nel
tempo, senza la necessità di ricercare conferme
della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle
modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere
demolitorio di un elemento costitutivo del fatto
tipico, alterando così radicalmente la figura di
reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della
stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale
spazio comune alle suddette fattispecie. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n. 24468
(c.c. 26 febbraio 2009), Rizzoli. [RV243585]
l L’abrogazione dell’istituto dell’amministrazione controllata e la soppressione di ogni riferimento ad esso contenuto nella legge fallimentare
(art. 147 D.L.vo n. 5 del 2006) hanno determinato l’abolizione del reato di bancarotta societaria
connessa alla suddetta procedura concorsuale
(art. 236, comma secondo, R.D. n. 267 del 1942).
Conseguentemente, qualora sia intervenuta condanna definitiva per tale reato, il giudice dell’esecuzione è tenuto a revocare la relativa sentenza.
* Cass. pen., Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n.
24468 (c.c. 26 febbraio 2009), Rizzoli. [RV243586]
l In caso di abrogazione di una norma incriminatrice, per accertare se le tipologie di fatti in
essa comprese siano riconducibili ad altra disposizione generale preesistente, è necessario procedere al confronto strutturale tra le due fattispecie
astratte, integrando all’occorrenza tale criterio
attraverso una valutazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati, al fine di verificare l’eventuale intenzione dell’intervento abrogativo di
non attribuire più rilievo al disvalore insito nella
fattispecie incriminatrice soppressa. * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n. 24468 (c.c. 26
febbraio 2009), Rizzoli. [RV243587]
l La questione concernente la «abolitio criminis» è pregiudiziale rispetto alla questione – esaminabile in assenza di cause di inammissibilità
del ricorso per cassazione – relativa all’estinzione
del reato per prescrizione. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 15 maggio 2008, n. 19601 (ud. 28 febbraio
2008), Niccoli. [RV239400]
l La sospensione della chiamata obbligatoria
alla leva, introdotta con L. n. 331 del 2000 e successive integrazioni, non ha abolito il servizio
di leva militare obbligatoria, ma ne ha limitato
l’operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali riferiti anche al tempo di pace, sicchè
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza non è stato abrogato, ma è stato
modificato il contenuto del precetto, che non
ricomprende più la condotta penalmente sanzionata dalle precedenti disposizioni legislative,
con la conseguenza che per i fatti anteriormente
commessi, sempre che non sia stata pronunciata
sentenza di condanna irrevocabile, deve farsi applicazione delle nuove più favorevoli disposizioni,
per le quali la condotta di rifiuto non è più reato.
* Cass. pen., sez. I, 23 marzo 2007, n. 12363 (ud. 9
marzo 2007), P.G. in proc. Ramundo. [RV236224]
l Non è nullo il provvedimento di revoca della
sentenza di condanna, per sopravvenuta «abolitio
criminis» del reato, emesso dal giudice dell’esecuzione senza l’avviso alle parti civili dell’udienza
camerale ex art. 666 comma terzo c.p.p., in quanto i soggetti costituiti parte civile nel processo
di cognizione non hanno interesse a partecipare
all’incidente di esecuzione dal quale non potrebbe derivare alcun vantaggio o pregiudizio per le
situazioni soggettive di cui essi sono titolari, dal
momento che il loro diritto al risarcimento permane anche a seguito dell’abrogazione del reato,
trovando applicazione non l’art. 2 comma secondo c.p., ma l’art. 11 delle preleggi. * Cass. pen.,
sez. V, 29 luglio 2005, n. 28701 (c.c. 24 maggio
2005), P.G. in proc. Romiti ed altri. [RV231866]
l Non deve procedersi alla revoca delle sospensioni condizionali precedentemente concesse con riferimento a condanne per fatti non piú
previsti dalla legge come reato, in quanto l’abolitio criminis fa cessare l’esecuzione e gli effetti
penali della condanna, tra i quali deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente ostativo alla reiterazione della sospensione
condizionale della pena. (Fattispecie in cui il P.M.
aveva chiesto la revoca della sospensione condizionale riguardante precedenti condanne per fatti
di emissione di assegni a vuoto, reato depenalizzato con il D.L.vo n. 507 del 1999). * Cass. pen.,
sez. V, 29 luglio 2005, n. 28714 (c.c. 4 luglio 2005),
P.M. in proc. Savegnago. [RV231867]
l Quando a seguito di successione di leggi
penali, ai sensi dell’art. 2 c.p., venga meno il fatto
di reato posto a fondamento della misura cautelare, il giudice dell’impugnazione, anche nell’ambito incidentale del procedimento cautelare e
pur nel rispetto del principio tantum devolutum
quantum appellatum, deve rilevare la eventuale
sopravvenuta abrogatio criminis. * Cass. pen., sez.
III, 22 aprile 2004, n. 18697 (c.c. 11 marzo 2004),
Patriarca, in Riv. pen. 2004, 848.
l La sopravvenuta abolitio criminis, avendo
efficacia ablatoria completa, comporta la cessazione di tutte le conseguenze giuridiche che si
riconnettono alla condanna, ivi compresa l’attitudine di quest’ultima a costituire precedente
formalmente ostativo ad una nuova concessione
della sospensione condizionale della pena. * Cass.
pen., sez. I, 26 marzo 2004, n. 14928 (c.c. 20 feb-
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braio 2004), P.M. in proc. Sampana, in Riv. pen.
2004, 607.
l L’abrogazione della norma incriminatrice
fa cessare l’esecuzione e gli effetti penali della
condanna, tra i quali ultimi deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente
formalmente ostativo alla reiterazione della sospensione condizionale della pena. Tale effetto si
produce indipendentemente dalla formale dichiarazione di revoca della condanna, quale prevista
dall’art. 673 c.p.p., avendo tale dichiarazione natura meramente dichiarativa. Pertanto, non può
essere disposta la revoca, ai sensi dell’art. 168,
comma quarto, c.p., della sospensione condizionale della pena che sia stata concessa una terza
volta, in apparente violazione dell’art. 164, comma
quarto, stesso codice, a soggetto che ne aveva già
fruito in relazione a due precedenti condanne,
quando queste, ancorché non sia per esse intervenuta la revoca ex art. 673 c.p.p., risultino comunque pronunciate per fatti non più costituenti
reato (nella specie, emissione di assegni a vuoto).
* Cass. pen., sez. I, 23 febbraio 2004, n. 7652 (c.c.
11 febbraio 2004), Cunsolo. [RV227192]
l Il giudicato interno formatosi a seguito
dell’annullamento parziale della Corte di cassazione non prevale sull’abolitio criminis, la quale fa venir meno, prima ancora che la validità e
l’efficacia della norma penale iscriminatrice, la
sua stessa esistenza nell’ordinamento giuridico,
sicché il giudice, formalmente investito della cognizione della fattispecie, oggetto di abrogazione,
deve preliminarmente dichiarare che il fatto non
è previsto dalla legge come reato, in ossequio al
precetto di cui all’art. 2 c.p. Ne consegue che,
nell’ipotesi in cui il fatto di reato, oggetto dell’abolitio criminis, sia stato giudicato come unito
dal vincolo della continuazione con altro reato, la
sentenza, limitatamente a tale capo, va annullata
senza rinvio e dalla pena, a suo tempo determinata a titolo di continuazione, deve essere scomputato l’aumento riferibile al reato abrogato. * Cass.
pen., sez. VI, 18 giugno 2003, n. 26112 (ud. 16
aprile 2003), Costa A. [RV226010]
l Quando intervenga abolitio criminis dopo
una sentenza assolutoria di primo grado, con la
formula “perché il fatto non sussiste”, il giudice
di appello, di fronte alla non evidenza dell’innocenza dell’imputato, legittimamente pronuncia
l’assoluzione con la formula “perché il fatto non
è previsto dalla legge come reato”, non potendosi
compiere ulteriori indagini in ordine ad un fatto
divenuto privo di rilevanza penale. * Cass. pen.,
sez. IV, 21 maggio 2003, n. 22334 (ud. 16 maggio
2002), Giannangeli E. [RV224836]
l Quando l’abolitio criminis viene dedotta in
sede esecutiva, al giudice è richiesta la valutazione
in astratto della fattispecie oggetto della sentenza
rispetto al nuovo assetto del sistema penale, ciò
anche se la norma incrimintrice non sia stata interamente abrogata, ma sia stata riscritta con una
02/03/17 10:08
55
TITOLO I – LEGGE PENALE
riduzione del relativo ambito di operatività. In tale
ipotesi, il giudice dell’esecuzione, qualora non ritenga sufficiente l’analisi del capo di imputazione,
può anche scendere all’esame degli atti processuali per verificare ed accertare, attraverso di essi, la
consistenza ed i contorni della condotta, senza
però valutare di nuovo il fatto, mediante un giudizio di merito non consentito. (Fattispecie concernente il reato di cui all’art. 323 c.p., commesso
prima dell’entrata in vigore della legge n. 234 del
1997). * Cass. pen., sez. VI, 21 maggio 2003, n.
22539 (c.c. 10 marzo 2003), Di Nardo. [RV226196]
l Sussiste l’abolitio criminis del reato di contrabbando doganale (art. 282 D.P.R. n. 43 del
1973) consistente nell’omissione del pagamento
del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale
Yugoslava in virtù della sopravvenienza del regolamento comunitario n. 2007 del 2000, integrato e
modificato dal regolamento n. 2563 del 2000 che
ha sottratto tale merce ai diritti di confine sulla
stessa gravanti, in quanto le norme impositive del
dazio costituiscono norme extrapenali integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti
nell’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. * Cass.
pen., sez. III, 27 marzo 2003, n. 14329 (c.c. 4 febbraio 2003), Pertot. [RV224243]
l In caso di abolitio criminis intervenuta dopo
la sentenza assolutoria di primo grado o per insussistenza del fatto, il giudice di appello prima
di riformare la decisione e dichiarare non doversi
procedere a carico dell’imputato perché il fatto
non è più previsto dalla legge come reato deve
indicare le ragioni per le quali il fatto deve ritenersi sussistente, atteso che tra le diverse cause
di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. la formula «perché il fatto non sussiste» deve prevalere su qualsiasi altra formula, sia perché indicata
prioritariamente nell’elencazione contenuta nel
citato art. 129, sia perché preclusiva di eventuale
azione civile. * Cass. pen., sez. III, 21 dicembre
2001, n. 45562 (ud. 21 novembre 2001), Raguseo
V. [RV220740]
l L’intervenuta abrogazione, per effetto
dell’art. 18 della legge 25 giugno 1999 n. 205,
dell’art. 341 c.p. ha dato luogo non ad una pura e
semplice abolitio criminis, disciplinata dall’art. 2,
comma secondo, c.p., ma ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, inquadrabile
nelle previsioni di cui al successivo terzo comma
dello stesso articolo; ciò in quanto la condotta
già qualificata come oltraggio a pubblico ufficiale
dall’abrogata norma incriminatrice sarebbe stata – ed è rimasta – punibile, sia pure meno severamente, in assenza di detta norma, a titolo di
ingiuria o di minaccia aggravate ai sensi dell’art.
61 n. 10 c.p. Ne consegue che, facendosi espressamente salvi, nella disciplina dettata dal terzo
comma dell’art. 2 c.p., gli effetti del giudicato,
non può darsi luogo a revoca, ai sensi dell’art. 673
c.p.p., della sentenza di condanna per il reato di
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Art. 2
oltraggio a pubblico ufficiale divenuta esecutiva
prima dell’intervento abrogativo. * Cass. pen.,
sez. I, 7 giugno 2000, n. 3137 (c.c. 26 aprile 2000),
P.M. in proc. Saoud A. In termini, Cass. pen., sez.
I, 25 maggio 2000, n. 2744, Guerrini. Difforme la
massima che segue. [RV216096]
l L’intervenuta abrogazione, per effetto
dell’art. 18 della legge 25 giugno 1999 n. 205, del
reato di oltraggio a pubblico ufficiale, previsto
dall’art. 341 c.p., non ha dato luogo ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo,
quale disciplinato dall’art. 2, comma terzo, c.p.,
ma ad una vera e propria abolitio criminis rientrante, come tale, nelle previsioni di cui al secondo comma dello stesso articolo. Ne consegue che
la permanenza nell’ordinamento penale dei reati
di ingiuria e di minaccia, aggravati (se commessi
in danno di un pubblico ufficiale), ai sensi dell’art.
61 n. 10 c.p. e rispetto ai quali il reato di oltraggio
si poneva in rapporto non di specialità ma di assorbimento, non può costituire valida ragione per
negare la revoca, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di
una condanna per oltraggio inflitta con sentenza
divenuta esecutiva prima dell’intervento abrogativo. * Cass. pen., sez. I, 7 giugno 2000, n. 3165 (c.c.
27 aprile 2000), Longo. [RV216098]
l In caso di abolitio criminis, poiché tale
evento fa venire meno, ancor più che la validità
e la efficacia della norma penale incriminatrice,
la sua stessa esistenza nell’ordinamento, ogni
giudice che sia formalmente investito della cognizione sulla fattispecie oggetto di abrogazione
ha il compito di dichiarare, ex art. 129, primo
comma, c.p.p., che il fatto non è previsto dalla
legge come reato, in ossequio al precetto di cui
all’art. 2, secondo comma, c.p., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato.
In altri termini, essendo venuto meno l’oggetto
sostanziale del rapporto processuale penale, e
cioè il nesso tra un fatto penalmente rilevante e
l’accusato (imputazione-imputato), tale declaratoria è necessariamente pregiudiziale rispetto
ad ogni altro accertamento (quale quello relativo
alle cause di inammissibilità della impugnazione) che implichi, invece, la formale permanenza
di una res judicanda; e ciò non diversamente da
quanto è imposto al giudice nella ipotesi di morte dell’imputato, ove pure – in questo caso per il
venir meno della componente soggettiva – il rapporto processuale è risolto. (Fattispecie avente ad
oggetto il reato di cui all’art. 341 c.p., nella quale
la Corte di cassazione, annullando senza rinvio
la sentenza impugnata, ha dichiarato che il fatto
non è previsto come reato, a norma dell’art. 18
della L. 25 giugno 1999, n. 205, pur dando atto
della inammissibilità dei motivi di ricorso). *
Cass. pen., sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 356 (ud.
15 dicembre 1999), El Quaret. [RV215285]
l Quando nell’imputazione recepita nel dispositivo non siano indicati con chiarezza gli ele-
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
menti di illiceità penale sopravvissuti all’abolitio
criminis può e deve essere analizzata la sentenza
revocanda nel suo complesso anche motivazionale allo scopo di verificare quali accertamenti e valutazioni del fatto storico rilevanti siano contenuti in motivazione. Ove, poi, anche gli elementi di
fatto valutati e ritenuti per certi nella motivazione
siano o neutri o dubbi ovvero non rilevanti al fine
di delineare la condotta (e la sua conseguente liceità o illiceità a confronto col parametro normativo abolito o residuo), può il giudice dell’esecuzione passare all’esame degli atti processuali per
verificare ed accertare attraverso di essi la consistenza ed i contorni della condotta. (Fattispecie
in materia di vendita di sostanze stupefacenti). *
Cass. pen., sez. IV, 4 luglio 1996, n. 1397 (c.c. 29
maggio 1996), Baluì. [RV205415]
l In base all’art. 2, secondo comma, c.p. – richiamato anche dall’art. 1, L. 21 ottobre 1988, n.
455 («depenalizzazione degli illeciti valutari») –
l’intervenuta abolitio criminis determina la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della
condanna. Dalla dizione della norma si evince argomentando a contrario che le obbligazioni civili
nascenti dal reato non «cessano» e sono quindi
soggette ad esecuzione. Nella nozione di obbligazioni civili vanno annoverate quelle verso lo Stato
al pagamento delle spese processuali. Tra queste
ultime vanno comprese, oltre quelle anticipate
per la celebrazione del processo e di eventuale
custodia cautelare, anche quelle per l’iscrizione
ipotecaria eventualmente disposta nel contesto
dell’originario processo. * Cass. pen., sez. III, 29
maggio 1993, n. 1029 (ud. 30 aprile 1993), Vago.
Conforme, Cass. pen., sez. V, 2 febbraio 2006, n.
4266 (c.c. 20 dicembre 2005), Colacito.
l Qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa
intervenuta successivamente che concerna la
disciplina normativa extra penale di riferimento
per attribuire la qualità di soggetto attivo di un
reato proprio si applica il principio di retroattività
della legge più favorevole affermato dall’art. 2 c.p.
perché per legge incriminatrice deve intendersi
il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini
della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri
è indubbiamente compresa la qualità del soggetto
attivo. (Nella fattispecie è stata ritenuta non più
ravvisabile l’ipotesi del reato di peculato nella condotta di un dipendente di una Cassa di risparmio
perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis,
l’attribuibilità allo stesso della qualifica di pubblico ufficiale). * Cass. pen., Sezioni Unite, 16 luglio
1987, n. 8342 (ud. 23 maggio 1987), Tuzet.
c) Applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo.
l Il diritto dell’imputato, desumibile dall’art.
2, comma quarto, cod. pen., di essere giudicato in
base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporta per il giudice della
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56
cognizione il dovere di applicare la "lex mitior"
anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge
previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena
ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura
della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità. * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 25 novembre 2015, n. 46653 (ud.
26 giugno 2015), Della Fazia. [RV265110]
l In tema di successione di leggi processuali
nel tempo, non opera il principio della retroattività della disposizione più favorevole, nemmeno
nell’ambito delle misure cautelari, poiché non
esistono principi di diritto intertemporale propri
della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto non
applicabile il nuovo testo dell’art. 309, comma
decimo, cod. proc. pen. – introdotto dall’art. 11
della l. 16 aprile 2015, n. 47, entrato in vigore l’8
maggio 2015 ad una ordinanza del Tribunale del
riesame il cui dispositivo era stato depositato precedentemente a tale data mentre la motivazione
in una data successiva; vedi Corte cost. 14 gennaio 1982, n. 15). * Cass. pen., sez. VI, 14 ottobre
2015, n. 41322 (c.c. 22 settembre 2015), Policastri. [RV265013]
l A seguito della sentenza della Grande
Chambre della Corte EDU n. 10249 del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola c. Italia, il condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza passata in
giudicato può ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 cod. proc. pen. a condizione che abbia chiesto e sia stato ammesso al
rito abbreviato tra il 2 gennaio ed il 24 novembre
2000 (e, cioè, nella vigenza dell’art. 30, comma
primo, lett. b., L. 479 del 1999) e la decisione sia
stata pronunciata dopo il 24 novembre 2000, con
applicazione del D.L. 341del 2000 che ripristinava
l’ergastolo senza isolamento diurno. * Cass. pen.,
sez. I, 3 giugno 2013, n. 23931 (c.c. 17 maggio
2013), Lombardi. [RV256257]
l In tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la
legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate
prima della pronunzia di una sentenza definitiva
sono diverse, il giudice deve applicare quella le
cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato,
non costituisce un principio dell’ordinamento
processuale, nemmeno nell’ambito delle misure
cautelari, poiché non esistono principi di diritto
intertemporale propri della legalità penale che
possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 14 luglio 2011, n. 27919 (c.c. 31 marzo
2011), P.G. in proc. Ambrogio. [RV250196]
l Il principio di retroattività della legge più
favorevole non trova applicazione in riferimento
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57
TITOLO I – LEGGE PENALE
alla successione di leggi amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo svolgimento di attività, il cui carattere criminoso dipenda
dall’assenza di autorizzazioni. (Nella specie,
l’attività di recupero di rifiuti non pericolosi era
stata avviata dall’imputato previa comunicazione
di inizio attività inviata alla competente Provincia
ma in difetto del nulla osta comunale, necessario
all’epoca dei fatti, e non più richiesto a seguito
dell’entrata in vigore della Legge Reg. Lombardia
n. 8 del 2007). * Cass. pen., sez. III, 22 giugno
2011, n. 25035 (ud. 25 maggio 2011), Pasinetti e
altro. [RV250616]
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, la norma posteriore che abbia sostituito
l’originaria comminatoria di pena detentiva congiunta a pena pecuniaria con quella della sola
pena pecuniaria, deve essere sempre considerata
più favorevole ai fini dell’art. 2, comma quarto,
c.p. (Fattispecie riguardante il reato di cui all’art.
186 c.s., così come modificato dalla L. n. 160 del
2007, la cui formulazione è stata ritenuta, nei casi
in cui prevede l’applicazione della sola sanzione
pecuniaria, più favorevole rispetto a quella in
precedenza introdotta dalla legge n. 214 del 2003,
non rilevando in senso contrario la convertibilità
della sanzione detentiva originariamente prevista
ovvero la sopravvenuta limitazione del regime
dell’impugnazione conseguente al mutamento del
tipo di sanzione o, infine, l’eventualità che la nuova disposizione incriminatrice preveda sanzioni
amministrative accessorie più severe rispetto a
quelle contemplate dalla norma previgente). *
Cass. pen., sez. IV, 12 agosto 2008, n. 33397 (ud.
14 luglio 2008), De Brida. [RV240966]
l In tema di successione di leggi penali, deve
applicarsi quella che prevede il trattamento sanzionatorio ritenuto più favorevole al reo, anche
quando la legge posteriore, che l’ha modificata,
abbia ripristinato le pene più severe previste da
altra legge anteriore che la stessa aveva a sua
volta modificato. (Fattispecie in tema di guida in
stato di ebbrezza consumata prima dell’entrata
in vigore del D.L.vo n. 274 del 2000, che aveva
attribuito alla competenza del giudice di pace il
reato, ma giudicato dopo l’entrata in vigore del
D.L. n. 151 del 2003 convertito nella L. n. 214 del
2003, che ha invece ripristinato l’originaria competenza del giudice ordinario). * Cass. pen., sez.
IV, 18 ottobre 2007, n. 38548 (ud. 21 settembre
2007), De Bernardin. Conforme, Cass. pen., sez.
II, 9 settembre 2009, n. 35079 (ud. 7 luglio 2009),
Sylla. [RV237653]
l L’art. 6, comma secondo, del Trattato istitutivo dell’Unione Europea assicura il rispetto, in
quanto principio generale del diritto comunitario,
dei diritti fondamentali dell’uomo garantiti dalle
tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; tra essi, non rientra, peraltro, la retroattività
della legge penale più favorevole, poiché il valore
da essa tutelato può essere sacrificato da una legge
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Art. 2
ordinaria in favore di interessi di analogo rilievo
(quali, ad esempio, quelli dell’efficienza del processo e della salvaguardia dei diritti dei soggetti che
in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi od
esigenze dell’intera collettività nazionale connessi
a valori costituzionali di rilievo primario). (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato una
richiesta «ex» art. 234 Trattato UE, di rimessione
della questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea). (Conf. Corte cost. n. 393 del 2006).
* Cass. pen., sez. II, 21 settembre 2007, n. 35257
(ud. 16 maggio 2007), Felicetti e altro. [RV237909]
l È legittimo il provvedimento con cui il
Tribunale di sorveglianza rigetta l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale – proposta
da un condannato al quale sia stata applicata la
recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma quarto, c.p., con sentenza passata in giudicato prima
dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005
che all’art. 7 limita la concessione dei benefici
penitenziari ai recidivi – considerato che le norme che disciplinano le misure alternative alla
detenzione, riguardando le modalità esecutive
della pena, non hanno natura di norme penali
sostanziali e, quindi, non sono ad esse riferibili
le previsioni di cui all’art. 2 c.p. e 25 Cost., con
la conseguenza che sono, in virtù del principio
tempus regit actum immediatamente applicabili.
* Cass. pen., sez. I, 11 ottobre 2006, n. 34040 (c.c.
22 settembre 2006), Helt. [RV235189]
l L’art. 5 della legge 24 febbraio 2006 n. 85 ha
modificato l’art. 292 c.p., prevedendo per l’ipotesi aggravata di vilipendio alla bandiera una pena
più mite, sicché, attesa la sostanziale continuità
strutturale delle fattispecie criminose disciplinate dalle leggi penali succedutesi nel tempo, il più
favorevole regime sanzionatorio è applicabile ai
sensi dell’art. 2, comma quarto, c.p. nei processi
pendenti in relazione a fatti commessi nel vigore
della precedente normativa. * Cass. pen., sez. I,
3 luglio 2006, n. 22891 (ud. 6 giugno 2006), Di
Costanzo. [RV234279]
l In caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto penale,
deve ritenersi inapplicabile il principio previsto dall’articolo 2, comma terzo, c.p. qualora si
tratti di modifiche della disciplina integratrice
della fattispecie penale che non incidano sulla
struttura essenziale del reato, ma comportino
esclusivamente una variazione del contenuto del
precetto delineando la portata del comando; ciò
si verifica, in particolare, allorquando la nuova
disciplina non abbia inteso far venir meno il disvalore sociale della condotta, e quindi l’illiceità
penale della stessa, ma si sia limitata a modificare i presupposti per l’applicazione della norma
incriminatrice penale. (Il principio è stato affermato dalla S.C. in una vicenda relativa al trattamento da riservare alla sostanza «norefredina» o
«fenilpropanolamina» che, successivamente alla
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
commissione dei fatti sub iudice relativamente
ai quali era stato contestato il reato di cui all’articolo 73 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, era stata
ricompresa tra i «precursori» ossia tra le sostanze
suscettibili di impiego per la produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Secondo la difesa, da ciò sarebbe dovuto derivare, in ossequio al
disposto dell’articolo 2, comma terzo, c.p., che la
disciplina applicabile avrebbe dovuto essere quella, più favorevole, di cui all’articolo 70 dello stesso
D.P.R.; la Corte ha invece rigettato la doglianza
con le argomentazioni di cui sopra, evidenziando,
peraltro, che del principio espresso dall’articolo
2, comma terzo, c.p. si sarebbe dovuto semmai
fare applicazione solo nella diversa ipotesi in cui
la nuova disciplina, anziché limitarsi a regolamentare diversamente i presupposti per l’applicazione della norma penale, avesse esclusa l’illiceità
oggettiva della condotta: ad esempio, nel caso
di una modifica tabellare che avesse portato ad
escludere la natura stupefacente di una determinata sostanza). * Cass. pen., sez. IV, 18 maggio
2006, n. 17230 (c.c. 22 febbraio 2006), Sepe ed altri. Conforme, Cass. pen., sez. III, 18 aprile 2011,
n. 15481, Guttà e altro. [RV234029]
l In tema di sospensione condizionale della
pena nei confronti di persona che ne abbia già
usufruito, la disposizione dell’art. 165, comma secondo, c.p.p., introdotta dall’art. 2, comma primo
lett. a) L. 11 giugno 2004 n. 145, può, nonostante
la sua natura sostanziale, essere applicata retroattivamente, ai sensi dell’art. 2, comma terzo, c.p.,
anche in relazione a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, siccome previsione più favorevole per l’imputato, il
quale, a differenza che in passato, può scegliere
che il beneficio sia subordinato ad una condizione
da lui ritenuta meno gravosa di ciascuna di quelle
che il giudice, ai sensi della legge previgente,
avrebbe dovuto altrimenti obbligatoriamente applicare. (Fattispecie in tema di nuova concessione, ai sensi dell’art. 165, comma secondo, c.p.p.,
come modificato dall’art. 2, comma primo lett. a)
L. n. 145 del 2004, della sospensione condizionale
della pena, già in precedenza applicata, subordinata alla prestazione di attività non retribuita in
favore della collettività per un periodo di tempo
determinato, per fatti commessi anteriormente
all’entrata in vigore della L. n. 145 del 2004). *
Cass. pen., sez. I, 29 dicembre 2005, n. 47291 (c.c.
30 novembre 2005), De Filippo. [RV234093]
l Poichè le sanzioni sostitutive di pene detentive brevi previste dall’art. 53 legge 24 novembre 1981 n. 689 hanno natura di vere e proprie
pene, le norme che le disciplinano hanno natura
sostanziale e, in caso di successione di leggi nel
tempo, sono soggette alla disciplina di cui all’art.
2, comma terzo, c.p.. Ne consegue che la legge
sopravvenuta piú favorevole (nel caso di specie,
legge 12 giugno 2003 n. 134) non può essere applicata dal giudice dell’esecuzione, non potendo
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58
estendersi analogicamente il potere riconosciuto
al giudice dell’esecuzione dall’art. 671 c.p.p. ai
casi previsti dall’art. 673 c.p.p. * Cass. pen., sez.
I, 4 luglio 2005, n. 24652 (c.c. 25 maggio 2005),
Silvestro. [RV231669]
l Nel novero delle norme integratrici della
legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività della legge più favorevole, ai sensi
dell’art. 2, comma terzo, c.p., debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area
di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in
senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche
la nuova norma non rechi testuale statuizione in
tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per
il nuovo caso regolato, nella struttura della norma
incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che
potesse valere ad escludere la configurabilità del
reato di violazione di domicilio – addebitato ad
un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto,
per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà
del proprietario, in un locale privato adibito a canile – la sopravvenuta emanazione di una norma
regionale che imponeva ai gestori di strutture di
ricovero per animali di consentire l’accesso, senza
bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai
responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche). * Cass. pen., sez. V, 2 marzo 2005, n. 8045 (ud. 4 febbraio 2005), Battaglia
ed altri. [RV230567]
l In virtù del principio del favor rei stabilito nell’art. 2, comma terzo, c.p., il trattamento
sanzionatorio in concreto più favorevole, con
riguardo al reato di guida in stato di ebbrezza
(art. 186, comma secondo, c.s.), commesso prima dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 274 del
2000 che attribuisce detto reato alla competenza
del giudice di pace, è quello previsto dall’art. 52,
comma secondo, lett. c) del citato D.L.vo n. 274
del 2000, il quale deve essere applicato nella sua
integralità, anche se il reato sia stato giudicato
da un giudice diverso da quello di pace. Ne deriva che, in tal caso, è illegittima l’applicazione
della previsione sanzionatoria originaria del codice della strada, in quanto la pena detentiva, ad
essa connessa, è, in ogni caso, meno favorevole di
quella pecuniaria, anche se applicata unitamente
al beneficio della sospensione condizionale della
pena, la quale, peraltro, una volta individuata la
disposizione più favorevole nell’art. 52 citato, non
può trovare applicazione, giusta l’espressa previsione di cui all’art. 60 D.L.vo n. 274 del 2000. *
Cass. pen., sez. IV, 6 ottobre 2004, n. 39069 (ud. 3
giugno 2004), P.G. in proc. Basville. [RV230619]
l In materia di successione nel tempo di leggi
penali, è incontroverso che, una volta individuata
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59
TITOLO I – LEGGE PENALE
la disposizione complessivamente più favorevole,
il giudice deve applicare questa nella sua integralità, senza poter combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo
dell’altra legge secondo il criterio del favor rei, perché in tal modo verrebbe ad applicare una terza
fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di
legalità. (Nella specie, la Corte ha annullato senza
rinvio la sentenza del Tribunale che, giudicando
del reato di guida in stato di ebbrezza ex art. 186,
comma secondo, c.s., in epoca successiva all’entrata in vigore del D.L.vo 2000, n. 274 – e prima
della legge 1 agosto 2003, n. 214 –, pur applicando
il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto per i reati divenuti di competenza del giudice
di pace, aveva tuttavia ritenuto di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena,
nonostante il relativo divieto). * Cass. pen., sez. IV,
17 settembre 2004, n. 36757 (ud. 4 giugno 2004),
Perino. Conformi: Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre
2004, n. 41702, Nuciforo; Cass. pen., sez. IV, 30 dicembre 2005, n. 47339 (ud. 28 giugno 2005), P.G.
in proc. Bourzama; Cass. pen., sez. III, 19 maggio
2004, n. 23274 (ud. 10 febbraio 2004). [RV229687]
l In base al principio dell’applicazione della
legge sopravvenuta piú favorevole (art. 2, comma
terzo, c.p.), nel caso di reati attribuiti, in assenza di aggravanti, alla competenza del giudice di
pace, ai sensi dell’art. 4 del D.L.vo 28 agosto 2000
n. 274, qualora gli stessi siano stati commessi
prima dell’entrata in vigore di detto D.L.vo e, pur
essendo aggravati, l’effetto delle aggravanti sia
stato neutralizzato dall’avvenuto riconoscimento
di circostanze attenuanti, la sanzione applicabile
dev’essere quella, piú favorevole, prevista dalla
normativa sopravvenuta (principio affermato in
tema di diffamazione). * Cass. pen., sez. V, 22 giugno 2004, n. 28006 (ud. 18 maggio 2004), Bartoccelli. [RV228712]
l In materia di successione di leggi penali,
l’art. 2 comma terzo c.p. prende in considerazione
tutti i mutamenti legislativi intervenuti, stabilendo che deve applicarsi la legge le cui disposizioni
sono piú favorevoli al reo; pertanto una volta che
sia entrata in vigore una legge piú favorevole, questa deve essere sempre applicata anche se, successivamente, il legislatore ritenga di modificarla in
senso meno favorevole. (Principio applicato dalla
Corte in una fattispecie relativa al reato di guida
in stato di ebbrezza, previsto dall’art. 186 comma
secondo cod. strad., commesso prima dell’entrata
in vigore del D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274, che
ha attribuito tale contravvenzione al giudice di
pace, con conseguente applicazione delle nuove
sanzioni paradetentive della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, e giudicato
dal tribunale dopo le modifiche apportate dal D.L.
27 giugno 2003, n. 151, convertito nella Legge 1
agosto 2003, n. 214, con cui è stata ripristinata
la competenza del giudice ordinario, con la pre-
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Art. 2
visione della pena dell’arresto). * Cass. pen., sez.
IV, 20 maggio 2004, n. 23613 (c.c. 18 marzo 2004),
P.G. in proc. Vilhar. [RV228786]
l Per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, commessi prima della data di entrata in vigore del D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274 e
giudicati dal giudice togato, devono applicarsi, in
base alla disciplina transitoria prevista dal combinato disposto degli artt. 64 e 63 comma primo del
citato D.L.vo, le nuove sanzioni indicate dall’art.
52 dello stesso D.L.vo, in quanto più favorevoli
ai sensi dell’art. 2 comma terzo c.p. (nella specie
si trattava della contravvenzione di guida in stato
di ebbrezza e la Corte ha individuato la disciplina più favorevole nella pena pecuniaria prevista
dall’art. 52 D.L.vo 274/2000, precisando che nel
raffronto tra i due diversi sistemi sanzionatori non può darsi rilievo alla possibilità di sostituzione della pena detentiva ex art. 53 legge n.
689/1981, tenuto conto che la sua applicazione
è rimessa ad una valutazione discrezionale del
giudice e, inoltre, che la stessa sostituzione può
essere oggetto di successiva revoca). * Cass. pen.,
sez. IV, 29 aprile 2004, n. 20156 (c.c. 9 dicembre
2003), P.M. in proc. Bukavec. [RV228343]
l In tema di assegni bancari, la nuova disciplina relativa all’inosservanza delle sanzioni amministrative accessorie, introdotta dal D.L.vo 30 dicembre 1999, n. 507, non ha depenalizzato le violazioni
dei divieti commesse nella vigenza della normativa
antecedente, atteso che l’art. 7 della L. 15 dicembre 1990, n. 386, come sostituito dall’art. 32 del
citato D.L.vo, conserva immutata la sua ratio in
relazione al permanere della previsione di illiceità
penale della medesima condotta, consistente nella
inottemperanza al divieto temporaneo di emettere assegni; pertanto, con riferimento alle condotte
trasgressive del divieto di emettere assegni, poste
in essere in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui al D.L.vo 507 del
1999, trova applicazione il delitto previsto dall’art.
389 c.p., in luogo di quello punito più gravemente
dall’art. 7 della L. n. 386 del 1990 e ciò in forza del
principio del favor rei di cui all’art. 2 terzo comma
c.p. * Cass. pen., sez. VI, 20 novembre 2003, n.
44733 (ud. 24 settembre 2003), Nigro. [RV226903]
l L’individuazione, tra una pluralità di disposizioni succedutesi nel tempo, di quella più
favorevole al reo, va eseguita non in astratto,
sulla base della loro mera comparazione, bensì
in concreto, mediante il confronto dei risultati
che deriverebbero dall’effettiva applicazione di
ciascuna di esse alla fattispecie sottoposta all’esame del giudice. (Nella specie, relativa al reato
di violazione del divieto di accesso ai luoghi in
cui si svolgono manifestazioni sportive – qualificato come contravvenzione e punito con pena
esclusivamente detentiva dall’art. 6 della L. n. 401
del 1989 nel suo testo originario, ma configurato
come delitto punito con pena detentiva della stessa durata, alternativa a quella pecuniaria, nella
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
versione di tale articolo modificata dal D.L. n. 336
del 2001, convertito con modificazioni nella L. n.
377 del 2001 –, la Corte ha giudicato corretto l’operato del giudice di merito che aveva ritenuto in
concreto più favorevole al reo l’applicazione della
precedente normativa, la quale configurava il reato come contravvenzione, ma senza prevedere la
pena pecuniaria alternativa a quella detentiva). *
Cass. pen., sez. I, 28 ottobre 2003, n. 40915 (c.c. 2
ottobre 2003), Fittipaldi. [RV226475]
l È da considerare norma più favorevole sopravvenuta, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
2, comma terzo, c.p., anche quella con la quale sia
reso perseguibile a querela un reato precedentemente perseguibile d’ufficio. * Cass. pen., sez. III,
14 giugno 2000, n. 6983 (ud. 27 aprile 2000), P.G.
in proc. R., in Riv. pen. 2001, 77.
l Non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 2, terzo
comma, c.p. quando lo stesso fatto sia punito in
base a due leggi coeve, allorché una di esse identifichi come reato, sanzionandola in modo meno
grave, una delle condotte integranti gli estremi di
un diverso reato previsto dall’altra, se la prima legge rimanga in vigore e la seconda venga abrogata.
In tal caso, non si verifica l’automatica “espansione” della legge ancora vigente, sia perché il terzo
comma dell’art. 2 c.p. – riferendosi a “leggi posteriori” – prevede l’ipotesi di una legge successiva
rispetto ad altra anteriore (che non ricorre nella
specie), sia perché una diversa interpretazione
susciterebbe dubbi di legittimità costituzionale, in
quanto comporterebbe l’applicazione della norma
rimasta in vigore a un fatto anteriormente verificatosi (art. 25 Cost.), così violandosi il principio di
irretroattività della legge penale, e urterebbe, inoltre, con l’art. 112 Cost., giacché la norma penale
coeva ancora in vigore risulterebbe applicata in
mancanza dell’esercizio della azione penale. In
ogni caso, l’applicazione di tale norma contrasterebbe con la natura del fenomeno della abrogazione, che opera “ex nunc”: la norma abrogata resta,
infatti, vigente, per il periodo anteriore alla abrogazione, impedendo, per lo stesso periodo, l’applicazione della legge rimasta in vigore, onde sarebbe
contrario al sistema considerare ampliato, ora per
allora, il raggio di azione di quest’ultima norma.
(Nel caso, in cui era stato impugnato il provvedimento emesso in sede di incidente di esecuzione
di diniego di revoca della sentenza di condanna
per il reato di oltraggio, passata in giudicato, la
Corte ha revocato questa sentenza, affermando il
principio di cui in massima, ed escludendo che, a
seguito della abrogazione dell’art. 341 c.p. – che
prevedeva il reato di oltraggio – per effetto dell’art.
18 della L. 25 giugno 1999, n. 205, possa perseguirsi il fatto per i reati di ingiuria o di minaccia).
* Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2000, n. 518 (c.c.
28 gennaio 2000), Marini F. [RV215738]
l In tema di reati concernenti le sostanze
stupefacenti, il concetto di “modica quantità” di
cui all’art. 72 della L. 22 dicembre 1975, n. 685,
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60
è diverso da quello di “fatto di lieve entità” di cui
all’art. 73, quinto comma, D.P.R. 9 ottobre 1990 n.
309: la prima disposizione riguarda infatti solo un
aspetto della detenzione, e cioé quello concernente la quantità della sostanza, mentre la “lieve entità” cui si riferisce la legge vigente riguarda il fatto
per intero, di cui devono essere presi in considerazione tutta una serie di parametri quali i mezzi, le
modalità o le circostanze dell’azione, la quantità e
qualità delle sostanze. Ne consegue che, trattandosi di fattispecie non omologabili, non si pone
un problema di applicazione della legge più favorevole ai sensi dell’art. 2, terzo comma, del codice
penale. (In applicazione di tale principio la Corte
ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale
si deduceva che, avendo il giudice di primo grado
ritenuto la modica quantità delle sostanze oggetto di spaccio, la Corte d’appello avrebbe dovuto
applicare la sopravvenuta norma più favorevole
di cui al quinto comma dell’art. 73 D.P.R. n. 309
del 1990). * Cass. pen., sez. VI, 2 dicembre 1997,
n. 4266 (c.c. 31 ottobre 1997), Sorzi. [RV209033]
l Il regime di procedibilità d’ufficio per i reati di violenza sessuale previsto dall’art. 609 septies
c.p., introdotto dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, non
può produrre effetti sui fatti commessi prima della
sua entrata in vigore. Il problema dell’applicabilità
dell’art. 2 c.p., in caso di mutamento nel tempo del
regime della procedibilità a querela, va positivamente risolto alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce
nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità. Infatti, il principio dell’applicazione della
norma più favorevole al reo opera non soltanto al
fine di individuare la norma di diritto sostanziale
applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al
regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie dato che è inscindibilmente legata al fatto come
qualificato dal diritto, specie quando il legislatore in
una determinata materia modifichi profondamente
fattispecie, pene, denominazione dei delitti, come
è avvenuto in quella dei reati di violenza sessuale,
sottratti all’area della moralità pubblica e concepiti
come reati contro la persona. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del P.M. avverso rigetto di
appello contro diniego di applicazione di custodia
cautelare in carcere, la S.C. ha osservato altresì che
la rilevante portata dell’intervento innovativo e la
mancanza di norme transitorie, certamente non
dovuta a disattenzione, denotano inequivocabilmente che si è voluto dare alla normativa, che ha
introdotto un regime di maggiore afflittività per chi
commette abusi sessuali, operatività con esclusivo
riferimento a condotte poste in essere dopo la sua
entrata in vigore, sicché il peggioramento del regime di procedibilità per talune ipotesi di reato non
può produrre effetti su preesistenti situazioni la cui
perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato). * Cass. pen., sez.
III, 20 agosto 1997, n. 2733 (c.c. 8 luglio 1997), P.M.
in proc. Frualdo. [RV209188]
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61
TITOLO I – LEGGE PENALE
l La norma dell’art. 30 ter, terzo comma, della
legge 26 luglio 1975 n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario), introdotta dall’art. 1 del D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni in
legge 12 luglio 1991 n. 203 (in base alla quale, fra
l’altro, nel caso di condanna per taluno dei delitti
previsti dall’art. 4 bis del medesimo ordinamento, la concessione dei permessi è ammessa solo
dopo l’espiazione di metà della pena inflitta, e
non solo di un quarto, come in precedenza), trova
applicazione anche con riferimento a condanne
precedenti all’entrata in vigore del citato D.L. n.
152 del 1991, non dando ciò luogo alla violazione
del principio di irretroattività della legge penale,
stabilito dall’art. 25 Cost. e dall’art. 2 c.p., atteso che tale principio si riferisce unicamente alle
norme penali sostanziali e non anche a quelle
inerenti alle modalità di esecuzione della pena e
all’applicazione di misure alternative o altri benefici in favore del condannato, la cui disciplina
resta affidata ai poteri discrezionali del legislatore ordinario. Tuttavia, poiché la concessione dei
permessi-premio, che costituisce parte integrante
del trattamento, è pur sempre legata alla regolare
condotta e all’assenza di pericolosità sociale del
condannato, deve ritenersi che, con la previsione
di un più ampio limite temporale per la loro fruizione, il legislatore abbia posto una presunzione
legale di pericolosità sociale riferita ai condannati
per uno dei gravi delitti previsti dal primo comma
dell’art. 4 bis. Conseguentemente, se tale presunzione è stata già superata con la concessione, sotto il vigore della precedente normativa, di uno o
più permessi-premio, è evidente che l’applicazione della più grave restrizione prevista dalla nuova
norma non ha alcun senso e può rivelarsi addirittura deleteria, perché potrebbe interrompere
quel programma di trattamento che, in conformità dei principi costituzionali, deve pur sempre
tendere alla rieducazione del condannato. * Cass.
pen., sez. I, 19 aprile 1997, n. 433 (c.c. 21 gennaio
1997), Cerra. [RV207344]
l Nel caso di successione di norme incriminatrici nel tempo, tra due disposizioni, delle quali
la prima prevede la pena detentiva e la seconda la pena alternativa, è sempre più favorevole
quest’ultima, consentendo l’inflizione della sola
pena pecuniaria, perché la conversione, ex art.
53 legge 24 novembre 1981 n. 689, della pena detentiva inflitta necessariamente per effetto della
prima norma, pur potendo in concreto condurre
ad una pena pecuniaria (sostitutiva) meno elevata, oltre ad essere eventuale, in quanto sempre
discrezionale, sarebbe comunque esposta al rischio della revoca ai sensi del successivo art. 72,
ricorrendone le condizioni. È pacifico, infatti, che
le cause di revoca contemplate in tale norma si riferiscono a tutte le pene sostitutive, ivi compresa
quindi quella pecuniaria, giacché consistono nel
verificarsi di quelle condizioni che, se sussistenti al momento della sostituzione, sarebbero state
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Art. 2
ostative alla stessa. * Cass. pen., sez. III, 6 febbraio 1997, n. 1058 (ud. 4 dicembre 1996), Telese.
[RV207102]
l Il principio del favor rei stabilito dall’art. 2 c.p.
comporta che, in caso di depenalizzazione con la
trasformazione del reato in illecito amministrativo
con la previsione dell’obbligo di trasmissione degli atti all’autorità competente, debba in ogni caso
procedersi alla dichiarazione di estinzione del reato
per prescrizione anche quando la causa estintiva sia
maturata dopo la depenalizzazione. (Nell’affermare
il principio di cui in massima la Corte ha ritenuto
dovesse dichiararsi estinto il reato per prescrizione con riferimento alle violazioni della normativa
sulla mancata consegna al lavoratore del libretto di
lavoro e del prospetto paga depenalizzate dal D.L.vo
19 dicembre 1994 n. 758 poiché l’applicazione della
formula «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato» avrebbe determinato conseguenze
deteriori per l’imputato derivanti dalla trasformazione del reato in illecito amministrativo). * Cass.
pen., sez. III, 25 maggio 1996, n. 1948 (c.c. 26 aprile
1996), Romano. [RV205435]
l Il giudice nel valutare in concreto la norma più favorevole deve considerare non solo le
modificazioni concernenti la pena ma anche l’incidenza sulla prescrizione, quando quest’ultima,
in seguito all’applicazione della nuova disciplina
sopravvenuta, sia applicabile, ed, in genere, sugli altri effetti penali quali la non iscrivibilità sul
casellario giudiziale, ove non venga applicato il
beneficio ex art. 163 c.p. (Ipotesi in cui il termine
prescrizionale non era ancora decorso e l’intervenuta modificazione della sanzione – da pena alternativa a solamente pecuniaria – ed il sensibile
aumento del minimo edittale determinano anche
una consistente diminuzione del termine massimo prescrizionale – da quattro anni e sei mesi a
tre anni – e la non iscrivibilità della condanna nel
certificato giudiziale, sicché, in assenza di esplicita richiesta di applicazione del beneficio ex art.
163 c.p., l’irrogazione di una pena pecuniaria di
poco superiore a quella stabilita precedentemente
in via alternativa costituisce ipotesi più favorevole). * Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 1996, n. 1797
(ud. 16 gennaio 1996), Lombardi. [RV205385]
l Le disposizioni in tema di «sostituzione»
delle pene detentive brevi, dettate dagli artt. 53
e seguenti della L. 24 novembre 1981, n. 689, in
quanto costituenti un sistema sanzionatorio «parallelo» a quello «ordinario» hanno un inequivocabile carattere di norme penali sostanziali. Ne
consegue la soggezione di dette disposizioni al
principio generale dettato dal comma 3 dell’art. 2
c.p. che sancisce l’operatività, nel caso di successione di leggi diverse da quella vigente al tempo di
commissione del reato. Pertanto – nell’ipotesi di
reato commesso prima dell’entrata in vigore della
«novella» n. 402 del 5 ottobre 1993 introduttiva
del più gravoso parametro di lire 75.000 per ogni
giorno di pena detentiva sostituita – deve appli-
02/03/17 10:08
Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
carsi il parametro di ragguaglio di lire 25.000 fissato dall’art. 135 c.p. nel testo vigente prima della
suindicata L. 5 ottobre 1993, n. 402. * Cass. pen.,
sez. I, 29 dicembre 1995, n. 12732 (ud. 27 ottobre
1995), Abbatelli. Conformi: Cass. pen., sez. I, 23
agosto 1994, n. 3114, P.G. c. Valentini; Cass. pen.,
sez. III, 24 gennaio 1996, n. 4523, P.G. in proc.
Grissi ed altro; Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 1996,
n. 574, P.M. in proc. Ercoli. [RV203349]
l Le sanzioni sostitutive delle pene detentive
brevi, previste dall’art. 53 della L. 24 novembre
1981, n. 689, per il loro carattere afflittivo, per la
loro convertibilità, in caso di revoca, nella pena
sostituita residua, per lo stretto collegamento
esistente con la fattispecie penale cui conseguono, hanno natura di vere e proprie pene e non di
semplici modalità esecutive della pena detentiva
sostituita: le disposizioni che le contemplano,
pertanto, hanno natura sostanziale e sono soggette, in caso di successioni di leggi nel tempo, alla
disciplina di cui all’art. 2, comma 3, c.p., che prescrive l’applicazione della norma più favorevole
per l’imputato. Ne consegue che il principio del
favor rei trova attuazione, per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge, anche
con riferimento ai nuovi criteri di ragguaglio fra
pena pecuniaria e pena detentiva introdotti dalla
L. 5 ottobre 1993, n. 402, di modifica dell’art. 135
c.p., in base ai quali si effettua, in virtù del richiamo a quest’ultima disposizione operato dal suddetto art. 53, L. n. 689 del 1981, il calcolo della
sanzione sostitutiva. * Cass. pen., Sezioni Unite, 22 novembre 1995, n. 11397 (ud. 25 ottobre
1995), P.M. in proc. Siciliano. [RV202870]
l In tema di falsità ideologica commessa da
pubblico ufficiale o impiegato in atto pubblico
(artt. 479 e 493 c.p.), non danno luogo a successioni di leggi penali i mutamenti di regime giuridico
che hanno via via interessato l’Azienda autonoma
delle ferrovie dello Stato, trasformandola dapprima in ente Ferrovie dello Stato (L. n. 210/1985) e
poi in società per azioni (delibera CIPE 12 agosto 1992, in esecuzione della L. n. 35/1992 e L. n.
359/1992). L’applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole, sancito
dall’art. 2, comma 3, c.p., presuppone una modifica in via generale – e non in via particolare, riferita
al caso concreto – della fattispecie incriminatrice,
cioè di quelle norme che definiscono il reato nella
sua struttura essenziale e circostanziata, comprese le norme extrapenali che la integrano. Esula
quindi dall’istituto la successione di atti o fatti
amministrativi che, pure influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implica
una modifica della norma incriminatrice anche
integrativa. Le trasformazioni che hanno interessato l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato
non hanno modificato la fattispecie incriminatrice descritta negli artt. 479 e 493 c.p. * Cass. pen.,
sez. VI, 28 settembre 1995, n. 9927 (ud. 10 luglio
1995), Caliciuri ed altri. [RV202873]
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62
l La disciplina delle misure cautelari ha carattere processuale e perciò, in linea di massima,
nella fase delle indagini preliminari il giudice non
può discostarsi dalla contestazione mossa dal
pubblico ministero e non gli è consentita alcuna
valutazione sul suo contenuto. Tuttavia, quando
risulti con evidenza, in base alla sola data del
commesso reato così come precisata nell’imputazione, che debba essere applicata all’indagato,
in base all’art. 2 del c.p., una normativa più favorevole inequivocabilmente individuabile raffrontando la disciplina sanzionatoria precedente
e quella indicata nella contestazione, è alla prima
che il giudice dovrà fare riferimento nel computare i termini di durata massima della custodia
cautelare non potendosi trascurare il carattere
sostanziale dell’afflittività delle misure cautelari
personali e la tutela dello status libertatis con le
relative implicazioni di carattere costituzionale
che lo presidiano. (La Corte ha ritenuto che giustamente il tribunale avesse accolto il ricorso con
il quale si chiedeva la scarcerazione per scadenza
dei termini massimi di custodia cautelare in un
caso in cui all’indagato era stata contestata la violazione dell’art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309,
ma dalla data di commissione del reato emergeva
con evidenza che la norma applicabile era quella
prevista dall’art. 71 della L. 22 dicembre 1975 n.
685 che, ai fini della durata massima della custodia cautelare, prevede un termine più breve che
era già scaduto). * Cass. pen., sez. I, 10 maggio
1995, n. 1783 (c.c. 24 marzo 1995), P.M. in proc.
Faccini. [RV201363]
l Il principio della retroattività della norma
più favorevole posto dall’art. 2, terzo comma, c.p.,
che assicura al cittadino il trattamento penale più
mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento del fatto e quello previsto dalle
leggi successive, purché precedenti la sentenza
definitiva di condanna, opera solo con riferimento all’ipotesi della successione tra fattispecie incriminatrici, accertabile in base al criterio della
continenza, e non è estensibile al caso della successione di norma che degradi un fatto previsto
come illecito penale a illecito amministrativo.
* Cass. pen., Sezioni Unite, 27 giugno 1994, n.
7394 (ud. 16 marzo 1994), Mazza.
l Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di
legge sopravvenute, ai sensi dell’art. 2 c.p., non è
sufficiente che queste siano più favorevoli all’imputato in astratto, ma occorre che lo siano altresì
in concreto, ossia non soltanto sulla base della
mera comparazione fra le due normative succedutesi nel tempo, ma anche confrontando i risultati che deriverebbero dalla effettiva applicazione
di esse alla fattispecie concreta; tale valutazione
in concreto è necessaria specie quando la nuova
norma, per il suo contenuto, non opera automaticamente in maniera più favorevole nei confronti
della normativa in vigore al tempo del commesso reato, ma fa dipendere tale risultato, che è
02/03/17 10:08
63
TITOLO I – LEGGE PENALE
comunque eventuale, da un giudizio affidato ai
poteri discrezionali del giudice e dalla verifica dei
dati presupposti. Sicché, se è vero che in caso di
successione di leggi penali si deve applicare integralmente quella che risulta più favorevole all’imputato, valutata nel suo complesso, non è men
vero che tale principio va calato in ciascuna fattispecie concreta, in relazione all’interesse specifico dell’imputato, senza inframmettenze astratte e
sia pure con divieto di applicazione simultanea di
vecchie e nuove disposizioni. (Alla stregua di tale
principio la Corte ha annullato la sentenza pretorile la quale aveva applicato ad un fatto pregresso
la pena pecuniaria, sostitutiva di quella detentiva,
in ragione del nuovo e più gravoso criterio di ragguaglio introdotto dalla L. 5 ottobre 1993, n. 402,
sul presupposto che quest’ultima dovesse considerarsi comunque norma più favorevole per l’ampliata possibilità di applicazione della sospensione condizionale della pena, che, nella fattispecie,
non risultava tuttavia né concessa né richiesta). *
Cass. pen., sez. I, 22 giugno 1994, n. 2336 (c.c. 18
maggio 1994), Arata.
l Nel caso di successioni di leggi penali incriminatrici, il principio dell’applicazione della
norma più favorevole trova un limite nella formazione del giudicato, a norma dell’art. 2 terzo
comma, c.p. La cosa giudicata si forma sull’intero oggetto del rapporto processuale concernente una singola imputazione, cosicché non è
consentita – salvo l’ipotesi del reato continuato
– la scissione della sentenza per punti, al fine di
identificare la irrevocabilità di un punto, distinguendo quello concernente la colpevolezza da
quello relativo alla concessione di attenuanti. In
particolare il giudice della esecuzione non può
alterare il giudicato ritenendo esistente un’attenuante non ravvisata dal giudice della cognizione
ovvero procedendo alla comparazione tra circostanze di segno opposto, e ciò neppure nel caso
di sopravvenuta disposizione di legge che, ai fini
della declaratoria di estinzione della pena, valorizzi una circostanza ovvero un determinato esito
della comparazione tra circostanze di segno opposto, in termini non previsti al momento della
decisione di merito. Ne consegue che il giudice
dell’esecuzione non può concedere l’attenuante
di cui all’art. 73 comma settimo D.P.R. n. 309/90,
introdotta dall’art. 14 L. 26 giugno 1990 n. 162
successivamente alla formazione della irrevocabilità della sentenza, e rideterminare la pena, sia
perché detto potere non gli è riconosciuto dall’art.
671 c.p.p. sia perché vi osta l’art. 2 comma terzo
c.p., secondo cui, nell’ipotesi di successione di
leggi penali incriminatrici, non può essere applicata la legge più favorevole, in caso di avvenuta
formazione del giudicato. (Nella fattispecie, la
Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso ordinanza che aveva respinto l’istanza diretta
al giudice dell’esecuzione volta a rideterminare
la pena inflitta per i delitti di cui agli artt. 71 e
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Art. 2
74 legge n. 685/1975, previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 73 comma settimo, D.P.R.
n. 309/90, introdotta con legge successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna). *
Cass. pen., sez. VI, 17 giugno 1994, n. 1490 (c.c. 8
aprile 1994), De Angelis.
l Il criterio della norma più favorevole al reo
può essere utilizzato solo al fine di individuare la
norma di diritto sostanziale applicabile al caso
concreto, non quella processuale quale è, indubbiamente, quella disciplinante la competenza tra
i diversi organi giudicanti, per la quale, in mancanza di un’apposita norma transitoria, si deve
fare riferimento al principio generale del tempus
regit actum secondo il quale la nuova disciplina
processuale, anche se immuta competenza precostituita, trova immediata applicazione nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.
Ciò, naturalmente, avviene solo nell’ipotesi in cui il
giudice non sia stato già legittimamente investito
del relativo giudizio in quanto, in tali casi, essendosi già radicata la competenza, la nuova disciplina processuale non ha efficacia. (Fattispecie in
tema d’abuso d’ufficio). * Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1993, n. 5011 (c.c. 2 dicembre 1992), Cuberi.
l Il principio della retroattività degli effetti extrapenali, in conseguenza d’una legge che
abbia trasformato in illeciti amministrativi le
condotte punibili, non può operare allorquando
il reato siasi già estinto, posto che diversamente
si sancirebbe la reviviscenza d’una realtà giuridica in contrasto con lo spirito e la lettera dell’art.
2 c.p., il quale, ispirandosi al favor rei, non può
mai risolversi in un nocumento per l’imputato.
(Fattispecie in tema di detenzione di sottoprodotto della vinificazione, non denaturato con la
prescritta sostanza rivelatrice, rientrante nell’amnistia ex art. 1 d.p.r. 18 dicembre 1981, n. 744, e
depenalizzata dall’art. 32, primo comma, della
legge 24 novembre 1981, n. 689, che ha previsto
la sola sanzione amministrativa del pagamento
di una somma di danaro. Si è così, sulla base
dell’enunciato principio, precisato che, essendo
la estinzione del reato intervenuta anteriormente
all’entrata in vigore della legge di depenalizzazione e dovendo l’anzidetta causa estintiva prevalere
su quella di abolitio criminis, era da escludersi la
trasmissione degli atti all’autorità competente per
la irrogazione di sanzioni amministrative; e ciò
in conformità al dettato dell’art. 2, terzo comma,
c.p.). * Cass. pen., Sezioni Unite, 26 aprile 1983,
n. 3802 (ud. 22 gennaio 1983), Marinelli.
d) Leggi eccezionali o temporanee.
l La successione, intervenuta durante il decorso del termine di vigenza ovvero nella permanenza della situazione eccezionale, di norme,
rispettivamente, tutte temporanee o eccezionali
aventi la stessa ratio e dirette a una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione è regolata non già dalla
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
disciplina derogatoria prevista dall’art. 2, comma
quinto, c.p., bensì da quella di cui al precedente
comma quarto. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto l’applicabilità della più favorevole disciplina
del c.p. militare di pace al militare partecipante
alle missioni di cui alla L. 4 agosto 2006, n 247
anche in relazione ai fatti commessi nella vigenza
della disciplina anteriore a tale legge che rinviava
al c.p. militare di guerra, affermando pertanto la
sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 47 c.p.m.g.).
* Cass. pen., sez. I, 1 luglio 2008, n. 26316 (ud. 27
maggio 2008), Cau. [RV240396]
l La normativa penalistica concernente la
partecipazione italiana alle missioni internazionali all’estero prevista, nella specie, dal D.L. 10 luglio
2003 n. 165, conv., con modif., nella L. 1 agosto
2003 n. 219 e dalla L. 2 agosto 2006 n. 247 ha natura di legge temporanea. (In motivazione, la S.C.
ha escluso che tale normativa abbia natura di legge eccezionale). * Cass. pen., sez. I, 1 luglio 2008,
n. 26316 (ud. 27 maggio 2008), Cau. [RV240397]
l Il regolamento CE n. 3274/93 del 29 novembre 1993, istitutivo del divieto di fornitura di taluni beni e servizi alla Libia, norma extrapenale
integratrice del precetto penale, costituisce un
complesso di norme eccezionali, in quanto derogatrici al principio della libertà di commercio tra
gli Stati e temporanee, cioè destinate ad operare
per un tempo determinato, e pertanto rientra nella disciplina dettata dal quarto comma dell’art. 2
c.p. Costituisce pertanto reato, indipendentemente dalla vigenza nel tempo del suddetto embargo,
sospeso con il regolamento CE n. 863/99, l’esportazione in Libia, in violazione del divieto comunitario, di merce di cui era vietata l’esportazione
verso detto Stato, sanzionata a norma dell’art. 11
R.D.L. 14 novembre 1926 n. 1923. * Cass. pen.,
sez. III, 27 marzo 2000, n. 3905 (ud. 22 febbraio
2000), Asaad Nagy Nawar. [RV215952]
e) Disposizioni contenute in un decreto legge.
l In tema di conversione di decreto legge,
all’introduzione di emendamenti nella legge di
conversione non sempre può ricondursi la conseguenza di determinare automaticamente la perdita di efficacia ex tunc del decreto legge, né, correlativamente, quella di attribuire valore ex nunc
al precetto della legge di conversione a mezzo del
quale ha trovato ingresso la modificazione, dovendo, al contrario, aversi riguardo allo specifico
contenuto degli emendamenti e alla reale portata
dei mutamenti al testo del decreto. Pertanto, solo
gli emendamenti sostitutivi (o innovativi) e quelli
soppressivi, disponendo la riscrittura ovvero l’eliminazione della decretazione d’urgenza, hanno
efficacia ex nunc, mentre quelli semplicemente
modificativi, consistendo in una variazione che
non investe il nucleo precettivo fondamentale della norma del decreto legge, si saldano con
quest’ultima in modo continuo, sì che hanno efficacia ex tunc, decorrente dalla data della norma-
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64
zione di urgenza. (Fattispecie relativa ai rapporti
tra D.L. n. 59 del 1978 e legge di conversione n.
191 del 1978. In riferimento alla scissione, nella
legge di conversione, dell’unica ipotesi delittuosa
di cui all’art. 630 c.p. – sostituita dall’art. 2 del
decreto legge con l’introduzione della figura del
«sequestro di persona a scopo di terrorismo o di
eversione», – la S.C. ha ritenuto che vi fosse una
mera modificazione del nomen juris, senza alcuna
significativa alterazione degli elementi strutturali
della fattispecie e pertanto ha riconosciuto efficacia ex tunc alla relativa disciplina. In riferimento,
però, al comma quinto dello stesso art. 289 bis,
che detta ex novo una speciale regolamentazione
delle circostanze attenuanti, la S.C. ha ritenuto il
suo carattere totalmente innovativo, riconoscendogli efficacia ex nunc ed escludendo la sua applicabilità nel processo, per essere esso entrato in
vigore quando era definitivamente cessata la condotta criminosa, sì da non poterglisi riconoscere
valore retroattivo, in quanto meno favorevole al
reo). * Cass. pen., sez. I, 24 giugno 1998, n. 7451
(ud. 21 maggio 1998), Maccari. [RV210887]
l Le norme che disciplinano l’applicazione
di misure cautelari hanno carattere processuale,
ma, per la loro influenza immediata sullo status
libertatis, hanno rilevanza sostanziale, con la conseguenza che, in tale materia, si applicano le norme sulla successione di leggi nel tempo proprie
delle disposizioni sostanziali. Pertanto, in caso di
norme più favorevoli introdotte con decreto legge
non convertito, si applicano le disposizioni vigenti nel momento della commissione del fatto, per
effetto dell’art. 77, comma terzo, Cost. e della sentenza della Corte costituzionale 19 febbraio 1995,
n. 51, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2,
comma quinto, c.p., nella parte in cui rende applicabili, nel caso di decreto legge non convertito,
le disposizioni dei commi secondo e terzo dello
stesso articolo (i principi anzidetti sono stati affermati in una fattispecie relativa all’art. 2 del
decreto legge 14 luglio 1994, n. 440, non convertito, che aveva introdotto il comma 3 bis nell’art.
275 c.p.p., con il quale si era inibita l’adozione di
provvedimenti di custodia cautelare per delitti diversi da quelli indicati nel comma 3 dello stesso
articolo e dell’art. 380 c.p.p.: la Corte ha conseguentemente valutato corretta la soluzione dei
giudici di merito che non avevano ritenuto caducati gli effetti di una misura cautelare per effetto
della entrata in vigore del decreto legge citato). *
Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 1998, n. 595 (c.c. 19
febbraio 1998), Russo G. [RV211083]
l La mancata conversione, entro il termine
fissato dall’art. 77 Cost., di un decreto legge contenente una previsione di reato comporta il venir meno della punibilità di quest’ultimo, anche
qualora al decreto legge non convertito faccia seguito, senza soluzione di continuità, un altro contenente analoga previsione. Tale principio rimane
valido anche a fronte della sentenza della Corte
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65
TITOLO I – LEGGE PENALE
costituzionale 21 marzo 1996 n. 84, essendosi la
Corte, con tale pronuncia, limitata ad affermare
soltanto la permanente validità della propria investitura in ordine ad una questione di legittimità
costituzionale avente ad oggetto una disposizione successivamente sostituita da altra di identico
contenuto; il che non incide sulla invalidità ex
tunc, in base al disposto di cui al citato art. 77,
comma 3, Cost., del decreto legge non convertito,
e sulla conseguente impossibilità giuridica, ai sensi dell’art. 2, comma 1, c.p., di continuare a considerare punibili, in base ad esso, fatti commessi
durante la sua vigenza, pur quando la previsione
di essi come reato sia ripresa dal nuovo decreto
legge, giacché quest’ultimo, come qualsiasi norma di carattere penale, non può disporre che per
l’avvenire. * Cass. pen., sez. I, 20 giugno 1996, n.
3506 (c.c. 22 maggio 1996), Sakho. [RV205156]
l Fra diversi decreti legge non esaminati dal
Parlamento e succedutisi nel tempo sulla stessa
materia senza soluzioni di continuità si verifica,
ferma restando la loro precarietà, il fenomeno
della cosiddetta successione di leggi nel tempo,
regolato dall’art. 2 c.p. e ad essi deve ritenersi applicabile la norma di cui al comma quinto di questo. (Nella specie relativa ad annullamento senza
rinvio di sentenza di condanna, perché il fatto non
era dalla legge previsto come reato, la S.C. ha osservato che all’epoca del giudizio di primo grado
era in vigore il D.L. n. 449 del 1994 che aveva depenalizzato il fatto di reato ascritto ai ricorrenti
(scarico effettuato, senza osservare le prescrizioni
del provvedimento di autorizzazione in quanto eccedente i limiti tabellari), sicché costoro avevano
acquisito il diritto alla applicazione della norma di
cui all’art. 22 legge n. 319 del 1976, come modificata dall’art. 4 del detto decreto legge, sebbene il medesimo fatto fosse stato considerato illecito penale
con decreto legge n. 537 del 1994 e altri successivi).
* Cass. pen., sez. III, 3 marzo 1995, n. 3489 (ud. 27
febbraio 1995), Pangrazi. [RV202065]
f) Casistica.
f-1) Consumo di gruppo di stupefacenti.
l In tema di stupefacenti, la reviviscenza
dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 30
dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, successivamente dichiarate incostituzionali dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, non
comporta che, nelle situazioni in cui la sentenza
di primo grado abbia determinato la pena nella
misura non lontana dal minimo edittale allora
vigente in relazione alle droghe cosiddette "leggere", il giudice di appello – quale giudice di merito
di secondo grado, ovvero quale giudice di rinvio
– sia vincolato a rimodulare la sanzione rendendola in ugual modo prossima ai nuovi e più favorevoli minimi edittali detentivi e pecuniari, né
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Art. 2
ad applicare le attenuanti generiche nella stessa
misura disposta dal giudice di primo grado, potendo egli determinare la pena discrezionalmente
nell’ambito della più lieve cornice edittale tornata
in vigore, con il solo limite – nell’ipotesi di appello
proposto dal solo imputato – del divieto di "reformatio in peius". * Cass. pen., sez. VI, 16 giugno
2015, n. 25256 (ud. 24 febbraio 2015), Scarallo e
altro. [RV265172]
l A seguito del più favorevole trattamento sanzionatorio previsto, dopo la l. n. 49 del 2006, dall’art.
73, comma primo, d.P.R. 309 del 1990 quanto al
minimo edittale per le droghe cosiddette pesanti,
il giudice d’appello deve rimodulare la pena di ufficio anche nel caso in cui il primo giudice, anteriormente alla novella, abbia determinato la pena base,
o sia comunque partito dal suo calcolo, in misura
superiore al minimo edittale. * Cass. pen., sez. VI,
16 dicembre 2013, n. 50614 (ud. 6 dicembre 2013),
P.G. in proc. Chukwumah. [RV257655]
l Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nell’ipotesi del mandato all’acquisto collettivo
ad uno degli assuntori, e nella certezza originaria dell’identità degli altri, non è punibile ai sensi
dell’art. 73, comma primo bis, lett. a), D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a seguito delle modifiche
apportate a tale disposizione dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49. * Cass. pen., sez. VI, 27 maggio 2011,
n. 21375 (c.c. 27 aprile 2011), Masucci. [RV250064]
l Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria dell’identità degli altri non è punibile ai
sensi dell’art. 73, comma primo bis, lett. a), D.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309, anche dopo le modifiche
apportate a tale disposizione dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49. * Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2011, n.
8366 (ud. 26 gennaio 2011), P.G. in proc. D’Agostino. [RV249000]
f-2) Circolazione stradale.
l Dall’entrata in vigore del D.L.vo n. 159 del
2011 (cosiddetto Codice antimafia), il sottoposto
a misura di prevenzione al quale sia stata sospesa,
revocata o negata la patente di guida che viene
colto alla guida di auto o motociclo è punito ai
sensi dell’ "art. 73 del medesimo D.L.vo n. 159,
norma quest’ultima da considerarsi speciale rispetto all’art. 116 C.d.S. * Cass. pen., sez. I, 26
giugno 2013, n. 27828 (ud. 13 giugno 2013), Magliuolo, in Arch. giur. circ. n. 12/2013. [RV255992]
l La fattispecie di cui all’art. 186, comma primo, lett. a), Cod. strada (guida in stato di ebbrezza con tasso alcoolemico superiore a 0,5 e non
superiore a 0,8) è stata depenalizzata dall’art. 33,
comma quarto, L. n. 120 del 2010. (La Corte ha
anche ritenuto di non dover trasmettere gli atti
alla competente autorità amministrativa, in considerazione del principio di legalità – irretroattività, sancito per gli illeciti amministrativi dall’art.
1, L. n. 689 del 1981, richiamata dallo stesso art.
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Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
194 Cod. strada, non rinvenendosi nella L. n. 120
del 2010 una apposita previsione che possa far
ritenere derogato il suddetto principio). * Cass.
pen., sez. IV, 3 novembre 2010, n. 38692 (ud. 28
settembre 2010), La Mantia, in Riv. pen. n. 2/2011
e Arch. Giur. circ. n. 4/2011, con nota di Giuseppe
Luigi Fanuli. [RV248407]
l La disciplina della revoca della patente prevista dal nuovo codice della strada è più favorevole all’imputato di quella precedente in quanto,
mentre nella vigenza del codice della strada abrogato spettava alla discrezionalità del giudicante
individuare i casi di particolare gravità che consentivano la revoca dell’autorizzazione alla guida,
l’art. 222, comma terzo, D.L.vo 30 aprile 1992,
n. 285, prevede la possibilità della revoca detta
esclusivamente nell’ipotesi di recidiva reiterata
specifica verificatasi entro il periodo di cinque
anni a decorrere dalla data della condanna definitiva per la prima violazione. * Cass. pen., sez.
IV, 10 ottobre 2000, n. 3881 (c.c. 28 giugno 2000),
Aramini M. [RV217481]
l In applicazione della regola fondamentale
di cui al comma 2 dell’art. 2 c.p., l’inosservanza
dell’ordine di presentarsi ad un organo di polizia
per l’esibizione di documenti attinenti alla circolazione dei veicoli – accertata prima dell’entrata
in vigore del nuovo codice della strada, emanato con D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285, vale a dire
prima dell’1 gennaio 1993 (art. 240 del testo citato) – essendo ora espressamente prevista come
illecito amministrativo dall’art. 180, comma 8, del
predetto codice, non realizza più l’ipotesi criminosa dell’art. 650 c.p. Tale inosservanza non può
neppure essere sanzionata in via amministrativa
ostandovi il disposto dell’art. 1, comma 1, L. 24
novembre 1981, n. 689, giacché il codice della
strada non contiene alcuna norma transitoria
analoga a quella dettata dall’art. 40 della legge
stessa che deroga al principio di legalità enunciato in via generale. Ne consegue che in siffatta ipotesi non deve essere disposta la trasmissione degli
atti all’autorità amministrativa. * Cass. pen., sez.
I, 5 aprile 1996, n. 3425 (ud. 20 novembre 1995),
P.M. in proc. Spataro. [RV204327]
l L’inosservanza dell’ordine impartito dall’autorità per esibire i documenti di circolazione ricade nella previsione di cui all’art. 180, comma ottavo, del nuovo codice della strada, di cui al D.L.vo
30 aprile 1992, n. 285 e la sanzione applicabile
è di natura amministrativa. Pertanto, nel caso di
violazione commessa prima dell’entrata in vigore
dell’indicato nuovo codice, deve trovare applicazione il comma secondo dell’art. 2 c.p., a tenore
del quale nessuno può essere punito per un fatto
che secondo una legge posteriore non è più sanzionato penalmente. (Fattispecie relativa ad imputazione ex art. 650 c.p.). * Cass. pen., sez. I, 16
aprile 1993, n. 974 (c.c. 9 marzo 1993), Varriale.
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66
f-3) Reati fallimentari.
l Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti
R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare
la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al
presupposto oggettivo dello stato di insolvenza
dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti
alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche apportate all’art. 1
R.D. n. 267 del 1942 dal D.L.vo 9 gennaio 2006, n.
5 e dal D.L.vo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p. sui procedimenti penali in corso. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 15 maggio 2008, n. 19601 (ud. 28 febbraio
2008), Niccoli. [RV239398]
l In tema di reati fallimentari, alle procedure
concorsuali e penali avviate prima della data di
entrata in vigore della L. n. 5 del 2006, che ha modificato la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 1, comma secondo, L. fall., resta applicabile la legge fallimentare previgente, anche
per quanto attiene alla identificazione del soggetto assoggettabile al fallimento ed alla nozione di
piccolo imprenditore, considerato che l’art. 150
della L. n. 5 del 2006 detta una chiara disciplina
transitoria per la quale «i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore
del D.L.vo n. 5 del 2006, nonché le procedure di
fallimento e di concordato fallimentare pendenti
alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore». * Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2007, n.
19297 (ud. 20 marzo 2007), Celotti. [RV237025]
l La nuova figura di reato del falso in prospetto, prevista dall’art. 2623 c.c., nel testo introdotto
dall’art. 1 del D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61, non rientra nel novero delle fattispecie di reati societari,
la cui consumazione costituisce requisito per la
integrazione del delitto di cui all’art. 223 legge
fall., e quindi la corrispondente condotta non è
più prevista come reato di bancarotta fraudolenta
impropria societaria. (In motivazione la Corte ha
osservato che il reato di falso in prospetto, pur ponendosi in rapporto di continuità normativa con
quello di false comunicazioni sociali delineata
dall’art. 2621 c.c. nel testo antecedente all’entrata
in vigore del citato decreto, è attualmente configurato in una autonoma figura criminosa che
non è stata richiamata fra quelle espressamente
elencate dall’art. 223 legge fall.). * Cass. pen., sez.
V, 16 dicembre 2005, n. 45714 (c.c. 19 settembre
2005), Patti. [RV233205]
l Per la configurabilità del reato di bancarotta
c.d. impropria, previsto dall’art. 223, comma 2, n.
1 del R.D. 16 marzo 1952, n. 267, come modificato dall’art. 4 del D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, si
richiede la sussistenza di un rapporto di causalità
tra il falso in bilancio di cui all’art. 2621 c.c. (o
un altro dei reati societari indicati nella norma
incriminatrice) posto in essere dagli amministratori e il dissesto della società. * Cass. civ., sez. I, 24
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67
TITOLO I – LEGGE PENALE
settembre 2002, n. 31828 (ud. 15 maggio 2002),
Mazzei. [RV222378]
l Sebbene la nuova disciplina introdotta
dall’art. 4 del D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, abbia
ristretto i margini di punibilità del reato di bancarotta c.d. impropria previsto dall’art. 223, comma
2, n. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, sussiste
continuità normativa fra la nuova e la vecchia fattispecie, configurandosi una ipotesi di successione
di leggi e non di abolitio criminis, con la conseguenza che va applicata la norma più favorevole
al reo, previa verifica, limitata all’esame dei dati
emergenti dalla sentenza impugnata e da quella
di primo grado, che la concreta contestazione del
fatto sia tale da integrare il reato anche nella sua
nuova formulazione (nel caso di specie, tuttavia,
la Corte non ha applicato la nuova disposizione, in
quanto ha ritenuto che, a seguito del precedente
annullamento con rinvio limitato alla determinazione della pena, si fosse già formato il giudicato
parziale interno sulla responsabilità dell’imputato). * Cass. pen., sez. I, 24 settembre 2002, n.
31828 (ud. 15 maggio 2002), Mazzei. [RV222379]
f-4) Reati societari.
l La nuova formulazione dell’art. 2622 cod. civ.,
introdotta dall’art. 11 della legge 27 maggio 2015,
n. 69, si pone, quanto alla condotta di mancata
esposizione in bilancio di poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio sociale, in rapporto di
continuità normativa con la fattispecie previgente,
determinando una successione di leggi penali, ai
sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen. * Cass.
pen., sez. V, 16 settembre 2015, n. 37570 (ud. 8 luglio 2015), P.C. in proc. Fiorini. [RV265020]
l In tema di reati societari, non sussiste continuità normativa tra il reato di indebita concessione di prestiti e garanzie ad amministratori,
direttori generali, sindaci e liquidatori di società
commerciali (art. 2624 c.c.) e il reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c., introdotto con il
D.L.vo n. 61 del 2002), in quanto, dall’esame strutturale delle suddette fattispecie incriminatrici,
emerge un’irriducibile divergenza degli elementi
strutturali. Infatti, mentre il reato di cui al previgente 2624 c.c. è delitto di mera condotta e di pericolo presunto, il delitto di cui al vigente art. 2634
è reato di evento, richiedendo la sussistenza di un
danno patrimoniale, intenzionalmente arrecato
alla società, che deve essere, pertanto, previsto e
legato alla condotta da un rapporto di diretta ed
immediata causalità. Diverso è, inoltre, l’elemento soggettivo richiesto dalle due fattispecie, dolo
specifico per il reato di cui all’art. 2634 c.c. e dolo
generico per il previgente art. 2624 c.c. Ne deriva
che, stante la radicale novità introdotta dall’art.
2634 c.c., è applicabile l’art. 2, comma secondo,
c.p., in forza della sopravvenuta, integrale abrogazione della previgente norma incriminatrice. *
Cass. pen., sez. V, 20 luglio 2007, n. 29268 (ud. 20
febbraio 2007), Dal Ben ed altro. [RV237599]
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Art. 2
f-5) Servizio militare.
l La causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere è inapplicabile, anche a seguito
dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 66 del 2010
(c.d. codice dell’ordinamento militare) che ha
abrogato la L. n. 382 del 1978, al militare che
adempia ad un ordine impartitogli da un superiore gerarchico e la cui esecuzione costituisca manifestamente reato, essendo questi tenuto a non
eseguirlo e ad informare al più presto i superiori.
(In motivazione la Corte ha escluso l’applicabilità
dell’esimente putativa dell’art. 51 c.p., invocata
da un ufficiale dei carabinieri, precisando, da un
lato, che l’erronea convinzione della sua esistenza
si traduce in ignoranza inescusabile della legge
penale e, dall’altro, che la manifesta criminosità di un ordine costituente reato non può essere
ignorata quando il destinatario sia un ufficiale di
polizia giudiziaria). * Cass. pen., sez. III, 13 maggio 2011, n. 18896 (ud. 10 marzo 2011), Riccio e
altro. [RV250284]
l Il rifiuto del servizio militare per ragioni
di coscienza, posto in essere prima dell’entrata
in vigore della L. 14 novembre 2000 n. 331, ove
non sussistano le condizioni nelle quali, ai sensi
dell’art. 2, comma primo, lett. f), di detta legge,
sarebbe tuttora possibile il reclutamento su base
obbligatoria, deve ritenersi non più idoneo a rendere configurabile il reato di cui all’art. 14 della
L. 8 luglio 1998; ciò in applicazione della regola
dettata dall’art. 2, comma quarto, c.p., atteso che
la nuova disciplina sul reclutamento, non avendo del tutto eliminato il servizio militare obbligatorio, non ha comportato una totale «abolitio
criminis» ma soltanto una riduzione della possibile sfera di operatività dell’illecito penale. * Cass.
pen., sez. I, 13 luglio 2006, n. 24270 (ud. 18 maggio 2006), Lampedone. [RV234839]
l La sospensione del servizio militare di leva,
previsto dall’art. 7 D.L.vo n. 215 del 2001, non
ha determinato la totale abolizione del servizio
militare obbligatorio, che continua ad essere disciplinato, in riferimento a specifiche situazioni
e a determinati casi eccezionali riferibili anche al
tempo di pace, ai sensi dell’art. 2 L. 14 novembre
2000 n. 331. Ne consegue che alla fattispecie di
reato di mancata chiamata alle armi, di cui agli
artt. 151 e 154 c.p.m.p., non essendo stata essa
abolita, si applica il quarto e non il secondo
comma dell’art. 2 c.p., secondo cui «se la legge del
tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori
sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile». (Nel caso di
specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice dell’esecuzione che aveva rigettato l’istanza
di revoca della condanna per abolitio criminis). *
Cass. pen., sez. I, 22 giugno 2006, n. 21823 (c.c. 11
aprile 2006), Gabriele. [RV234623]
l L’abolizione del servizio militare di leva ridisegna la fattispecie penale del delitto di rifiuto della
02/03/17 10:08
Art. 2
LIBRO I – DEI REATI
relativa prestazione eliminando il disvalore sociale
della condotta incriminata. Ne consegue che l’art.
1, comma sesto, della legge 14 novembre 2000 n.
331, deve essere considerato norma integratrice del
precetto penale e che, con riferimento alle situazioni da esso disciplinate, trova applicazione l’art. 2,
secondo comma, c.p., sicchè l’abolizione del servizio di leva comporta la non punibilità della condotta di chi in precedenza, allorchè detto servizio era
obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo. Tuttavia, in
applicazione della normativa transitoria prevista
dal combinato disposto degli artt. 3, comma primo,
legge n. 331 del 2000, 7, comma primo, D.L.vo n.
215 del 2001 e 1 della legge n. 226 del 2004, per
i giovani nati prima del 1985 e già chiamati alle
armi, il servizio militare resta obbligatorio sino
al 31 ottobre 2005, data di cessazione dal servizio
dell’ultimo contingente chiamato alle armi il 31
dicembre 2004, sicchè, nei confronti di coloro che
versino in tale situazione e rifiutino di prestare il
servizio militare di leva, continuano a ricorrere gli
estremi del reato contestato. * Cass. pen., sez. I, 31
marzo 2005, n. 12316 (ud. 10 febbraio 2005), P.G.
in proc. Caruso. [RV231721]
f-6) Reati in tema di paesaggio.
l L’abrogazione integrale della legge 7 marzo
2001 n. 78 (Tutela del patrimonio storico della
Prima guerra mondiale), operata dall’art. 2268,
comma primo, del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66,
con effetto dall’8 ottobre 2010, ha determinato
l’"abolitio" del reato contravvenzionale previsto
dall’art. 10, comma secondo della legge citata
per gli interventi di modifica, restauro o manutenzione che abbiano determinato la perdita, il
danneggiamento irreparabile o l’alterazione essenziale delle vestigia belliche specificate nell’art.
1, comma secondo, lettere a), b), c), e) della stessa legge, con la conseguenza che la successiva
soppressione della norma abolitrice, operata dal
D.Lgs. 24 febbraio 2012, n. 20, avendo determinato la "nuova entrata in vigore" della fattispecie
incriminatrice, non può retroagire ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto da
ultimo citato, ostandovi il principio dell’irretroattività della pena sancito dall’art. 2 cod. pen. *
Cass. pen., sez. III, 8 novembre 2013, n. 45159
(ud. 16 luglio 2013), Piffer e altro. [RV257622]
l In tema di paesaggio, la disposizione di
cui all’art. 181, comma primo ter, del D.L.vo 22
gennaio 2004 n. 41, introdotta dall’art. 1, comma
terzo lett. c), della legge 15 dicembre 2004 n. 308,
ai sensi del quale le sanzioni penali previste dal
comma primo dello stesso art. 181 non si applicano qualora l’autorità amministrativa accerti la
compatibilità paesaggistica di quanto realizzato,
si applica, in presenza delle condizioni prescritte,
anche ai fatti pregressi, ai sensi dell’art. 2, comma
secondo, c.p.. * Cass. pen., sez. III, 17 maggio
2005, n. 18205 (ud. 12 aprile 2005), Stubing.
[RV231648]
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68
f-7) Oltraggio a pubblico ufficiale.
l L’abrogazione, ad opera dell’art. 18 della
legge 25 giugno 1999 n. 205, del reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall’art. 341 c.p.
non dà luogo ad un fenomeno di successione di
leggi penali nel tempo, quale previsto e disciplinato dall’art. 2, comma terzo, c.p., per cui nulla
si oppone, qualora per detto reato sia intervenuta
sentenza irrevocabile di condanna, alla revoca
della stessa a norma dell’art. 673 c.p.p.; revoca
dalla quale vanno, peraltro, ovviamente esclusi
gli eventuali reati connessi o unificati sotto il vincolo della continuazione (nella specie, lesioni) ai
quali l’abrogazione non si riferisce. * Cass. pen.,
sez. VI, 8 novembre 2000, n. 1455 (c.c. 24 marzo
2000), P.M. in proc. Tell., in Riv. pen. 2001, 41.
l Attesa l’affinità tra l’abrogata figura criminosa dell’oltraggio a pubblico ufficiale e quella,
tuttora valida, dell’ingiuria aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale della persona offesa (la
quale si differenzia dalla prima esclusivamente
sotto il profilo della eterogeneità degli interessi
giuridici protetti), ed avuto riguardo alla disciplina dettata in materia di successioni di leggi penali
nel tempo dall’art. 2, comma terzo, c.p. (la cui
operatività può estendersi anche all’ipotesi in cui
la norma abrogata fosse contemplata nel contesto sistematico repressivo antecedente come fattispecie) «speciale» rispetto alla coeva fattispecie
«generale» rimasta inalterata, con conseguente
espansione della sfera di applicazione di quest’ultima anche ai casi prima rientranti nelle previsioni della prima), deve escludersi che l’abrogazione
del reato di oltraggio a pubblico ufficiale abbia
dato luogo ad una vera e propria abolitio criminis e che la condanna definitivamente inflitta per
detto reato sia quindi soggetta a revoca ai sensi
dell’art. 673 c.p.p. * Cass. pen., sez. I, 29 settembre 2000, n. 3144 (c.c. 26 aprile 2000), P.M. in
proc. Marandin, in Riv. pen. 2001, 41.
f-8) Reati edilizi.
l Costituisce una successione di disposizioni integratrici della norma penale (art. 20 lett.
b, della legge n. 47 del 1985), rilevante ai sensi
dell’art. 2 c.p., il mutamento della disciplina relativa alla costruzione di parcheggi in area pertinenziale esterna ad un fabbricato (art. 17, comma
90, legge n. 127 del 1997) che esclude la necessità
della concessione per siffatte opere. * Cass. pen.,
sez. III, 21 settembre 2000, n. 9893 (ud. 25 maggio 2000), Saccone R. e altro. [RV217866]
l In tema di reati edilizi la richiesta ed il rilascio della concessione in sanatoria nei casi in cui
nei confronti del richiedente sia già intervenuta
sentenza definitiva di condanna sono esclusivamente quelli previsti dall’art. 38 comma 3 della L.
28 febbraio 1985 n. 47 (annotazione dell’oblazione
nel casellario giudiziario e irrilevanza della condanna ai fini dell’applicazione della recidiva e della
sospensione condizionale della pena). In nessun
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69
TITOLO I – LEGGE PENALE
caso è possibile richiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza invocando, ex art. 2 c.p.,
la cessazione degli effetti della condanna poiché
il condono costituisce semplicemente una causa
sopravvenuta di non punibilità che non comporta necessariamente l’estinzione della pena quando
sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna. * Cass. pen., sez. III, 3 maggio 1996, n. 1265
(c.c. 15 marzo 1996), Nastro G. [RV205234]
f-9) Trasporto di oli minerali.
l Sussiste continuità normativa – valutabile,
dopo l’abrogazione del principio di ultrattività
penale (art. 24, comma 1, D.L.vo n. 507 del 1999),
alla luce dell’art. 2 c.p. – tra il reato di irregolarità
nella circolazione (art. 49 D.L.vo 26 ottobre 1995,
n. 504) ed il reato di trasporto di oli minerali
senza il prescritto certificato di provenienza (art.
15 legge n. 474 del 1957), avuto riguardo sia alla
natura di testo unico del D.L.vo n. 504 del 1995
nonché alla permanente continuità di tutela del
bene protetto dalla fattispecie originaria, sia alla
corrispondenza del fatto contestato a quello che
costituisce oggetto della nuova disciplina, sia alla
immutata valutazione legislativa della fattispecie.
* Cass. pen., sez. III, 19 luglio 2000, n. 8352 (ud. 9
maggio 2000), Giuliano G. [RV217133]
f-10) Ricettazione.
l In tema di ricettazione, la provenienza da
delitto dell’oggetto materiale del reato è elemento
definito da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di talchè l’eventuale abrogazione o le
modifiche di tale norma non assumono rilevanza
ai sensi dell’art. 2 c.p., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in questione, deve essere valutata con
esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta tipica di ricezione della cosa od
intromissione affinchè altri la ricevano. (Nella fattispecie è stata ritenuta la non revocabilità, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di una sentenza di condanna
per il delitto di ricettazione, sebbene il reato nella
specie presupposto, e cioè l’emissione di assegno
senza autorizzazione della banca trattaria, fosse
stato depenalizzato successivamente al passaggio
in giudicato della sentenza stessa). * Cass. pen.,
sez. II, 22 settembre 2003, n. 36281 (c.c. 4 luglio
2003), P.M. in proc. Paperini. [RV228412]
f-11) Adesione della Romania alla U.E.
l In tema di successione di leggi penali, l’adesione di uno Stato all’Unione Europea non determina la non punibilità del delitto commesso
anteriormente alla data di entrata in vigore del
trattato di adesione, e consistente nel compimento di atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio italiano dello straniero che sia cittadino di
tale Stato. (Fattispecie relativa al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cittadini rumeni in data antecedente all’ingresso della
Romania nell’Unione Europea). * Cass. pen., sez.
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Art. 2
I, 26 marzo 2015, n. 12918 (ud. 13 marzo 2015),
Castiglia e altri. [RV263367]
l L’adesione della Romania alla Unione Europea a decorrere dal 1° gennaio 2007 non comporta l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art.
2, commi secondo e quarto, c.p. con riferimento
al reato previsto dall’art. 22, comma dodicesimo,
D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286 commesso, prima di
tale data, in relazione all’occupazione illecita di
cittadini romeni. * Cass. pen., sez. I, 8 febbraio
2008, n. 6392 (ud. 30 ottobre 2007), Giampaolo.
[RV239074]
f-12) Reati doganali.
l In tema di reati doganali, l’art. 562. lett. e)
del regolamento CEE del 4 maggio 2001, n. 993,
che ha esteso a 18 mesi il periodo di tempo durante il quale le imbarcazioni da diporto iscritte nei
registri navali dei paesi, non facenti parte della Comunità Europea, possono restare nel territorio doganale comunitario una volta ammesse all’istituto
della temporanea importazione per uso privato,
previsto dalla Convenzione di Ginevra del 18 maggio 1956, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1961, n. 1553, è norma integratrice di un
elemento normativo della fattispecie di cui all’art.
216 T.U. n. 43 del 1973, la cui modifica non può
essere sottratta all’applicazione del principio della
successione delle leggi penali posto dall’art. 2 c.p. *
Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2002, n. 33934 (c.c.
26 giugno 2002), P.M. in proc. Nanni. [RV222298]
f-13) Falsità in valori di bollo.
l In tema di falsità in valori di bollo, la legge
sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice solo per quanto riguarda la individuazione dei valori suddetti e non anche i casi in cui
ne è richiesto l’uso; ne consegue che la modifica
o la abrogazione di norme che disciplinano tali
casi, non incidendo sulla struttura essenziale del
reato ma comportando soltanto una variazione
del contenuto del precetto, non configurano successione di leggi penali nel tempo, ai sensi e per
gli effetti di cui all’art. 2 c.p. (Fattispecie relative
all’uso di bollo contraffatto di tassa di concessione governativa per la patente, la cui apposizione
sul documento di guida non è più richiesta dalla
legge). * Cass. pen., sez. V, 13 maggio 2002, n.
18068 (ud. 3 marzo 2002), Versace D. [RV221917]
f-14) Danneggiamento.
l In tema di danneggiamento, il fatto già previsto come reato dall’art. 635, comma secondo,
n. 3 cod. pen., in quanto commesso sulle cose
indicate dall’art. 625 n. 7, conserva rilevanza
penale anche nella vigenza del nuovo testo, introdotto dall’art. 2, comma primo, lett. i) D.Lgs. 15
gennaio 2016, n. 7, in quanto tra il nuovo ed il
previgente testo della norma sussiste un nesso di
continuità e di omogeneità, non avendo il D.Lgs.
n. 7 del 2016 prodotto una generalizzata "abolitio
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Art. 3
LIBRO I – DEI REATI
criminis" della fattispecie, bensì solo la successione di una norma incriminatrice che ha escluso la
rilevanza penale di alcune ipotesi, conservandola
rispetto ad altre. * Cass. pen., sez. VII, 18 maggio
2016, n. 20635 (c.c. 16 febbraio 2016), Habou.
[RV267750]
l In tema di danneggiamento – poiché il D.Lgs.
15 gennaio 2016, n. 7, prevede a carico dell’imputato obblighi accessori e sanzioni per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della
legge di depenalizzazione – l’assoluzione con la
formula perché "il fatto non costituisce reato" è più
favorevole di quella "perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato", per cui, assolto in primo
grado l’imputato con la prima formula, il giudice
dell’appello, intervenuta nelle more la depenalizzazione degli illeciti e in assenza di impugnazione
del pubblico ministero, non può pronunciare proscioglimento mediante adozione della seconda, altrimenti violando il divieto di "reformatio in peius".
* Cass. pen., sez. III, 14 aprile 2016, n. 15460 (ud.
10 febbraio 2016), Ingegneri. [RV267825]
g) Associazione per delinquere.
l Ai fini della individuazione del regime sanzionatorio applicabile ai reati permanenti, nella
ipotesi di successione di leggi nel tempo, deve farsi riferimento alla data del decreto che dispone
il giudizio e, ove questo manchi, trattandosi di
rito abbreviato, alla data della richiesta di rinvio
a giudizio.(Fattispecie in tema di reati di associazione per delinquere di stampo mafioso). * Cass.
pen., sez. I, 9 novembre 2015, n. 44704 (ud. 5
maggio 2015), Iaria e altri. [RV265253]
3. Obbligatorietà della legge penale. – La legge
penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato (42, 2423), salve
le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
diritto internazionale (10, 68, 90, 1224 Cost.) (1).
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro
che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima (7 ss.) o
dal diritto internazionale (1080 c.n.; 17, 18 c.p.m.p.) (1).
(1) Le eccezioni previste dal diritto pubblico interno riguardano:
a) il Capo dello Stato;
b) i membri del Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici
della Corte costituzionale e i membri del Consiglio superiore della
magistratura.
Le eccezioni previste dal diritto internazionale riguardano:
a) la persona del Sommo Pontefice;
b) i Capi di Stato esteri e i reggenti;
c) i Capi di governo e ministri di Stati esteri o rappresentanti
di questi in conferenze o organizzazioni internazionali e i membri
stranieri di tribunali arbitrali;
d) gli Agenti diplomatici presso il Capo dello Stato, i membri della famiglia dell’agente conviventi, i membri delle missioni
militari e tecniche e le loro famiglie, il personale amministrativo
e le loro famiglie purché conviventi a carico e gli appartenenti al
personale di servizio per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 70
70
funzioni salvo che non si tratti di cittadini dello Stato ospitante o
di persone che abbiano fissato la loro residenza in Italia;
e) i membri del Parlamento europeo;
f) i Consoli, i vice consoli e gli Agenti consolari;
g) i giudici della Corte dell’Aia;
h) i membri delle istituzioni specializzate e i rappresentanti
dell’O.N.U.;
i) i corpi o reparti di truppe straniere, con particolare riferimento ai membri e alle persone al seguito delle forze armate della
N.A.T.O.
l In tema di immunità previste dal diritto
internazionale, poiché alla Repubblica del Montenegro non spetta, nell’ambito della comunità
internazionale, la qualifica di Stato sovrano e di
soggetto autonomo e indipendente (che fa capo
solo allo Stato Unione di Serbia e Montenegro), il
presidente della Repubblica e il capo del governo
del Montenegro non godono delle immunità dalla
giurisdizione penale italiana riconosciute ai capi
di Stato e di governo e ai Ministri degli esteri degli
Stati sovrani e soggetti di diritto internazionale.
(Fattispecie nella quale la Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame che, a conferma della decisione del g.i.p., aveva rigettato, sul
rilievo di tale immunità, una richiesta, avanzata
nei confronti del Presidente della Repubblica del
Montenegro, di misura cautelare per associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di
t.l.e.). * Cass. pen., sez. III, 28 dicembre 2004,
n. 49666 (c.c. 17 settembre 2004), P.M. in proc.
Djukanovic. [RV230222]
l L’immunità, che comporta la sottrazione
per taluni soggetti all’applicabilità delle sanzioni
penali, costituendo un’eccezione al principio di
obbligatorietà della legge penale, non può che derivare da disposizioni legislative ed è insuscettibile
di interpretazioni estensive ed analogiche, come
del resto avverte l’art. 3 c.p. nel limitarla ai soli casi
stabiliti dal diritto pubblico interno e dal diritto
internazionale. Il diritto internazionale riconosce
l’immunità ai soli capi di Stato per il fatto che essi
rappresentano i rispettivi Stati. Tutte le altre immunità non possono che sorgere da specifiche norme legislative, le quali non solo devono formulare
il collegamento tra l’organo e la sua qualità di rappresentante dello Stato straniero, ma devono altresì indicare se l’esonero è generale, ovvero limitato
ai fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
Pertanto l’immunità non può essere riconosciuta
al deputato alla sanità e sicurezza sociale del Congresso di stato di S. Marino. * Cass. pen., sez. III,
12 maggio 1998, n. 1011 (c.c. 17 marzo 1997), P.M.
in proc. Ghiotti R. [RV210861]
l Le immunità dalla giurisdizione previste
dalle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e consolari, ratificate e rese esecutive in
Italia con L. 9 agosto 1967, n. 804, non sono limitate ai soli rappresentanti diplomatici veri e propri. L’art. 43 della Convenzione del 24 aprile 1963
02/03/17 10:08
71
TITOLO I – LEGGE PENALE
sulle relazioni consolari, infatti, stabilisce, al primo comma, che anche i «funzionari consolari» e
gli «impiegati consolari» non possono essere sottoposti a giudizio dalle autorità giudiziarie e amministrative dello Stato di residenza per gli atti
compiuti nell’esercizio delle funzioni consolari.
(Sulla scorta del principio di cui in massima la
Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del
giudice di merito che aveva dichiarato l’improcedibilità dell’azione penale per il fatto compiuto
dall’imputato – e ritenuto integrare la contravvenzione di cui all’art. 674 c.p. – nell’esercizio delle
funzioni di sovrintendente del Cimitero militare
americano di Nettuno e di membro della missione diplomatica degli Stati Uniti). * Cass. pen.,
sez. I, 19 gennaio 1994, n. 469 (ud. 12 novembre
1993), P.M. in proc. Bevilacqua.
4. Cittadino
italiano. Territorio dello Stato (1). –
Agli effetti della legge penale, sono considerati «cittadini italiani» i cittadini delle colonie, i sudditi coloniali
(2), gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi
soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti
nel territorio dello Stato (2423).
Agli effetti della legge penale, è «territorio dello
Stato» il territorio «della Repubblica», quello delle colonie (3) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello
Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati
come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo
che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a
una legge territoriale straniera (2, 3, 4 c.n.).
(1) Si veda la L. 5 febbraio 1992, n. 91 recante nuove norme
sulla cittadinanza italiana.
(2) I riferimenti ai cittadini delle colonie ed ai sudditi coloniali
devono ritenersi non più operanti.
(3) Il riferimento al territorio delle colonie deve ritenersi non
più operante.
l È
perseguibile in base alla legislazione italiana e davanti al giudice italiano la violazione di
norme in materia di prevenzione degli infortuni
sul lavoro accertata a bordo di una nave battente bandiera straniera, attraccata in un porto italiano, quando detta violazione, ed i conseguenti
effetti lesivi, non abbiano interessato soggetti
appartenenti alla c.d. «comunità navale» sottoposta, come tale, alla giurisdizione dello Stato cui la
nave appartiene, ma bensì soggetti estranei alla
detta comunità quali, nella specie, lavoratori italiani addetti alle operazioni di carico. (Fattispecie
in cui delle lesioni colpose di un lavoratore, socio
di una cooperativa, caduto dall’alto durante lo stivaggio di una nave è stato ritenuto responsabile
il presidente della cooperativa). * Cass. pen., sez.
IV, 24 giugno 2000, n. 7409 (ud. 2 maggio 2000),
D’Este F. [RV216605]
l In caso di perpetrazione di reato su nave
mercantile che si trovi nelle acque territoriali di
altro Stato, prevale la giurisdizione dello Stato di
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 71
Art. 4
bandiera allorché l’illecito concerna esclusivamente le attività e gli interessi della comunità nazionale cui appartiene il natante, mentre prevale quella
dello Stato costiero ove le conseguenze del fatto
compiuto a bordo si ripercuotano o siano idonee
a ripercuotersi all’esterno incidendo su interessi
primari della comunità territoriale. Tali interessi
vanno valutati con riferimento non solo al bene
giuridico tutelato dalla norma di cui si assume la
violazione, ma anche alla situazione verificatasi in
concreto che diviene rilevante per lo Stato costiero
allorquando per le sue connotazioni realizzi una
condizione di effettivo pericolo che, rendendo probabile l’offesa per la pace pubblica del paese o per
il buon ordine del mare territoriale, imponga l’intervento dello Stato costiero. (Fattispecie relativa
a ritrovamento su nave mercantile straniera nelle
acque territoriali italiane di armi da guerra costituenti dotazione della nave stessa regolarmente
iscritte nei libri di bordo e denunciate alle competenti autorità straniere. La Corte di cassazione
ha escluso la giurisdizione del giudice italiano).
* Cass. pen., Sezioni Unite, 26 gennaio 1990, n.
1002 (ud. 16 novembre 1989), Zaid Avraham.
l La legge doganale 25 settembre 1940 n.
7424, art. 33, eleva a dodici miglia marine dalla
costa la zona di vigilanza doganale, comprendendo in essa fino a sei miglia il vero e proprio mare
territoriale, e da sei a dodici la zona contigua, così
che, ai fini della giurisdizione dello Stato italiano,
deve ritenersi commesso entro il territorio dello
Stato italiano il reato di contrabbando commesso
entro le dodici miglia dalla costa. * Cass. pen., Sezioni Unite, 19 gennaio 1952, Poitral.
5. Ignoranza della legge penale. – Nessuno può in-
vocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale
(473) (1).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 24 marzo 1988, n.
364, ha dichiarato l’incostituzionalità di questo articolo, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge
penale l’ignoranza inevitabile.
SOMMARIO:
a) Nozione e ratio;
b) Ignoranza inevitabile – Errore scusabile;
c) Buona fede nei reati contravvenzionali;
d) Casistica.
a) Nozione e ratio.
l L’errore di diritto inevitabile esclude la colpevolezza anche quando cada sulla norma extrapenale integratrice. * Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 43646 (ud. 22 giugno 2011), S.
[RV251044]
l La valutazione dell’inevitabilità dell’errore
di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della
colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori
esterni che possono aver determinato nell’agente
l’ignoranza della rilevanza penale del suo com-
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Art. 5
LIBRO I – DEI REATI
portamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo. (Fattispecie relativa al reato
di concorso della madre dell’infante nel delitto di
cui all’art. 348 c.p., avente ad oggetto la ritenuta
rilevanza dell’ignoranza della natura medica della
circoncisione praticata per motivi rituali e della
conseguente necessità che ad effettuarla sia un
soggetto abilitato all’esercizio della professione
medica, e ciò per essere quella madre di recente
immigrata da un paese straniero in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica, dalla quale la
stessa è risultata essere fortemente influenzata in
ragione del suo basso grado di cultura). * Cass.
pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 43646 (ud. 22
giugno 2011), S. [RV251045]
l Non può essere invocata l’ignoranza della
legge penale ex art. 5 c.p. – alla luce dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale – da
parte di chi, professionalmente inserito in un
campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del predetto penale,
non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili a ragione dell’attività professionale svolta. (Nella fattispecie, la S.C. ha escluso
che l’errore sulla qualifica demaniale di un’area
o terreno, in riferimento al reato di occupazione
abusiva di suolo demaniale marittimo, possa essere invocato da un soggetto, legale rappresentante di una società operante nell’ambito dei cantieri
navali). * Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2004, n.
22813 (ud. 15 aprile 2004), Ferri. [RV229228]
l Deve escludersi che l’errore del pubblico
ufficiale circa le proprie facoltà di disposizione
del pubblico denaro per fini diversi da quelli istituzionali possa assumere qualsivoglia efficacia
scriminante perché, pur essendo la destinazione
delle somme determinata da una norma di diritto amministrativo, tale norma deve intendersi
richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto. Pertanto, l’illegittimità della
destinazione, anche se imputabile ad ignoranza
dell’agente sui limiti dei propri poteri, non si
risolve in un errore di fatto su legge diversa da
quella penale, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale e, come tale, non vale ad
escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato che consiste nella coscienza e volontà di
far proprie somme di cui il pubblico ufficiale ha
il possesso per ragioni del suo ufficio. Né potrebbe essere utilmente richiamato il decisum della
sentenza costituzionale n. 364 del 1988 che ha
dichiarato illegittimo l’art. 5 c.p., nella parte in
cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza
della legge penale l’ignoranza inevitabile. Infatti, i
soggetti che esplicano professionalmente una determinata attività rispondono anche in virtù della
culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica; da ciò deriva che per la scusabilità dell’ignoranza (e, dunque, anche dell’errore) occorre che
da un comportamento degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giu-
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risprudenziale venga tratto il convincimento della
correttezza dell’interpretazione e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. *
Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 1994, n. 10458 (ud.
30 giugno 1994), Diene ed altri.
b) Ignoranza inevitabile – Errore scusabile.
l La valutazione dell’inevitabilità dell’errore
di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della
colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori
esterni che possono aver determinato nell’agente
l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo. (Fattispecie relativa al reato
di concorso della madre dell’infante nel delitto di
cui all’art. 348 c.p., avente ad oggetto la ritenuta
rilevanza dell’ignoranza della natura medica della
circoncisione praticata per motivi rituali e della
conseguente necessità che ad effettuarla sia un
soggetto abilitato all’esercizio della professione
medica, e ciò per essere quella madre di recente
immigrata da un paese straniero in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica, dalla quale la
stessa è risultata essere fortemente influenzata in
ragione del suo basso grado di cultura). * Cass.
pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 43646 (ud. 22
giugno 2011), S. [RV251045]
l La scusabilità dell’ignoranza della legge penale, può essere invocata dall’operatore professionale di un determinato settore solo ove dimostri,
da un lato, di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e, dall’altro, di essersi informato in proprio,
ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo
il dovere di informazione. (In applicazione di tale
principio, la Corte ha ritenuto inescusabile l’ignoranza, da parte del titolare di uno stabilimento
di depurazione e stabulazione di molluschi, delle
procedure di rinnovo delle concessioni demaniali
marittime, invocata per l’asserita "farraginosità "
della disciplina tale da giustificare l’emanazione di
una norma di interpretazione autentica, nonché"
per la difficoltà di reperire corrette informazioni
sul trasferimento di competenze alla Regione). *
Cass. pen., sez. III, 3 ottobre 2011, n. 35694 (ud. 5
aprile 2011), Pavanati. [RV251225]
l L’esclusione di colpevolezza per errore di
diritto dipendente da ignoranza inevitabile della
legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole
conclusione della correttezza della propria interpretazione del disposto normativo. Ne consegue
che in caso di giurisprudenza non conforme o di
oscurità del dettato normativo sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso
che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di
astensione dall’intervento, con l’espletamento di
qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la
corretta conoscenza della legislazione vigente in
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TITOLO I – LEGGE PENALE
materia. (Fattispecie in tema di coltivazione per
uso personale di sostanze stupefacenti). * Cass.
pen., sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 6991 (ud. 25
gennaio 2011), Sirignano e altro. [RV249451]
l Deve essere considerato errore sulla legge
penale, come tale inescusabile, sia quello che
cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre
branche del diritto, introdotte nella norma penale
ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi intendere per «legge diversa dalla legge
penale» ai sensi dell’art. 47 c.p. quella destinata in
origine a regolare rapporti giuridici di carattere
non penale e non esplicitamente incorporata in
una norma penale, o da questa non richiamata
anche implicitamente. (Nella specie, la Corte ha
ritenuto che l’art. 76 D.L.vo n. 115 del 2002, che
disciplina la materia del patrocinio a spese dello
Stato ed è espressamente richiamato dalla norma
incriminatrice di cui all’art. 95 stesso D.L.vo, non
costituisca legge extrapenale). * Cass. pen., sez.
IV, 21 ottobre 2010, n. 37590 (ud. 7 luglio 2010),
P.G. in proc. Barba. [RV248404]
l L’inevitabilità dell’errore sulla legge penale
non si configura quando l’agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto alla quale ha
il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente. (In applicazione di questo principio
la S.C. ha ritenuto legittima la decisione con cui il
giudice di appello ha affermato la sussistenza del
reato di cui all’art. 220, comma secondo, L. fall.
nei confronti del socio accomandatario di una
s.a.s. che aveva invocato l’ignoranza senza colpa
del precetto penale, avendo assunto la qualifica di
amministratore per fare un favore ad un amico).
(Corte cost. n. 364 del 1988). * Cass. pen., sez. V,
3 giugno 2008, n. 22205 (ud. 26 febbraio 2008),
Ciccone. [RV240440]
l La esclusione di colpevolezza per errore di
diritto dipendente da ignoranza inevitabile della
legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole
conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa; ma in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato
normativo sulla regola di condotta da seguire non
è possibile invocare la condizione soggettiva di
ignoranza inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l’obbligo di astensione dall’intervento e dell’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza
della legislazione vigente in materia. (Fattispecie
relativa al regime vincolistico successivo alla scadenza temporale di validità dei programmi pluriennali di attuazione per le edificazioni in zone
oggetto di pianificazione al momento di entrata
in vigore della legge 8 agosto 1985 n. 431). * Cass.
pen., sez. III, 24 giugno 2004, n. 28397 (ud. 16
aprile 2004), P.G. in proc. Giordano. Conforme,
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Art. 5
Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 6991 (ud.
20 gennaio 2011), Sirignano e altro. [RV229060]
l L’ignoranza della legge penale, l’agente abbia fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato
della norma e questa sia stata violata per cause
indipendenti dalla sua volontà. Ne consegue che
non è sufficiente ad integrare gli estremi della
scriminante il comportamento passivo dell’agente, essendo invece necessario che questi si attenga
con l’ordinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi. (In
applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto non scriminare l’agente dall’aver dichiarato
falsamente alla Capitaneria di porto di essere in
possesso dei requisiti morali richiesti dal D.P.R. 9
ottobre 1997, n. 431 per l’ammissione agli esami
per il conseguimento della patente nautica, il fatto che sul modulo prestampato predisposto dalla
P.A. fosse richiamato genericamente il suddetto
regolamento, senza citarne gli estremi). * Cass.
pen., sez. V, 31 ottobre 2003, n. 41476 (ud. 25 settembre 2003), Izzo. [RV227042]
l L’errore di diritto scusabile, ai sensi dell’art.
5 c.p. è configurabile soltanto in presenza di una
oggettiva ed insuperabile oscurità della norma o
del complesso di norme aventi incidenza sul precetto penale. Ne consegue che non è scusabile
l’errore riferibile al calcolo dell’ammontare degli
interessi usurari sulla base di quanto disposto
dall’art. 644 c.p., trattandosi di interpretazione
che, oltre ad essere nota all’ambiente del commercio, non presenta in sé particolari difficoltà.
* Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2003, n. 36346
(ud. 5 febbraio 2003), Delucca. [RV226911]
l La esclusione della colpevolezza nelle contravvenzioni non può essere determinata dall’errore di diritto dipendente da ignoranza non
inevitabile della legge penale, quindi, dal mero
errore di interpretazione, che diviene scusabile
quando è determinato da un atto della pubblica
amministrazione o tragga la convinzione della
correttezza dell’interpretazione normativa e, di
conseguenza, della liceità della propria condotta. * Cass. pen., sez. III, 21 aprile 2000, n. 4951
(ud. 17 dicembre 1999), Del Cuore F. Conformi:
Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2008, n. 172 (ud. 6
novembre 2007), Picconi; Cass. pen., sez. III, 30
dicembre 2009, n. 49970 (ud. 4 novembre 2009),
Cangialosi ed altri. [RV216561]
l L’errore su legge diversa da quella penale,
idoneo ad escludere la punibilità, è solo quello
che riguarda una norma destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale,
non richiamata né esplicitamente né implicitamente nella norma penale. Non è perciò scusabile
l’errore che incide su precetti e termini di altre
branche del diritto, introdotti ad integrazione
della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del comando penale. (Nella
fattispecie, relativo alla pretesa dell’imputato di
veder riconosciuto l’errore sulle norme in tema
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Art. 5
LIBRO I – DEI REATI
di società, la Corte ha affermato che la figura
dell’amministratore di una società è espressamente richiamata dagli artt. 2621 c.c. e 223 legge
fallimentare che prevedono reati propri). * Cass.
pen., sez. V, 23 febbraio 2000, n. 2174 (ud. 11 gennaio 2000), Di Patti ed altri. [RV215480]
l In materia di tutela ambientale e in tema
di ignoranza della legge penale, l’affittuario di un
fondo sottoposto al vincolo di cui alla legge n.
431/1985, che agisca in violazione dello stesso, non
può addurre la carenza dell’elemento soggettivo
del reato per il modesto livello d’istruzione o per
l’esecuzione, prolungata nel tempo, di lavori d’aratura, consistenti, nella fattispecie, nel completo
sradicamento di macchia mediterranea, senza alcun controllo da parte delle autorità preposte alla
tutela del vincolo; infatti, l’accertamento dello stato della legislazione è tanto più necessario, quanto minore è la preparazione tecnica dell’agente. *
Cass. pen., sez. III, 18 giugno 1997, n. 5961 (ud. 3
giugno 1997), Piras ed altro, in Riv. pen. 1997, 821.
l Il fondamento costituzionale della «scusa»
della inevitabile ignoranza della legge penale
vale prima di tutto per chi versa in condizioni
soggettive di sicura inferiorità e non può certo
essere strumentalizzato per coprire omissioni di
controllo o atteggiamenti indifferenti di soggetti
dai quali, per la loro elevata condizione sociale e
tecnica, sono esigibili particolari comportamenti
realizzativi di obblighi strumentali di diligenza
nel conoscere le leggi penali; l’ipotesi di un soggetto sano e maturo di mente che commetta fatti
criminosi ignorandone la antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, sebbene presentino un generico disvalore sociale, non
siano sempre e dovunque previsti come illeciti
penali, ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale. In relazione a
tali categorie di reati possono essere prospettate
due ipotesi: quella in cui il soggetto si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo fatto sia
antigiuridico e quella in cui tale possibilità non si
rappresenti neppure; mentre nella prima di dette
ipotesi esistendo, in concreto, più che la possibilità di conoscenza dell’effettiva illiceità del fatto,
la concreta previsione di essa, non può ravvisarsi
ignoranza inevitabile della legge penale (dovendo
il soggetto risolvere il «dubbio eventuale» attraverso l’esatta conoscenza della specifica norma o,
in caso di soggettiva invincibilità di esso, astenersi dall’azione), nella seconda ipotesi è riservato al
giudice il compito di una valutazione attenta delle
ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge
penale, non si è neppure prospettato un dubbio
sulla illiceità del fatto e, se l’assenza di simile dubbio risulti discendere – in via principale – da personale ed incolpevole mancanza di socializzazione dello stesso, l’ignoranza della legge penale va,
di regola, ritenuta inevitabile. * Cass. pen., sez.
III, 12 giugno 1996, n. 2149 (c.c. 9 maggio 1996),
Falsini. [RV205513]
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l In tema di elemento soggettivo del reato, è
configurabile l’inevitabilità dell’ignoranza della
legge penale anche nei confronti di quei soggetti
dotati di particolari conoscenze giuridiche o dediti
ad attività professionali o mestieri, che presuppongono tali condizioni, qualora la normativa,
attinente alla specifica disciplina, oggetto di regolamentazione, presenti rilevanti ed oggettivi connotati di equivocità, che rendano ragionevolmente
oscuro il precetto, contenente il divieto d’agire ovvero l’ordine di operare. In tal caso non può essere
mosso alcun addebito di rimproverabilità all’agente, qualunque sia il suo grado di «socializzazione»,
non potendosi pretendere dal singolo un’astensione (tra l’altro impossibile nelle ipotesi di ordine
positivo) o una paralisi di attività della vita di
relazione, non dovuta, perché ascrivibili non alla
coscienza d’illiceità della condotta da parte del
privato, ma al cattivo funzionamento dell’apparato ordinamentale. (Nella specie la S.C. ha ritenuto
che trova piena applicazione il suddetto principio,
reputata estremamente complessa la normativa.
[legislazione vigente in materia di sussistenza dei
vincoli paesistici con riferimento ai piani pluriennali di attuazione ed alla possibilità di inquadrare tra questi ultimi i piani di zona per l’edilizia
economica e popolare – Peep] e, nella sua diversificata formulazione, oggettivamente oscura per
gli stessi tecnici del diritto, come dimostrato dai
contrasti interpretativi in sede cautelare ed in sede
di cognizione, ciò in presenza di vari atti dell’assessore all’urbanistica, il quale si era ripetutamente espresso per la non necessità del nulla osta in
riferimento agli interventi di edilizia residenziale
pubblica). * Cass. pen., sez. III, 27 maggio 1996, n.
5244 (ud. 23 aprile 1996), Gatto. [RV205109]
l Deve ritenersi inevitabile l’ignoranza della
legge penale, quando l’agente sia incorso nella
trasgressione nonostante si sia attenuto correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo di
informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale e
l’accertamento di tale diligenza deve essere particolarmente approfondito per chi esercita professionalmente in un determinato settore un’attività
alla quale inerisce la disciplina predisposta dalle
norme violate, sicché non è sufficiente ad integrare gli estremi della scriminante un comportamento meramente passivo dell’agente, mentre è
necessario che si tratti di un reato di creazione
legislativa e non di una norma corrispondente
ad un’esigenza morale universalmente avvertita.
(Fattispecie in tema di omessa annotazione sulle scritture contabili di cessioni di beni). * Cass.
pen., sez. III, 3 maggio 1996, n. 4464 (ud. 20 marzo 1996), Stefanelli. [RV204431]
l A seguito della sentenza 23 marzo 1988 n.
364 della Corte costituzionale, secondo la quale
l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’il-
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TITOLO I – LEGGE PENALE
lecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.
Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione», attraverso l’espletamento di
qualsiasi utile accertamento, per conseguire la
conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti
coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito
anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della
scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da
un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione
normativa e, conseguentemente, della liceità del
comportamento tenuto. (Fattispecie relativa a reati urbanistici, in relazione ai quali la Suprema
Corte ha confermato l’assoluzione pronunciata
dal giudice di merito per mancanza dell’elemento
soggettivo del reato, motivata dalla convinzione
degli imputati dell’assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del
giudice amministrativo, nonché in specifici atti
ufficiali del Ministero dei beni culturali e ambientali e del Comune interessato, e ha conseguentemente ritenuto assorbita, perché irrilevante, la
questione della sindacabilità, da parte del giudice
ordinario, della concessione «macroscopicamente illegittima»). * Cass. pen., Sezioni Unite, 18
luglio 1994, n. 8154 (ud. 10 giugno 1994), P.G. in
proc. c. Calzetta ed altro. Conforme, Cass. pen.,
sez. IV, 18 agosto 2010, n. 32069 (c.c. 15 luglio
2010), P.M. in proc. Albuzza e altri.
l L’incertezza che potrebbe derivare da contrastanti indirizzi giurisprudenziali, nell’interpretazione ed applicazione di una norma, non
abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile della legge penale.
Al contrario, il dubbio sulla liceità o meno, così
originato, deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino, cioè (secondo l’esplicito
pensiero espresso nella sentenza della Corte costituzionale 24 marzo 1988, n. 364) all’estensione
dell’azione, se, nonostante tutte le informazioni
assunte, permanga l’incertezza sulla liceità dell’azione stessa; e ciò, perché il dubbio, non essendo
equiparabile allo stato di inevitabile ed invincibile
ignoranza, non esclude la consapevolezza della illiceità. * Cass. pen., sez. III, 2 luglio 1994, n. 7550
(ud. 1 giugno 1994), Cherubini. Conforme, Cass.
pen., sez. VI, 27 maggio 1995, n. 6175 (ud. 27
marzo 1995), Bando.
l In tema di ignoranza scusabile della legge
penale, su coloro che esercitano professionalmente un’attività incombe il dovere, nell’ipotesi
di dubbio sulla liceità dell’azione, di astenersi dal
compierla. * Cass. pen., sez. III, 23 giugno 1994,
n. 7287 (ud. 6 maggio 1994), Bonsignore.
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Art. 5
l Non può ritenersi inquadrabile nell’ambito
delle situazioni soggettive che, solo eccezionalmente, alla stregua di quanto affermato dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 364/1988
(dichiarativa della parziale incostituzionalità
dell’art. 5 c.p.), consentono di ritenere inoperante il principio generale, tuttora valido, della inescusabilità della ignoranza della legge penale, la
situazione di chi, sol perché straniero, adduca a
sua giustificazione la diversità della legge italiana
rispetto a quella del suo paese d’origine. (Nella
specie, in applicazione di tale principio, la Corte
ha escluso che potesse attribuirsi rilevanza, in un
caso di violenza carnale presunta, in quanto commessa su soggetto infraquattordicenne, all’assunto difensivo dell’imputato, cittadino marocchino,
secondo il quale in Marocco i rapporti sessuali
con minori sarebbero considerati leciti dalla legge). * Cass. pen., sez. III, 15 marzo 1994, n. 3114
(ud. 7 dicembre 1993), Tabib.
l Si verifica in ipotesi di ignoranza inescusabile della legge penale, nel caso in cui il soggetto,
pur dimostrando di conoscere appieno il precetto
penale non vi si conformi in base a mere notizie
giornalistiche, inerenti alla eventuale imminente
modifica della norma in senso più favorevole. In
tal caso l’agente, deve accertare in modo irrefutabile l’avvenuto cambiamento, attenendosi fino a
quel momento alla disposizione vigente. * Cass.
pen., sez. III, 6 ottobre 1993, n. 9092 (ud. 18 giugno 1993), Santarelli.
l Ai fini della configurabilità dell’ignoranza
scusabile della legge penale, la scriminante della
buona fede può trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui l’agente abbia fatto tutto il possibile
per adeguarsi al dettato della norma e questa sia
stata violata per cause indipendenti dalla volontà dell’agente medesimo, al quale non può essere
mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza. Non è sufficiente ad integrare gli estremi
dell’esimente un comportamento meramente passivo, essendo necessario che l’interessato si attivi
per adeguarsi all’ordinamento giuridico. * Cass.
pen., sez. III, 23 luglio 1993, n. 7161 (ud. 3 giugno
1993), Cardia.
l L’inevitabilità dell’ignoranza della legge
penale, che a seguito della sentenza n. 364 del
1988 della Corte costituzionale, rende scusabile
la ignoranza stessa, non va valutata alla stregua di
criteri esclusivamente soggettivi, ma si ricollega
all’effettiva possibilità di conoscere la legge penale ed ai doveri di informazione o di attenzione
sulle norme penali; doveri che sono alla base della
convivenza civile. * Cass. pen., sez. VI, 20 maggio
1993, n. 5225 (ud. 12 marzo 1993), Sicurella.
c) Buona fede nei reati contravvenzionali.
l In tema di elemento psicologico del reato, la cosiddetta "buona fede" è configurabile
ove la mancata coscienza dell’illiceità del fatto
derivi non dall’ignoranza dalla legge, ma da un
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Art. 5
LIBRO I – DEI REATI
elemento positivo e cioè da una circostanza che
induce nella convinzione della sua liceità, come
un provvedimento dell’autorità amministrativa,
una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo
della norma. * Cass. pen., sez. III, 8 luglio 2015, n.
29080 (c.c. 19 marzo 2015), P.M. in proc. Palau.
[RV264184]
l L’ignoranza della legge penale scusa l’autore dell’illecito qualora sia inevitabile, e quindi
incolpevole, facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, anche se contravvenzionale.
Tale condizione deve ritenersi sussistente per il
cittadino comune, soprattutto se sfornito di specifiche competenze, allorché egli abbia assolto il
dovere di conoscenza con l’ordinaria diligenza
attraverso la corretta utilizzazione dei mezzi di
informazione, di indagine e di ricerca dei quali
disponga. (Fattispecie concernente la riconducibilità alla categoria delle armi di un apparecchio
che trasmette impulsi elettrici). (V. Corte cost., 23
marzo 1988 n. 364). * Cass. pen., sez. I, 9 giugno
2004, n. 25912 (ud. 18 dicembre 2003), Garzanti.
[RV228235]
l In materia contravvenzionale è configurabile la buona fede ove la mancata coscienza della
illiceità del fatto derivi non dall’ignoranza inescusabile della legge, ma da un elemento positivo,
cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un comportamento
dell’autorità amministrativa. (Nella specie l’imputato aveva ritenuto che l’autorizzazione di agibilità dei locali del suo insediamento produttivo
rilasciatogli dal sindaco fosse comprensiva anche
dell’autorizzazione allo scarico dei reflui provenienti dallo stesso insediamento, in tale erronea
convinzione essendo stato indotto dal comportamento dell’autorità amministrativa). * Cass. pen.,
sez. III, 3 marzo 1992, n. 2336 (ud. 31 gennaio
1992), Santori. Conforme, Cass. pen., sez. III, 21
aprile 1989, n. 6160 (ud. 8 marzo 1989), Greco.
u Si veda anche sub art. 42.
d) Casistica.
l Le partizioni sistematiche di una legge, in
particolare titoli, capi e rubriche, non fanno parte né integrano il testo legislativo e quindi non
vincolano l’interprete, in quanto la disciplina
normativa sulla formazione delle leggi prevede
che solo i singoli articoli siano oggetto di esame
e di approvazione da parte degli organi legislativi. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato la
natura funzionale della competenza dei giudici
della sorveglianza, pur rilevando che la rubrica
dell’art. 677 c.p.p. recita: "Competenza per territorio"). * Cass. pen., sez. I, 20 aprile 2015, n. 16372
(c.c. 20 marzo 2015), P.G. in proc. De Gennaro.
[RV263325]
l In tema di reati contro il patrimonio, ai fini
della configurabilità del reato di cui all’art. 2, L.
23 dicembre 1986, n. 898 (indebito conseguimen-
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76
to di contributi a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia, cosiddetta frode
comunitaria), l’eventuale ignoranza da parte del
reo del contenuto della domanda e delle attestazioni effettuate e sottoscritte non esclude il dolo
ex art. 5 c.p. in relazione alla sentenza della Corte
cost. n. 364 del 1988, in quanto non si versa in tal
caso in una ipotesi di ignoranza inevitabile della
legge penale essendo noto il disvalore sociale
della condotta. * Cass. pen., sez. III, 16 gennaio
2008, n. 2257 (ud. 30 novembre 2007), Di Stefano.
[RV238627]
l Ai fini della configurabilità del delitto di evasione dagli arresti domiciliari, ritenere che la notifica di un decreto di citazione per l’udienza autorizzi implicitamente ad allontanarsi dal luogo
di restrizione, è un errore di diritto, in quanto afferisce alla disciplina degli arresti domiciliari che
integra la fattispecie penale, e pertanto non può
essere scusabile neppure per lo straniero, il quale,
come il cittadino italiano, quando è destinatario
di un regime di arresti domiciliari, deve osservare
con la massima diligenza la regola fondamentale
dell’assoluto divieto di allontanamento dal proprio domicilio, senza preventiva autorizzazione
del giudice. * Cass. pen., sez. VI, 16 aprile 2004,
n. 17687 (ud. 9 gennaio 2004), Caku. [RV228465]
l Ai fini della sussistenza del reato di falso in
scrittura privata non ha alcuna rilevanza il consenso o l’acquiescenza della persona di cui venga falsificata la firma, in quanto la tutela penale
ha per oggetto non solo l’interesse della persona
offesa, apparente firmataria del documento, ma
anche la fede pubblica, la quale è compromessa
nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sè un vantaggio
o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche
l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante
del consenso si risolve in una inescusabile ignoranza della legge penale. * Cass. pen., sez. II, 10
novembre 2003, n. 42790 (ud. 24 ottobre 2003),
Del Miglio. [RV227615]
l Nel reato di illegale detenzione di armi e
munizioni l’elemento psicologico nel dolo generico, e cioè nella coscienza e volontà di avere a
disposizione materialmente l’arma o le munizioni
senza averne fatto denuncia, mentre a nulla rileva
l’eventuale buona fede dell’agente ovvero l’erroneo convincimento circa l’obbligo della denuncia
che si risolve in ignoranza della legge penale, inescusabile per il principio generale sancito dall’art.
5 c.p. * Cass. pen., sez. I, 2 aprile 2001, n. 12911
(ud. 19 dicembre 2000), Bortoluzzi. [RV218441]
l Poiché lo scopo della L. 4 aprile 1956, n. 212
(norme per la disciplina della propaganda elettorale) è quello di tutelare la par condicio di coloro
che concorrono nella competizione elettorale,
l’art. 8, comma 3 della legge punisce non solo
chiunque affigge manifesti elettorali fuori delle
superfici globalmente destinate alla propaganda
elettorale, ma a maggior ragione, punisce anche
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77
TITOLO I – LEGGE PENALE
chiunque affigge manifesti dentro quelle superfici
globali e tuttavia fuori della specifica superficie
assegnata alla lista o al concorrente uninominale
propagandato dal manifesto affisso. (Nella specie,
la Suprema Corte ha altresì osservato che «non
può ritenersi errore scusabile sulla interpretazione della norma incriminatrice quello in cui sarebbero incorsi gli imputati: è nozione di comune
esperienza che gli «attacchini» elettorali sono
adeguatamente edotti sulle norme da osservare
per le affissioni; e che se essi violano tali norme,
le violano coscientemente o comunque per ignoranza non scusabile»). * Cass. pen., sez. III, 4 ottobre 1995, n. 10132 (ud. 27 giugno 1995), Sacco
ed altro. [RV203086]
l In tema di reato di maltrattamento di animali (art. 727 c.p.), il cosiddetto «dovere di informazione» cui il comune cittadino è tenuto, è esigibile anche dal cacciatore, che esercita un’attività
normativamente disciplinata e condizionata dal
rilascio di un’autorizzazione e non può, pertanto, invocare l’ignoranza scusabile della norma
penale. (Fattispecie relativa alla detenzione di volatili, fungenti da richiamo, in minuscole gabbie,
ossia in una condizione incompatibile con la loro
natura). * Cass. pen., sez. III, 16 giugno 1995, n.
6897 (ud. 24 aprile 1995), Parussolo. [RV201787]
l In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella forma dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, non si può invocare l’errore di fatto, né l’ignoranza della legge
penale sotto il profilo della sua inevitabilità, poiché l’obbligo sanzionato deriva da inderogabili
principi di solidarietà, ben radicati nella coscienza della collettività, prima ancora che nell’ordinamento. (Fattispecie nella quale il difetto del
dolo era stato sostenuto dall’imputato adducendo
che l’udienza presidenziale di separazione tra i
coniugi era stata rinviata, senza che alcun provvedimento fosse stato adottato riguardo al mantenimento). * Cass. pen., sez. V, 12 maggio 1995, n.
5447 (ud. 26 aprile 1995), De Padua. [RV201328]
l L’ignoranza inevitabile della legge penale è
configurabile solo se emerga che nessun rimprovero, neppure di leggerezza, possa essere mosso
all’imputato per avere egli fatto tutto il possibile
per uniformarsi alla legge. (Fattispecie relativa ad
imputato che aveva scaricato nelle acque di un
canale i reflui derivanti dalla propria attività produttiva ed era stato assolto dal giudice di merito
per avere commesso il fatto in stato di ignoranza
inevitabile della legge penale ingeneratogli dalla
oscurità e difficoltà interpretativa della legislazione in materia e dai relativi contrasti giurisprudenziali circa la natura civile o produttiva degli
insediamenti. La Corte di cassazione nell’annullare tale decisione ha osservato che quanto allegato avrebbe al più potuto ingenerare dubbio sulla
qualifica dell’insediamento di cui l’imputato era
a capo, risolvibile con l’ausilio di esperti, ma non
dargli la certezza che si trattasse di un insedia-
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Art. 6
mento civile al quale fosse consentito rimettere
in acque superficiali scarichi inquinanti). * Cass.
pen., sez. III, 5 aprile 1994, n. 3959 (ud. 31 gennaio 1994), Gualdi.
l In materia di stupefacenti, è da escludere
ogni ipotesi di ignoranza inevitabile (art. 5 c.p.
a seguito della sentenza n. 364/1988 della Corte
cost.), in considerazione degli interventi normativi del legislatore, ripetuti e risalenti nel tempo
(L. 16 gennaio 1933, n. 130, che approvava la
Convenzione di Ginevra del 13 luglio 1931 per limitare la fabbricazione e regolare la distribuzione
degli stupefacenti; L.. 22 ottobre 1954, n. 1041, L.
22 dicembre 1975, n. 685, mod. dalla L. 26 giugno
1990, n. 162 e trasfusa nel T.U. 9 ottobre 1990,
n. 309) e dell’enorme rilevanza della materia, con
conseguente larghissima diffusione della comunicazione sociale intorno ad essa. (Fattispecie in
tema di coltivazione di n. 991 piantine di papaver
sonniferum, in cui era stata invocata l’ignoranza
della legge da parte dell’imputato analfabeta). *
Cass. pen., sez. VI, 28 giugno 1991, n. 6931 (ud.
22 febbraio 1991), La Porta.
6. Reati commessi nel territorio dello Stato. –
Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato
(3, 42) è punito secondo la legge italiana (11).
Il reato si considera commesso nel territorio dello
Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce,
è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato
l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.
SOMMARIO:
a) Individuazione del reato commesso in territorio italiano – In genere;
b) Reato concorsuale;
c) Reati commessi via Internet.
a) Individuazione del reato commesso in territorio italiano – In genere.
l In relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio
dello Stato si sia verificato l’evento o sia stata
compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone,
perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva
dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività
criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in
Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi
dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività
parziale non rivesta in sè carattere di illiceità, dovendo essa essere intesa come frammento di un
unico "iter" delittuoso da considerarsi come inscindibile. (In applicazione del principio, la Corte
ha ritenuto sottoposto alla giurisdizione italiana
il delitto di partecipazione ad associazione di
tipo mafioso in riferimento a persona operante
all’estero per conto di una consorteria la cui at-
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Art. 6
LIBRO I – DEI REATI
tività in Italia, posta in essere da altri sodali, era
consistita esclusivamente nello sbarco di casse
di tabacchi lavorati esteri e nella vendita di tali
prodotti di contrabbando, senza esplicazione del
metodo mafioso). * Cass. pen., sez. I, 3 ottobre
2014, n. 41093 (ud. 6 maggio 2014), Cuomo e altri. [RV260703]
l In tema di mandato di arresto europeo, il
motivo di rifiuto della consegna previsto dall’art.
18, comma primo, lett. p), L. 22 aprile 2005, n. 69,
sussiste quando anche solo una parte della condotta si sia verificata in territorio italiano, purchè
tale circostanza risulti con certezza, non potendosi ritenere sufficiente la mera ipotesi che il reato
sia stato commesso in tutto o in parte in Italia. *
Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2013, n. 20281 (ud.
24 aprile 2013), Vetro. [RV257025]
l In tema di mandato di arresto europeo,
quando la richiesta di consegna riguardi fatti
commessi in parte nel territorio dello Stato ed in
parte in territorio estero, la sussistenza del motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, comma primo,
lett. p), L. 22 aprile 2005, n. 69, deve essere valutata alla luce dell’art. 31, comma secondo, della
Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno
2002, il quale fa salvi eventuali accordi o intese
bilaterali o multilaterali, vigenti al momento della
sua adozione e volti a semplificare o agevolare ulteriormente la consegna della persona richiesta.
(Fattispecie relativa ad un m.a.e. emesso dall’autorità tedesca per reati in tema di stupefacenti,
alcuni dei quali commessi in parte in Italia, in cui
la S.C. ha ritenuto applicabile l’art. II dell’Accordo bilaterale italo-tedesco del 24 ottobre 1979,
ratificato con legge 11 dicembre 1984, n. 969, con
il quale le parti avevano limitato l’incidenza del
motivo di rifiuto di cui all’art. 7 della Convenzione
europea di estradizione del 1957, nell’ipotesi in
cui la domanda di consegna avesse riguardato
anche reati non soggetti alla giurisdizione dello
Stato di rifugio, e fosse risultato opportuno far
giudicare tutti i reati nello Stato richiedente). *
Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2013, n. 20281 (ud.
24 aprile 2013), Vetro. [RV257024]
l Sono punibili, secondo la legge italiana,
come se commessi per intero in Italia, anche i
reati la cui condotta sia avvenuta solo in parte
nel territorio dello Stato o il cui evento si sia ivi
verificato, ancorché si tratti di frammento di condotta privo dei requisiti di idoneità e inequivocità
richiesti per il tentativo. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto commesso in Italia il delitto di cui all’art. 73 d.P.R. n.
309 del 1990, sub specie di offerta, messa in vendita e cessione di sostanze stupefacenti, in quanto
lo scambio della droga, ancorché materialmente
avvenuto in territorio estero, era stato preceduto da contatti telefonici con i singoli acquirenti
i quali percepivano la disponibilità alla cessione
della droga in Italia da dove chiamavano). * Cass.
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78
pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44837 (ud. 11
ottobre 2012), Pmt in proc. Krasniqi. [RV254968]
l Il reato omissivo colposo si considera commesso nello Stato, in applicazione del principio
di territorialità della legge penale, qualora abbia
avuto luogo in tale territorio anche una sola parte della omissione causativa dell’evento. * Cass.
pen., sez. IV, 1 giugno 2011, n. 22147 (ud. 10 marzo 2011), Bernard. [RV250701]
l In tema di ricettazione, il reato deve ritenersi commesso nel territorio dello Stato qualora in
Italia si sia proceduto alla sola predisposizione,
mediante la creazione di un doppio fondo, del
veicolo utilizzato per importare la merce illecita
successivamente acquistata all’estero, non rilevando in proposito che l’originario programma
criminoso prevedesse l’acquisto di beni, comunque di natura illecita, di genere diverso rispetto a
quelli poi effettivamente acquisiti. (Fattispecie in
tema di ricettazione di armi da guerra acquistate
all’estero in luogo dell’originario programmato
acquisto di una partita di stupefacente). * Cass.
pen., sez. IV, 11 aprile 2008, n. 15280 (ud. 7 marzo
2008), Lentini. [RV239610]
l Ai fini dell’affermazione della giurisdizione
italiana in relazione a reati commessi in parte
all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificata anche solo un frammento della
condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi,
un qualsiasi atto dell’iter criminoso. Connotazione che tuttavia non può essere riconosciuta ad un
generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all’estero fatti delittuosi, poi lì
integralmente realizzati, sotto il profilo soggettivo
e oggettivo (fattispecie in tema di mandato di arresto europeo). * Cass. pen., sez. VI, 10 gennaio
2008, n. 1180 (c.c. 7 gennaio 2008), Lichtemberger, in Riv. pen. 2008, 502. Conformi: Cass. pen.,
sez. VI, 29 ottobre 2008, n. 40287 (c.c. 28 ottobre
2008), Erikci; Cass. pen., sez. IV, 22 aprile 2009, n.
17026 (ud. 17 dicembre 2008), Vigi. [RV238228]
l In tema di stupefacenti, nel caso in cui il
«corriere» della droga proveniente da uno Stato
estero, sia sbarcato in un aeroporto italiano al solo
fine di transitarvi verso una ulteriore destinazione
estera, il delitto di importazione di sostanze stupefacenti deve ritenersi comunque consumato in Italia con conseguente attribuzione della giurisdizione al giudice italiano, individuato, sotto il profilo
della competenza territoriale, in quello del luogo
d’ingresso della droga entro il confine di Stato. *
Cass. pen., sez. IV, 6 settembre 2007, n. 34116 (ud.
13 giugno 2007), Vilardell Bonadona. [RV236943]
l In base al dettato dell’art. 6 c.p., il reato
si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi avvenuta, in tutto od in parte, ovvero
si è verificato nel territorio italiano l’evento che è
conseguenza dell’azione od omissione; pertanto,
la condotta del reato di frode in commercio che
abbia avuto inizio in Italia, con la consegna della
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79
TITOLO I – LEGGE PENALE
merce da parte dell’imputato al vettore per la spedizione agli acquirenti, in territorio estero, radica
la giurisdizione del giudice italiano. * Cass. pen.,
sez. III, 12 aprile 2005, n. 13151 (ud. 2 febbraio
2005), Vignola. [RV231828]
l Per il principio della territorialità, previsto
dall’art. 6 c.p., è sufficiente che un frammento
dell’iter criminoso si sia verificato in Italia, purché risulti preordinato, con valutazione ex post, al
raggiungimento dell’obiettivo criminoso. Ne consegue che la giurisdizione appartiene all’autorità
giudiziaria italiana, anche se l’omicidio è stato
commesso all’estero allorché l’arma del delitto
e la benzina per bruciare il cadavere siano state
procurate in Italia, in quanto si tratta di condotte
preordinate a raggiungere l’obiettivo criminoso. *
Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2004, n. 38019 (ud.
12 maggio 2004), Selvaggi. [RV229734]
l In caso di commissione di un reato su parte
del territorio italiano successivamente ceduto ad
altro Stato in virtù di un trattato di pace, la giurisdizione spetta all’autorità giudiziaria dello Stato
cessionario, in quanto la cessione di un territorio
sulla base di un atto legittimo dà luogo – salvo
patto contrario – ad un immediato trasferimento
della sovranità e delle connesse potestà già esercitate sui luoghi ceduti (in applicazione di tale
principio la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito che avevano dichiarato
il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria
italiana in relazione ad un reato commesso nel
1945 nella città di Fiume, ceduta dall’Italia alla
Repubblica Jugoslava con il trattato di pace del
15 settembre 1947). * Cass. pen., sez. I, 4 maggio
2004, n. 20925 (ud. 6 febbraio 2004), P.O. in proc.
Piskulic. [RV229180]
l Agli effetti della legge penale non può considerarsi commesso, neanche in parte, nel territorio dello Stato il reato di favoreggiamento
dell’immigrazione illegale di cittadini extracomunitari previsto dall’art. 12, primo e terzo comma,
del D.L.vo n. 286 del 1998, così come modificato dall’art. 11 della L. n. 189 del 2002, allorché,
essendosi la condotta concretata nel trasporto
clandestino degli stranieri a mezzo di un autocarro traghettato su nave non battente bandiera
italiana, la scopera del “carico umano” sia avvenuta in acque internazionali, in quanto in tale
eventualità le persone trasportate, dal momento
della scoperta, cessano di trovarsi nella disponibilità di fatto del trasportatore. (Nella specie, la
Corte ha ritenuto che l’occultamento degli stranieri operato dal trasportatore sotto copertura di
un apparente carico di merce era stato commesso
per intero all’estero e che il risultato finale voluto,
e cioè quello dell’introduzione dei clandestini in
territorio italiano, non era ricollegabile allo stratagemma a tal fine escogitato dall’autore del fatto, bensì all’autonoma decisione del comandante
della nave di adottare, in relazione al luogo e al
momento dell’accertamento, le misure impostegli
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Art. 6
dal dovere di condurla a destinazione per apprestare efficace soccorso a persone che, per le disumane condizioni di trasporto, versavano in concreto pericolo di danni all’integrità fisica). * Cass.
pen., sez. I, 11 febbraio 2004, n. 5583 (ud. 28 ottobre 2003), P.G. in proc. Efstathiadis. [RV226953]
l In considerazione della natura istantanea
del reato di ricettazione, il quale si consuma nel
momento in cui l’agente ottiene il possesso della
cosa, nessun rilievo può essere attribuito, a fini
della perseguibilità in Italia, al luogo in cui viene
accertata la detenzione della res (in applicazione
di tale principio, la Corte ha ritenuto commesso
all’estero il delitto di ricettazione di un bene consegnato al ricettatore, cittadino italiano, in territorio estero, annullando senza rinvio la sentenza
impugnata, difettando nella specie la condizione
di procedibilità della richiesta del Ministero della
giustizia prevista dall’art. 9 c.p.). * Cass. pen., sez.
II, 5 maggio 2003, n. 20198 (ud. 14 aprile 2003),
Torlo. [RV225725]
l Il bene giuridico protetto dall’art. 9 della legge n. 497 del 1974 è la sicurezza interna dello Stato
e la salvaguardia dell’ordine pubblico interno. Ne
consegue che i reati in materia di armi previsti da
tale norma sono rigorosamente soggetti al principio di territorialità della legge penale, potendo
quindi essere commessi soltanto da chi abbia posto in essere almeno in parte la condotta vietata o
abbia realizzato l’evento nel territorio italiano, nei
termini specificati dal secondo comma dell’art. 6
c.p. (Nell’applicare tale principio con riferimento
al trasferimento di armi da guerra da paesi dell’Est
Europa alla Liberia in violazione di risoluzioni
dell’Onu, la Corte ha tra l’altro escluso nel caso
di specie l’applicabilità dell’art. 25 della legge 9
luglio 1990 n. 185, in quanto non estensibile a situazioni realizzate integralmente all’estero da chi,
non iscritto nell’apposito registro, abbia effettuato
esportazioni senza alcun transito nel territorio italiano e senza che in Italia siano state compiute attività finalizzate al movimento delle armi «estero su
estero»). * Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2002, n.
38401 (c.c. 17 settembre 2002), Minin. [RV222925]
l La preparazione, in territorio italiano, di un
prodotto destinato al mercato estero avente caratteristiche diverse da quelle dichiarate è qualificabile come tentativo punibile di frode nell’esercizio
del commercio (artt. 56 e 515 c.p.) ed è perseguibile, per il principio di territorialità di cui all’art. 6
c.p., davanti al giudice italiano (nella specie, trattatasi di condotta costituita dall’imbottigliamento, in uno stabilimento sito in territorio italiano,
di olio destinato al mercato britannico, descritto
nelle etichette già applicate sulle bottiglie come
proveniente esclusivamente dalla spremitura di
olive di produzione italiana, mentre una parte di
esso era in realtà ricavato dalla spremitura di olive di diversa provenienza). * Cass. pen., sez. III, 6
maggio 2002, n. 16386 (ud. 14 marzo 2002), Del
Papa G. [RV221714]
02/03/17 10:08
Art. 6
LIBRO I – DEI REATI
l Deve ritenersi commesso in Italia, ai sensi
dell’art. 6 c.p., il reato di associazione per delinquere (nella specie, di tipo mafioso), e sussiste,
quindi, la giurisdizione del giudice penale italiano, nell’ipotesi in cui gli associati acquistino in
uno Stato straniero (nel quale l’importazione di
tabacchi non sia soggetta ad alcuna imposta) tabacchi lavorati esteri prodotti in altro Stato straniero al fine di introdurli, per la vendita, nel territorio italiano, in violazione di norme doganali,
se, in tale territorio, siano predisposte strutture
stabili per lo scarico, il controllo e lo «stoccaggio»
delle merci illecitamente introdotte e sia organizzata una rete di corrieri che trasportino in territorio estero a scopo di riciclaggio la valuta ricavata
dalla vendita in Italia. (Nella specie, concernente
un procedimento incidentale de libertate, la Corte Suprema ha confermato il provvedimento dei
giudici di merito che, allo stato delle indagini,
avevano ritenuto che il reato associativo fosse stato commesso in territorio italiano, essendo emerso che l’associazione acquistava in Montenegro
tabacchi lavorati prodotti in Svizzera e li importava in Italia, trasportandoli con motoscafi attraverso il canale d’Otranto e sbarcandoli sul litorale
pugliese). * Cass. pen., sez. VI, 1 agosto 2000, n.
2329 (c.c. 16 maggio 2000), Bossert F. [RV217564]
l Deve ritenersi sussistente la giurisdizione
del giudice italiano nei confronti del cittadino
straniero che, pur senza essere mai stato in Italia, abbia collaborato, nella consapevolezza che
si dava esecuzione ad un reato delibeato sul territorio della Repubblica, con un cittadino italiano
per l’acquisto di sostanze stupefacenti all’estero in
vista della importazione in Italia, atteso che una
porzione del fatto giuridicamente ascrivibile allo
straniero si è, in tal caso, svolta nello Stato, con
conseguente applicabilità dell’art. 6 c.p., potendosi qualificare il comportamento della persona che
abbia svolto l’indicata attività all’estero quale concorso nell’esecuzione di un delitto plurisoggettivo,
in cui le singole azioni perdono la loro individuabilità e di esse ciascun agente risponde per l’intero. * Cass. pen., sez. VI, 2 giugno 2000, n. 6605
(ud. 11 maggio 2000), Valianos K. [RV217554]
l In relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente, a norma dell’art. 6
c.p., che nel territorio dello Stato si sia verificato
l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte,
l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la
potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi
e a tutta l’attività criminosa, ovunque realizzata,
è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere
una qualsiasi attività di partecipazione da parte
di uno qualsiasi dei concorrenti, a nulla rilevando
che tale attività parziale non rivesta in sè carattere di illiceità, dovendo essa essere intesa come
frammento di un unico iter delittuoso da considerarsi come inscindibile; la circostanza che l’auto-
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re (o gli autori) del reato siano già stati giudicati
all’estero per lo stesso fatto non è di ostacolo alla
rinnovazione del giudizio in Italia, atteso che nel
nostro ordinamento, salvo diversi accordi a livello internazionale, non vige il principio del ne bis
in idem internazionale. (Nella specie, la Suprema
Corte ha ritenuto possibile la rinnovazione del
giudizio in Italia a carico di persone già giudicate
in Germania, non essendo intervenuti, tra l’Italia
e la Germania, accordi bilaterali di ratifica né in
relazione alla Convenzione Europea sulla validità
internazionale di giudizi repressivi, resa esecutiva
in Italia con legge n. 305 del 1977, né in relazione
alla Convenzione di Bruxelles resa esecutiva in
Italia con legge n. 350 del 1989). * Cass. pen., sez.
VI, 6 aprile 2000, n. 4284 (ud. 16 dicembre 1999),
Pipicella ed altri. Conforme, quanto al principio,
Cass. pen., sez. VI, 19 marzo 2009, n. 12142 (ud.
11 febbraio 2009), P.G. in proc. Porcacchia e altri.
[RV216833]
l In tema di abusiva organizzazione di scommesse su competizioni sportive svolgentisi in Stati esteri, il principio di ubiquità accolto dall’art. 6
c.p. comporta che quando nel territorio italiano si
effettui anche solo una parte della organizzazione
di pubbliche scommesse, come ad es. la raccolta
delle puntate, trovano applicazione le disposizioni dell’art. 88 T.U.L.P.S. e della legge 13 dicembre
1989, n. 401, e pertanto l’esercizio senza licenza
è punito ai sensi dell’art. 4 lett. c) L. cit., sebbene
il resto dell’organizzazione faccia capo a società
straniere e i giuochi e le competizioni oggetto
delle scommesse si svolgano all’estero. * Cass.
pen., sez. III, 13 gennaio 2000, n. 124 (c.c. 13 gennaio 2000), Foglia P. Conforme, Cass. pen., sez.
III, 29 luglio 1999, n. 1963, Barbati. [RV216223]
l In tema di territorialità della giurisdizione
penale, a norma dell’art. 6, comma secondo, c.p.,
deve ritenersi commesso nel territorio dello Stato il delitto di favoreggiamento concretatosi nella
consegna in territorio estero a un latitante di documenti falsificati, trattandosi di attività parzialmente maturatasi in Italia, da dove l’agente era
partito per raggiungere il latitante, dopo avere
concordato con quest’ultimo le modalità della
consegna attraverso contatti telefonici. * Cass.
pen., sez. VI, 11 gennaio 2000, n. 225 (ud. 15 novembre 1999), Moceri. [RV216402]
l In virtù del principio di territorialità della
legge penale di cui al secondo comma dell’art. 6
c.p., il reato si considera commesso nel territorio
dello Stato anche quando l’azione o l’omissione,
che ne costituisce la condotta, si è ivi realizzata
soltanto in parte, dovendosi tale termine intendersi in senso naturalistico, come un momento
dell’iter criminoso che, considerato unitariamente ai successivi atti compiuti all’estero, viene a integrare un’ipotesi di delitto tentato o consumato.
Pertanto, con riferimento al reato di associazione
per delinquere di tipo mafioso, l’adesione al sodalizio criminoso che si è formato e ha operato in
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81
TITOLO I – LEGGE PENALE
Italia, integra partecipazione a un reato commesso nel territorio dello Stato anche se l’aderente
materialmente rimanga sempre all’estero, ove la
sua condotta di partecipazione all’associazione si
sia svolta per intero, con l’apporto di contributi
apprezzabili alla organizzazione. * Cass. pen.,
sez. VI, 8 marzo 1999, n. 3089 (ud. 21 maggio
1998), Caruana G. e altri. [RV213572]
l Per l’applicabilità del principio di territorialità, di cui all’art. 6 c.p., è sufficiente che in Italia
sia avvenuta una parte dell’azione anche piccola,
purché preordinata – secondo una valutazione ex
post – al raggiungimento dell’obiettivo delittuoso.
Ne consegue che, in tema di traffico internazionale di stupefacenti, se l’accordo tra i coimputati e
la predisposizione dei mezzi occorrenti all’importazione e all’occultamento della droga, realizzati
in Italia, appaiono preordinati all’acquisto e alla
detenzione della stessa, poi effettivamente consumati all’estero, il reato deve ritenersi commesso
in Italia. * Cass. pen., sez. IV, 23 luglio 1997, n.
7204 (ud. 22 maggio 1997), Franzoni. [RV208534]
l A norma dell’art. 6 c.p., che è diretto ad affermare il principio di territorialità del diritto
penale ed a privilegiare la giurisdizione italiana, è
sufficiente, perché il reato si consideri commesso
nel territorio dello Stato, che quivi si sia verificato
anche solo un frammento della condotta, intesa
in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto
dell’iter criminis. In conseguenza non è necessaria
la richiesta del Ministro di grazia e giustizia per
il delitto di tentata importazione di droga, sequestrata all’estero, ma diretta in Italia, qualora nel
territorio italiano siano avvenuti atti preliminari
e strumentali, quali la domanda di spedizione o il
consenso, in qualsiasi forma espresso, all’inoltro
o alla ricezione della droga, atti che incidono, in
modo rilevante, sull’elemento psicologico del reato.
* Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 1997, n. 873 (ud. 14
ottobre 1996), P.M. Colecchia ed altri. [RV206903]
l La regola posta al comma 2 dell’art. 6 c.p.,
secondo la quale, in applicazione del principio
della territorialità della legge penale, il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato
quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è
ivi avvenuta in tutto o in parte, va intesa nel senso
che il reato si considera commesso in Italia anche
quando sia stato posto in essere anche uno solo
degli atti del processo criminoso essenziali per la
configurabilità del reato medesimo; nel novero di
tali atti, considerato sotto l’aspetto naturalistico,
vale a dire come frammenti di un’azione più ampia preordinata al raggiungimento di un determinato obiettivo, rientra pertanto il conferimento
di un mandato ad uccidere, accettato dal mandatario, direttamente o per interposta persona,
in quanto costituente il momento iniziale della
condotta produttiva dell’evento dannoso. * Cass.
pen., sez. I, 11 marzo 1996, n. 2640 (ud. 7 dicembre 1995), D’Agostino ed altri. [RV204359]
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Art. 6
l A norma dell’art. 6 c.p. sono punibili secondo la legge italiana, come fossero commessi per
intero in Italia, anche i reati la cui condotta è avvenuta solo in parte nel territorio dello Stato o
ivi si è verificato l’evento. Ne risulta che anche i
reati commessi in parte all’estero, al pari di quelli
realizzatisi soltanto nel territorio nazionale, assumono rilevanza penale per l’ordinamento italiano
nella loro globalità, ivi compresa la parte della
condotta realizzata all’estero e, pertanto, debbono essere valutati e puniti dai giudici italiani nella
loro interezza, avendo riguardo pure alle modalità e alla gravità della parte dell’azione verificatasi
al di fuori dello Stato. Ne consegue che deve tenersi conto di questa parte della condotta anche
ai fini dell’individuazione dell’inizio della permanenza, non essendo consentito considerare isolatamente la frazione della condotta realizzatasi in
Italia. (Nella specie, per un reato permanente la
cui consumazione era iniziata all’estero la Corte
ha escluso l’operatività, quale criterio di riparto fra i giudici italiani, dell’art. 8, terzo comma,
c.p.p., dovendosi in tal caso la competenza determinare secondo il criterio suppletivo di cui all’art.
9 primo comma c.p.p., con riferimento all’ultimo
luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o
dell’omissione). * Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio
1994, n. 1972 (ud. 17 dicembre 1993), Murdocca.
l In tema di competenza per territorio in ordine
a reati permanenti commessi in parte all’estero, si
applica il criterio dettato dall’art. 8, terzo comma,
c.p.p. quando la condotta criminosa ha avuto inizio
in una individuata località nel territorio nazionale,
proseguendo poi all’estero. Invece, il luogo d’inizio
della permanenza non può fungere quale criterio di
riparto fra i giudici italiani se è ubicato al di fuori
dello Stato. In tal caso, la competenza si stabilisce
secondo il criterio suppletivo di cui all’art. 9 primo
comma c.p.p., con riferimento all’ultimo luogo in
cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione. * Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio 1994, n. 1972
(ud. 17 dicembre 1993), Murdocca.
b) Reato concorsuale.
l In relazione a reati commessi in parte anche
all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio dello
Stato si sia verificato l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza
che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato
a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa,
ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia
stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività parziale
non rivesta in sé carattere di illiceità, dovendo
essa essere intesa come frammento di un unico
iter delittuoso da considerarsi come inscindibile.
Ne consegue che anche per il cittadino straniero il
quale, pur essendo stato sempre all’estero, abbia
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Art. 7
LIBRO I – DEI REATI
collaborato con un cittadino italiano per l’importazione in Italia di sostanza stupefacente, nella
consapevolezza che si dava esecuzione a un reato
quivi deliberato, il reato stesso deve considerarsi
commesso nel territorio dello Stato. * Cass. pen.,
sez. VI, 16 luglio 2003, n. 29702 (ud. 10 aprile
2003), Dattilo ed altri. Conforme, Cass. pen., sez.
V, 20 ottobre 2008, n. 39205 (ud. 9 luglio 2008), Di
Pasquale e altro. [RV225486]
l Ai fini della applicazione del principio di territorialità della legge penale (art. 6 c.p.), per azione
deve intendersi il complesso dei comportamenti
consapevolmente finalizzati al raggiungimento
dello scopo o dell’evento delittuoso, sicché fra essi
rientra, nel caso di accordo fra più persone che
con le loro condotte partecipano concorsualmente
al reato, anche tutto ciò che, pur essendo limitato
all’elemento psicologico (il quale rientra tra quelli
essenziali del reato), può essere ricondotto al determinismo volitivo coagulante o influente sulle
condotte dei correi. Ne consegue che un’azione
delittuosa ispirata o rafforzata nella volontà ovvero ordinata da concorrenti morali in Italia, deve
essere considerata penalmente quivi realizzata
ancorché l’esecuzione materiale, l’evento o l’omissione che costituisce il reato siano posti in essere
all’estero da taluno dei concorrenti materiali. E ciò
anche se i contatti organizzativi si siano verificati
solo fra alcuni dei correi e non fra tutti, in quanto il
reato è effetto del contributo di ciascun correo e di
tutti insieme, attesa la comune finalizzazione partecipativa. * Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1994, n.
5617 (ud. 15 febbraio 1994), Di Matteo.
l In tema di reati associativi, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana
occorre verificare soprattutto il luogo dove si è
realizzata, in tutto o in parte, la operatività della
struttura organizzativa, mentre va attribuita importanza secondaria al luogo in cui sono stati
realizzati i singoli delitti commessi in attuazione
del programma criminoso, a meno che questi,
per il numero e la consistenza, rivelino il luogo
di operatività del disegno. Da ciò consegue che
la partecipazione di un soggetto ad un sodalizio
criminoso che ha diramazioni e centri operativi in varie parti del mondo acquista rilevanza ai
fini della giurisdizione se uno o più dei centri sia
operante in Italia perché in caso positivo il reato
dovrà ritenersi interamente punibile secondo la
legge italiana e ad opera dell’autorità giudiziaria
dello Stato. Il tutto secondo quanto si desume
dall’art. 6 c.p., una norma che interpreta e definisce l’interesse dello Stato a punire coloro che, in
qualche modo, abbiano posto in essere un’attività
illecita che abbia violato le norme penali, attribuendo così valenza espansiva ad una frazione di
attività commessa nel territorio dello Stato anche
da taluno che partecipi al sodalizio, in modo che
l’applicazione della norma penale si estenda a tutti i compartecipi ed a tutta l’attività criminosa dovunque realizzata. * Cass. pen., sez. VI, 31 luglio
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82
1993, n. 7478 (ud. 9 dicembre 1992), Carnana.
Conforme, Cass. pen., sez. VI, 25 marzo 1998, n.
4378, Cao Len Hout.
l Nell’ipotesi di concorso di più persone nel
reato, alcune delle quali abbiano realizzato una
parte della condotta in Italia ed una parte all’estero, oppure totalmente all’estero alcune e totalmente in Italia altre, coloro che attuarono
una collaborazione nella esecuzione del fatto in
territorio estero risponderanno del reato come
se commesso in Italia, perché la loro condotta è
considerata come un aspetto o come una frazione
di un tutto che ha trovato la sua attuazione anche nel territorio dello Stato e, ai sensi dell’art. 6
c.p., suscita l’interesse punitivo dello Stato e ne
determina l’intervento e la persecuzione in sede
penale. * Cass. pen., sez. VI, 31 luglio 1993, n.
7478 (ud. 9 dicembre 1992), Carnana.
c) Reati commessi via Internet.
l Il giudice italiano è competente a conoscere
della diffamazione compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica (Internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso
in cui il sito web sia stato registrato all’estero e
purché l’offesa sia stata percepita da più fruitori
che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di
evento, la diffamazione si consuma nel momento
e nel luogo in cui i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa. * Cass. pen., sez. V, 27 dicembre
2000, n. 4741 (c.c. 17 novembre 2000), P.M. in
proc. ignoti. [RV217745]
7. Reati commessi all’estero. – È punito secondo la
legge italiana (112) il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati (10 c.p.p.):
1) delitti contro la personalità dello Stato italiano
(1) (241 ss.);
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di
uso di tale sigillo contraffatto (467);
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel
territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di
pubblico credito italiano (453 ss.);
4) delitti commessi da pubblici ufficiali (357) a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni (61, n. 9, 314 ss.);
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge (2) (269, 5014, 537, 5912, 604, 6424; 17, 18
c.p.m.p.; 1080 c.n.) o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (3).
(1) La parola: «italiano» è stata aggiunta dall’art. 1, comma
2, del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni,
nella L. 15 dicembre 2001, n. 438.
(2) Si veda anche l’art. 48 della L. 24 gennaio 1979, n. 18, recante disposizioni in tema di elezione dei rappresentanti dell’Italia
al Parlamento europeo, il quale stabilisce che per i reati, previsti
dalla suindicata legge, commessi dal cittadino o dallo straniero in
territorio estero, si applichi la legge italiana.
(3) Si veda l’art. 22, primo comma, della L. 27 maggio 1929,
n. 810 che ha reso esecutivo il trattato fra la Santa Sede e l’Italia
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83
TITOLO I – LEGGE PENALE
stipulato l’11 febbraio 1929, il quale stabilisce che a richiesta della
Santa Sede, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione
dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo
quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano,
nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle
leggi italiane.
l  È perseguibile secondo la legge italiana,
ai sensi dell’art. 7, n. 4 c.p. l’appuntato dei carabinieri, in servizio presso una sede diplomatica
italiana all’estero, che si attivi, dietro compenso,
per procurare visti d’ingresso illegale in Italia a
cittadini extracomunitari. * Cass. pen., sez. VI,
25 novembre 2008, n. 43848 (c.c. 24 settembre
2008), P.M. in proc. Di Nuzzo. [RV242230]
l Il reato commesso all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per
il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai
sensi degli artt. da 7 a 10 del c.p., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa
la giurisdizione dello Stato italiano. * Cass. pen.,
sez. VI, 25 luglio 2006, n. 25889 (ud. 23 giugno
2006), Manzato. [RV234843]
l Ai fini della perseguibilità secondo la legge
italiana dei reati commessi in territorio estero da
parte di pubblici ufficiali a servizio dello Stato,
con abuso dei poteri o con violazione dei doveri
inerenti alla loro funzione, non è necessario un
rapporto stabile di servizio con la pubblica Amministrazione, ben potendo rientrare nella previsione normativa anche lo svolgimento di compiti temporanei e/o di una missione occasionale.
(Principio affermato con riferimento a concussione commessa all’estero da contrattiste dell’Amministrazione degli affari esteri). * Cass. pen.,
sez. VI, 5 maggio 2004, n. 21088 (ud. 10 febbraio
2004), Micheletti ed altro. [RV228872]
l Ai fini della perseguibilità secondo la legge italiana dei reati commessi in territorio estero
da parte di pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alla loro funzione, secondo quanto previsto
dall’art. 4, comma 4, c.p. non è necessario un rapporto stabile di servizio con l’amministrazione,
ben potendo rientrare nella previsione normativa
anche lo svolgimento di una missione occasionale.
(Fattispecie relativa a missione di aiuti in Albania).
* Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 2000, n. 4089
(c.c. 6 novembre 2000), Tenaglia L. [RV217909]
l In tema di reati commessi all’estero e di
rinnovamento del giudizio (artt. 7 e seguenti, 11
c.p.), la qualificazione delle fattispecie penali deve
avvenire esclusivamente alla stregua della legge
penale italiana, a nulla rilevando che l’ordinamento dello Stato nel cui territorio il fatto è stato
commesso non preveda una persecuzione penale
dello stesso fatto. Le norme in questione prevedono, infatti, limitatamente ai casi da esse contem-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 83
Art. 8
plati e in presenza di alcune condizioni, la perseguibilità dei fatti penalmente rilevanti «secondo
la legge italiana» al di là dei limiti territoriali,
senza richiedere che tali fatti siano penalmente
perseguiti anche nel territorio dello Stato in cui
sono stati commessi. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, premesso che il principio della
doppia incriminazione, invocato dal ricorrente è
sancito dalla legge penale esclusivamente in tema
di estradizione, è stato ritenuto del tutto indifferente che l’evasione e il porto e detenzione illegale
di armi siano o non siano perseguiti penalmente
nell’ordinamento della Confederazione elvetica).
* Cass. pen., sez. II, 16 marzo 1992, n. 2860 (ud. 6
dicembre 1991), Buquicchio.
8. Delitto politico commesso all’estero. – Il cittadi-
no o lo straniero (3, 4), che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati
nel n. 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la
legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia
(112, 128, 129; 10, 342 c.p.p.).
Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela (120-127; 336 ss. c.p.p.).
Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni
delitto, che offende un interesse politico dello Stato,
ovvero un diritto politico del cittadino (48-54 Cost.). È
altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici (241 ss.).
l In tema di estradizione per l’estero, ai fini
dell’individuazione dell’ambito di operatività del
divieto di estradizione di cui agli artt. 10, comma
quarto, e 26, comma secondo Cost., il reato va
considerato politico anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia fondata ragione di ritenere che,
proprio per la "politicità" della condotta illecita,
l’estradando possa essere sottoposto nello stato
straniero richiedente ad un processo non equo o
all’esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative persecutorie per ragioni
politiche che ledono diritti fondamentali dell’individuo quali il diritto al rispetto del principio di
uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il
divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso il divieto di estradizione con riferimento a condanna pronunciata all’esito di processo celebrato
nel rispetto dei diritti fondamentali per reati in
materia di armi asseritamente commessi al fine di
tutelarsi contro iniziative di appartenenti ad altri
gruppi etnici all’interno di uno Stato democratico). * Cass. pen., sez. VI, 31 gennaio 2014, n. 5089
(c.c. 23 gennaio 2014), Suljejmani. [RV258148]
l La qualificazione di un delitto come politico data dall’art. 8 c.p. va letta alla luce dell’art.
10 cost., secondo il quale l’ordinamento giuri-
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Art. 8
LIBRO I – DEI REATI
dico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale, tra le quali si pone in particolare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a
Roma il 4 novembre 1950, che obbliga gli Stati
al rispetto di alcuni diritti fondamentali nei confronti di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione. Ne consegue che vanno definiti come
politici i delitti di oggettiva gravità, commessi in
danno di cittadini italiani residenti in Argentina, in esecuzione di un preciso piano criminoso
diretto all’eliminazione fisica degli oppositori al
regime senza il rispetto di alcuna garanzia processuale e al solo scopo di contrastare idee e tendenze politiche delle vittime, iscritte a sindacati,
o partiti politico o ad associazioni universitarie,
in quanto tali delitti non solo offendono un interesse politico dello Stato italiano, che ha il diritto
ed il dovere di intervenire per tutelare i propri cittadini, ma anche i diritti fondamentali delle stesse vittime. * Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2004, n.
23181 (ud. 28 aprile 2004), Suarez. [RV228663]
l Un reato comune è soggettivamente politico,
ai sensi dell’art. 8, comma terzo, c.p., allorchè sia
qualificato da un movente di natura politica, nel
senso che l’agente sia stato determinato, in tutto
o in parte, a delinquere al fine di incidere sull’esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato
ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprie dello Stato, o anche offendere un diritto politico del cittadino, sì che non è sufficiente
ad escludere la natura politica del delitto comune
la circostanza che esso sia stato commesso per
motivi in parte o non prevalentemente politici. (In
applicazione di tale principio la Corte ha disposto
l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tribunale di Roma, costituito ex art. 309 c.p.p., rilevando che l’omicidio in territorio afgano della giornalista italiana Maria Grazia Cutuli, e degli altri che
si trovavano con lei, era stato commesso non solo
a scopo di rapina, ma anche per dimostrare all’opinione pubblica mondiale che la coalizione militare
straniera, tra la quale l’Italia, che in vario modo si
opponeva al regime dei talebani, non aveva acquisito il controllo del paese). * Cass. pen., sez. I, 8
aprile 2004, n. 16808 (c.c. 23 marzo 2004), P.M. in
proc. Mohmmad ed altro. [RV228826]
l Un reato comune è soggettivamente politico, ai sensi dell’art. 8, comma 3, c.p., allorché
sia qualificato da un movente strettamente politico, il che si verifica quando il colpevole abbia
agito per conseguire fini e scopi che investano la
collettività sociale e incidano sull’esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato o siano diretti a contrastare o consolidare idee e tendenze
politiche e sociali, mentre non è sufficiente che il
reato abbia ricadute sull’ordinamento italiano, se
tali effetti non siano direttamente vouti e perseguiti. (In applicazione di tale principio la S.C. ha
ritenuto che l’eccidio delle Fosse Ardeatine – per
cui era stato condannato un ex ufficiale delle SS –
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84
non ha connotazione politica, in quanto ordinato
al fine di mantenere e rafforzare la supremazia
militare dell’esercito tedesco sulle organizzazioni
partigiane e sui resti dell’esercito italiano, così
determinando un esito della guerra in atto (dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943) favorevole alla
Germania, costituendo le ricadute della strage
sulla costituzione e sul funzionamento dello Stato italiano un semplice effetto collaterale). * Cass.
pen., sez. I, 12 settembre 2003, n. 35488 (c.c. 27
giugno 2003), Priebke. [RV226389]
l La perseguibilità dei reati contro le leggi e
gli usi della guerra commessi all’estero è prevista
negli articoli 13 e 231 c.p.m., secondo cui per tali
reati, ove commessi in danno dello Stato italiano
o di un cittadino italiano o di uno Stato alleato
o di un cittadino di questo, non esistono limiti
territoriali e le relative norme si applicano anche
ai militari stranieri. Ne consegue che al delitto di
cui agli artt. 13 e 185 commi 1 e 2 c.p.m. guerra
(concorso in violenza come omidicio aggravato
e continuato in danno di cittadini italiani) non è
applicabile la previsione dell’art. 8 c.p. e, di conseguenza, tale delitto non può essere ricondotto
alla categoria dei delitti politici, ex art. 8, comma
3, c.p.. In applicazione di tale principio la S.C. ha
ritenuto che non sia applicabile l’indulto, di cui
all’art. 2 D.P.R. n. 922 del 1953 – previsto per i reati politici e connessi nonché «per i reati inerenti
a fatti bellici commessi da coloro che abbiano
appartenuto a formazioni armate» (e non agli appartenenti alle Forze armate, cfr. sent. Corte cost.
n. 298 del 2000) – nei confronti di un ex ufficiale
delle SS., condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. * Cass. pen., sez. I, 12 settembre 2003, n.
35488 (c.c. 27 giugno 2003), Priebke. [RV226388]
l In tema di estradizione per l’estero, la nozione di reato politico a fini estradizionali trova
fondamento non nell’art. 8 c.p., nel quale il reato
politico è definito in funzione repressiva, bensì
nelle norme costituzionali, che lo assumono in
una più ampia funzione di garanzia della persona
umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero. Per quanto concerne il
cittadino straniero in Italia, la Costituzione non
fornisce una nozione rigida di reato politico, ma
la subordina alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. Tra tali norme si pongono le convenzioni internazionali sottoscritte e
ratificate dallo Stato italiano, ed in particolare
la Convenzione europea sul terrorismo del 1977,
nella quale, indipendentemente dalle loro finalità,
sono definiti non politici determinati atti delittuosi (in applicazione di tale principio, la Corte ha
ritenuto corretta la decisione del giudice di merito con la quale veniva dichiarata l’estradabilità
in favore della Francia di un cittadino tunisino
con riferimento alla condotta di partecipazione
ad associazione criminale diretta al compimento
di atti terroristici diretti all’eversione dello Stato francese, con modalità violente comprensive
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TITOLO I – LEGGE PENALE
dell’uso di materie espodenti e attentati alla vita e
all’integrità fisica di cittadini ignari). * Cass. pen.,
sez. VI, 23 luglio 2003, n. 31123 (c.c. 19 giugno
2003), Baazaoui. [RV226520]
l Nell’evoluzione della normativa internazionale, approdata – come atto tra i più significativi
– alla Convenzione europea contro il terrorismo,
ratificata dall’Italia con L. 26 novembre 1985, n.
719, emerge l’intento di contemperare non tanto
la nozione in sè di reato politico, quanto la sua
rilevanza a fini estradizionali, con la necessità di
tutelare valori umani universali che possono risultare gravemente offesi da delitti di ispirazione
politica; il che si verifica o quando il delitto abbia determinato un pericolo collettivo per la vita,
l’integrità fisica e la libertà delle persone ovvero
quando abbia colpito o messo in pericolo persone
estranee ai moventi politici che l’hanno ispirato,
ovvero, ancora, quando è stato realizzato con
mezzi crudeli e con perfidia. Elementi, tutti, che
lo Stato italiano, nel formulare la riserva all’atto
della ratifica riguardo alla convenzione dell’estradizione per reati politici, si è impegnato a considerare. Ne deriva che la nozione di reato politico
a fini estradizionali trova la sua definizione nel
bilanciamento tra il valore insito nel principio
costituzionale del rifiuto di consentire alla persecuzione dei cittadini e dello straniero per motivi
politici e quello dei valori umani primari – consacrati nella Carta costituzionale – quando l’aggressione di tali valori abbia quei caratteri di gravità
individuabili alla stregua dei criteri ora ricordati.
* Cass. pen., sez. I, 24 marzo 1992, n. 767 (c.c. 17
febbraio 1992), El Jassem.
9. Delitto comune del cittadino all’estero. – Il cit-
tadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il
quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte (1) o]
l’ergastolo (22), o la reclusione (23) non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima,
sempre che si trovi nel territorio dello Stato (42; 10 c.p.p.).
Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una
pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della
giustizia (128, 129; 342 c.p.p.), ovvero a istanza (130;
341 c.p.p.) o a querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della
persona offesa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti,
qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero (2) o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della
giustizia, sempre che l’estradizione (13; 697 ss. c.p.p.) di
lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso
il delitto (112).
(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt.
10 agosto 1944, n. 224.
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Art. 9
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di
morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle
militari, e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena
di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi
militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal
codice penale.
(2) Le parole: «a danno di uno Stato estero», sono state sostituite dalle attuali: «a danno delle Comunità europee, di uno Stato
estero» dall’art. 5 della L. 29 settembre 2000, n. 300.
SOMMARIO:
a) In genere;
b) Richiesta del Ministro di grazia e giustizia;
c) Presenza nel territorio dello Stato.
a) In genere.
l In tema di estradizione per l’estero, la condizione di reciprocità, prevista dall’art. 7 della
Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, nel caso in cui il reato motivante la
domanda d’estradizione sia stato commesso fuori
del territorio della Parte richiedente, consente il
rifiuto dell’estradizione se la legislazione della
Parte richiesta non autorizza la «perseguibilità»
di un reato dello stesso genere commesso fuori
del suo territorio. Ne consegue che, facendo riferimento la norma alla sola punibilità, non rilevano le condizioni previste dal codice penale per
la procedibilità dei reati commessi all’estero (in
applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la decisione della Corte d’appello che
aveva ritenuto sussistenti le condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione avanzata
dalla Repubblica di Germania per il reato di importazione di stupefacente commesso in Ecuador
ed Olanda, non ritenendo rilevante che per tale reato in Italia l’art. 9 c.p. richiede, come condizione
di reciprocità, la presenza del reo nel territorio). *
Cass. pen., sez. VI, 14 maggio 2003, n. 21251 (c.c.
1 aprile 2003), Schumann. [RV226042]
l Sono utilizzabili ai fini della decisione, perché non in contrasto con i principi fondamentali
e inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano, ed in particolare con le garanzie costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio, le
prove dichiarative assunte all’estero nella fase dibattimentale mediante rogatoria internazionale,
con l’assistenza e la rappresentanza defensionale,
ma senza la presenza dell’imputato, detenuto in
Italia, la cui istanza di trasferimento temporaneo,
pur regolarmente inoltrata dallo Stato richiedente, sia stata respinta dallo Stato richiesto in base
alla normativa pattizia. (Nella specie la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia
penale firmata il 20 aprile 1959). * Cass. pen., sez.
I, 28 aprile 2003, n. 19678 (ud. 3 marzo 2003),
Figini, in Riv. pen. 2003, 848. [RV225744]
02/03/17 10:08
Art. 9
LIBRO I – DEI REATI
l L’iscrizione nei registri dello stato civile, quale cittadino italiano, in forza dell’art. 5
comma primo legge 21 aprile 1983 n. 123, ha efficacia meramente dichiarativa: dell’essersi cioè
realizzata la fattispecie complessa, prevista dalla
legge per l’acquisto, in forza di essa soltanto,
della cittadinanza. Ove in sede penale si accerti
che taluno si sia falsamente attribuita la qualità
di figlio di madre o di padre italiano, ben può il
giudice penale rilevarlo – per negare a costui la
cittadinanza italiana, così fraudolentemente e
solo apparentemente conseguita – nell’esercizio
del potere-dovere posto dall’art. 2 comma primo
c.p.p., il quale fissa la regola dell’autonoma cognizione del giudice penale per quanto concerne le
questioni strumentali rispetto alla decisione finale, salva l’eventuale sospensione del processo a
norma dell’art. 3 c.p.p. Ne consegue che, accertata la falsa attribuzione della cittadinanza italiana,
per il caso di delitto comune commesso all’estero,
non può farsi applicazione dell’art. 9 bensì, se ne
ricorrono le condizioni, del successivo art. 10 c.p.
* Cass. pen., sez. I, 4 aprile 1995, n. 3624 (ud. 12
gennaio 1995), Shoukry. [RV201931]
l Ai fini della punibilità per reati commessi
dal cittadino all’estero, al giudice penale non è
consentito alcun sindacato, neanche in via incidentale, sulle ragioni di acquisto e di perdita della
cittadinanza che avvengono secondo i casi e con
le modalità prescritte dalla legge speciale in materia. * Cass. pen., sez. I, 16 gennaio 1991, n. (c.c.
31 ottobre 1990, n. 3699), Shoukry.
b) Richiesta del Ministro di grazia e giustizia.
l La richiesta di procedimento di cui agli artt.
9, terzo comma, c.p. e 342 c.p.p. – al pari del rifiuto di dar corso ad una rogatoria dall’estero o
per l’estero e del decreto di estradizione – seppure
connotata da una larga discrezionalità, riveste natura giuridica di atto amministrativo, sottoposto
all’obbligo di motivazione e alla gerarchia delle
fonti normative e perciò suscettibile di sindacato
da parte del giudice amministrativo per i tipici
vizi di legittimità propri del procedimento amministrativo. Tale provvedimento infatti non può
essere definito come atto politico, in quanto non
inerisce all’esercizio della direzione suprema degli affari dello Stato né concerne la formulazione
in via generale e al massimo livello dell’indirizzo politico e programmatico del Governo, conseguendo invece essa ad una scelta vincolata al
perseguimento dei fini determinati di politica criminale e connotata altresì dal requisito dell’irretrattabilità. Ne consegue che l’esercizio del potere
di firma di tale provvedimento può essere delegato dal Ministro della giustizia al dirigente dell’articolazione ministeriale competente in materia –
direttore generale o capo dipartimento – secondo
le specifiche direttive dell’organo di vertice politico (ad es. quella di informare il Ministro della
natura e del contenuto del singolo atto). * Cass.
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 86
86
pen., sez. I, 28 aprile 2003, n. 19678 (ud. 3 marzo
2003), Figini. [RV225745]
l Qualora, a seguito di richiesta del Ministro
di grazia e giustizia ai sensi dell’art. 9 c.p., si sia
proceduto contro un soggetto per il delitto di
cui all’art. 590 c.p. commesso in territorio estero e vi sia stata condannata del predetto a pena
pecuniaria, è da escludere che sia venuta meno
la condizione di punibilità prevista dall’art. 9 citato, rappresentata dall’irrogazione della pena
detentiva; in quanto la pena restrittiva della libertà personale, dalla legge considerata per rendere
perseguibile il delitto comune commesso dal cittadino all’estero, è quella astrattamente stabilita
dal codice e non quella in concreto comminata.
Pertanto, in caso di sanzioni alternative, la procedibilità dell’azione non può essere compromessa
dall’avvenuta inflizione della sola pena pecuniaria. * Cass. pen., sez. IV, 7 febbraio 1995, n. 1179
(ud. 16 novembre 1994), Boldrini.
l La condizione di procedibilità della richiesta del Ministro di grazia e giustizia, ex art. 9,
secondo comma, c.p., non può ritenersi integrata nel caso in cui la richiesta non sia stata sottoscritta personalmente dal ministro bensì da
un funzionario del suo dicastero, senza neppure
il rilascio di una specifica delega. Tale soluzione
è imposta sia dal tenore dell’art. 342 c.p.p., che
espressamente richiede la sottoscrizione dell’autorità competente, sia dal carattere di discrezionalità politica dell’atto, la cui adozione non può,
pertanto, che essere riservata all’organo politicamente responsabile indicato dalla legge o, al più,
delegata ad altro soggetto politico quale un sottosegretario di Stato. * Cass. pen., sez. I, 23 maggio
1994, n. 1837 (c.c. 22 aprile 1994), Giraldi.
l La condizione di procedibilità prevista
dall’art. 9 c.p. (delitto comune del cittadino all’estero) si realizza con la richiesta del Ministro di
grazia e giustizia: quest’ultimo, però, è preso in
considerazione non già come persona, ma quale
organo politico rappresentante del governo nella
specifica materia. Sicché, non trattandosi di reati
di natura politica o comunque aventi riferimento
alla suprema direzione della cosa pubblica, la richiesta può essere effettuata, su delega, da altro
organo della stessa amministrazione della giustizia. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, era
stata dedotta la violazione dell’art. 9 c.p. per esser
stata la richiesta avanzata dal direttore generale
degli affari penali del Ministero e non già dal Ministro di grazia e giustizia). * Cass. pen., sez. III,
27 maggio 1993, n. 5364 (ud. 15 aprile 1993), Albante. Conforme, Cass. pen., sez. II, 8 aprile 1999,
n. 1117, D’Ambrosio.
c) Presenza nel territorio dello Stato.
l  Ai fini della punibilità dei delitti comuni commessi dal cittadino in territorio estero, il
requisito della presenza sul territorio dello Stato deve necessariamente sussistere al momento
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87
TITOLO I – LEGGE PENALE
dell’esercizio dell’azione penale, a nulla rilevando che venga meno in un momento successivo. *
Cass. pen., sez. II, 10 giugno 2008, n. 23304 (ud.
19 marzo 2008), Dumas e altro. [RV242047]
l La condizione di procedibilità prevista
dall’art. 9, comma terzo, c.p. è realizzata quando
l’Autorità giudiziaria estera, non avvalendosi
della facoltà di chiedere l’estradizione, trasmetta all’autorità giudiziaria italiana tutti gli atti di
indagine compiuti e chieda di dare seguito alla
procedura penale in Italia. * Cass. pen., sez. I, 27
settembre 2004, n. 38019 (ud. 12 maggio 2004),
Selvaggi. [RV229735]
l La condizione della presenza nel territorio
dello Stato posta, ai fini della punibilità dei delitti
comuni del cittadino all’estero, dal primo comma
dell’art. 9 del codice penale, è, a maggior ragione richiesta anche per i delitti previsti dal secondo comma che rispetto a quelli previsti dal primo
comma sono di minor gravità, con la conseguenza
che il termine per la richiesta di procedimento è
quello di tre anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato e non già quello di tre
mesi dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del
fatto che costituisce reato. * Cass. pen., sez. IV, 25 ottobre 1991, n. 10743 (ud. 17 aprile 1991), Boccardo.
l La presenza del cittadino nel territorio dello
Stato, nel caso di delitto comune commesso dal
medesimo cittadino all’estero è condizione di procedibilità e non di punibilità. La carenza dei requisiti obiettivi, siano essi sostanziali o processuali
(tra questi ultimi, appunto, le condizioni di procedibilità) atti a legittimare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, si traduce in
infondatezza dell’azione la quale trova la sua naturale ed esclusiva sanzione non nella nullità formale dei singoli atti del procedimento già compiuti,
ma nel rigetto, da parte del giudice della presenza
punitiva che, mediante l’azione, il pubblico ministero ha inteso far valere, con l’unica differenza
che, ove difettino i requisiti sostanziali, il rigetto
sarà definitivo, mentre ove difettino quelli processuali l’azione penale potrà eventualmente essere
riproposta. * Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1991, n.
6698 (ud. 10 maggio 1991), Di Bella.
l La sussistenza o meno della condizione di
procedibilità richiesta dalla legge penale quale
quella della presenza del cittadino nel territorio
dello Stato in caso di delitto comune commesso
all’estero, va valutata non in riferimento al momento in cui viene iniziata l’azione penale, ma
con riferimento al momento della definizione
del giudizio di merito, di primo o anche di secondo grado. È pertanto necessario e sufficiente
che i presupposti sui quali la condizione si fonda
sussistano in quel momento, a nulla rilevando la
loro originaria carenza, una volta che quest’ultima non sia stata rilevata all’atto della definizione
giurisdizionale di alcune delle fasi processuali,
tanto da consentire la prosecuzione del procedimento. (Fattispecie di ritenuta illegittimità della
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 87
Art. 10
declaratoria di improcedibilità originaria dell’azione penale, pronunciata dal giudice d’appello,
pur apparendo dagli atti che la condizione della
presenza del cittadino, imputato di reato comune
commesso all’estero, si era comunque verificata
anteriormente alla sentenza di primo grado). *
Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1991, n. 6698 (ud. 10
maggio 1991), Di Bella.
10. Delitto comune dello straniero all’estero. –
Lo straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7
e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato
o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte (1) o] l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel
territorio dello Stato (42), e vi sia richiesta del Ministro
della giustizia (112; 128, 129; 342 c.p.p.), ovvero istanza
(130; 341 c.p.p.) o querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della
persona offesa.
Se il delitto è commesso a danno delle Comunità
europee, di uno Stato estero (2) o di uno straniero, il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta
del Ministro della giustizia (112, 128, 129), sempre che:
1) si trovi nel territorio dello Stato (42, 1282);
2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena
[di morte (1) o] dell’ergastolo, ovvero della reclusione
non inferiore nel minimo a tre anni;
3) l’estradizione (104 Cost.; 13; 697 ss. c.p.p.) di lui
non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata
dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.
(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt.
10 agosto 1944, n. 224.
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di
morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle
militari e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena
di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi
militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal
codice penale.
(2) Le parole: «a danno di uno Stato estero» sono state sostituite dalle attuali: «a danno delle Comunità europee, di uno Stato
estero» dall’art. 5 della L. 29 settembre 2000, n. 300.
SOMMARIO:
a) Condizioni di procedibilità;
b) Casistica.
a) Condizioni di procedibilità.
l Nel caso di delitti commessi all’estero da
uno straniero in danno di un cittadino italiano, la
presenza del colpevole nel territorio dello Stato,
richiesta dall’art. 10 c.p. per la loro perseguibilità
in Italia, costituisce condizione di procedibilità la
cui sussistenza è richiesta anche ai fini dell’applicazione di misure cautelari da adottarsi nella fase
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Art. 10
LIBRO I – DEI REATI
delle indagini preliminari. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha annullato
senza rinvio il provvedimento del tribunale che,
in accoglimento di gravame proposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 310 c.p.p., aveva
disposto l’applicazione della custodia in carcere
nei confronti di taluni soggetti, non presenti nel
territorio nazionale, cui si addebitava l’omicidio, commesso in Afghanistan, di una giornalista
italiana). * Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2003, n.
41333 (c.c. 11 luglio 2003), Mohammad ed altri,
in Arch. nuova proc. pen. 2004, 47. [RV225751]
l In tema di reati commessi all’estero, al di
fuori dei casi tassativamente indicati all’art. 7
c.p., è condizione indispensabile per il perseguimento dei reati commessi all’estero dallo straniero che questi risultino punibili come illeciti
penali oltre che dalla legge penale italiana anche
dall’ordinamento del luogo dove sono stati consumati, ancorché con nomen iuris e pene diversi
(in applicazione di tale principio la Corte ha annullato senza rinvio il provvedimento coercitivo
impugnato riguardante la cessione di armi da
guerra avvenuta esclusivamente in territorio estero in violazione dell’embargo stabilito da risoluzioni dell’Onu, non tradottesi peraltro all’interno
dell’ordinamento italiano in norme vincolanti).
* Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2002, n. 38401
(c.c. 17 settembre 2002), Minin. [RV222924]
l La presenza dello straniero nel territorio dello
Stato, richiesta dall’art. 10 c.p. ai fini della perseguibilità in Italia del delitto comune commesso all’estero dal medesimo straniero in danno dello Stato o di
un cittadino italiano, è normativamente strutturata
come condizione di procedibilità ed è quindi da
considerare soggetta a tutte le regole proprie di siffatta condizione. * Cass. pen., sez. I, 8 marzo 1993,
n. 377 (c.c. 29 gennaio 1993), Shoukry Tarek.
l Per la perseguibilità in Italia di un reato commesso all’estero in danno di un cittadino italiano,
in ordine al quale vi sia stata la richiesta di procedimento del Ministro della giustizia occorre anche
la querela della persona offesa ove si tratti di reato
che se commesso in Italia sarebbe procedibile a
querela. * Cass. pen., sez. I, 13 gennaio 1993, n.
4144 (c.c. 19 ottobre 1992), Shoukry Tarek.
l La richiesta, l’istanza e la querela risultano
regolate nel sistema penalistico quali condizioni
che non attengono alla struttura del fatto-reato o
alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell’azione penale. Anche la presenza del colpevole nel
territorio dello Stato, richiesta dall’art. 10 c.p. per
la «punibilità» di taluni reati commessi all’estero
dallo straniero è normalmente strutturata come
condizione di procedibilità, soggetta quindi alle
regole proprie di queste, e l’inizio di tale presenza
costituisce, quindi, il dies a quo di decorrenza del
termine (non soggetto a sospensioni o ad interruzioni) per l’esercizio dell’azione penale. * Cass.
pen., sez. I, 13 gennaio 1993, n. 4144 (c.c. 19 ottobre 1992), Shoukry Tarek.
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88
l L’art. 90, terzo comma, c.p.p., prevede che
qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà ed i diritti previsti
dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti
(art. 307, quarto comma, c.p.) della medesima.
Tra tali diritti rientra anche quello di proporre
l’istanza prevista dall’art. 10, primo comma, c.p.,
per la perseguibilità di taluni delitti comuni commessi all’estero da uno straniero. (Fattispecie in
tema di omicidio pluriaggravato commesso da
uno straniero in danno di una cittadina all’estero). * Cass. pen., sez. I, 13 gennaio 1993, n. 4144
(c.c. 19 ottobre 1992), Shoukry Tarek.
l Non è configurabile alcuna improcedibilità
nel caso in cui lo Stato estero, nel cui territorio siano stati commessi i reati non solo non si avvalga
della facoltà di richiedere l’estradizione, ma porti
a conoscenza dello Stato italiano, nel cui territorio si trovi il reo, l’esistenza dei delitti, collaborando alla raccolta delle prove e dimostrando così
d’avere rinunciato a punire direttamente l’autore
dei fatti. * Cass. pen., sez. I, 24 ottobre 1989, n.
13988 (ud. 14 luglio 1989), Hamdan.
b) Casistica.
l Integra il delitto di sequestro di persona
(art. 630 c.p.), punibile secondo la legge italiana,
la condotta di cittadini turchi di nazionalità curda che – superando con violenza gli agenti della
questura – penetrino all’interno del Consolato Generale della Grecia, rinchiudendo il Console nel
suo Ufficio, al fine di fargli spedire un fax al Primo
Ministro della Repubblica Ellenica, in quanto la
legge penale da osservare nei locali, ancorché inviolabili, di un consolato estero in Italia è, anche
a seguito della Convenzione di Vienna, quella che
si applica in qualsiasi parte del territorio italiano,
qualunque siano le norme dello Stato ospitato e
indipendentemente dall’immunità riconosciuta
agli addetti ed all’inviolabilità dei locali strettamente riservati all’esercizio delle funzioni diplomatiche, le quali non implicano affatto l’extraterritorialità delle sedi diplomatiche. * Cass. pen.,
sez. V, 4 ottobre 2010, n. 35633 (ud. 25 giugno
2010), Taskiran e altri. [RV248894]
l Nel caso di delitto commesso in territorio
estero da uno straniero in danno di altro straniero,
la presenza del colpevole nel territorio dello Stato,
richiesta dall’art. 10 c.p. per la sua perseguibilità in
Italia, deve essere sussistente prima della richiesta
di rinvio a giudizio, a nulla rilevando l’eventuale
allontanamento dello straniero in un momento successivo all’avveramento della citata condizione di
procedibilità. * Cass. pen., sez. I, 25 gennaio 2006, n.
2955 (ud. 7 dicembre 2005), El Hallal. [RV233424]
l In materia di falso, il concorso nel reato,
che esclude la punibilità della diversa ipotesi criminosa prevista dall’art. 489 c.p. (uso di atto falso), deve configurarsi in termini di concreta punibilità. Ne consegue che, se la falsificazione è stata
commessa all’estero e non vi sia la richiesta del
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89
TITOLO I – LEGGE PENALE
Ministro della giustizia ex art. 10 c.p., il soggetto
che abbia prodotto o concorso a produrre l’atto
falso risponde, ricorrendone le condizioni, del reato di uso dello stesso, ai sensi dell’art. 489 c.p.
(Fattispecie relativa alla contraffazione dei dati
anagrafici su un passaporto di Paese straniero e
su un visto di ingresso in Italia, esibiti alla frontiera). * Cass. pen., sez. V, 4 gennaio 2006, n. 65 (c.c.
25 ottobre 2005), P.G. in proc. Hugi. [RV232714]
l Poiché la competenza territoriale a conoscere di un reato associativo si radica nel luogo in cui
la struttura criminosa destinata ad agire nel tempo
diventa concretamente operante, a nulla rilevando
il luogo di consumazione dei singoli reati oggetto
del “pactum sceleris”, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana occorre verificare in
quale luogo si è realizzata l’operatività della struttura medesima, dovendosi attribuire importanza
secondaria al luogo in cui sono stati realizzati i singoli delitti commessi in attuazione del programma
criminoso a meno che non rivelino essi stessi, per
il loro numero e consistenza, il luogo di operatività
predetto. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso la giurisdizione del giudice italiano
con riferimento all’imputazione di associazione
per delinquere elevata – in assenza di richiesta del
Ministro di giustizia – a carico di un cittadino americano che, a mezzo di posta elettronica, offriva in
vendita organi umani a scopo di trapianto). * Cass.
pen., sez. II, 7 aprile 1999, n. 993 (c.c. 25 febbraio
1999), Cohan. [RV212974]
l Il giudice dell’incidente de libertate non può
rivalutare autonomamente una questione pregiudiziale e strettamente connessa alla definizione
del merito già esaminata dal giudice della cognizione e da costui risolta con la relativa sentenza.
Invero con il procedimento incidentale in materia
cautelare non può porsi in discussione una questione che, pur attenendo anche alla legittimità
della misura cautelare, sia stata, per la sua confluenza nel giudizio di merito, già decisa dal giudice competente, con possibilità di riforma ormai
rimessa unicamente al giudice di cognizione del
successivo grado. (Fattispecie relativa ad un reato
di omicidio volontario commesso all’estero, in cui
nel giudizio di merito di primo grado il giudice
aveva escluso la necessità, per la procedibilità in
ordine al reato suddetto, della richiesta o istanza
di cui all’art. 10 c.p., avendo ritenuto che il prevenuto fosse cittadino italiano e che quindi fosse
sufficiente la sua presenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 9 stesso codice; la Cassazione
ha ritenuto corretta la decisione del tribunale che,
in sede di appello avverso l’ordinanza che aveva
respinto la richieta di revoca della misura della
custodia cautelare in carcere, aveva escluso che
potesse addivenirsi alla richiesta di revoca, fondata sulla pretesa insussistenza della condizione
di procedibilità di cui al comma 1 dell’art. 10 c.p.,
sul rilievo che appunto la questione era già stata
affrontata e risolta in senso sfavorevole all’impu-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 89
Art. 11
tato nel giudizio di merito). * Cass. pen., sez. I, 8
giugno 1994, n. 2128 (c.c. 9 maggio 1994), Tarek.
11. Rinnovamento del giudizio. – Nel caso indicato
nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello
Stato, anche se sia stato giudicato all’estero (138, 201;
730 ss. c.p.p.).
Nei casi indicati negli articoli 7, 8, 9 e 10, il cittadino
o lo straniero, che sia stato giudicato all’estero, è giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministro della
giustizia ne faccia richiesta (128, 129; 342 c.p.p.).
SOMMARIO:
a) Reati commessi nel territorio dello Stato
(comma primo);
b) Delitti commessi all’estero (comma secondo).
a) Reati commessi nel territorio dello Stato
(comma primo).
l Il processo celebrato all’estero nei confronti
del cittadino non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, in quanto nell’ordinamento giuridico italiano non vige il principio del
"ne bis in idem" internazionale, prevedendo l’art.
11, comma primo, c.p. la rinnovazione del giudizio nei casi indicati dall’art. 6 c.p., cioè quando
l’azione o l’omissione che costituisce il reato è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato
(La Corte ha, altresì, escluso l’applicabilità dell’art.
50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, essendo stata la condanna emessa in
Croazia ed avendo quel Paese sottoscritto il trattato di adesione all’Unione Europea in data 9 dicembre 2011 con decorrenza 1° luglio 2013, data
successiva alla celebrazione del processo in Italia).
* Cass. pen., sez. II, 1 ottobre 2013, n. 40553 (ud.
21 maggio 2013), Tropeano. [RV256469]
l A seguito dell’entrata in vigore in data 26 ottobre 1997 delle disposizioni contenute nella Legge n. 388/93 attuativa dell’accordo di Schengen,
il cui articolo n. 54 stabilisce che: «una persona
che sia stata giudicata con sentenza definitiva in
una parte contraente non può essere sottoposta
ad un procedimento penale per i medesimi fatti
in un’altra parte contraente, a condizione che, in
caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia
effettivamente in corso di sede di esecuzione attualmente o, secondo la Legge della parte contraente di condanna, non possa piú essere eseguita»
trova applicazione il principio del ne bis in idem
stabilito, con riguardo a sentenze penali pronunciate in Europa, sia dall’art. 53 della Convenzione
europea sulla validità internazionale dei giudizi
repressivi, resa esecutiva in Italia con Legge 16
maggio 1977, n. 305, che dalla Convenzione di
Bruxelles del 25 maggio 1987, resa esecutiva in
Italia con Legge 16 ottobre 1989, n. 350, sull’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, recepito
con la Legge 30 settembre 1993, n. 388. (Fattispe-
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Art. 11
LIBRO I – DEI REATI
cie in cui la Corte ha annullato il provvedimento
che dichiarava inapplicabile il principio del ne bis
in idem, non riconoscendo allo stesso la natura di
principio o consuetudine di carattere internazionale e per questo necessariamente recessivo nei
casi in cui sia ravvisata la giurisdizione dell’A.G.
in base alle norme di diritto interno, quando
manchi una Convenzione depositata e ratificata
tra gli Stati interessati). * Cass. pen., sez. I, 23
giugno 2004, n. 28299 (c.c. 3 giugno 2004), Desiderio. [RV228779]
l Poiché nell’ordinamento italiano non vige il
principio del ne bis in idem internazionale, la sentenza penale emessa in un Paese extra-europeo
nei confronti di un cittadino italiano non impedisce la rinnovazione del giudizio in Italia per lo
stesso fatto, sempre che il cittadino si trovi nel
territorio italiano ed il Ministro della giustizia ne
faccia richiesta ai sensi dell’art. 11, comma secondo c.p. Il pregresso riconoscimento della sentenza
penale straniera sullo stesso fatto – eventualmente richiesto dal Ministro della giustizia nel caso in
cui non esista trattato di estradizione con lo Stato
estero ex art. 12, comma secondo, c.p. – non preclude il possibile esercizio dell’azione penale in
Italia, in quanto l’istituto del riconoscimento non
comporta il recepimento integrale della decisione
straniera, ma produce i limitati effetti tassativamente indicati e non è in relazione di alternatività
od incompatibilità con la rinnovazione del giudizio, soprattutto quando il Ministro della giustizia
non abbia potuto esercitare contestualmente –
per circostanze oggettive – l’eventuale opzione tra
i due istituti. (Nel caso all’esame della S.C., il riconoscimento della sentenza penale emessa dalla
Corte Suprema del Sud Africa era stato richiesto
quando l’imputato si trovava ancora all’estero per
l’espiazione della pena colà inflittagli, mentre le
condizioni per richiedere il rinnovamento del giudizio, per il delitto di omicidio volontario commesso all’estero, erano divenute sussistenti solo
in seguito al suo rientro in Italia). * Cass. pen.,
sez. I, 17 marzo 2004, n. 12953 (ud. 5 febbraio
2004), Di Blasi. [RV227852]
l Il principio del ne bis in idem stabilito con
riguardo alle sentenze penali pronunciate dai Paesi dell’Unione Europea dall’art. 54 della legge 30
settembre 1993, n. 388, attuativa della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen,
presuppone l’identità del fatto. Nel caso di partecipazione all’estero ad un’associazione criminale
(nella specie: delitto di banda armata, per la partecipazione alla struttura “estero” delle Brigate
Rosse) formatasi ed operante in Italia, da parte di
un cittadino italiano, tale condotta è rilevante ai
fini della giurisdizione penale italiana, risultando
il reato associativo non solo commesso in Italia
ma caratterizzato dal programma criminoso di
compiere atti di violenza con fini di eversione
dell’ordine democratico dello Stato italiano. Ne
consegue che non può ritenersi ostativa la sen-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 90
90
tenza definitiva pronunciata nel Paese straniero
a carico del predetto in relazione alla responsabilità per la fattispecie generale di delitto associativo (nella specie association de mailfaiteurs
in quanto il fatto già giudicato è del tutto diverso
da quello in relazione al quale viene esercitata la
giurisdizione penale in Italia. * Cass. pen., sez. VI,
12 marzo 2004, n. 12098 (ud. 3 novembre 2003),
Giunti. [RV228481]
l Il ne bis in idem non costituisce principio né
consuetudine di diritto internazionale e, pertanto, ove sia ravvisata la giurisdizione in base alle
norme di diritto interno, queste devono cedere il
passo a quelle internazionali solo in virtù di convenzione fra gli Stati, ratificata, resa esecutiva e
depositata, la quale vincola unicamente gli Stati
contraenti e nei limiti del patto tra essi raggiunto. La Convenzione europea tra gli Stati membri
delle comunità europee, relativa all’applicazione
del principio del ne bis in idem, firmata in Bruxelles il 25 maggio 1987 e ratificata dall’Italia con L.
16 ottobre 1989, n. 350, non è ancora in vigore sul
piano internazionale, non essendo avvenuto il deposito degli strumenti di ratifica, di accettazione
o di approvazione da parte di tutti gli Stati membri delle Comunità europee alla data dell’apertura
della firma, così come previsto dall’art. 6, comma
2, della Convenzione. La predetta Convenzione
trova tuttavia applicazione nelle relazioni tra
Italia, Danimarca e Francia dal 16 giugno 1992,
in quanto questi sono gli unici Stati che hanno
depositato il proprio strumento di ratifica, come
risulta dal comunicato del Ministero degli esteri,
pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 135 del 10 giugno 1992. Ne consegue che la predetta Convenzione non può trovare applicazione nei rapporti
con Stati diversi, quale la Confederazione Elvetica. * Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1994, n. 5617
(ud. 15 febbraio 1994), Di Matteo.
l Nell’ordinamento giuridico italiano non esiste il principio del ne bis in idem rispetto a sentenze straniere, in quanto l’art. 11 c.p. impone espressamente di giudicare nello Stato il cittadino o lo
straniero che ivi abbia commesso reato, anche se
sia stato già giudicato all’estero. Di ciò è conferma nell’art. 138 stesso codice il quale, per l’ipotesi
di giudizio seguito all’estero e rinnovato in Italia,
prevede come legittima l’esecuzione della pena inflitta dall’autorità giudiziaria italiana, disponendo
che vi venga sempre computata la pena scontata
all’estero. * Cass. pen., sez. VI, 8 maggio 1993, n.
621 (c.c. 3 marzo 1993), Palazzolo.
b) Delitti commessi all’estero (comma secondo).
l Il processo celebrato all’estero nei confronti del cittadino non preclude la rinnovazione del
giudizio in Italia per gli stessi fatti, in quanto
nell’ordinamento giuridico italiano non vige il
principio del "ne bis in idem" internazionale, prevedendo l’art. 11, comma primo, cod. pen. la rinnovazione del giudizio nei casi indicati dall’art. 6
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91
TITOLO I – LEGGE PENALE
cod. pen., cioè quando l’azione o l’omissione che
costituisce il reato è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato (La Corte ha, altresì,
escluso l’applicabilità dell’art. 50 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, essendo stata la condanna emessa in Croazia ed avendo quel Paese sottoscritto il trattato di adesione
all’Unione Europea in data 9 dicembre 2011 con
decorrenza 1° luglio 2013, data successiva alla
celebrazione del processo in Italia). * Cass. pen.,
sez. II, 1 ottobre 2013, n. 40553 (ud. 21 maggio
2013), Tropeano. [RV256469]
l Un processo celebrato nei confronti di cittadino straniero in uno Stato con cui non vigono
accordi idonei a derogare alla disciplina dell’art. 11
cod. pen. non preclude la rinnovazione del giudizio
in Italia per gli stessi fatti, non essendo il principio
del "ne bis in idem" principio generale del diritto
internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno. * Cass. pen., sez. I, 13 maggio 2013,
n. 20464 (ud. 5 aprile 2013), N. [RV256162]
l Non è ostativa alla celebrazione del giudizio, in base all’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, la precedente
condanna riportata per lo stesso fatto in uno Stato aderente alla suddetta Convenzione, quando la
relativa pena non sia stata eseguita, né sia in corso di esecuzione, anche se sia ancora eseguibile.
* Cass. pen., sez. VI, 2 ottobre 2006, n. 32609 (ud.
25 settembre 2006), Manieri. [RV234766]
l Il processo celebrato all’estero nei confronti
del cittadino italiano non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per lo stesso fatto, in
quanto nell’ordinamento giuridico italiano non
vige il principio del ne bis in idem internazionale. La richiesta del Ministro di grazia e giustizia,
quale condizione di procedibilità in Italia, nei
confronti del cittadino o dello straniero già giudicato all’estero, è imposta, a norma degli artt.
11, secondo comma, c.p., soltanto nelle ipotesi,
espressamente richiamate dalla disposizione,
previste dai precedenti artt. 7, 8, 9 e 10 che concernono il delitto commesso interamente all’estero. Ai sensi dell’art. 11, primo comma, c.p., non
è richiesta, invece, alcuna condizione di procedibilità per la rinnovazione del giudizio in ordine
al reato commesso in Italia. E, invero, il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato, ai
sensi dell’art. 6, secondo comma, c.p., quando è
ivi avvenuta, in tutto o in parte, l’azione o l’omissione che lo costituisce. * Cass. pen., sez. V, ord. 5
ottobre 1998, n. 3362 (c.c. 29 maggio 1998), Bortesi. [RV211504]
l Il principio del ne bis in idem stabilito, con
riguardo a sentenze penali pronunciate in Europa, dall’art. 53 della Convenzione europea sulla
validità internazionale dei giudizi repressivi, resa
esecutiva in Italia con legge 16 maggio 1977 n.
305, non trova applicazione con riguardo a sentenze pronunciate in Germania, giacché fra il
detto Paese e l’Italia non è ancora intervenuta
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Art. 12
ratifica della Convenzione summenzionata; né a
tale lacuna può sopperirsi mediante richiamo alla
Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987,
resa esecutiva in Italia con legge 16 ottobre 1989
n. 350 sull’Accordo di Schengen del 14 giugno
1985, recepito con legge 30 settembre 1993 n.
388, non essendosi formato, né per l’una né per
l’altro, un incontro bilaterale di volontà fra l’Italia
(che ha dato esecuzione all’Accordo di Schengen).
Rimane, quindi, in tale situazione, applicabile la
regola generale di cui all’art. 11 c.p., secondo cui
è consentita la rinnovazione in Italia del giudizio
relativo a fatti per i quali l’imputato sia stato già
giudicato all’estero. * Cass. pen., sez. I, 10 settembre 1997, n. 4625 (c.c. 3 luglio 1997), Sesta.
[RV208348]
12. Riconoscimento
delle sentenze penali straniere. – Alla sentenza penale straniera pronunciata
per un delitto può essere dato riconoscimento (730 ss.
c.p.p.):
1) per stabilire la recidiva (99 ss.) o un altro effetto
penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità (102-104) o la professionalità (105) nel reato o la
tendenza a delinquere (108, 109);
2) quando la condanna importerebbe, secondo la
legge italiana, una pena accessoria (28 ss.) (1);
3) quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe
sottoporre la persona condannata o prosciolta, che si
trova nel territorio dello Stato (42), a misure di sicurezza
personali (199 ss., 215 ss.);
4) quando la sentenza straniera porta condanna
alle restituzioni o al risarcimento del danno (185 ss.;
2043 c.c.), ovvero deve, comunque, esser fatta valere
in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti
civili (185-198).
Per farsi luogo al riconoscimento, la sentenza deve
essere stata pronunciata dall’Autorità giudiziaria di uno
Stato estero col quale esiste trattato di estradizione. Se
questo non esiste, la sentenza estera può essere ugualmente ammessa a riconoscimento nello Stato, qualora
il Ministro della giustizia ne faccia richiesta (128, 129;
342 c.p.p.). Tale richiesta non occorre se viene fatta
istanza per il riconoscimento agli effetti indicati nel n.
4 (730 ss. c.p.p.).
(1) Si veda l’art. 85 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, T.U. delle
leggi sugli stupefacenti.
l Ai fini delle notificazioni nel procedimento
per il riconoscimento di una sentenza penale straniera, è irrilevante l’elezione di domicilio effettuata
nel giudizio svolto dinanzi all’Autorità Giudiziaria
estera, trovando invece applicazione le generali
prescrizioni previste dall’art. 157 cod.proc. pen.,
che individuano la località dove effettuare la comunicazione nel luogo ove l’imputato ha dimora. *
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Art. 12
LIBRO I – DEI REATI
Cass. pen., sez. VI, 8 novembre 2013, n. 45207 (c.c.
23 ottobre 2013), Carbone. [RV257707]
l La pronuncia con cui si provvede al riconoscimento di una sentenza penale straniera deve
enunciare espressamente gli effetti che ne conseguono e non può limitarsi a richiamare l’art.12 del
codice penale. * Cass. pen., sez. VI, 18 luglio 2013,
n. 30831 (c.c. 27 giugno 2013), Ieva. [RV256756]
l È legittimo il riconoscimento di una sentenza penale straniera anche nella parte relativa
a pene accessorie i cui effetti si siano già esauriti.
(Fattispecie relativa a riconoscimento di sentenza
straniera contenente condanna alla interdizione
legale ed alla sospensione della potestà dei genitori "per tutta la durata della pena). * Cass. pen.,
sez. VI, 24 giugno 2013, n. 27738 (ud. 11 giugno
2013), M. [RV255798]
l La sentenza straniera che sia priva di motivazione per effetto dell’espressa rinuncia dell’imputato al diritto di ottenere l’esposizione scritta
delle ragioni della decisione può essere riconosciuta, agli effetti di cui all’art. 12, comma primo,
nn. 1 e 4, c.p., non essendo contraria ai principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
(Nella specie, la sentenza era stata emessa dalla
Corte di assise correzionale di Lugano). * Cass.
pen., sez. II, 27 marzo 2013, n. 14440 (ud. 19 dicembre 2012), P.G. in proc. Camerin. [RV255531]
l L’imputazione per cui sia intervenuta sentenza penale straniera di condanna, riconosciuta in Italia, non può essere integrata dal giudice
dell’esecuzione, neanche "sub specie" di interpretazione del giudicato attraverso il postumo riconoscimento di una circostanza aggravante (ostativa, nella specie, all’applicazione dell’indulto
elargito con L. 31 luglio 2006 n. 241). * Cass. pen.,
sez. I, 29 ottobre 2009, n. 41597 (c.c. 13 ottobre
2009), P.G. in proc. Leobilla. [RV245061]
l Poiché il riconoscimento delle sentenze penali straniere avviene su richiesta del P.G. presso
la Corte d’appello che ha l’obbligo di specificare
espressamente gli effetti per i quali è domandato, ne deriva che, se la richiesta viene formulata
agli effetti previsti dall’art. 12 c.p.p., la parte non
può chiederne l’utilizzo ai fini di procedere al cumulo giuridico, peraltro di competenza esclusiva
del P.M. * Cass. pen., sez. I, 28 settembre 2004, n.
38278 (c.c. 16 settembre 2004), Staiti. [RV229740]
l Poiché nell’ordinamento italiano non vige il
principio del ne bis in idem internazionale, la sentenza penale emessa in un Paese extra-europeo
nei confronti di un cittadino italiano non impedisce la rinnovazione del giudizio in Italia per lo
stesso fatto, sempre che il cittadino si trovi nel
territorio italiano ed il Ministro della giustizia ne
faccia richiesta ai sensi dell’art. 11, comma secondo c.p. Il pregresso riconoscimento della sentenza
penale straniera sullo stesso fatto – eventualmente richiesto dal Ministro della giustizia nel caso in
cui non esista trattato di estradizione con lo Stato
estero ex art. 12, comma secondo, c.p. – non pre-
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92
clude il possibile esercizio dell’azione penale in
Italia, in quanto l’istituto del riconoscimento non
comporta il recepimento integrale della decisione
straniera, ma produce i limitati effetti tassativamente indicati e non è in relazione di alternatività
od incompatibilità con la rinnovazione del giudizio, soprattutto quando il Ministro della giustizia
non abbia potuto esercitare contestualmente –
per circostanze oggettive – l’eventuale opzione tra
i due istituti. (Nel caso all’esame della S.C., il riconoscimento della sentenza penale emessa dalla
Corte Suprema del Sud Africa era stato richiesto
quando l’imputato si trovava ancora all’estero per
l’espiazione della pena colà inflittagli, mentre le
condizioni per richiedere il rinnovamento del giudizio, per il delitto di omicidio volontario commesso all’estero, erano divenute sussistenti solo
in seguito al suo rientro in Italia). * Cass. pen.,
sez. I, 17 marzo 2004, n. 12953 (ud. 5 febbraio
2004), Di Blasi. [RV227852]
l Non è applicabile in executivis la continuazione tra reato giudicato in Italia e reato giudicato all’estero, previo riconoscimento della relativa
sentenza penale straniera, producendo quest’ultimo nell’ordinamento nazionale i soli effetti indicati nell’art. 12 c.p., tra i quali non è compreso, neanche sub specie di effetto penale della condanna
ai sensi del primo comma n. 1 del citato articolo,
il regime del reato continuato, che presuppone un
giudizio di merito e, quindi, il riferimento a categorie di diritto sostanziale (reati e pene) che si
qualificano soltanto in ragione del diritto interno.
* Cass. pen., sez. I, 3 dicembre 2003, n. 46323 (c.c.
4 novembre 2003), Colombani. Conforme, Cass.
pen., sez. I, 21 settembre 2006, n. 31422 (c.c. 11
maggio 2006), Moffa. [RV226623]
l Non è applicabile l’istituto della continuazione (nella specie richiesto in sede esecutiva), tra
fatti giudicati con sentenza straniera riconosciuta
in Italia e fatti giudicati con sentenza pronunciata
dal giudice italiano, non rientrando un tale effetto
fra quelli, tassativamente indicati nell’art. 12 c.p.,
ai quali dà luogo il riconoscimento delle sentenze straniere. Ciò manifestamente, sulla scorta di
quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale con
ordinanza 28 marzo 1997 n. 72, non determina alcun contrasto fra il detto art. 12 c.p. e gli artt. 3 e 24
della Costituzione. * Cass. pen., sez. I, 29 novembre
2000 (ud. 26 settembre 2000), Rasella. [RV217293]
l Ai fini della revoca di benefici già concessi
(sospensione condizionale o indulto), si deve tenere conto anche delle condanne riportate all’estero, se riconosciute in Italia. * Cass. pen., sez. I,
25 luglio 1996, n. 3876 (c.c. 3 giugno 1996), Rotterdam. [RV205346]
l Poiché il termine sentenza contenuto nella
formulazione dell’art. 12 c.p. riguarda qualsiasi
provvedimento decisorio su un’accusa penale
assunta da un’autorità giudiziaria straniera, una
volta intervenuto il riconoscimento della sentenza straniera, il quale ha natura costitutiva,
02/03/17 10:08
93
TITOLO I – LEGGE PENALE
da tale momento ed automaticamente, senza alcun condizionamento quanto al tipo di procedimento seguito presso lo Stato estero si producono nell’ordinamento nazionale gli effetti previsti
dalla legge, in relazione ai quali il riconoscimento
è stato richiesto, secondo la tassativa catalogazione di cui all’art. 12 citato. Poiché tra tali effetti
rientra l’applicabilità dell’art. 29, comma 1, c.p.,
la sentenza straniera riconosciuta costituisce presupposto per l’applicazione della pena accessoria.
(Nella fattispecie, il ricorrente aveva dedotto che,
riguardando il riconoscimento una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria spagnola con
rito cosiddetto abbreviato, consistente nell’applicazione della pena concordata tra accusa e difesa,
del tutto omologo a quello disciplinato dall’art.
444 c.p.p., non era consentita l’applicazione nei
suoi confronti della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici). * Cass. pen.,
sez. IV, 23 aprile 1996, n. 1077 (c.c. 10 aprile
1996), Fagnini. [RV204445]
l Il riconoscimento di una sentenza straniera
non può essere richiesto al fine di eventualmente
ottenere l’applicazione dell’istituto della continuazione; invero quest’ultimo, che implica un giudizio di merito bilaterale tra la pronuncia all’estero e
quella emanata in Italia, non può considerarsi «altro effetto penale della condanna» rilevante ai fini
del suddetto riconoscimento ex art. 12, comma 1,
n. 1, c.p. * Cass. pen., sez. VI, 17 aprile 1996, n.
1056 (c.c. 7 marzo 1996), Avogadro. [RV204519]
13. Estradizione. – L’estradizione (697 ss. c.p.p.) è re-
golata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e
dagli usi internazionali (10, 26 Cost.) (1).
L’estradizione non è ammessa, se il fatto che forma
oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera.
L’estradizione può essere conceduta od offerta, anche per reati non preveduti nelle convenzioni internazionali, purché queste non ne facciano espresso divieto.
Non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo
che sia espressamente consentita nelle convenzioni
internazionali.
(1) La legge costituzionale 21 giugno 1967, n. 1, in sede di
interpretazione autentica delle disposizioni contenute negli artt.
10, ultimo comma, e 26, ultimo comma, della Costituzione, che
escludono l’estradizione per reati politici, ha stabilito che esse non
si applicano ai delitti di genocidio, sui quali si veda la L. 9 ottobre
1967, n. 962.
Tra le numerose Convenzioni di estradizione si vedano quella
europea di Parigi 13 dicembre 1957, ratificata dall’Italia con L. 30
gennaio 1963, n. 300 e il Trattato di estradizione fra Italia e Stati
Uniti d’America ratificato con L. 26 maggio 1984, n. 225.
SOMMARIO:
a) La Convenzione europea di estradizione;
b) Principio di reciprocità;
c) Doppia incriminazione;
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Art. 13
d) «Specialità» dell’estradizione;
e) Limiti all’estradizione; e-1) Tutela dei diritti
fondamentali; e-2) Reati politici; e-3) Minorenni;
e-4) Litispendenza internazionale; e-5) Reati fiscali;
f) Estradizione del cittadino.
a) La Convenzione europea di estradizione.
l In tema di estradizione, il principio di specialità, contenuto nel primo comma dell’art. 14
della convenzione europea di estradizione, resa
esecutiva con legge 30 gennaio 1963, n. 300, pone
precisi limiti alla giurisdizione del giudice procedente impedendogli di perseguire l’estradato per
reati per i quali non è stata concessa l’estradizione, ma tali effetti preclusivi vengono meno se
l’estradato, fuggito nuovamente all’estero venga
arrestato in altro Stato e riconsegnato sulla base
di una nuova e diversa procedura estradizionale.
* Cass. pen., sez. I, 23 luglio 2004, n. 32356 (c.c. 6
luglio 2004), Gelli. [RV229288]
l Il principio di specialità previsto dalla convenzione europea di estradizione e dall’art. 721
c.p.p. non opera in materia di misure di prevenzione, in quanto queste sono applicate sulla base
di un giudizio di pericolosità attuale del soggetto,
ai cui fini l’esistenza di precedenti fatti specifici,
eventualmente costituenti reato, rappresenta soltanto uno degli elementi presi in considerazione.
* Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2004, n. 19900 (c.c. 4
marzo 2004), Giardino. [RV227976]
l Il principio di specialità di cui all’art. 14
della Convenzione europea di estradizione firmata a Parigi il 13 dicembre 1957 non preclude in
modo assoluto l’esercizio della giurisdizione da
parte dello Stato richiesto, ma vi pone solo delle
limitazioni, imposte dall’evidente necessità di
impedire che si tragga occasione dalla presenza
fisica dell’estradato nel territorio nazionale per
sottoporlo a provvedimenti restrittivi della libertà
personale diversi da quelli per i quali l’estradizione è stata concessa e anteriori alla consegna.
Al di fuori di questa ipotesi, non sussiste alcun
ostacolo normativo alla possibilità di procedere
nei confronti del cittadino estradato per altri fatti,
commessi in Italia in danno di cittadini, dovendosi solo prescindere dal compimento di qualsiasi
atto che postuli la disponibilità della persona
dell’imputato, e, quindi, anche dall’esecuzione di
un’eventuale sentenza di condanna a pena detentiva fino a quando per tale diverso titolo, ricorrendone i presupposti, non sia richiesta e concessa
un’estradizione suppletiva. * Cass. pen., sez. V, 13
settembre 1997, n. 8347 (ud. 3 luglio 1997), Bellanova ed altri. [RV208604]
l Il principio di specialità, contenuto nel primo comma dell’art. 14 della Convenzione europea
di estradizione – resa esecutiva con L. 30 gennaio
1963 n. 300 – non comporta una automatica e totale sospensione della giurisdizione del giudice procedente, ma pone dei limiti al suo potere, derivanti
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Art. 13
LIBRO I – DEI REATI
dalla necessità di impedire che si tragga occasione
dalla presenza dell’estradato nel territorio nazionale per l’esecuzione di provvedimenti restrittivi
della libertà personale relativi a fatti anteriori alla
consegna, per i quali non è stata concessa l’estradizione. Tuttavia l’estradato, qualora – allontanandosi dal territorio nazionale – venga meno all’osservanza dell’obbligo relativo alla sua presenza
coatta nel territorio dello Stato italiano, non può
più innovare in suo favore l’applicazione del principio di specialità, atteso che in tal caso lo Stato
richiedente, ai sensi dell’art. 14 secondo comma
della convenzione citata, ha la facoltà di adottare
tutte le misure necessarie ai fini dell’esercizio della
giurisdizione. * Cass. pen., sez. I, 6 maggio 1994, n.
1183 (c.c. 10 marzo 1994), Mazzoleni.
l Il principio di specialità di cui all’art. 14
della convenzione europea di estradizione firmata
a Parigi il 13 dicembre 1957 non preclude in modo
assoluto l’esercizio della giurisdizione da parte
dello Stato richiesto, ma vi pone solo delle limitazioni, imposte dall’evidente necessità di impedire
che si tragga occasione dalla presenza fisica dell’estradato nel territorio nazionale per sottoporlo a
provvedimenti restrittivi della libertà personale
diversi da quelli per i quali l’estradizione è stata
concessa e anteriori alla consegna. Al di fuori di
questa ipotesi, non sussiste alcun ostacolo normativo alla possibilità di procedere nei confronti del
cittadino estradato per altri fatti, commessi in Italia in danno di cittadini, dovendosi solo prescindere dal compimento di qualsiasi atto che postuli la
disponibilità della persona dell’imputato e, quindi, anche dall’esecuzione di un’eventuale sentenza
di condanna a pena detentiva fino a quando per
tale diverso titolo, ricorrendone i presupposti, non
sia richiesta e concessa un’estradizione suppletiva. * Cass. pen., sez. I, 8 giugno 1993, n. 1507 (c.c.
7 aprile 1993), P.M. in proc. Russo.
l Il principio di specialità, riaffermato nel primo comma dell’art. 14 della Convenzione europea
di estradizione (firmata a Parigi il 13 dicembre
1957 e ratificata con legge n. 300 del 1963) non
preclude in assoluto l’esercizio della giurisdizione
da parte dello Stato richiedente per i fatti anteriori alla data dell’estradizione e diversi da quelli
per i quali l’estradizione è stata concessa, ponendo solo una serie di limitazioni all’esercizio dei
poteri giurisdizionali; in particolare, per espressa
deroga contenuta nel secondo comma del citato
art. 14, è consentito adottare «le misure necessarie in vista sia di un eventuale allontanamento
dal territorio» dell’estradato, «sia di una interruzione della prescrizione... ivi compreso il ricorso
ad un procedimento contumaciale». (Nella specie
la Cassazione ha ritenuto legittimo che si fosse
proceduto per fatti del tipo suddetto per evitare la
prescrizione e per l’eventuale richiesta di estradizione suppletiva). * Cass. pen., Sezioni Unite, 4
giugno 1992, n. 6682 (ud. 4 febbraio 1992), Musumeci ed altri.
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l Il principio di specialità contenuto nel primo comma dell’art. 14 della convenzione europea
di estradizione non preclude qualsiasi esercizio
della giurisdizione in riferimento a fatti anteriori
alla data dell’estradizione e diversi da quelli per
i quali l’estradizione venne concessa, ma costituisce soltanto una limitazione ai poteri sovrani
che in materia giurisdizionale competono agli
organi giudiziari del paese richiedente. Pertanto,
senza violare il principio di specialità il giudice
può prosciogliere dal reato addebitato se il fatto
non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, o
il fatto non è preveduto dalla legge come reato, o
se il reato è estinto o se l’azione penale non poteva
essere iniziata o proseguita. All’applicazione della
causa estintiva non è di ostacolo l’obbligo dell’interrogatorio dell’imputato, previsto dall’art. 376,
c.p.p., perché questo obbligo deve ritenersi osservato anche attraverso il processo verbale giudiziario contenente le dichiarazioni dell’estradato
che la convenzione riconosce indispensabile per
la documentazione della procedura di estradizione supplettiva o attraverso le dichiarazioni rese
dall’incolpato ai sensi dell’art. 14, lett. a) della
convenzione stessa. È altresì possibile svolgere
atti di polizia giudiziaria e di istruzione preliminare, nonché tutti quegli atti istruttori che sono
indispensabili per accertare nelle sue reali caratteristiche il fatto e per qualificarlo giuridicamente
in modo compiuto, nonché per assicurare tutti
quegli elementi probatori che altrimenti potrebbero essere dispersi. Resta preclusa la possibilità
di emettere atti che comportino una coazione nei
confronti dell’estradando o di disporre il rinvio
a giudizio dell’incolpato. Ma, al fine di impedire la prescrizione il giudice può emettere tutti
gli atti di cui all’art. 160, comma secondo, c.p.
e può anche ricorrere al giudizio contumaciale.
Tale forma di giudizio può essere utilizzata anche
per poter precostituire quel titolo di condanna
esecutiva occorrente per richiedere l’estradizione supplettiva nei casi in cui non sia consentito
emettere mandato di cattura o atto equipollente.
* Cass. pen., Sezioni Unite, 21 aprile 1989, n. 2
c.c. (28 febbraio 1989, Nigro.)
b) Principio di reciprocità.
l In materia di estradizione il principio di
reciprocità non ha valore generale, automaticamente applicabile, ma trova applicazione solo se
sia previsto da specifiche norme dello Stato italiano, come negli artt. 300 c.p. o 16 disp. prel. c.c.,
oppure se sia inserita la relativa clausola nella
Convenzione internazionale, oppure se sussista,
in relazione a concreti rapporti, una reciprocità
internazionale di fatto, indipendentemente da
apposite clausole. Nella Convenzione europea di
estradizione, aperta alla firma a Parigi il 13 dicembre 1957 e ratificata e resa esecutiva in Italia
con L. 30 gennaio 1963, risulta accolto il principio apposto all’automatica applicazione della re-
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TITOLO I – LEGGE PENALE
gola della reciprocità. (La Corte di cassazione ha
chiarito che nella suindicata Convenzione è consentito, unicamente come facoltà attribuita alle
parti contraenti, di applicare tale regola per quanto concerne i reati esclusi dalle sue previsioni (art.
2, paragrafo 7); ed, in relazione alle riserve di una
parte, è confermato che alle altre parti contraenti
è attribuita una mera facoltà discrezionale di uniformarsi alle eventuali riserve (art. 26 paragrafo
3). * Cass. pen., sez. I, 16 marzo 1982, n. 301 (c.c.
12 febbraio 1982), Aharoni.
c) Doppia incriminazione.
l Ai fini della concedibilità dell’estradizione per l’estero, per soddisfare il requisito della
doppia incriminabilità, di cui all’art. 13, secondo
comma, cod. pen., non è necessario che lo schema astratto della norma incriminatrice dell’ordinamento straniero trovi il suo esatto corrispondente in una norma del nostro ordinamento, ma
è sufficiente che lo stesso fatto sia previsto come
reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla rilevando l’eventuale diversità del titolo e la difformità del trattamento sanzionatorio. (Nella specie
la Corte di merito aveva ritenuto irrilevante la
circostanza che talune condotte oggetto dei reati
ipotizzati dallo Stato estero non integrassero uno
specifico reato per l’ordinamento italiano ma solo
segmenti della truffa perpetrata ai danni della J.P.
Morgan Bank). * Cass. pen., sez. VI, 5 aprile 2013,
n. 15927 (c.c. 28 marzo 2013), D’Angelantonio.
[RV254818]
l In tema di estradizione verso l’estero, non
sussiste la violazione del principio della doppia
incriminabilità previsto dall’art. II del Trattato
di estradizione tra Italia e Stati Uniti d’America,
ratificato con L. 26 maggio 1984, n. 225, in relazione ad una domanda di estradizione fondata su un titolo di arresto emesso per il reato di
inosservanza di un provvedimento del tribunale
(contempt of Court), al fine di consentire la celebrazione del giudizio in relazione a reati previsti
da entrambi gli ordinamenti penali. (Nel caso di
specie, la persona richiesta in estradizione, dopo
la scarcerazione su cauzione, si era sottratta alla
celebrazione del processo per l’imputazione di
associazione finalizzata al narcotraffico). * Cass.
pen., sez. VI, 5 febbraio 2008, n. 5668 (c.c. 14 novembre 2007), Adamson. [RV238388]
l L’estradizione verso la Romania non può
essere concessa se per il reato di truffa (art. 640,
comma primo, c.p.), posto a fondamento della richiesta, non sia stata presentata querela, giacché
l’art. 33, comma primo, lett. c) della Convenzione
di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Romania, conclusa a Bucarest l’11
novembre 1971 e ratificata con legge 20 febbraio
1975 n. 127, prevede che l’estradizione non è concessa se per il reato per il quale è richiesta, sussistano cause che impediscono l’esercizio dell’azione penale secondo la legislazione di una delle parti
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Art. 13
contraenti. * Cass. pen., sez. VI, 9 marzo 2005, n.
9260 (c.c. 1 febbraio 2005), Neagu. [RV230945]
l Ai fini della concedibilità dell’estradizione
per l’estero, per soddisfare il requisito della doppia
incriminabilità, di cui all’art. 13, secondo comma,
c.p., non è necessario che lo schema astratto della
norma incriminatrice dell’ordinamento straniero
trovi il suo esatto corrispondente in una norma del
nostro ordinamento, ma è sufficiente che lo stesso
fatto sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla rilevando l’eventuale diversità,
oltre che del trattamento sanzionatorio, anche del
titolo e di tutti gli elementi richiesti per la configurazione del reato (in applicazione di tale principio,
la Corte ha ritenuto corretta la sentenza favorevole
all’estradizione richiesta dalla Romania sulla base
della convenzione europea del 1957 di un soggetto condannato per tentato omicidio, ancorchè per
la configurazione di tale delitto secondo l’ordinamento italiano siano richiesti elementi costitutivi
non del tutto analoghi a quelli previsti dall’ordinamento rumeno). * Cass. pen., sez. VI, 12 dicembre
2003, n. 47614 (c.c. 1 ottobre 2003), Buda. Conforme, Cass. pen., sez. VI, 4 febbraio 2009, n. 4965
(c.c. 13 gennaio 2009), Mihai. [RV227818]
l In materia di estradizione, ai fini del principio della doppia incriminazione (art. 13 c.p.) non
rilevano le eventuali condizioni di procedibilità
né le eventuali cause di estinzione del reato maturate secondo la legislazione dello Stato richiesto,
rilevando unicamente, a tal fine, la conformità del
fatto ad una fattispecie astratta che sia prevista
come reato da entrambi gli ordinamenti. Ne consegue che l’art. VIII del Trattato tra Italia e Stati
Uniti d’America, ratificato con legge 26 maggio
1984, n. 225, per il quale l’estradizione non è consentita «nel caso in cui l’azione penale o l’esecuzione della pena sono prescritte per decorso del
tempo secondo le leggi della Parte richiedente»,
deve essere necessariamente inteso nel senso che
non viene riconosciuta rilevanza all’eventuale
prescrizione del reato secondo le leggi dello Stato
richiesto. * Cass. pen., sez. VI, 27 giugno 2002, n.
24717 (c.c. 16 maggio 2002), Parretti. [RV222193]
l Il requisito della doppia incriminazione, di
cui all’art. 13 c.p. e all’art. 11 del trattato di estradizione fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America del
13 ottobre 1983, ratificato con L. 26 maggio 1984,
n. 225, non postula l’esatta corrispondenza della
configurazione normativa e del trattamento della
fattispecie, ma solo la applicabilità della sanzione
penale, in entrambi gli ordinamenti, ai fatti per
cui si procede. * Cass. pen., sez. VI, 29 marzo
1999, n. 297 (c.c. 29 gennaio 1999), Sardinas AH.
[RV214137]
l Il principio della «doppia incriminabilità»,
stabilito in materia di estradizione dall’art. 13,
comma 2, c.p., non si estende anche ai mezzi di
prova ed è perciò ammissibile che l’incriminazione da parte dello Stato richiedente si basi su
prove che non sarebbero utilizzabili nel nostro
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Art. 13
LIBRO I – DEI REATI
ordinamento, salva restando la valutazione della
loro pertinenza. (Nella specie, enunciato tale
principio, la Corte ha peraltro osservato che, vertendosi in caso di decisione favorevole all’estradizione negli Usa di soggetto accusato di reati in
materia di stupefacenti e lamentandosi nel ricorso da costui proposto avverso la detta decisione
che l’accusa sarebbe stata basata su elementi acquisiti mediante l’opera di un agente provocatore,
non poteva neppure dirsi che detta opera avesse
travalicato i limiti previsti dalla normativa italiana, essendosi l’agente provocatore limitato
a ritardare, a fini investigativi, l’esecuzione del
possibile sequestro di un quantitativo di sostanza
stupefacente, analogamente a quanto consentito,
nell’ordinamento nazionale, dall’art. 98, comma
2, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309). * Cass. pen.,
sez. I, 4 ottobre 1995, n. 4407 (c.c. 14 settembre
1995), Aramini. [RV202383]
l Ai fini della concedibilità dell’estradizione
per l’estero, per soddisfare il requisito della doppia incriminabilità, di cui all’art. 13, comma 2,
c.p., non è necessario che lo schema astratto della
norma incriminatrice dell’ordinamento straniero
trovi il suo esatto corrispondente in una norma
del nostro ordinamento, ma è sufficiente che lo
stesso fatto sia previsto come reato da entrambi
gli ordinamenti, a nulla rilevando l’eventuale diversità del titolo e la difformità del trattamento
sanzionatorio. (Nella specie, in applicazione di
tale principio, la Corte ha ritenuto che legittimamente fosse stata pronunciata, ai sensi dell’art.
705 c.p.p. ed in conformità all’art. 2, comma 2,
del trattato di estradizione ratificato con L. 26
maggio 1984 n. 225, sentenza favorevole all’estradizione negli Usa di un soggetto accusato,
fra l’altro, sotto il titolo di conspiracy – ancorché
esprimente un concetto astrattamente diverso da
quello dell’associazione per delinquere – di comportamenti concretamente riconducibili anche
alla figura dell’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, quale delineata nell’art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309). *
Cass. pen., sez. I, 4 ottobre 1995, n. 4407 (c.c. 14
settembre 1995), Aramini. [RV202384]
l Ai fini dell’estradizione del cittadino straniero dall’Italia allo Stato estero il principio della necessità della doppia incriminazione va inteso nel
senso che sono escluse dagli elementi oggetto di
verifica le condizioni di procedibilità. (Affermando siffatto principio la Cassazione ha ritenuto
infondato un ricorso col quale si deduceva che
la richiesta di estradizione per il reato di uso di
atto falso era inaccoglibile per difetto di querela).
* Cass. pen., sez. VI, 4 gennaio 1995, n. 4298 (c.c.
4 novembre 1994), P.M. e Parretti.
d) «Specialità» dell’estradizione.
l In materia di estradizione, il principio di
specialità non comporta una sospensione della
giurisdizione del giudice italiano, che resta piena,
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ma determina soltanto una limitazione ai poteri
sovrani in materia giurisdizionale attribuiti agli
organi giudiziari del Paese richiedente, limitazione che automaticamente viene meno quando il
Paese richiesto, con suo provvedimento insindacabile nell’ordinamento interno, rimuove il limite
posto alla sovranità del Paese procedente. * Cass.
pen., sez. VI, 5 marzo 1992, n. 2402 (ud. 15 gennaio 1992), Unzamo.
l La regola della specialità dell’estradizione,
per cui la persona consegnata non può essere
sottoposta a giudizio per un «fatto diverso» anteriore all’estradizione, importa l’obbligo dello
Stato richiedente di attenersi al fatto per il quale l’estradizione fu concessa, ma non implica né
il divieto di modificare il titolo delittuoso, né il
divieto di completare ed integrare l’imputazione
con elementi e circostanze di contorno nel rispetto delle norme processuali interne: sempre
che sia lasciato immutato il fatto-reato nella sua
materialità e struttura essenziale. * Cass. pen.,
sez. VI, 29 novembre 1991, n. 12211 (ud. 1 luglio
1991), Sancakli ed altri.
e) Limiti all’estradizione.
e-1) Tutela dei diritti fondamentali.
l Ai fini della concedibilità dell’estradizione
per l’estero, non assume rilievo l’eventuale difformità del trattamento sanzionatorio previsto nello
Stato richiedente, potendo l’aspetto sanzionatorio
rientrare tra le condizioni ostative alla pronuncia
favorevole alla estradizione solo qualora sia del
tutto irragionevole e si ponga manifestamente in
contrasto con il generale principio di legalità e
proporzionalità delle pene. * Cass. pen., sez. VI,
10 gennaio 2005, n. 121 (c.c. 21 settembre 2004),
Cosa. [RV230647]
l In tema di estradizione per l’estero, poiché
l’art. 11 comma secondo della Costituzione di
Bosnia-Erzegovina stabilisce che saranno rispettati i diritti e le libertà fondamentali definiti nella
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con
priorità su tutte le altre leggi, e poiché l’art. 1 del
Protocollo n. 6 di detta Convenzione stabilisce
che la pena di morte è abolita, è concedibile l’estradizione richiesta dalla Repubblica di BosniaErzegovina nei confronti di un cittadino accusato
di omicidio, reato per il quale, ricorrendo determinate aggravanti, è applicabile astrattamente,
in base al codice penale di tale Stato, la pena di
morte, dovendo ritenersi verificata la condizione
posta dalla sentenza della Corte cost. n. 223 del
1996, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 698, comma secondo, c.p.p., ha affermato che per la concedibilità della estradizione è necessaria la garanzia assoluta che lo Stato
richiedente non applichi la pena di morte. * Cass.
pen., sez. VI, 24 febbraio 1998, n. 1 (c.c. 9 gennaio
1998), Mehanovic. [RV210836]
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TITOLO I – LEGGE PENALE
l Il giudizio di garanzia giurisdizionale previsto dal nostro sistema in tema di estradizione
passiva ha per oggetto non solo l’osservanza delle
disposizioni di diritto oggettivo che regolano il
rapporto, ma anche la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo riconosciuti dall’ordinamento
italiano, i quali, attraverso la cooperazione prestata con l’estradizione, potrebbero essere violati.
* Cass. pen., sez. I, 13 novembre 1987, n. 2189 c.c.
(25 maggio 1987, Sciacca.).
e-2) Reati politici.
l In tema di estradizione per l’estero, la nozione di reato politico a fini estradizionali trova fondamento non nell’art. 8 c.p., nel quale il reato politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle
norme costituzionali, che lo assumono in una più
ampia funzione di garanzia della persona umana,
finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato
straniero. Per quanto concerne il cittadino straniero in Italia, la Costituzione non fornisce una
nozione rigida di reato politico, ma la subordina
alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciute. Tra tali norme si pongono le convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dallo
Stato italiano, ed in particolare la Convenzione europea sul terrorismo del 1977, nella quale, indipendentemente dalle loro finalità, sono definiti non
politici determinati atti delittuosi (in applicazione
di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la
decisione del giudice di merito con la quale veniva
dichiarata l’estradabilità in favore della Francia di
un cittadino tunisino con riferimento alla condotta
di partecipazione ad associazione criminale diretta al compimento di atti terroristici diretti all’eversione dello Stato francese, con modalità violente
comprensive dell’uso di materie espodenti e attentati alla vita e all’integrità fisica di cittadini ignari).
* Cass. pen., sez. VI, 23 luglio 2003, n. 31123 (c.c.
19 giugno 2003), Baazaoui. [RV226520]
l L’art. 3, comma 2 della Convenzione europea di estradizione prevede la possibilità per lo
Stato richiesto di rifiutare la estradizione per
sospetto di processo politico. Il giudizio sulla
eventuale sussistenza di una estradizione cosiddetta mascherata o di altra situazione idonea ad
incidere negativamente sui diritti fondamentali
dell’estradando deve peraltro basarsi su elementi
idonei a far ritenere fondato il pericolo in questione e detti elementi debbono potersi ricavare dagli atti ovvero debbono essere prospettati
dall’interessato secondo un preciso onere di allegazione: l’esercizio, in via esclusiva, di un potere
di iniziativa officioso del giudice, in assenza di
concreti ed apprezzabili sospetti, costituirebbe
fatto non amichevole e non corretto nei confronti
dello Stato richiedente. * Cass. pen., sez. VI, 27
novembre 1995, n. 3281 (c.c. 27 settembre 1995),
Celik. [RV203308]
l Ai fini dell’individuazione dei limiti di operatività del divieto di estradizione per reati politi-
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Art. 13
ci, la determinazione dei connotati del reato politico deve trarsi anche dal contesto costituzionale,
cioè dai principi fondamentali enunciati dalla Costituzione a tutela dei diritti fondamentali della
persona umana; tra tali principi devono comprendersi anche quelli fissati nelle norme che, seppur
inserite nella parte relativa ai diritti e doveri dei
cittadini, ineriscono ai diritti fondamentali quali
la libertà di espressione del proprio pensiero, la
libertà di associazione, la libertà sindacale etc.,
nonché quelli sanciti negli artt. 24 e 27 Cost. relativi al diritto di difesa ed alla natura e finalità
della pena. * Cass. pen., sez. I, 12 dicembre 1990,
n. 3768 c.c. (7 novembre 1990, Checchini.).
l In tema di divieto di estradizione per reati politici, ai fini dell’individuazione del «reato politico»,
oltre che all’oggetto dell’incriminazione, al bene
giuridico tutelato ed ai motivi della condotta criminosa, che hanno indubbia rilevanza come elementi
sicuramente sintomatici della possibilità che la richiesta di estradizione mascheri un attentato alla
personalità dell’estradando, bisogna fare riferimento, ampliando il concetto di reato politico, a quei
fattori di natura collettiva e sociale dai quali possa
emergere il pericolo di inquinamento della funzione repressiva, come concepita dalla nostra Carta
costituzionale. * Cass. pen., sez. I, 12 dicembre
1990, n. 3768 c.c. (7 novembre 1990, Checchini.).
l La nozione di reato politico, quale limite
all’estradizione, può trarsi soltanto dal contesto
costituzionale e, perciò, dai principi fondamentali da questo posti a tutela dei fondamentali diritti
della persona umana. Tra questi primeggia quello
stabilito dall’art. 27, comma terzo, Cost. sull’essenza, natura e consistenza della pena, dal quale
discende la conclusione che scopo delle norme
costituzionali vietanti l’estradizione per reati
politici è essenzialmente quello di vietare che lo
Stato italiano collabori a rendere possibile lo scatenarsi di vendette guidate da passioni di parte,
o da interessi privi di valore al di fuori di una
determinata cerchia politica. Ciò che conta per
l’individuazione della natura politica del delitto è
l’esistenza – o l’inesistenza – di fattori di natura
collettiva o sociale, dai quali emerga il pericolo
che possa restare inquinata la funzione repressiva, come concepita dalla Corte costituzionale.
Nell’individuazione di tale natura devono inoltre
confluire anche i valori fissati dalla Costituzione
per il riconoscimento del diritto d’asilo (ossia le
libertà democratiche fondamentali garantite costituzionalmente), in quanto integratori dell’aspetto generale dello spirito informatore della
Costituzione, in relazione alla tutela della personalità umana. * Cass. pen., sez. I, 23 gennaio
1990, n. 3329 (ud. 15 dicembre 1989), Van Anraat.
e-3) Minorenni.
l Non può essere concessa l’estradizione di
un imputato minorenne nell’ipotesi in cui l’ordinamento dello Stato richiedente preveda che lo
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Art. 14
LIBRO I – DEI REATI
stesso sarà giudicato come se fosse un adulto, la
sua imputabilità sarà presunta senza alcun previo
accertamento e la pena eventualmente inflittagli
sarà eseguita negli ordinari istituti per adulti.
(Nella specie si trattava di un minore imputabile che aveva commesso un delitto negli U.S.A. e
la Cassazione ha ritenuto che la sorte assicurata allo stesso non è compatibile né con i principi
che regolano nella Costituzione italiana la tutela
della gioventù, né, soprattutto, con i principi fondamentali della penale responsabilità e della funzione della pena, contemplati nella Costituzione
stessa). * Cass. pen., sez. I, 13 novembre 1987 (c.c.
25 maggio 1987, n. 2189), Sciacca.
e-4) Litispendenza internazionale.
l La cosiddetta litispendenza internazionale di cui all’art. 8 della Convenzione europea di
estradizione firmata a Parigi il 13 dicembre 1957
e ratificata con L. 30 gennaio 1963 n. 300, non
esplica nessuna influenza nel procedimento di
competenza della sezione istruttoria di cui agli
artt. 664 e seguenti del c.p.p., poiché l’esercizio
della facoltà di rifiuto di concessione dell’estradizione, ai sensi del predetto art. 8, è riservato in
via esclusiva agli organi del Governo e per essi al
Ministero di grazia e giustizia che è il titolare del
relativo potere. Pertanto, in caso di litispendenza internazionale, la sezione istruttoria, qualora
ricorrano tutte le altre condizioni richieste, deve
esprimere parere favorevole all’estradizione onde
non pregiudicare i poteri discrezionali dell’Autorità amministrativa riconosciuti dall’art. 8 sopra
citato. * Cass. pen., sez. I, 7 aprile 1982, n. 310
(c.c. 15 febbraio 1982), Batrouni.
e-5) Reati fiscali.
l In materia di estradizione tra lo Stato italiano ed il Regno del Belgio la Convenzione bilaterale sottoscritta a Roma il 15 gennaio 1875 che
disciplina i relativi rapporti non contempla i reati
fiscali per cui deve escludersi che la frode fiscale
sia reato per il quale possa farsi luogo all’estradizione richiesta dal Governo del Belgio. Nella
suddetta convenzione le parti contraenti hanno
indicato all’art. 2 n. 16, tra i reati per cui è ammessa l’estradizione, l’escroquerie e la tromperie;
con tali termini essi peraltro hanno voluto chiaramente riferirsi a figure di reati contro il patrimonio commessi mediante frode, previsti in entrambi gli ordinamenti del diritto penale comune. La
semplice assonanza non è sufficiente a far ritenere che la frode fiscale rientri tra tali reati; la sua
natura di «reato fiscale» lo pone fuori dell’area di
criminalità comune che i contraenti hanno inteso
reprimere e ciò d’altra parte si ricava dal fatto che
ai reati fiscali non si fa alcun cenno nella convenzione in questione pur essendo stata la lista dei
reati più volte aggiornata. L’estradizione per i «reati fiscali» è invero ammessa solo nelle ipotesi in
cui sia espressamente prevista, mentre un’ulterio-
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98
re conferma, relativamente ai rapporti italo-belgi
della volontà a suo tempo espressa dai contraenti
escludente dall’applicazione della estradizione i
detti reati si ravvisa nella convenzione firmata a
Bruxelles il 20 novembre 1978, ratificata con L.
15 agosto 1981, n. 500, non ancora in vigore solo
per il mancato scambio delle ratifiche, la quale
all’art. 22 prevede che «in materia di tasse, di imposte e di dogane e di cambio, l’estradizione sarà
accordata alle condizioni previste dalla presente
convenzione nella misura in cui sarà stato deciso mediante scambio di lettere per ciascun reato
o categoria di reati specificatamente indicati». *
Cass. pen., sez. VI, 29 agosto 1994, n. 2293 (c.c.
13 maggio 1994), Verdoet.
f) Estradizione del cittadino.
l I provvedimenti di espulsione di un soggetto
verso l’Italia da parte di un Stato estero, ovvero
di consegna allo Stato italiano a seguito di espulsione, non pongono limiti all’esercizio dell’azione
penale in Italia e non comportano l’applicazione
della procedura di estradizione, trattandosi di atti
che, troncano ogni rapporto di ospitalità o di residenza con lo Stato che provvede alla consegna
e dimostra, in tal modo, il proprio disinteresse
ad attivare forme di protezione nei confronti di
tale soggetto. * Cass. pen., sez. IV, 13 luglio 2016,
n. 29628 (ud. 21 giugno 2016), Pugliese e altri.
[RV267465]
l L’art. 6 L. 30 gennaio 1963, n. 300, che ha
reso esecutiva la Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, accorda alle parti
contraenti la facoltà di rifiutare l’estradizione dei
propri cittadini, per cui anche l’estradabilità del
cittadino deve considerarsi la regola e non l’eccezione. Infatti, il moderno fondamento dell’estradizione consiste nel riconoscimento internazionale del dovere reciproco degli Stati di
consegnare gli imputati e i condannati, che si
trovano nel loro territorio, a quello Stato che ha
il maggior interesse alla punizione del colpevole,
salvo espresso divieto, preveduto dalle convenzioni internazionali. In tal senso dispone anche
l’art. 26 della Costituzione, che consente l’estradizione del cittadino quando essa sia prevista dalla
convenzione internazionale, e tale previsione è
contenuta nel citato art. 6 della Convenzione europea, che formula una mera facoltà di rifiuto,
come tale demandata alla discrezionalità dell’organo di governo e, quindi, sottratta alla deliberazione dell’autorità giudiziaria. * Cass. pen., sez. I,
3 febbraio 1987 (c.c. 3 novembre 1986, n. 3574),
Richter.
14. Computo e decorrenza dei termini. – Quando
la legge penale fa dipendere un effetto giuridico (124,
157, 163, 172, 173, 217) dal decorso del tempo, per il
computo di questo si osserva il calendario comune
(1722 c.p.p.).
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99
TITOLO I – LEGGE PENALE
Ogni qual volta la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della
decorrenza non è computato nel termine (1724 c.p.p.).
l La regola della proroga di diritto al giorno
successivo del termine che scade in giorno festivo
non opera con riferimento al termine per la presentazione della querela. * Cass. pen., sez. V, 16
giugno 2010, n. 23281 (ud. 26 marzo 2010), Ciani.
[RV247962]
l Poiché le pene detentive temporanee si applicano a giorni, mesi e anni, il giorno va computato
nella durata di ventiquattro ore – fermo restando il
principio per cui quello di inizio della detenzione
deve essere compreso nella durata di essa – mentre, per gli anni e per i mesi deve calcolarsi la durata che essi hanno in concreto secondo il calendario
comune, di modo che il periodo stabilito a mesi
deve considerarsi scaduto nel giorno del mese corrispondente a quello del suo inizio. * Cass. pen.,
sez. I, 1 dicembre 2009, n. 46149 (c.c. 4 novembre
2009), P.M. in proc. Di Giorgio. [RV245506]
l Il compimento dei 18 anni di età, ai fini del
raggiungimento della piena imputabilità penale,
va fissato secondo le regole stabilite dall’art. 14,
comma secondo, c.p. e dall’art. 172, comma
quarto, c.p.p. e, quindi, trattandosi di termine da
computarsi ad anni, allo scadere delle ore 24 del
giorno del diciottesimo compleanno del soggetto.
(Nella specie, in applicazione di tale principio,
è stato ritenuto che fosse da considerare ancora
minorenne un soggetto che aveva commesso un
reato intorno alle ore 23,40 del giorno del suo diciottesimo compleanno). * Cass. pen., sez. I, 11
febbraio 1999, n. 158 (c.c. 7 gennaio 1999), confl.
in proc. A. [RV212280]
l Il decorso del termine di prescrizione inizia, per i reati consumati, dal giorno in cui si è
esaurita la condotta illecita e, quindi, il computo
incomincia con le ore zero del giorno successivo
a quello in cui si è manifestata compiutamente
la previsione criminosa e termina alle ore ventiquattro del giorno finale calcolato secondo il calendario comune. * Cass. pen., sez. VI, 21 aprile
1998, n. 4698 (ud. 16 marzo 1998), Carpinteri G.
[RV211066]
l Ai termini di durata massima della custodia
cautelare fissati dall’art. 303 c.p.p. si applica la
regola generale dell’art. 14 c.p., secondo cui nel
computo non si comprende il giorno in cui è iniziata la decorrenza. In quanto stabiliti a mesi e ad
anni, infatti, occorre far riferimento al calendario
comune, sicché essi scadono nel giorno del mese
o dell’anno corrispondente a quello del suo inizio.
* Cass. pen., sez. VI, 29 settembre 1995, n. 2838
(c.c. 6 luglio 1995), Buonanuova ed altri. Conforme: Cass. pen., sez. V, 14 aprile 2010, n. 14317
(c.c. 10 febbraio 2010), Libertella. [RV203082]
l Ai fini del computo della detenzione espiata,
i giorni vanno calcolati per intero e non ad ore.
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Art. 15
(Nella specie la Corte ha rigettato il ricorso che
deduceva violazione di legge per avere il giudice
di sorveglianza erroneamente escluso un intero
giorno dal computo della detenzione espiata, in
relazione alla revoca di un permesso concesso per
13 ore). * Cass. pen., sez. I, 22 giugno 1992, n.
2122 (c.c. 14 maggio 1992), Dini.
15. Materia regolata da più leggi penali o da più
disposizioni della medesima legge penale. – Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima
legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla
disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti
stabilito (1).
(1) Si veda l’art. 9 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema
di depenalizzazione, di cui si riporta il testo, come modificato
dall’art. 95 del D.L.vo 30 dicembre 1999, n. 507.:
«9. (Principio di specialità). Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede
una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
«Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province
autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo
che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali.
«Ai fatti puniti dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 30 aprile
1962, n. 283, e successive modificazioni ed integrazioni, si applicano soltanto le disposizioni penali, anche quando i fatti stessi sono
puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti
e delle bevande.».
SOMMARIO:
a) Concorso di norme;
b) Concorso apparente di norme;
c) Principio di specialità;
d) Principio di assorbimento;
e) Reato progressivo;
f) Casistica; f-1) Concorso fra reati associativi; f2) Concorso di norme nei delitti contro la persona;
f-3) Concorso di norme nei delitti contro il patrimonio; f-4) Concorso di norme nei delitti contro la
pubblica amministrazione; f-5) Ipotesi di concorso
con l’illecito amministrativo; f-6) Concorso di norme nei reati contro la pubblica fede; f-7) Varie.
a) Concorso di norme.
l Perché si verifichi il concorso di norme (con
la conseguente necessità di individuare la norma
speciale che deroga a quella generale) è necessaria, in primo luogo, l’identità della natura delle
norme, che devono essere, tutte, norme penali, e,
successivamente, l’identità dell’oggetto di tali norme, che devono regolare, tutte la stessa materia;
devono esser, perciò, caratterizzate dall’identità
del bene alla cui tutela sono finalizzate. (Fattispecie relativa a inosservanza delle prescrizioni
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Art. 15
LIBRO I – DEI REATI
inerenti alla libertà controllata con violazione
di quella avente ad oggetto la sospensione della
patente di guida, in ordine alla quale la S.C. ha
ritenuto insussistente il concorso di norme disciplinate dall’art. 15 c.p., sul rilievo che, se la disposizione che prevede e punisce la guida di un
veicolo con patente sospesa è di indubbia natura
penale, non lo è la norma dell’art. 108 della legge
n. 689 del 1981, la quale ha carattere esclusivamente procedimentale, nell’ambito del procedimento che concerne l’esecuzione delle sentenze
di condanna a pena pecuniaria nell’ipotesi in cui
l’esecuzione ordinaria di tali sentenze abbia esito
negativo per insolvibilità del condannato). * Cass.
pen., Sezioni Unite, 13 settembre 1995, n. 9568
(ud. 21 aprile 1995), La Spina. [RV202011]
l Ove una stessa materia sia regolata da più
leggi penali o da più disposizioni della medesima
legge penale, l’applicazione della disciplina speciale non esclude quella della disciplina generale quando quest’ultima possa integrare la prima
per gli aspetti in cui difetti di norme regolanti la
stessa materia. (Fattispecie in tema di disciplina
antinfortunistica in miniere, cave e torbiere). *
Cass. pen., sez. IV, 13 maggio 1980, n. 5936 (ud. 5
dicembre 1979), Ceschia.
l Per aversi concorso di norme ed applicazione della legge speciale rispetto a quella generale ai sensi dell’art. 15 c.p. è necessario che le
disposizioni plurime regolino la stessa materia,
abbiano la stessa obiettività giuridica e che la
norma speciale, considerata nella sua fattispecie
legale e nei suoi elementi costitutivi, abbracci interamente l’altra. * Cass. pen., sez. V, 9 gennaio
1980, n. 373 (ud. 11 ottobre 1979), Murdaca.
b) Concorso apparente di norme.
l Sussiste concorso apparente di norme tra il
delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) e quello
di abuso di autorità mediante ingiurie nei confronti di inferiore di grado (art. 196 c.p.m. p.), che
rimane dunque assorbito nel primo. Nel delitto
di cui all’art. 610 c.p., infatti, il soggetto attivo,
con violenza o minaccia, mira a costringere la vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa,
mentre, nel reato militare, la minaccia di ingiusto danno, formulata dal superiore nei confronti
dell’inferiore, è fine a sé stessa, poiché la norma
non specifica lo scopo che l’agente intende raggiungere. * Cass. pen., sez. V, 29 dicembre 1999,
n. 14718 (ud. 18 novembre 1999), Simionato M.
ed altri. [RV215194]
l Poiché il concorso apparente di norme coesistenti postula che una determinata norma incriminatrice speciale presenti in sè tutti gli elementi costitutivi di un’altra generale oltre che un
elemento ulteriore cosiddetto specializzante, non
può ravvisarsi alcun concorso di norme quando
il giudice di merito escluda, in fatto, la presenza di un elemento costitutivo di una di esse, anche se tale esclusione riguardi un reato diverso
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100
da quelli cui si riferiscono le norme in concorso.
(Nella specie, i giudici di merito, nell’affermare
la responsabilità degli imputati per il reato di
cui all’art. 1, comma primo, della legge 7 agosto
1982, n. 516, avevano escluso che gli imputati
stessi avessero compiuto «artifici e raggiri» atti a
indurre in errore lo Stato, essendosi limitati a non
presentare le prescritte dichiarazioni dei redditi e
dell’Iva. Oltre ad aver pronunciato condanna per
tale reato, avevano anche dichiarato gli imputati
responsabili del delitto di cui all’art. 4, comma
primo, lett. b), della legge 7 agosto 1982, n. 516
per avere distrutto o comunque occultato la contabilità di alcune società di comodo da loro create, al fine di impedire la ricostruzione del volume
di affari e l’individuazione dei clienti e fornitori,
dichiarando assorbito in tale reato quello di truffa, pure contestato, per avere i prevenuti – con
artifici e raggiri consistiti nella creazione di società di comodo e altre attività illecite – indotto in
errore la pubblica amministrazione non versando l’Iva fatturata e riscossa. La Corte Suprema,
enunciando il principio di cui sopra, ha annullato
la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici
di merito avevano dichiarato assorbito il reato di
truffa, chiarendo che – dopo l’affermazione che
gli imputati non avevano compiuto «artifici e raggiri» – avrebbero dovuto dichiarare insussistente
il reato di truffa). * Cass. pen., sez. VI, 25 novembre 1998, n. 12345 (ud. 23 ottobre 1998), Baudini
D.L. e altro. [RV212322]
l Tra l’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) e l’art. 589 stesso codice
(omicidio colposo) esiste un concorso apparente
di norme, che va risolto ex art. 15 c.p. con l’applicazione esclusiva della norma speciale. La quale
è proprio quella dell’art. 586 c.p., che prevede alcuni elementi comuni con la norma dell’art. 589
citato (condotta umana che cagiona l’evento della
morte di una persona) e alcuni elementi aggiuntivi
esclusivi (colpa consistente nella commissione di
un delitto doloso, pena aggravata). Ne deriva che
quando la morte è conseguenza di altro delitto non
può applicarsi la norma dell’art. 589 c.p., ma deve
applicarsi soltanto quella dell’art. 586 stesso codice. * Cass. pen., sez. III, 9 febbraio 1996, n. 1602
(ud. 6 dicembre 1995), Sonderegger. [RV204470]
c) Principio di specialità.
l In caso di concorso tra disposizione penale
incriminatrice e disposizione amministrativa
sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto,
deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all’altra
all’esito del confronto tra le rispettive fattispecie
astratte. * Cass. pen., Sezioni Unite, 21 gennaio
2011, n. 1963 (c.c. 28 ottobre 2010), P.G. in proc.
Di Lorenzo. [RV248722]
l In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità
(art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individua-
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101
TITOLO I – LEGGE PENALE
zione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi
integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve
procedersi mediante il confronto strutturale tra
le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a
definirle. * Cass. pen., Sezioni Unite, 19 gennaio
2011, n. 1235 (c.c. 28 ottobre 2010), Giordano ed
altri. [RV248864]
l In ipotesi di concorso delle imputazioni di
oltraggio e di lesioni volontarie aggravate dalla
qualità di pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 61, n.
10, c.p., devono trovare applicazione entrambe le
norme, in considerazione dei differenti beni giuridici protetti dalle due previsioni legislative. Non
può, infatti, operare, in tal caso il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., perché la disposizione
presuppone che più norme incriminatrici regolino
la stessa materia, abbiano, cioè la stessa obiettività giuridica, intesa nel senso di identità del bene
protetto. * Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 1998, n.
7516 (ud. 26 maggio 1998), Izzo P. [RV211250]
l L’ordinamento positivo è ispirato, in materia
di concorso apparente di norme, al principio della
specialità, consacrato nell’art. 15 c.p. Detto principio postula che una determinata norma incriminatrice (speciale) presenti in sé tutti gli elementi
costitutivi di un’altra (generale), oltre a quelli caratteristici della specializzazione; è necessario, cioè,
che le due disposizioni appaiano come due cerchi
concentrici, di diametro diverso, per cui quello
più ampio contenga in sé quello minore, ed abbia,
inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere
i requisiti aggiuntivi della specialità (nella specie
si è rilevata l’assenza di un rapporto di specialità
tra il reato di sfruttamento della prostituzione e
quello di concussione, osservandosi che nel primo
delitto non rientra – se non come mera circostanza
e quindi non come elemento essenziale – l’abuso
di un pubblico potere o di una pubblica funzione,
mentre nel secondo non è compreso il requisito
della provenienza del denaro, consapevolmente e
reiteratamente ricevuto dal colpevole, dal meretricio del soggetto passivo). * Cass. pen., sez. VI, 26
marzo 1993, n. 3018 (ud. 12 gennaio 1993), Costarelli. Conforme quanto al principio di diritto, Cass.
pen., sez. VI, 19 aprile 1969, n. 922, Bruni.
d) Principio di assorbimento.
l Il delitto di violenza sessuale (nella specie,
di gruppo: art. 609 octies c.p.), considerato come
circostanza della forma aggravata dell’omicidio,
se commesso in un unico contesto temporale,
non concorre formalmente con esso, ma in esso
resta assorbito, confluendo nella figura del reato complesso in senso stretto di cui all’art. 84,
comma primo, c.p., punibile con la pena dell’ergastolo. * Cass. pen., sez. I, 22 febbraio 2005, n.
6775 (ud. 28 gennaio 2005), P.G. in proc. Erra ed
altri. [RV230149]
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Art. 15
l Deve ammettersi il concorso tra il reato
di illecita detenzione di sostanza stupefacente
commesso da persona armata ed il reato di illecita detenzione di arma; in senso contrario non
potrebbe invocarsi né il principio di specialità in
quanto il bene giuridico protetto (ordine pubblico
e salute pubblica) è diverso nelle rispettive norme
incriminatrici, né il principio dell’assorbimento
mancando identità degli elementi costitutivi tra
l’aggravante predetta ed il reato di detenzione illecita di arma posto che l’aggravante in questione
non postula illiceità della detenzione e pertanto
non può dirsi costituito da un fatto che integrerebbe per sé stesso reato. * Cass. pen., sez. VI,
4 maggio 1994, n. 5213 (c.c. 13 gennaio 1994),
Guarneri. [RV197792]
l L’elemento materiale del reato di attentato contro i diritti politici del cittadino, previsto
dall’art. 294 c.p., consiste in una condotta esplicantesi in violenza, minaccia o inganno che si
traduce nell’impedimento all’esercizio di un diritto politico o nella determinazione del cittadino
stesso ad esercitarlo in maniera difforme dalla
sua volontà. L’art. 610 c.p., che prevede il reato di
violenza privata, delinea una fattispecie generica
e sussidiaria, sicché questa è destinata ad essere
assorbita in quella specifica di cui all’art. 294 c.p.,
in virtù del principio di specialità fissato dall’art.
15 c.p. (Fattispecie connotata dalla minaccia nei
confronti di un candidato alla carica di consigliere comunale, al fine di costringerlo a ritirare
la candidatura, con la prospettazione del rigetto
della domanda di assunzione come giardiniere
del comune, dallo stesso presentata. La S.C. ha
statuito che correttamente il giudice di merito
aveva ravvisato il delitto ipotizzato dall’art. 294
c.p.). * Cass. pen., sez. I, 2 dicembre 1993, n.
11055 (ud. 14 ottobre 1993), Renna.
l Non si verifica assorbimento della contravvenzione di cui all’art. 684 c.p. nel delitto di rivelazione dei segreti di ufficio previsto dall’art. 326
dello stesso codice. Invero il concorso apparente di norme non è configurabile sulla base della
identità del bene giuridico protetto dalle disposizioni apparentemente confliggenti, presupponendo, invece, un medesimo fatto. (Nella specie
si è precisato che i fatti vennero realizzati con
azioni diverse, distinte anche nel tempo: con la
comunicazione all’estraneo della notizia segreta
fu consumato il reato di cui all’art. 326 c.p.; successivamente, con la pubblicazione degli atti, fu
consumata la contravvenzione indicata nell’art.
684 dello stesso codice). * Cass. pen., Sezioni
Unite, 19 gennaio 1982, n. 420 (ud. 28 novembre
1981), Emiliani.
e) Reato progressivo.
l Il metodo mafioso costituisce l’elemento
specializzante della fattispecie di cui all’art. 416
bis c.p., introdotta con la L. 13 settembre 1982
n. 646, rispetto all’associazione per delinquere di
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Art. 15
LIBRO I – DEI REATI
tipo comune (art. 416 c.p.). La condotta riferita
a gruppo delinquenziale costituito ed operante da tempo, nella quale la riscontrata adozione
del metodo mafioso era penalmente indifferente prima di tale data (salvo che essa non avesse
realizzato da parte degli associati altri reati nei
quali l’intimidazione o la minaccia fossero elemento costitutivo o circostanza aggravante), ha
assunto rilievo specializzante a decorrere dalla
suddetta data, nel senso che l’accertato impiego
del metodo in questione determina la punibilità dei partecipanti al sodalizio nei termini della
nuova ipotesi edittale. In tale ipotesi, l’effetto di
assorbimento, in applicazione dell’art. 15 c.p., del
reato meno grave in quello più grave deriva non
dall’applicazione delle norme sul reato progressivo – giacchè la progressione tra le due fattispecie
penali di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p. è nella
successione delle leggi e non nelle condotte penalmente punibili – bensì dalla considerazione della
loro comune natura permanente e degli elementi
comuni e specializzanti della più grave figura di
reato rispetto a quella relativamente meno grave.
* Cass. pen., sez. I, 6 giugno 1992, n. 6784 (ud. 1
aprile 1992), Bruno ed altri.
f) Casistica.
f-1) Concorso fra reati associativi.
l Qualora il delitto di cui all’art. 73 D.P.R.
n. 309/90 sia commesso anche avvalendosi della
forza intimidatrice dell’appartenenza ad una associazione mafiosa, la collaborazione prestata
per evitare che l’attività criminosa sia portata a
conseguenze ulteriori individua una attenuante
che si colloca in rapporto di specialità rispetto
a quella prevista per la dissociazione sia perché
specifica in relazione ai reati in materia di stupefacenti sia perché più favorevole prevedendo
una riduzione della pena dalla metà ai due terzi. *
Cass. pen., sez. II, 16 aprile 2003, n. 18100 (ud. 25
novembre 2002), Stanganelli ed altri. [RV224678]
l È possibile il concorso fra i reati associativi
di cui agli artt. 416 bis c.p. e 74 D.P.R. 9 ottobre
1990, n. 309 quando si sia in presenza, da una parte, di un organismo (quello di stampo mafioso) a
carattere federalistico e verticistico, raggruppante l’intera massa degli associati, dall’altro di organismi che, operando nello specifico campo del
traffico degli stupefacenti, fruiscano, pur sotto la
sorveglianza e con il contributo logistico dell’organizzazione di stampo mafioso, di una certa
libertà operativa e siano (eventualmente) differenziati soggettivamente dallo schema strutturale
di detta ultima organizzazione. Ne consegue che
proprio per la pur limitata autonomia dell’associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti
e la possibile, almeno parziale, differenza nella
componente soggettiva, l’affiliazione all’organizzazione mafiosa non è da sola sufficiente a
dimostrare la partecipazione all’altra, per la cui
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102
sussistenza occorre verificare se il soggetto risulti
inserito e partecipe della particolare, autonoma
finalità dell’illecita circolazione dello stupefacente. * Cass. pen., sez. I, 6 giugno 1996, n. 2620 (c.c.
24 aprile 1996), Marsano. [RV204902]
l In tema di associazione per delinquere e di
associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, al fine di distinguere le ipotesi di concorso apparente di norme da quelle di concorso
formale di reati occorre far riferimento al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., fondato sul
rapporto logico formale fra le norme incriminatrici, mentre gli altri criteri (sussidiarietà, assorbimento, progressione degli illeciti) basati su giudizi di valore, risolti con la prevalenza della sola
sanzione prevista per l’ipotesi più grave, non sono
utilizzabili, in quanto i due eventi di pericolo che
le predette associazioni realizzano (pericolo di
diffusione di sostanze stupefacenti l’una, prevalente pericolo di commissione di delitti contro il
patrimonio e le persone l’altra) non si pongono
in rapporto di graduazione di dignità e gravità di
offesa ai medesimi beni, bensì in rapporto di diversità di beni giuridici tutelati. * Cass. pen., sez.
VI, 25 novembre 1995, n. 11413 (ud. 14 giugno
1995), Montani ed altri. [RV203644]
l Il delitto previsto dall’art. 74 D.P.R. n.
309/1990 costituisce norma speciale rispetto
all’art. 416 c.p., perché a tutti gli elementi costitutivi della associazione per delinquere – a) vincolo
tendenzialmente permanente o comunque stabile; b) indeterminatezza del programma criminoso; c) esistenza di una struttura organizzativa
adeguata allo scopo – aggiunge quello specializzante della natura dei reati fini programmati, che
devono essere quelli previsti dall’art. 73 D.P.R. cit.
In forza del principio di specialità (art. 15 c.p.)
la costituzione di un’associazione finalizzata
al solo traffico di stupefacente non potrà essere
punita a doppio titolo (ex art. 416 c.p. e art. 73
T.U. 309/90), mentre la costituzione di una associazione finalizzata alla commissione, sia di reati
di stupefacente che di reati diversi, potrà essere
punita, oltre che dal citato art. 73, anche dall’art.
416 c.p., con riferimento a quell’ulteriore evento giuridico, lesivo del bene tutelato, ravvisabile
nella costituzione di una seconda situazione di
pericolo, autonomamente ravvisabile, con particolare riferimento a quegli elementi del reato associativo indicati sub b) e c) che, rientrando nella
previsione di carattere generale, si sottraggono
a quella speciale e, perciò, sfuggono, alla disposizione dell’art. 15 c.p. * Cass. pen., sez. VI, 25
novembre 1995, n. 11413 (ud. 14 giugno 1995),
Montani ed altri. [RV203643]
l La disposizione di cui all’art. 74, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, che punisce l’associazione per
delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, non si pone in rapporto di specialità con
l’art. 416 bis c.p. (associazione per delinquere di
stampo mafioso) in quanto i due reati si distinguo-
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103
TITOLO I – LEGGE PENALE
no nettamente, essendo caratterizzato il secondo
dal metodo mafioso, assente nel primo, il quale
contiene un elemento costituito dalla natura dei
reati-fine, specializzante, solo rispetto al delitto di
cui all’art. 416 c.p.; ciò significa che fra le predette
norme incriminatrici esiste un rapporto di specialità reciproca, che non consente l’applicazione del
principio sancito dall’art. 15 c.p., ma rende configurabile il concorso formale fra i due reati. Pertanto, se l’esistenza di un sodalizio criminoso non
mafioso finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti configura il reato di cui all’art. 74, D.P.R. n.
309/1990 e non anche quello di cui all’art. 416 c.p.,
il fatto di una organizzazione mafiosa che si dedichi a detto traffico rientra nell’ambito applicativo
di entrambe le fattispecie criminose. * Cass. pen.,
sez. II, 29 settembre 1995, n. 478 (ud. 4 maggio
1995), Allegretto ed altri. [RV202811]
l Il delitto di partecipazione alla associazione
per delinquere finalizzata all’esercizio abusivo del
giocodel lotto, in quanto reato-mezzo, non può ritenersi assorbito, ex art. 15 c.p., nel delitto di esercizio del gioco del lotto clandestino, con premi in
danaro, ordinato in modo simile al lotto pubblico,
che è un reato fine. L’applicazione del principio di
specialità di cui alla ricordata norma del codice
presuppone, infatti, che una delle norme (quella
cosiddetta speciale) presenti nella sua struttura
tutti gli elementi propri dell’altra (cosiddetta generica), oltre a quelli caratteristici propri della
specialità; una situazione, invece, non riscontrabile con riguardo alle fattispecie in questione, che
prevedono reati distinti ed aventi diverse obiettività giuridiche. * Cass. pen., sez. I, 23 luglio 1993,
n. 1560 (c.c. 14 aprile 1993), Manna.
f-2) Concorso di norme nei delitti contro la persona.
l Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia concorre e non è assorbito nel reato
di estorsione, trattandosi di fattispecie preordinate alla tutela di beni giuridici diversi: la disposizione di cui all’art. 513 bis cod. pen. ha come scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, del
normale svolgimento delle attività produttive a
esso inerenti, mentre il reato di estorsione tende a
salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei
singoli. * Cass. pen., sez. II, 6 febbraio 2014, n.
5793 (ud. 24 ottobre 2013), Campolo. [RV258200]
l I reati di sequestro di persona, rapina e tentato omicidio possono concorrere tra loro non
sussistendo alcun rapporto di consunzione o sussidiarietà tra gli stessi, attesa la diversità dei beni
giuridici tutelati che, da un lato, non consente di
ritenere assorbiti tra loro gli interessi tutelati dalle fattispecie di sequestro di persona e rapina e,
dall’altro, esclude che tali ultime condotte costituiscano il necessario antefatto del delitto di tentato
omicidio. (In motivazione la Corte ha aggiunto
che non è applicabile il criterio della consunzione, in quanto il tentato omicidio non comprende
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Art. 15
in sè i fatti di rapina e sequestro di persona, né
esaurisce l’intero disvalore del fatto concreto). *
Cass. pen., sez. I, 12 agosto 2010, n. 31735 (ud. 1
luglio 2010), Samuele. [RV248094]
l L’omicidio volontario di donna in stato
di gravidanza non assorbe il reato di procurato
aborto, trovando applicazione in simile ipotesi la
disposizione sul concorso formale di reati e non
quella sul concorso apparente di norme. * Cass.
pen., sez. I, 17 maggio 2010, n. 18514 (ud. 17 marzo 2010), D.G. [RV247203]
l Per il principio di specialità di cui all’art. 15
c.p. non è configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza (fisica o morale) sia stata
usata direttamente ed esclusivamente per uno dei
fini particolari previsti da altre ipotesi di reato,
quale il sequestro di persona, allorché la violenza esercitata sulla vittima sia stata unicamente
rivolta a privarla della libertà. * Cass. pen., sez. II,
10 dicembre 2004, n. 47972 (ud. 1 ottobre 2004),
Caldara ed altri. [RV230710]
l Non sussiste rapporto di specialità (art. 15
c.p.) tra il delitto di maltrattamenti in famiglia
(art. 572 c.p.) e quello di riduzione in schiavitù
(art. 600 c.p.), trattandosi di reati che tutelano interessi diversi – la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo status libertatis dell’individuo nella seconda – e che presentano un
diverso elemento materiale, in quanto nell’ipotesi
dell’art. 572 c.p. è necessario che un componente
della famiglia sottoponga un altro a vessazioni,
mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza
che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere. * Cass. pen., sez. V,
30 settembre 2002, n. 32363 (ud. 1 luglio 2002),
Dimitrijevic Dragojub. [RV222621]
l Sussiste concorso materiale tra i reati previsti dalle norme relative alla prevenzione degli
infortuni sul lavoro ed i reati di omicidio colposo
e lesioni personali colpose, atteso che la diversa
natura dei reati medesimi (i primi di pericolo e
di mera condotta, i secondi di danno e di evento),
il diverso elemento soggettivo (la colpa generica
nei primi, la colpa specifica nei secondi, nell’ipotesi aggravate di cui al comma 2 dell’art. 589 e al
comma 3 dell’art. 590), i diversi interessi tutelati
(la prevalente finalità di prevenzione dei primi,
e lo specifico bene giuridico della vita e dell’incolumità individuale protetto dai secondi), impongono di ritenere non applicabile il principio
di specialità di cui all’art. 15 del codice penale. *
Cass. pen., sez. IV, 3 ottobre 2001, n. 35773 (ud. 6
giugno 2001), Vizioli A. [RV219970]
l Per il principio di specialità di cui all’art. 15
c.p., non è configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza (fisica o morale) sia stata
usata per uno dei fini particolari previsti da altre
ipotesi di reato, come un sequestro di persona,
posto che il reato di cui all’art. 610 c.p., avente
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Art. 15
LIBRO I – DEI REATI
carattere sussidiario, non è applicabile se il fatto
ricade sotto altro titolo delittuoso specificamente
previsto dalla legge. (Nel caso di specie, la violenza esercitata sulla vittima era stata diretta immediatamente a privarla della libertà personale per
alcune ore, costringendola a salire, mediante minaccia con una pistola, su una autovettura: la S.C.
ha ritenuto il reato di violenza privata assorbito
in quello di sequestro di persona, enunciando il
principio di cui in massima). * Cass. pen., sez. I,
26 marzo 1995, n. 4522 (ud. 24 marzo 1995), Di
Bella. Conforme, Cass. pen., sez. V, 11 novembre
1999, n. 12851, Barbieri F. [RV201138]
l In tema di rapina, la violenza, consistita nel
porre taluno in stato d’incapacità d’intendere e di
agire, non può ritenersi assorbita nell’elemento
costitutivo del delitto di tentato omicidio trattandosi di condotta relativa alla commissione di
distinte fattispecie criminose, che mantengono la
loro autonomia e tra le quali è ammissibile il concorso. Infatti, rispetto alla identità della condotta (nella specie avere tramortito una donna con
pugni e calci), nel tentato omicidio è rilevabile il
dolo diretto, cioè l’intenzione di uccidere, mentre
nella rapina c’è il quid pluris di porre la vittima
in stato d’incapacità d’intendere e di agire proprio
per meglio eseguire il reato, sicché non trova applicazione il principio di specialità (art. 15 c.p.), in
virtù del quale l’una fattispecie criminosa sarebbe
assorbita nell’altra, ma ricorre, invece, un tipico
caso di concorso formale di reati. (Fattispecie relativa a rigetto del ricorso con cui si era lamentata
l’errata contestazione dell’aggravante di cui all’art.
628, comma 3, n. 2 c.p.). * Cass. pen., sez. I, 17
giugno 1994, n. 7196 (ud. 10 maggio 1994), Tilev.
l Il reato di violenza contro un inferiore previsto dall’art. 195 c.p.m.p., è plurilesivo, dal momento che offende la vita o l’integrità fisica del militare di grado inferiore e l’interesse alla coesione,
al servizio e all’ordine delle forze armate. Pertanto,
non è ravvisabile una ipotesi di concorso formale
tra il predetto reato e quello di lesioni volontarie,
di cui all’art. 582 c.p., bensì un concorso apparente di norme avuto riguardo all’obiettività giuridica
del reato militare, che comprende anche quella del
reato comune, e alla struttura normativa del primo, che è assorbente rispetto a quella del secondo, perchè nel reato militare sono compresi anche
gli elementi obiettivi e subiettivi propri del reato
comune. (Nella specie la S.C. ha risolto il conflitto
positivo, dichiarando la giurisdizione del tribunale
militare). * Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 1991 (c.c.
31 ottobre 1991, n. 4069), Pergolesi.
f-3) Concorso di norme nei delitti contro il patrimonio.
l L’art. 642 cod. pen., strutturato come una
norma penale mista del tutto peculiare, prevede
nei suoi commi primo e secondo cinque diverse
fattispecie di reato – in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o
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alterazione della polizza, nel comma primo; la
mutilazione fraudolenta della propria persona,
la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione
relativi al sinistro, nel comma secondo – che,
ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro. (Fattispecie in cui la Corte ha
ritenuto configurabile il concorso di reati nel caso
di fraudolenta distruzione della cosa propria e
di fraudolenta esagerazione del danno). * Cass.
pen., sez. II, 17 gennaio 2014, n. 1856 (ud. 17 dicembre 2013), Unipol Assicurazioni Spa e altro.
[RV258012]
l I reati di cui agli artt. 629 cod. pen. e 12,
comma quinto, D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 possono concorrere, in quanto le relative fattispecie
incriminatrici sono poste a tutela di beni diversi
(rispettivamente l’inviolabilità del patrimonio e
della libertà personale il primo, la sicurezza interna il secondo) ed integrate da condotte differenti
(in particolare, integrate quelle del primo delitto
da violenza e minacce finalizzate a procurarsi un
ingiusto profitto, quella del secondo da condotta
di favoreggiamento della permanenza sul territorio di stranieri extracomunitari irregolari). * Cass.
pen., sez. II, 13 gennaio 2014, n. 933 (ud. 11 ottobre 2013), Debbiche Helmi e altri. [RV258008]
l La fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter
c.p. (inserito dall’art. 4 della legge 29 settembre
2000, n. 300) che sanziona l’indebita percezione di
erogazioni a danno dello Stato costituisce norma
sussidiaria rispetto al reato di truffa di cui all’art.
640 bis c.p. il quale esaurisce l’intero disvalore del
fatto ed assorbe l’interesse tutelato dalla prima previsione. Ne consegue che il reato di cui all’art. 316
ter può trovare applicazione solo ove non ricorra
la fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p. * Cass. pen.,
sez. VI, 23 novembre 2001, n. 41928 (ud. 24 settembre 2001), P.M. in proc. Tammerle. [RV220200]
l Tra la fattispecie di cui all’art. 611 e quella
di cui all’art. 629 c.p., nella forma consumata o
tentata, non sussiste alcun rapporto di specialità
che si presenti riconducibile alla nozione accolta
nell’art. 15 dello stesso codice, in quanto – a parte la diversità di beni giuridici tutelati dalle due
fattispecie – nel primo reato la condotta presa in
considerazione dalla legge è quella diretta a costringere altri a commettere un reato, mentre nel
secondo reato la condotta incriminata è quella
diretta a conseguire – in coerenza con la natura
di reato contro il patrimonio che è propria della
figura dell’estorsione – un ingiusto profitto con
altrui danno patrimoniale, sicché si riscontra in
ciascuna delle due ipotesi criminose una diversità
di condotte finalistiche, una diversità di beni aggrediti ed una diversità di attività materiali che
non lascia sussistere tra esse quella relazione di
omogeneità che le rende riconducibili ad unum
nella figura del reato speciale ex art. 15 c.p. (In applicazione di detto principio la Corte ha rigettato
il motivo con il quale il ricorrente, sulla base di
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TITOLO I – LEGGE PENALE
un asserito rapporto di specialità bilaterale e reciproca tra le due fattispecie, sosteneva l’avvenuto
assorbimento nel delitto di estorsione di quello
previsto dall’art. 611 c.p.). * Cass. pen., sez. II, 21
marzo 1997, n. 2704 (ud. 7 marzo 1997), Bonaiuto ed altri. [RV207315]
l In applicazione del principio di specialità
sancito dall’art. 15 c.p. e del principio secondo cui
lo stesso fatto non può essere posto a carico dell’agente una seconda volta, la violenza o minaccia
adoperata dopo la sottrazione di una cosa mobile
altrui, per assicurare a sé o ad altri il possesso della
cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità, è elemento costitutivo del reato di rapina
impropria, di cui all’art. 628, primo capoverso, c.p.
valutato dal legislatore per configurare tale fattispecie di reato, e pertanto non può essere valutata
una seconda volta a titolo di circostanza aggravante del nesso teleologico prevista dall’art. 576,
n. 1, c.p. in relazione all’art. 61, n. 2, c.p. * Cass.
pen., sez. I, 25 maggio 1996, n. 5189 (ud. 18 marzo
1996), Semeraro ed altro. [RV204666]
l Il delitto di furto di materiale inerte sottratto dall’alveo di un torrente mediante escavazione
dello stesso non rimane assorbito nel reato di cui
agli artt. 133, 142 R.D. 25 luglio 1904, n. 523, e
374 L. 20 marzo 1865, n. 2248 ma concorre con
questo. Il principio di specialità previsto dall’art.
15 c.p. non può infatti, operare, in quanto la contravvenzione punisce comportamenti dal legislatore ritenuti pericolosi per l’assetto idrogeologico
del territorio e, quindi, lesivi di un interesse essenzialmente pubblico, che può risultare in concreto
vulnerato anche senza che abbiano luogo l’impossessamento e l’asportazione del materiale, mentre
l’essenza giuridica del delitto di furto è costituita
dalla violazione del diritto di proprietà, pubblica
o privata, e la sua materialità postula necessariamente la sottrazione e l’impossessamento della
cosa. * Cass. pen., sez. IV, 20 ottobre 1995, n. 10453
(ud. 25 settembre 1995), Aligliò. [RV202278]
l Il reato di fraudolenta distruzione della cosa
propria (art. 642 c.p.) costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa (art. 640
c.p.); nel primo, infatti, sono presenti gli stessi
elementi della condotta caratterizzanti il secondo
ed, in più, come elemento specializzante, il fine
di tutela del patrimonio dell’assicuratore. * Cass.
pen., sez. II, 2 maggio 1995, n. 4828 (ud. 12 dicembre 1994), P.M. in proc. Bonnato. [RV201184]
f-4) Concorso di norme nei delitti contro la pubblica amministrazione.
l Il delitto di turbata libertà degli incanti (art.
353 c.p.) ha natura plurioffensiva, tutelando la
norma non solo la libertà di partecipare alle gare
nei pubblici incanti, ma anche la libertà di chi vi
partecipa ad influenzarne l’esito, secondo la libera concorrenza ed il gioco della maggiorazione
delle offerte. Ne consegue che, in base al principio
di specialità espresso dall’art. 15 c.p., tale delitto
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Art. 15
non può concorrere con quello di estorsione (art.
629 c.p.), con la conseguenza che quest’ultimo
deve ritenersi assorbito nel primo. * Cass. pen.,
sez. VI, 28 aprile 2004, n. 19607 (c.c. 3 marzo
2004), P.M. in proc. Del Regno. [RV228964]
l Atteso il carattere residuale del reato di
abuso di ufficio previsto dall’art. 323 c.p., anche
dopo la novella della L. 16 luglio 1997, n. 234, deve
escludersi, in applicazione della regola della specialità sancita dall’art. 15 c.p., il concorso formale
di tale reato con quelli, più gravi, di violenza privata e lesioni, aggravati entrambi ex art. 61, n. 9 c.p.
* Cass. pen., sez. VI, 31 dicembre 2003, n. 49536
(ud. 1 ottobre 2003), Donno ed altri. [RV228859]
l Tra il reato di istigazione alla corruzione propria di cui all’art. 322, secondo comma, c.p. e quello
di subornazione, previsto dall’art. 377 c.p., nel testo
risultante dall’art. 11, sesto comma, del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella L. 7 agosto 1992,
n. 356, qualora l’attività illecita dell’agente si rivolga nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, intercorre un rapporto di specialità ai
sensi dell’art. 15 c.p. in virtù del quale deve trovare
applicazione solo l’art. 377 c.p., sia in relazione al
profilo soggettivo, per la specificità della persona
coinvolta (sempre che abbia già assunto la veste di
testimone per effetto di citazione a comparire), sia
al profilo oggettivo, per la specificità dell’atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, alla
manipolazione dell’accertamento tecnico. * Cass.
pen., sez. VI, 30 marzo 1999, n. 4062 (ud. 7 gennaio
1999), Pizzicaroli G. [RV214146]
l Tra il reato di corruzione e quello di finanziamento illecito dei partiti, deve ritenersi ammissibile il concorso formale in quanto diverse
sono le condotte e diversi i beni giuridici tutelati
dalle rispettive norme incriminatrici: il buon andamento della Pubblica Amministrazione, per
quanto attiene alla corruzione, ed il metodo democratico, con riguardo all’altro reato. * Cass.
pen., sez. VI, 25 marzo 1999, n. 3926 (ud. 16 ottobre 1998), Moscano. [RV212995]
l In base al principio di specialità deve escludersi concorso formale tra il reato di abuso di
ufficio di cui all’art. 323 comma 2 c.p.p. e quello
di corruzione di cui all’art. 319 c.p.; ciò peraltro
non comporta che non possa aversi un concorso
materiale tra i predetti: il che si verifica quando
sussistano distinte condotte accompagnate dall’elemento psicologico previsto dalle citate norme
incriminatrici. (Principio affermato con riguardo
a fattispecie nella quale il pubblico ufficiale non
si era limitato solo agli atti contrari ai doveri di
ufficio, oggetto della corruzione e costituiti dalla
redazione di atti pubblici falsi e dalla soppressione di atti pubblici, ma aveva anche ordinato
fraudolentemente, ai suoi collaboratori ignari, di
redigere siffatti atti così dovendo rispondere del
fatto abusivo da questi ultimi posto in essere). *
Cass. pen., sez. VI, 26 marzo 1996, n. 3030 (ud. 16
febbraio 1996), Travaglione. [RV204792]
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Art. 15
LIBRO I – DEI REATI
f-5) Ipotesi di concorso con l’illecito amministrativo.
l Il delitto di frode in commercio di cui
all’art. 515 c.p. non viene assorbito, ma concorre
con l’illecito amministrativo previsto dall’art. 44
della legge 4 luglio 1967 n. 580 sulla produzione
di pasta alimentare di grano duro. Le due norme,
infatti, riguardano due oggetti giuridici diversi,
in quanto la norma di cui all’art. 515 c.p. tutela
l’interesse degli acquirenti alla correttezza ed alla
lealtà degli scambi commerciali, mentre le disposizioni della legge 580 del 1967 tutelano la salute pubblica e l’interesse pubblico alla regolarità
nell’impiego di ingredienti destinati all’alimentazione. * Cass. pen., sez. III, 11 novembre 1998, n.
11640 (ud. 14 luglio 1998), Sinito N. [RV212050]
l A seguito dell’entrata in vigore del nuovo
codice della strada, approvato con il decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, l’inottemperanza
all’invito impartito dalla competente autorità di
presentarsi, entro il termine stabilito nell’invito
medesimo, ad uffici di polizia per fornire informazioni o esibire documentazione ai fini dell’accertamento di violazioni amministrative previste
dal detto codice, non è punibile ai sensi dell’art.
650 c.p., poiché il comma ottavo dell’art. 180 del
nuovo codice della strada sanziona tal genere di
inottemperanze con pena pecuniaria amministrativa, di tal che detta condotta non costituisce più
illecito penale, in applicazione del principio di
specialità di cui all’art. 9, comma primo, della legge 24 novembre 1981 n. 689, ma mero illecito amministrativo. * Cass. pen., sez. I, 23 aprile 1998,
n. 4796 (ud. 25 marzo 1998), Angeli. [RV210477]
l La disposizione di cui all’art. 15, lettera a)
del nuovo codice della strada, che punisce con
una sanzione amministrativa il danneggiamento
di opere, piantagioni ed impianti appartenenti
alle strade ed alle loro pertinenze, è norma speciale rispetto all’art. 635, n. 3, c.p., perché detta
la disciplina relativa ad una specifica categoria di
beni; né rileva a tal fine l’eventuale diversa oggettività giuridica delle due disposizioni, dovendosi
avere riguardo per configurare il rapporto di specialità, ai sensi dell’art. 9 della L. 24 novembre
1981, n. 689, non agli interessi tutelati dalle norme ma alla fattispecie concreta che in tutti i suoi
elementi materiali potrebbe essere ricondotta ad
entrambe le disposizioni in questione. (Nella specie la Corte ha ritenuto integrato l’illecito amministrativo de quo nel danneggiamento di lampioni
facenti parte dell’impianto di illuminazione di
una strada). * Cass. pen., sez. II, 2 ottobre 1995,
n. 4491 (c.c. 20 ottobre 1994), P.M. in proc. Zamattio. [RV202763]
l Il concorso apparente tra una norma che
commina una sanzione penale ed una norma che
commina una sanzione amministrativa va risolto
alla stregua dell’art. 9 della L. 24 novembre 1981,
n. 689, con la conseguente applicazione del principio di specialità ancorato non ad una previsione
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astratta di divieti, ma ad una realtà di fatto valutata sulla base della concreta emergenza di dati
giuridicamente rilevanti. (Applicazione in tema
di – ipotetico – concorso tra sanzione penale e
sanzione amministrativa per la somministrazione
ad animali da stalla di sostanze estrogene diverse
dagli stilbenici e dalle sostanze ad azione tireostatica). * Cass. pen., sez. VI, 14 dicembre 1993, n.
11395 (ud. 1 ottobre 1993), Bellone.
f-6) Concorso di norme nei reati contro la pubblica
fede.
l Il delitto di sostituzione di persona non è
assorbito in altra figura criminosa, in presenza di
un unico fatto, contemporaneamente riconducibile sia alla previsione di cui all’art. 494 cod. pen.
sia a quella di altra norma a tutela della fede pubblica. (In applicazione di tale principio, la Corte
ha escluso il concorso apparente di norme tra i reati di sostituzione di persona e falsità in certificati
nella condotta dell’imputato, che aveva falsificato
la carta d’identità del soggetto, cui successivamente si era sostituito per commettere ulteriori
reati). * Cass. pen., sez. II, 12 febbraio 2014, n.
6597 (ud. 19 dicembre 2013), Brizzi. [RV258536]
l L’art. 2, primo comma, legge 23 dicembre
1986, n. 898 punisce chiunque, mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale
o parziale del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia. Data la struttura della norma,
risulta che “l’esposizione di dati o notizie falsi” è
requisito essenziale per la configurazione della
fattispecie; ne deriva che detto reato non può concorrere con il delitto di falso previsto dall’art. 483
c.p., sussistendo concorso apparente di norme, ai
sensi dell’art. 15 c.p., in quanto tutti gli elementi
previsti dall’art. 483 c.p. sono ricompresi (e quindi assorbiti) nella fattispecie di cui all’art. 2 della
legge citata, sicché quest’ultima risulta avere come
elemento specializzante, rispetto al falso, l’indebita
percezione del contributo del Fondo Europeo sopra citato. * Cass. pen., sez. V, 23 marzo 2000, n.
2752 (ud. 16 febbraio 2000), Falcone. [RV215723]
l In tema di falsità materiale in atto pubblico, si realizza concorso apparente di norme tra
le disposizioni degli artt. 469 c.p. (contraffazione
delle impronte di pubblica autenticazione e certificazione) e 476 stesso codice (falsità materiale
commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici)
nel caso in cui la falsificazione concerna un atto
notarile. Invero, la fattispecie ex art. 476 c.p.,
avendo carattere più generale, coinvolge quella
di cui all’art. 469 c.p. che ha per oggetto solo un
aspetto del documento falsificato e cioè l’impronta del sigillo notarile. * Cass. pen., sez. V, 19 novembre 1999, n. 13299 (ud. 20 ottobre 1999), La
Porta ed altri. [RV214854]
l Sussiste concorso apparente di norme tra il
reato previsto dall’art. 483 c.p. (falsità ideologica
02/03/17 10:08
107
TITOLO I – LEGGE PENALE
commessa dal privato in atto pubblico) e quello di
cui all’art. 2 legge 23 dicembre 1986 n. 898; invero
tutti gli elementi presenti nella fattispecie criminosa di cui all’art. 483 c.p. sono compresi (e quindi
assorbiti) nella fattispecie di cui alla legge del 1986,
che presenta l’elemento «specializzante» dell’indebita percezione del contributo del Fondo europeo.
(Fattispecie in cui il ricorrente, assolto perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato con riferimento al delitto di frode comunitaria – in quanto i
contributi erogabili a seguito delle mendaci dichiarazioni non avrebbero superato i 20 milioni di lire
– era stato condannato, in relazione al medesimo
episodio, per il reato ex art. 483 c.p. La Suprema
Corte, enunciando il principio di cui sopra, in applicazione dell’art. 15 c.p., ha annullato senza rinvio la sentenza del giudice di merito). * Cass. pen.,
sez. V, 12 ottobre 1999, n. 11568 (ud. 23 settembre
1999), Catania Cerro A. [RV214600]
l Il bene giuridico che il reato di falso protegge è l’interesse di garantire la pubblica fede,
mentre il bene giuridico protetto nel delitto di
truffa è l’interesse concernente l’inviolabilità del
patrimonio; i due cennati reati, oltre ad obiettività giuridiche distinte, presentano elementi
strutturali diversi in riferimento ai quali non v’è
alcun rapporto di specificità, per il quale occorre
il necessario presupposto della esistenza di una
norma generale e di una norma speciale, ambedue destinate a disciplinare la stessa materia.
(Fattispecie in tema di esposizione sul parabrezza
di un veicolo di disco – contrassegno, relativo al
pagamento della tassa di circolazione alterato). *
Cass. pen., sez. II, 15 gennaio 1990, n. 297 (ud. 14
novembre 1989, n. 2675), Scarcelli.
f-7) Varie.
l Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di una prostituta è assorbito
in quello, più grave, di favoreggiamento della
prostituzione, qualora la condotta sia unica dal
punto di vista storico e naturalistico, in virtù della
clausola di riserva contenuta nell’art. 12, comma
quinto, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286. * Cass.
pen., sez. III, 19 novembre 2013, n. 46223 (ud. 2
ottobre 2013), Maloku. [RV257858]
l Sussiste un rapporto di specialità tra le disposizioni della legge n. 248 del 2000, in materia
di diritto di autore, relativamente all’ipotesi di
acquisto di supporti audiovisivi, fotografici, informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni di legge, e il reato di ricettazione, atteso
che l’estrema specificità della disciplina speciale a
tutela del diritto di autore rende tali condotte illecite del tutto ricomprensibili nella più generica
previsione di cui all’art. 648 c.p., tutelando la legge n. 248 del 2000 anche gli interessi patrimoniali, alla pari del delitto di ricettazione. * Cass. pen.,
sez. II, 1 febbraio 2005, n. 03286 (ud. 19 gennaio
2005), Abate. [RV230730]
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 107
Art. 16
l Non esiste alcun rapporto di sussidiarietà tra
il reato di cui all’art. 3, comma primo, n. 6, L. 20
febbraio 1958 n. 75 (induzione di taluno a recarsi
nel territorio di altro Stato per esercitare la prostituzione) ed il reato di cui all’art. 12, comma terzo
D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286 (favoreggiamento
all’ingresso clandestino di stranieri), essendo diversi gli interessi tutelati e le condotte sanzionate dalle
due norme, atteso che la prima è eclusivamente
finalizzata ad impedire l’induzione e la diffusione
della prostituzione e sanziona la condotta di colui
che induce taluno a recarsi nel territorio di altro
Stato, o comunque in luogo diverso da quello della
residenza abituale, per esercitarvi la prostituzione,
mentre la seconda tutela i beni giuridici della sicurezza interna e della disciplina del mercato del
lavoro e sanziona la condotta di colui che favorisce
l’ingresso «clandestino» di stranieri nel territorio
dello Stato italiano, sicchè quest’ultima fattispecie
criminosa non può ritenersi compresa nella prima.
* Cass. pen., sez. VI, 4 gennaio 2005, n. 00081 (ud.
23 novembre 2004), Tahiri ed altri. [RV230776]
l La disposizione dell’art. 20, comma quinto,
della legge n. 40 del 1998 (oggi trasfusa in quella dell’art. 22, comma 10, D.L.vo 286 del 1998),
la quale punisce il fatto del datore di lavoro che
occupa alle proprie dipendenze cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno, non è
speciale rispetto a quella di cui all’art. 10, comma
quinto, della stessa legge (oggi art. 12, comma 5,
D.L.vo citato) che prevede il reato di favoreggiamento della permanenza di stranieri nel territorio
dello Stato in condizioni di illegalità. Ne consegue che i due reati possono concorrere tra di loro.
* Cass. pen., sez. I, 28 maggio 2003, n. 23438 (ud.
8 aprile 2003), Pratticò. [RV224595]
l In tema di detenzione e diffusione abusiva
di codici di accesso a sistemi informatici o telematici, la detenzione di una scheda contraffatta
(pic card) per la decrittazione delle trasmissioni
a pagamento (pay-tv) configura il reato di cui
all’art. 615 quater c.p., ma non rientra nella previsione di cui all’art. 171 octies della L. n. 248 del
2000 che invece concerne la tutela del diritto di
autore, con la conseguenza che tra le due previsioni non sussiste alcun rapporto di specialità. *
Cass. pen., sez. V, 27 giugno 2002, n. 24847 (c.c.
29 maggio 2002), Mammoliti D. [RV222064]
16. Leggi penali speciali. – Le disposizioni di questo
codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito
altrimenti (1).
(1) Si veda l’art. 9 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema
di depenalizzazione, il cui testo è riportato nella nota (1) dell’art.
15 di questo codice.
l L’art. 16 c.p. regola i rapporti tra il codice
penale e le altre leggi penali, le quali, limitandosi
a prevedere, nella normalità dei casi, particolari fi-
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Art. 17
LIBRO I – DEI REATI
gure di reati in corrispondenza di particolari e contingenti interessi da tutelare, in virtù dell’art. 16 si
rimettono al codice penale in ordine all’applicazione di norme di carattere generale o di interi istituti
giuridici. Così, la facoltà riconosciuta al giudice
dagli artt. 24, ultimo comma, e 26, ultimo comma
c.p., di triplicare rispettivamente la pena della multa o quella dell’ammenda, quando ritenga che tali
sanzioni pecuniarie, per le condizioni economiche
dell’imputato, sarebbero inefficienti anche se irrogate nella misura massima edittale, permane pure
in relazione alle pene pecuniarie comminate dalle
leggi speciali posteriori all’emanazione del codice
penale, sempre che queste non dispongano diversamente. * Cass. pen., sez. III, 4 febbraio 1981, n.
739 (ud. 10 dicembre 1980), Lauringer.
TITOLO II
DELLE PENE (1)
(1) Per i reati di competenza del giudice di pace si vedano le
sanzioni applicabili dal medesimo giudice previste dal titolo II
(artt. 52-62) del D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274.
CAPO I
DELLE SPECIE DI PENE, IN GENERALE
17. (1) Pene principali: specie. – Le pene principali
stabilite per i delitti (5, 6 coord.) sono:
1) [la morte (2)] (21; 27 Cost.);
2) l’ergastolo (22);
3) la reclusione (23);
4) la multa (24).
Le pene principali stabilite per le contravvenzioni
(5, 6 coord.) sono:
1) l’arresto (25);
2) l’ammenda (26).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza n. 168 del 28 aprile
1994, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo
nella parte in cui non esclude l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile.
(2) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt.
10 agosto 1944, n. 224.
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di morte
per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle militari, e
l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal codice penale.
18. (1) Denominazione e classificazione delle pene
principali. – Sotto la denominazione di «pene detentive» o «restrittive della libertà personale» la legge comprende: l’ergastolo, la reclusione e l’arresto.
Sotto la denominazione di «pene pecuniarie» la
legge comprende: la multa e l’ammenda.
(1) Si veda, l’art. 53 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di
depenalizzazione, in virtù del quale alle pene di questo articolo devono ritenersi aggiunte le sanzioni sostitutive di pene detentive brevi.
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 108
108
19. Pene accessorie: specie. – Le pene accessorie
(20, 77, 166; 662 c.p.p.; 1082 c.n.) per i delitti sono:
1) l’interdizione dai pubblici uffici (28, 29; coord.
14, 15, 16);
2) l’interdizione da una professione o da un’arte
(30, 31);
3) l’interdizione legale (32);
4) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese (32 bis);
5) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (32 ter, 32 quater);
5 bis) l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro (1);
6) la decadenza o la sospensione dall’esercizio
della responsabilità genitoriale (2) (34) (3).
Le pene accessorie per le contravvenzioni sono:
1) la sospensione dall’esercizio di una professione
o di un’arte (35);
2) la sospensione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche e delle imprese (35 bis) (3).
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di
condanna (36; 543 c.p.p.) (4).
La legge penale determina gli altri casi in cui le
pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle
contravvenzioni (6712).
(1) Questo numero è stato inserito dall’art. 5, comma 1, della
L. 27 marzo 2001, n. 97, sugli effetti del giudicato penale per i dipendenti pubblici.
(2) Le parole: «potestà dei genitori» sono state così sostituite
dalle attuali: «responsabilità genitoriale» dall’art. 93, comma 1,
lett. a), del D.L.vo 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2014).
(3) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 118 della L.
24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(4) Si veda il R.D.L. 9 luglio 1936, n. 1539 in tema di pubblicazione delle sentenze penali nei giornali.
l Sono riconducibili al novero delle pene
accessorie non espressamente determinate dalla
legge quelle per le quali sia previsto un minimo
e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei
suddetti limiti, ragione per la quale la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi
dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta. * Cass. pen., Sezioni Unite, 12 febbraio 2015, n. 6240 (c.c. 27 novembre 2014), Basile.
[RV262328]
l La pubblicazione della sentenza prevista
dall’art. 186 c.p. ha natura di sanzione civile che
può disporsi a carico del colpevole qualora essa
costituisca un mezzo per riparare il danno, diversamente dalla pubblicazione della sentenza
prevista dall’art. 19 c.p. che ha la natura di pena
accessoria. Trattasi, pertanto, di istituto ontologicamente appartenente al processo civile, dal
quale mutua la sua disciplina, pur quando l’a-
02/03/17 10:08
109
TITOLO II – DELLE PENE
zione civile venga proposta nel processo penale.
Ne consegue che la pubblicazione della sentenza
prevista dall’art. 186 citato non può essere disposta d’ufficio in mancanza della domanda della
parte istante. (Nella specie la Corte ha annullato
sul punto la pronuncia dei giudici di merito che
avevano ordinato la pubblicazione della sentenza
senza che la parte civile ne avesse fatto domanda,
in ipotesi, tra l’altro, in cui il procedimento riguardava il reato di violazione degli obblighi di
assistenza familiare – ex art. 570, comma secondo – ritenuta non suscettiva di danni non patrimoniali, escludendo, tra l’altro, la reciproca soccombenza e la legittimità, totale o parziale, della
compensazione delle spese). * Cass. pen., sez. VI,
6 luglio 1998, n. 7917 (ud. 15 giugno 1998), Maniero B. [RV211384]
20. Pene principali e accessorie. – Le pene princi-
pali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna;
quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna,
come effetti penali di essa (77, 139, 140; 662 c.p.p.).
SOMMARIO:
a) Condono;
b) Erronea o omessa applicazione di pene accessorie;
c) Applicazione.
a) Condono.
l La pena accessoria temporanea è condonata per intero quando corrisponde ad una pena
principale interamente condonata; altrimenti rimane in vita per un periodo di tempo uguale a
quello della pena principale residua ed eseguibile,
quale effetto penale di questa. La pena accessoria
consegue di diritto alla condanna come effetto
penale di essa e quando è predeterminata dalla
legge sia nella specie che nella durata, può essere
applicata di ufficio in sede esecutiva anche se è
stata omessa dal giudice che ha pronunciato la
condanna. * Cass. pen., sez. V, 5 luglio 1976, n.
7578 (ud. 26 febbraio 1976), Giardina.
b) Erronea o omessa applicazione di pene accessorie.
l L’assoluto automatismo nell’applicazione
delle pene accessorie, predeterminate per legge
sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice,
comporta, da un lato, che l’erronea applicazione
di una pena accessoria da parte del giudice di cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice
dell’esecuzione, e dall’altro che, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria
così dalla legge stabilita, il P.M. ne può chiedere
l’applicazione al giudice dell’esecuzione qualora
si sia omesso di provvedere con la sentenza di
condanna. * Cass. pen., sez. I, 23 novembre 2004,
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 109
Art. 20
n. 45381 (c.c. 10 novembre 2004), P.G. in proc.
Tinnirello ed altro. Conforme: Cass. pen., ord. 30
aprile 2010, n. 16634 (ud. 15 aprile 2010), Drago.
[RV230129]
l Ai fini dell’applicazione di una sanzione
accessoria, si deve avere riguardo alla pena principale irrogata in concreto, come risultante a
seguito della diminuzione effettuata sia per l’applicazione delle circostanze attenuanti che per
la scelta del rito. (Nel caso di specie, la Corte ha
annullato la sentenza impugnata limitatamente
all’applicazione dell’interdizione perpetua dai
pubblici uffici, sostituendola con quella di carattere temporaneo, in quanto in grado di appello
la pena detentiva era stata rimodulata rispetto
a quella irrogata in primo grado – all’esito di un
giudizio abbreviato – in misura inferiore a cinque
anni). * Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2004, n.
3538 (c.c. 23 dicembre 2003), Maisto. [RV230305]
c) Applicazione.
l Le pene accessorie, in quanto conseguenti
di diritto alla sentenza di condanna come effetti
penali della stessa ai sensi dell’art. 20 cod. pen.,
possono essere eseguite in qualsiasi momento
dalla formazione del giudicato e, diversamente
dalle pene principali, non sono soggette a prescrizione. (In motivazione, la Corte ha escluso
l’esistenza di un obbligo di immediata esecuzione
delle pene accessorie dal cui inadempimento,
mantenuto per un arco temporale pari alla durata
delle stesse, discenda la loro estinzione). * Cass.
pen., sez. I, 1 agosto 2016, n. 33541 (c.c. 6 luglio
2016), Altamura. [RV267463]
l L’applicazione della causa di non punibilità
della ritrattazione, in un procedimento per falsa
testimonianza a carico di un avvocato, non impedisce al giudice di appello di comunicare al consiglio dell’ordine di appartenenza dell’imputato
l’esito del processo, con la trasmissione della relativa sentenza, in quanto si tratta di un adempimento di natura procedurale, diretto ad investire
il titolare dell’azione disciplinare delle valutazioni
in ordine alla rilevanza disciplinare del fatto già
oggetto del giudizio penale, dovendosi, pertanto, escludere che una tale comunicazione possa
qualificarsi come pena accessoria, non essendo,
peraltro, prevista da alcuna norma di legge (la
Corte ha anche precisato che la natura non sanzionatoria della comunicazione e la sua funzione
strumentale rispetto all’esercizio del potere disciplinare, concorrente con quello giurisdizionale,
escludono che l’adempimento informativo possa
incidere sul divieto di reformatio in pejus). * Cass.
pen., sez. VI, 7 aprile 2003, n. 16244 (ud. 5 dicembre 2002), Fontana. [RV224954]
l Poiché l’art. 597, terzo comma, c.p.p. non
contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice d’appello nell’ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti
le pene accessorie – le quali, secondo il disposto
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Art. 21
LIBRO I – DEI REATI
dell’art. 20 c.p., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa – al giudice di
secondo grado è consentito applicare d’ufficio le
pene predette qualora non vi abbia provveduto
quello di primo grado, e ciò ancorché la cognizione
della specifica questione non gli sia stata devoluta
con il gravame del pubblico ministero. (Fattispecie
in tema di interdizione dai pubblici uffici). * Cass.
pen., Sezioni Unite, 17 luglio 1998, n. 8411 (ud.
27 maggio 1998), P.M. in proc. Ishaka. [RV210979]
l L’assoluto automatismo nell’applicazione
delle pene accessorie, predeterminate per legge
sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice,
comporta che l’erronea applicazione di una pena
accessoria da parte del giudice di cognizione può
essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione
ovvero, qualora venga dedotta con ricorso per
cassazione, anche dal giudice di legittimità che,
sul punto relativo, può direttamente dichiarare
l’ineseguibilità della sentenza, stante la sua evidente contrarietà alla legge. * Cass. pen., sez. II,
10 gennaio 1997, n. 4492 (c.c. 13 novembre 1996),
P.M. in proc. Kenzi. [RV206850]
l Gli effetti penali della condanna, dei quali
il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai
diversi effetti di natura non penale che pure sono
in rapporto di effetto a causa con la pronuncia
di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di
condanna e non pure di altri provvedimenti che
possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla
sentenza di condanna e non da provvedimenti
discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto,
ancorché incidente in ambito diverso da quello
del diritto penale sostantivo o processuale. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 8 giugno 1994, n. 7 (c.c. 20
aprile 1994), Volpe.
CAPO II
DELLE PENE PRINCIPALI,
IN PARTICOLARE
21. [Pena di morte. – (Omissis)] (1).
(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt.
10 agosto 1944, n. 224.
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di
morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle
militari, e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena
di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi
militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal
codice penale.
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110
22. (1) Ergastolo. – La pena dell’ergastolo è perpetua,
ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati
(2), con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno
(29, 32, 36; 1 coord.; 642 c.p.p.).
Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al
lavoro all’aperto (3) (4).
(Omissis) (5).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza n. 168 del 28 aprile
1994, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo
nella parte in cui non esclude l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile.
(2) Per l’individuazione dei relativi istituti penitenziari si vedano gli artt. 59 e 61 della L. 26 luglio 1975, n. 354, recante norme
sull’ordinamento penitenziario e gli artt. 110 e 111 del D.P.R. 30
giugno 2000, n. 230.
(3) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 1 della L. 25
novembre 1962, n. 1634.
(4) Si veda l’art. 8 del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, nella L. 19 gennaio 2001, n. 4, che così
dispone:
«8. 1. Nei processi penali in corso alla data di entrata in vigore
del presente decreto legge, nei casi in cui è applicabile o è stata
applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, se è stata
formulata la richiesta di giudizio abbreviato, ovvero la richiesta di
cui al comma 2 dell’articolo 4 ter del decreto legge 7 aprile 2000,
n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000,
n. 144, l’imputato può revocare la richiesta nel termine di trenta
giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto. In tali casi il procedimento riprende secondo il rito ordinario dallo stato in cui si trovava allorché era stata
fatta la richiesta. Gli atti di istruzione eventualmente compiuti
sono utilizzabili nei limiti stabiliti dall’articolo 511 del codice di
procedura penale.
«2. Quando per effetto dell’impugnazione del pubblico ministero possono essere applicate le disposizioni di cui all’articolo 7,
l’imputato può revocare la richiesta di cui al comma 1 nel termine
di trenta giorni dalla conoscenza dell’impugnazione del pubblico
ministero o, se questa era stata proposta anteriormente alla data
di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nel termine di trenta giorni da quest’ultima data. Si applicano
le disposizioni di cui al secondo ed al terzo periodo del comma 1.
«3. Nelle ipotesi di cui ai commi 1 e 2 si applicano le disposizioni del comma 2 dell’articolo 303 del codice di procedura
penale.».
(5) Il terzo e il quarto comma di questo articolo sono stati
abrogati dall’art. 1 della L. 25 novembre 1962, n. 1634.
SOMMARIO:
a) Inapplicabilità dell’indulto;
b) Isolamento notturno;
c) Imputato infraventicinquenne.
a) Inapplicabilità dell’indulto.
l La pena dell’ergastolo, in quanto pena detentiva perpetua, non è condonabile in parte, ma
soltanto, per eventuale volontà del legislatore,
in toto ovvero, sempre in forza della medesima
volontà, convertibile in pena di altra specie, di
guisa che ad essa non può essere applicato, in
mancanza di una specifica norma, l’indulto previsto in via generale soltanto per le pene detentive
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111
TITOLO II – DELLE PENE
temporanee. * Cass. pen., sez. I, 16 giugno 2000,
n. 2128 (c.c. 22 marzo 2000), Araniti. Conformi:
Cass. pen., sez. I, 4 marzo 1993, n. 44, Pau; Cass.
pen., sez. I, 17 gennaio 1995, n. 3258, Rovelli;
Cass. pen., sez. I, 20 settembre 2007, n. 35209
(c.c. 15 giugno 2007) Andriotta; Cass. pen., sez.
I, 25 ottobre 2007, n. 39531 (c.c. 4 ottobre 2007).
[RV216194]
l Il condono è incompatibile con l’ergastolo
che non può essere considerato una pena temporanea neanche sotto il limitato profilo dell’accesso
alla liberazione condizionale o a misure alternative alla detenzione. * Cass. pen., sez. I, 8 marzo
1993, n. 536 (c.c. 10 febbraio 1993), Di Guardo.
b) Isolamento notturno.
l L’isolamento notturno del condannato
all’ergastolo, a differenza di quello diurno, che è
una vera e propria sanzione penale, si configura
come modalità di esecuzione della pena in termini di maggiore afflittività, che può non essere
applicato ove sussistano gravi ragioni ostative,
sicché non è configurabile un interesse giuridicamente apprezzabile del detenuto a instare per l’inasprimento del proprio trattamento penitenziario e a dolersi, mediante ricorso per cassazione,
del provvedimento del magistrato di sorveglianza
che ne abbia respinto il reclamo per l’omessa attuazione. * Cass. pen., sez. I, 23 aprile 2007, n.
16400 (c.c. 27 febbraio 2007), Stilo. Conforme,
Cass. pen., sez. I, 30 dicembre 2009, n. 50005 (c.c.
1 dicembre 2009), Cantarella. [RV236158]
c) Imputato infraventicinquenne.
l La pena dell’ergastolo applicata all’imputato infraventicinquenne che abbia commesso il delitto in età maggiore degli anni diciotto non può
essere modificata dal giudice dell’esecuzione in
pena temporanea, in quanto trattasi di sanzione
legittimamente irrogabile a tutti i soggetti maggiorenni anche dopo le modifiche apportate dalla
legge 11 agosto 2014 n. 117 all’art. 24, comma
primo D.Lgs. 28 luglio 1989 n. 272, le quali incidono esclusivamente sulla fase dell’esecuzione
della pena. * Cass. pen., sez. I, 4 agosto 2015, n.
34111 (c.c. 29 aprile 2015), Rosmini. [RV264600]
23. Reclusione. – La pena della reclusione si estende
da quindici giorni a ventiquattro anni (1), ed è scontata
in uno degli stabilimenti a ciò destinati (2), con l’obbligo
del lavoro (3) e con l’isolamento notturno (29, 32, 64, 66,
78, 132 ss.; 1 coord.; 656, 6911 c.p.p.).
Il condannato alla reclusione, che ha scontato almeno un anno della pena, può essere ammesso al lavoro all’aperto (1422).
Sono applicabili alla pena della reclusione le disposizioni degli ultimi due capoversi dell’articolo precedente (4).
(1) Si veda l’art. 442, secondo comma c.p.p., il quale, in caso di
condanna a seguito di giudizio abbreviato, stabilisce che la pena
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Art. 23
che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze sia
diminuita di un terzo.
(2) Per l’individuazione dei relativi istituti penitenziari si vedano gli artt. 59 e 61 della L. 26 luglio 1975, n. 354, recante norme
sull’ordinamento penitenziario e gli artt. 110 e 111 del D.P.R. 30
giugno 2000, n. 230.
Si veda inoltre l’art. 95 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, T.U.
delle leggi sugli stupefacenti, il quale stabilisce che la pena detentiva comminata al condannato per reati commessi in relazione
al proprio stato di tossicodipendenza deve essere scontata in
istituti idonei allo svolgimento di programmi terapeutici e socioriabilitativi.
(3) Gli artt. 20 e 21 della L. 26 luglio 1975, n. 354, sull’ordinamento penitenziario, prevedono rispettivamente l’obbligo del
lavoro negli istituti penitenziari e la possibilità per i detenuti di
essere assegnati al lavoro all’esterno.
(4) Questo comma deve ritenersi implicitamente abrogato
dall’art. 1 della L. 25 novembre 1962, n. 1634, recante modificazioni alle norme del codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale.
SOMMARIO:
a) Limite minimo di quindici giorni;
b) Minimo edittale e patteggiamento;
c) Casistica.
a) Limite minimo di quindici giorni.
l Il limite minimo di quindici giorni, stabilito per la durata della reclusione dall’art. 23 cod.
pen., è inderogabile per il giudice e non può essere ridotto, in difetto di espressa previsione di
legge, neppure in conseguenza della diminuzione
operata per un rito speciale. (Fattispecie in cui la
S.C. ha dichiariato inammissibile il ricorso di imputato che lamentava la mancata riduzione, oltre
la soglia minima normativa, della pena irrogata
all’esito di giudizio abbreviato). * Cass. pen., sez.
VII, 6 luglio 2016, n. 27674 (c.c. 15 marzo 2016),
Diop. [RV267536]
l Il limite minimo di quindici giorni stabilito
per la reclusione deve essere osservato sia ai fini
del computo finale della pena da irrogare, sia ai fini
delle operazioni intermedie di calcolo. (Nel caso di
specie, la pena irrogata era stata determinata in misura inferiore a detto limite a seguito dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche e della
circostanza prevista dall’art. 62 n. 4 c.p.). * Cass.
pen., sez. II, 16 giugno 2009, n. 24864 (ud. 29 maggio 2009), P.M. in proc. Taccola. [RV244341]
l In tema di reato continuato, l’art. 81 c.p.,
mentre pone un duplice sbarramento al massimo
di pena irrogabile (triplo della pena prevista per
la violazione più grave) nonché, nel rispetto del
principio del favor rei, il divieto di infliggere, comunque, una pena superiore a quella applicabile
di base al cumulo materiale, nulla dice in ordine
al minimo, che deve ritenersi perciò applicabile
anche nella misura di un giorno di pena detentiva,
purché il giudice del merito assolva il duplice obbligo di carattere generale: di non richiedere nel
minimo di quindici giorni di reclusione, sancito
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Art. 24
LIBRO I – DEI REATI
dall’art. 23 c.p., la pena inflitta a titolo di continuazione; di motivare ai sensi dell’art. 132 c.p., oltre
che in ordine alla determinazione della pena base,
in relazione all’aumento per la continuazione. *
Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 1995, n. 5419 (ud.
29 marzo 1995), P.M. in proc. Pani. [RV201646]
l Il limite minimo di quindici giorni previsto
dalla legge per la reclusione (art. 23 c.p.) non è suscettibile di riduzione sia ai fini del computo della
pena da infliggere in concreto sia ai fini dei calcoli intermedi consistenti anch’essi in un aumento o
in una diminuzione della pena. Infatti la portata
dell’art. 132 cpv. c.p., secondo cui, nell’aumento o
nella diminuzione della pena, non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena,
salvo i casi espressamente determinati dalla legge,
non può essere limitata al risultato finale del calcolo
ma investe anche gli aumenti di pena. Ne consegue
che il limite legale della reclusione di quindici giorni non può essere vulnerato dalla diminuzione delle
attenuanti o diminuenti eventualmente concesse,
mentre deve essere aumentato nel minimo consentito per effetto, in ipotesi, della ritenuta continuazione. * Cass. pen., sez. VI, 19 ottobre 1993, n. 9442
(ud. 11 maggio 1993), P.M. in proc. Vicedomini.
b) Minimo edittale e patteggiamento.
l Il limite minimo di quindici giorni stabilito
per la reclusione dell’art. 23, comma primo, c.p.,
è assoluto e, per ciò, irriducibile, sia ai fini della
pena da infliggersi in concreto sia ai fini dei calcoli intermedi. Né il predetto limite può essere
superato, in caso di pena patteggiata, per effetto
dell’applicazione della diminuente di cui all’art.
444 c.p.p. * Cass. pen., sez. VI, 24 gennaio 1997, n.
487 (ud. 3 dicembre 1996), P.M. in proc. Scanio.
Conformi: Cass. pen., sez. II, 16 febbraio 2000, n.
702, P.M. in proc. Miccichè; Cass. pen., sez. V, 18
maggio 1999, n. 1743, P.M. in proc. Fracasso A;
Cass. pen., sez. VI, 3 marzo 1993, n. 1994, P.G.
in proc. Del Bosco; Cass. pen., sez. V, 1 febbraio
1993, n. 842, P.M., in proc. Pelaia; Cass. pen., sez.
VI, 24 giugno 1992, n. 7222, Ingenito. [RV207735]
l In sede di patteggiamento non è in ogni
caso possibile quantificare la pena detentiva della
reclusione in misura inferiore al minimo di 15
giorni fissato dall’art. 23 c.p. indipendentemente
dalla circostanza che, per effetto della successiva sostituzione, si pervenga ad una misura della
multa in sè non illegale. * Cass. pen., sez. VI, 5 settembre 1996, n. 8301 (ud. 11 giugno 1996), P.G. in
proc. Galipò C. [RV206138]
l Anche in tema di patteggiamento, il limite
di giorni quindici di reclusione stabilito per la
pena detentiva concernente i delitti (art. 23 c.p.) è
irriducibile, sia ai fini del computo della pena da
infliggere in concreto, sia ai fini dei calcoli intermedi. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto
di poter porre rimedio all’errore, in applicazione
dell’art. 620, lett. l, c.p.p., senza necessità di annullare con rinvio, rideterminando la pena deten-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 112
112
tiva adeguandosi ai criteri di valutazione espressi
per la pena irrogata dal giudice di merito e sostanzialmente escludendo la necessità di apprezzamento di fatto). * Cass. pen., sez. II, 7 ottobre
1993, n. 9140 (ud. 3 febbraio 1993), Barbon.
c) Casistica.
l Agli effetti dell’applicazione di misura cautelare per tentativo di delitto punito con la pena
dell’ergastolo, si ha riguardo non alla pena minima
di dodici anni di reclusione prevista dall’art. 56,
comma secondo, c.p., ma a quella massima di ventiquattro anni di reclusione, desumibile dall’art.
23, comma primo, stesso codice. (Fattispecie relativa a pretesa decorrenza del termine di durata
massima della custodia cautelare per tentato omicidio pluriaggravato, in relazione al quale la Suprema Corte ha escluso la rilevanza delle aggravanti
non ad effetto speciale, né comportanti una pena
di specie diversa da quella ordinaria del reato, ma
ha ritenuto doversi far riferimento non alla pena
edittale minima per il tentativo di delitto punito
con l’ergastolo, bensì alla pena edittale massima,
da individuare a norma dell’art. 23, comma primo,
c.p.). * Cass. pen., sez. I, 4 dicembre 1996, n. 5531
(c.c. 24 ottobre 1996), Borriello. [RV206187]
l In caso di contestazione dell’ipotesi di reato
prevista dall’art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990, al fine di
stabilire il termine massimo di custodia cautelare,
la pena massima secondo la regola generale dettata
dall’art. 23 c.p., va individuata in ventiquattro anni di
reclusione. * Cass. pen., sez. IV, 20 settembre 1996,
n. 2119 (c.c. 14 settembre 1996), Fazio. [RV205571]
24. (1) Multa. – La pena della multa consiste nel paga-
mento allo Stato di una somma non inferiore a euro 50
(2), né superiore a euro 50.000 (3) (133 bis).
Per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce soltanto la pena della reclusione, il giudice
può aggiungere la multa da euro 50 a euro 25.000 (4).
(1) Questo articolo è stato sostituito dall’art. 101 della L. 24
novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Le parole: «non inferiore a euro 5» sono state così sostituite
dalle attuali: «non inferiore a euro 50» dall’art. 3, comma 60, della
L. 15 luglio 2009, n. 94.
(3) Le parole: «né superiore a euro 5.164» sono state così sostituite dalle attuali: «né superiore a euro 50.000» dall’art. 3, comma
60, della L. 15 luglio 2009, n. 94.
(4) Le parole: «da euro 5 a euro 2.065» sono state così sostituite dalle attuali: «da euro 50 a euro 25.000» dall’art. 3, comma 60,
della L. 15 luglio 2009, n. 94.
SOMMARIO:
a) Aggiunta della multa per i delitti determinati
da fini di lucro;
b) Sanzione espressa in Euro.
a) Aggiunta della multa per i delitti determinati
da fini di lucro.
l L’art. 24, comma 2, c.p. nel prevedere l’aggiunta della pena della multa nei delitti determi-
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113
TITOLO II – DELLE PENE
nati da motivi di lucro è applicabile non solo nei
casi in cui il fine di lucro operi come uno dei motivi più o meno remoti del reato, ma altresì quando
detto fine operi come motivo unico ed integrativo
della fattispecie criminosa (dolo specifico) ovvero
come elemento materiale del reato stesso; la contraria soluzione sarebbe in contrasto con la lettera e lo spirito della norma suddetta la quale non
distingue tra tali estremi, dovendosi d’altro canto
convenire che, a maggior ragione, l’aggiunta della
multa trovi giustificazione quando il fine in questione sia elemento connaturato della fattispecie
criminosa. (Fattispecie in tema di corruzione). *
Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 1994, n. 7505 (ud. 25
marzo 1994), Caputo.
l Il principio di legalità della pena è vincolante non solo quando venga applicata una pena non
prevista o diversa da quella contemplata dalla legge, ma anche quando venga applicata una pena
che esula dalle singole fattispecie legali penali
perché pena legale è anche quella risultante dalle
varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, tra le quali rientrano le norme sulle
circostanze aggravanti. (Affermando tale principio la Cassazione ha eliminato la pena della
multa inflitta per il reato di corruzione ai sensi
dell’art. 24, comma 2, c.p. che consente l’aggiunta della pena della multa per i delitti determinati
da motivi di lucro puniti con la sola reclusione:
all’uopo ha considerato che il reato ascritto all’epoca dei fatti era punito con la pena congiunta
della reclusione e della multa e che pertanto, per
il principio di legalità della pena, esso rimaneva
fuori della previsione aggravatoria di cui al suddetto articolo). * Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 1994,
n. 7505 (ud. 25 marzo 1994), Caputo.
b) Sanzione espressa in Euro.
l Fino alla data del 31 dicembre 2001 ogni
sanzione pecuniaria, penale o amministrativa, espressa in lire si intende espressa anche in
euro, secondo il tasso di conversione fissato dal
Trattato, ma solo a decorrere dall’1 gennaio 2002
ogni sanzione pecuniaria dovrà essere tradotta
in euro, secondo la previsione di cui all’art. 51,
comma 2, del D.L.vo 24 giugno 1998, n. 213. Ne
consegue che attualmente non è possibile fissare
la sanzione pecuniaria solo in euro. (Nella specie,
in applicazione del principio di cui in massima,
la S.C. ha rettificato la sentenza impugnata, rideterminando in lire la pena della multa che era
stata espressa in euro). * Cass. pen., sez. III, 3 novembre 1999, n. 4718 (c.c. 6 ottobre 1999), P.G. in
proc. Giancola. [RV215103]
l Non è legale la sanzione pecuniaria espressa in euro, sia perché le pene pecuniarie, ai sensi
degli artt. 24 e 26 c.p., sono sempre indicate in
lire, sia in quanto, allo stato, l’euro esiste solamente come valuta di conto, ma non anche come
moneta fisica. (Nella fattispecie, la Corte, ai sensi
dell’art. 619 comma 2 c.p.p., ha rettificato, con-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 113
Art. 25
vertendo in lire la pena pecuniaria, la sentenza
del pretore, che aveva condannato l’imputato ad
una multa in euro). * Cass. pen., sez. V, 4 agosto
1999, n. 2678 (c.c. 2 giugno 1999), P.M. in proc.
Giancola R. [RV214179]
25. Arresto. – La pena dell’arresto si estende da cin-
que giorni a tre anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati (1) o in sezioni speciali degli stabilimenti di reclusione, con l’obbligo del lavoro (2) e con
l’isolamento notturno (66, 78, 134; 1, 12 coord.).
Il condannato all’arresto può essere addetto a lavori anche diversi da quelli organizzati nello stabilimento,
avuto riguardo alle sue attitudini e alle sue precedenti
occupazioni.
(1) Per una più precisa individuazione dei relativi istituti
di pena si vedano gli artt. 59 e 61 della L. 26 luglio 1975, n. 354,
recante disposizioni sull’ordinamento penitenziario e gli artt. 110
e 111 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.
Si veda inoltre l’art. 95 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, T.U.
delle leggi sugli stupefacenti, il quale stabilisce che la pena detentiva comminata al condannato per reati commessi in relazione
al proprio stato di tossicodipendenza deve essere scontata in
istituti idonei allo svolgimento di programmi terapeutici e socioriabilitativi.
(2) Gli artt. 20 e 21 della L. 26 luglio 1975, n. 354, sull’ordinamento penitenziario prevedono rispettivamente l’obbligo del
lavoro negli istituti penitenziari e la possibilità per i detenuti di
essere assegnati ad un lavoro all’esterno.
26. (1) Ammenda. – La pena dell’ammenda consiste
nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore
a euro 20 (2) né superiore a euro 10.000 (3) (133 bis; 8
coord.) (4).
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 101 della L.
24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Le parole: «non inferiore a euro 2» sono state così sostituite
dalle attuali: «non inferiore a euro 20» dall’art. 3, comma 61, della
L. 15 luglio 2009, n. 94.
(3) Le parole: «né superiore a euro 1.032» sono state così sostituite dalle attuali: «né superiore a euro 10.000» dall’art. 3, comma
61, della L. 15 luglio 2009, n. 94.
(4) L’art. 10 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione, così come modificato dall’art. 3, comma 63, della L.
15 luglio 2009, n. 94, prevede che:
«La sanzione amministrativa pecuniaria consiste nel pagamento di una somma non inferiore a € 10 e non superiore a €
15.000. Le sanzioni proporzionali non hanno limite massimo.
«Fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, il limite
massimo della sanzione amministrativa pecuniaria non può, per
ciascuna violazione, superare il decuplo del minimo».
SOMMARIO:
a) Limitazione quantitativa;
b) Sanzione espressa in Euro.
a) Limitazione quantitativa.
l Nel caso di oblazione nelle contravvenzioni
per le quali la legge stabilisce la sola ammenda,
di cui all’art. 162 c.p., quando la pena edittale è
indeterminata nel massimo – come nella specie
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Art. 27
114
LIBRO I – DEI REATI
per la contravvenzione prevista dall’art. 677, primo comma, c.p. – occorre fare riferimento al disposto dell’art. 26 c.p., secondo il quale la pena
dell’ammenda pura non può essere superiore a
due milioni di lire. Pertanto, in tal caso, la somma da pagare deve essere pari alla terza parte del
detto importo di lire due milioni, cioè lire seicentosessantaseimila. * Cass. pen., sez. I, 23 giugno
1994, n. 7317 (ud. 27 aprile 1994), P.M. in proc.
Cavaleri. Conforme, Cass. pen., sez. I, 20 maggio
1994, n. 5794, Gaglione.
l La limitazione quantitativa della pena
dell’ammenda, stabilita dall’art. 26 c.p., non si
estende alle sanzioni disposte dalle leggi speciali.
* Cass. pen., sez. III, 23 ottobre 1986, Rinaldi.
tà della normativa sulla continuazione dato che
questa non prevede la proporzionalità della pena
in rapporto all’entità o al numero delle violazioni
che vengono a confluire nel reato continuato ed
atteso che il giudice non ha il potere di sovvertire
il meccanismo della proporzionalità sostituendovi – quando la pena proporzionale inerisca alla
violazione meno grave – quello dell’aumento fino
al triplo della pena base pecuniaria ovvero detentiva. * Cass. pen., sez. VI, 4 settembre 1992, n.
9361 (ud. 11 giugno 1992), Orofino ed altro.
b) Sanzione espressa in Euro.
l Fino alla data del 31 dicembre 2001 ogni
sanzione pecuniaria, penale o amministrativa, espressa in lire si intende espressa anche in
euro, secondo il tasso di conversione fissato dal
Trattato, ma solo a decorrere dall’1 gennaio 2002
ogni sanzione pecuniaria dovrà essere tradotta
in euro, secondo la previsione di cui all’art. 51,
comma 2, del D.L.vo 24 giugno 1998, n. 213. Ne
consegue che attualmente non è possibile fissare
la sanzione pecuniaria solo in euro. (Nella specie, in applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha rettificato la sentenza impugnata,
rideterminando in lire la pena della multa che
era stata espressa in euro). * Cass. pen., sez. III,
3 novembre 1999, n. 4718 (c.c. 6 ottobre 1999),
P.G. in proc. Gullotto. Conforme, Cass. pen., sez.
V, 4 agosto 1999, n. 2678, P.M. in proc. Ginanola.
[RV215103]
28. Interdizione dai pubblici uffici. – L’interdizione
dai pubblici uffici (191) è perpetua o temporanea (77,
79; 662 c.p.p.; 14 ss. coord.).
L’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che
dalla legge sia altrimenti disposto, priva il condannato:
1) del diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale, e di ogni altro diritto politico;
2) di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi
inerente di pubblico ufficiale (357) o di incaricato di
pubblico servizio (358);
3) dell’ufficio di tutore (346 ss. c.c.) o di curatore
(48, 392, 424, 486, 528 c.c.; 78 ss., 780 c.p.c.), anche
provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela
o alla cura (31, 564, 569, 609 nonies) (1);
4) dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli,
delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche;
5) degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che
siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico
(2) (3);
6) di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque
degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità
e decorazioni indicati nei numeri precedenti;
7) della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri
precedenti.
L’interdizione temporanea priva il condannato
della capacità di acquistare o di esercitare o di godere, durante l’interdizione, i predetti diritti, uffici, servizi,
qualità, gradi, titoli e onorificenze (2).
Essa non può avere una durata inferiore a un anno,
né superiore a cinque (79; 14-16 coord.).
La legge determina i casi nei quali l’interdizione dai
pubblici uffici è limitata ad alcuni di questi (512, 564,
569, 609 nonies) (4).
27. (1) Pene pecuniarie fisse e proporzionali. – La
legge determina i casi nei quali le pene pecuniarie sono fisse e quelli in cui sono proporzionali. Le pene pecuniarie proporzionali non hanno limite massimo.
(1) L’art. 115 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di
depenalizzazione stabilisce che gli artt. 113 e 114 non si applicano alle pene e sanzioni amministrative pecuniarie quando l’ammontare delle stesse o della pena base che viene assunta per la
loro determinazione non è fissato direttamente dalla legge ma è
diversamente stabilito.
l Le pene pecuniarie proporzionali non sono
soggette, per loro natura, ad alcun limite massimo, come espressamente disposto dall’art. 27, seconda parte, c.p. Ne deriva che, in caso di concorso di reati, le norme sulla continuazione (art. 81,
comma secondo, c.p.) e quelle sul cumulo giuridico (art. 78 c.p.) non possono trovare applicazione
limitatamente a quella parte delle violazioni che
siano punite con pene pecuniarie proporzionali.
In particolare, per quel che attiene alla continuazione, la legge, allorquando stabilisce che una
pena sia proporzionale all’entità o al numero delle
infrazioni, esclude implicitamente l’applicabili-
COM_218_CodicePenaleCommentato_2017_1.indb 114
CAPO III
DELLE PENE ACCESSORIE,
IN PARTICOLARE
(1) L’art. 6 della L. 20 febbraio 1958, n. 75, recante norme in
tema di abolizione della regolamentazione della prostituzione,
prevede per i colpevoli dei reati previsti dalla suddetta legge, un’ipotesi specifica di interdizione dall’esercizio della tutela e della
curatela.
02/03/17 10:08
115
TITOLO II – DELLE PENE
(2) La Corte costituzionale, con sentenza n. 3 del 13 gennaio 1966, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, del secondo
comma, n. 5 e del terzo comma di questo articolo limitatamente
alla parte in cui i diritti in essi previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro.
(3) La Corte costituzionale, con sentenza n. 13 del 19 luglio
1968, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo
comma, n. 5 di questo articolo per quanto attiene alle pensioni
di guerra.
(4) L’art. 12 del D.L.vo 10 marzo 2000, n. 74, prevede casi particolari di pene accessorie in materia tributaria.
SOMMARIO:
a) Valutazione delle riduzioni di pena;
b) Decorrenza;
c) Durata.
a) Valutazione delle riduzioni di pena.
l La pena accessoria dell’interdizione dai
pubblici uffici produce effetti diversi sugli obblighi concernenti il servizio militare a seconda
che sia temporanea o perpetua. In entrambi i
casi l’interdizione, secondo il combinato disposto dei commi secondo e terzo dell’art. 28 c.p.,
non riguarda gli incarichi di pubblico servizio
obbligatori, salvo che la legge non disponga altrimenti. Una deroga è prevista solo dal disposto
degli artt. 28 e 33 c.p.m. di pace e dell’art. 6 del
D.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 (in materia di leva
e reclutamento), che preclude il servizio militare e l’appartenenza alle forze armate per coloro
cui sia stata applicata la pena della interdizione
perpetua dai pubblici uffici. Ne consegue che
l’interdizione temporanea, quando riferita ad obblighi concernenti il servizio militare, non libera
l’interessato dal dovere di darvi osservanza. (Fattispecie relativa al delitto di diserzione impropria
aggravata, riconosciuto a carico di militare di
leva che, riportata durante il servizio la condanna
all’interdizione temporanea dai pubblici uffici per
un reato comune, aveva omesso di ripresentarsi
al corpo di appartenenza). * Cass. pen., sez. I, 3
febbraio 2004, n. 4044 (ud. 25 novembre 2003),
Cammarata. [RV230013]
l Ai fini dell’irrogazione della pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici il giudice deve
tenere conto dell’entità della pena quale risulta
dalla condanna, senza poter distinguere tra attenuanti di merito, che incidono sulla effettiva gravità del reato, ed attenuanti meramente processuali o premiali, che costituiscono l’incentivo per
la collaborazione dell’imputato alla definizione
del giudizio, e ciò in quanto, come risulta palese
dall’art. 29 c.p., non è consentito scindere la riduzione premiale dalla pena principale determinata
in relazione alla gravità del reato. (Fattispecie in
tema di patteggiamento in appello). * Cass. pen.,
sez. II, 13 novembre 2003, n. 43604 (c.c. 7 ottobre
2003), D’Angelo. [RV227608]
l La diminuente prevista per la celebrazione del processo con rito abbreviato ha genesi e
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Art. 28
finalità che la rendono non assimilabile a una
circostanza attenuante. Ne consegue che qualora
venga inflitta per il reato di concussione una
pena inferiore a tre anni di reclusione in conseguenza della applicazione di detta diminuente,
la condanna importa l’interdizione perpetua dai
pubblici uffici, derivando l’applicazione della interdizione temporanea solo da una riduzione di
pena conseguente al riconoscimento di una circostanza attenuante. * Cass. pen., sez. VI, 25 febbraio 2000, n. 2383 (ud. 26 gennaio 2000), Fadda
G. [RV215643]
l Ai fini dell’irrogazione della pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici, il giudice deve
tener conto dell’entità della pena così come risulta dalla condanna, senza poter distinguere tra attenuanti di merito e riduzioni di pena meramente
processuali o premiali, non essendo consentito
scindere la riduzione premiale dalla pena principale. (Fattispecie nella quale era stata richiesta in
executivis dal P.M. l’interdizione legale a norma
dell’art. 32 c.p. in relazione a condanna a pena
complessiva di anni quattro di reclusione, per
la quale la pena-base superava i cinque anni di
reclusione, ridotti per la scelta del rito abbreviato). * Cass. pen., sez. I, 14 maggio 1997, n.
2650 (c.c. 10 aprile 1997), P.G. in proc. Zinghini.
[RV207445]
l Ai fini dell’applicazione della pena accessoria nell’ipotesi di reato continuato, occorre tener
conto della pena principale inflitta per il reato
più grave e non anche dell’aumento per la continuazione. (Fattispecie in tema di interdizione
dai pubblici uffici). * Cass. pen., sez. II, 7 maggio
1987, n. 5495 (ud. 21 novembre 1986), Iatino.
b) Decorrenza.
l La pena accessoria dell’interdizione dai
pubblici uffici si attua per effetto del giudicato,
e quindi con decorrenza dal giorno in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile; un’attività
propriamente esecutiva della relativa pronuncia
non è concepibile, poiché nessun atto ulteriore
potrebbe togliere o comunque modificare quella
capacità che il condannato ha già perduto per effetto della sentenza. Per conseguenza, la sospensione dell’esecuzione della pena accessoria, disposta dal giudice dell’esecuzione in sede di incidente,
deve considerarsi nulla siccome abnorme; e di un
simile provvedimento non può tenersi conto nel
computare la durata della pena accessoria, dovendosi in tale computo comprendere anche il periodo di tempo durante il quale l’esecuzione è stata in
apparenza sospesa. * Cass. pen., sez. II, 7 febbraio
1966, n. 391, P.M. in proc. Serra.
c) Durata.
l In materia di reati previsti dal codice penale,
nel caso di generica previsione, senza indicazione
di durata, della pena accessoria dell’interdizione
dai pubblici uffici, essa deve intendersi come in-
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Art. 29
LIBRO I – DEI REATI
terdizione temporanea con durata uguale a quella
della pena principale inflitta, e, comunque, non
inferiore a un anno. (Fattispecie relativa alla ritenuta inapplicabilità ai reati previsti dal codice
penale dell’art. 4 del R.D. 28 maggio 1931 n. 601
– disposizioni di coordinamento e transitorie al
codice penale,– applicabile soltanto alle ipotesi
di interdizione prevista da leggi – che prevedono
l’interdizione perpetua – decreti e convenzioni internazionali). * Cass. pen., sez. VI, 10 novembre
1997, n. 10108 (ud. 29 maggio 1997), D’Ambrosio
ed altri. [RV208815]
29. Casi nei quali alla condanna consegue l’inter-
dizione dai pubblici uffici (1). – La condanna all’ergastolo (22) e la condanna alla reclusione (23) per un
tempo non inferiore a cinque anni importano l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici; e la
condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a
tre anni importa l’interdizione dai pubblici uffici per la
durata di anni cinque (31, 33, 98, 139, 140, 317 bis, 389;
662 c.p.p.; 15 coord.; 2282 l. fall.).
La dichiarazione di abitualità (102 ss.) o di professionalità nel delitto (105), ovvero di tendenza a delinquere (108), importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (33).
(1) Casi particolari di interdizione dai pubblici uffici sono previsti dalle seguenti disposizioni:
a) art. 2, quinto comma, della L. 20 giugno 1952, n. 645, recante norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, in tema di reati concernenti la ricostituzione
del disciolto partito fascista;
b) art. 6, della L. 20 febbraio 1958, n. 75, in tema di reati
concernenti la prostituzione;
c) art. 12 del D.L.vo 10 marzo 2000, n. 74, recante nuova disciplina sui reati fiscali;
d) art. 2, della L. 25 gennaio 1982, n. 17, in tema di reati inerenti le associazioni segrete.
SOMMARIO:
a) Interdizione perpetua; a-1) Limiti di pena; a2) Dichiarazione di abitualità, professionalità o di
tendenza a delinquere;
b) Interdizione temporanea;
c) Entità della pena irrogata ai fini dell’applicazione della pena accessoria.
a) Interdizione perpetua.
a-1) Limiti di pena.
l Sia l’art. 9, D.P.R. 16 dicembre 1986, n.
865 e sia l’art. 2, D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394
prevedono la concessione dell’indulto solo per le
pene accessorie temporanee. È, quindi, esclusa
da tale beneficio, la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, perché consegue di diritto, ai sensi dell’art. 29, primo comma,
c.p., alle condanne alla reclusione per un tempo
non inferiore a cinque anni. * Cass. pen., sez. V,
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116
12 maggio 1992, n. 5558 (ud. 25 marzo 1992),
Fabbrocini.
a-2) Dichiarazione di abitualità, professionalità o
di tendenza a delinquere.
l La pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici consegue ope legis – a norma dell’art.
29 in relazione all’art. 20 c.p. – alla dichiarazione
di delinquente abituale, senza necessità di alcuna
statuizione del giudice di cognizione il quale, con
la sentenza di condanna, non è tenuto ad applicare le pene accessorie conseguenti alla condanna
stessa, dovendo ad esse provvedere in executivis
il giudice competente. * Cass. pen., sez. II, 17 febbraio 1971, n. 945, Piccottini.
b) Interdizione temporanea.
l L’interdizione temporanea dai pubblici uffici, ai sensi dell’art. 29 c.p., consegue a condanna
alla reclusione per tempo non inferiore a tre anni
di reclusione. Detta pena, in caso di reati unificati per continuazione, è quella irrogata per quello
ritenuto più grave, non dovendosi tenere conto
dell’aumento per continuazione, e, in caso di applicazione della diminuente per il rito abbreviato
di cui all’art. 442 c.p.p., la pena da prendersi in
continuazione è quella risultante dopo la diminuzione di un terzo imposta dallo speciale giudizio abbreviato. * Cass. pen., sez. I, 29 dicembre
1995, n. 12741 (ud. 9 novembre 1995), Triolo.
[RV203336]
c) Entità della pena irrogata ai fini dell’applicazione della pena accessoria.
l Deve essere annullata senza rinvio la sentenza di patteggiamento ad una pena superiore a due
anni di reclusione in cui sia omessa la condanna
al pagamento delle spese processuali e l’applicazione della pena accessoria obbligatoria per legge
della interdizione dei pubblici uffici per anni cinque. * Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2013, n. 20108
(24 gennaio 2013), Pg in proc. Derjaj. [RV256224]
l  Ai fini dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, il giudice
deve tener conto dell’entità della pena principale
irrogata dalla sentenza di condanna, anche all’esito delle eventuali diminuzioni processuali. * Cass.
pen., sez. V, 16 dicembre 2008, n. 46340 (c.c. 26
novembre 2008), Giometti. [RV242322]
l In tema di pene accessorie, nel caso di condanna per reato continuato, nel commisurare la
durata della pena accessoria a quella principale
deve farsi riferimento alla pena base inflitta per
la violazione più grave, come determinata in concorso delle circostanze attenuanti e aggravanti e
del relativo bilanciamento, e non a quella complessiva, comprensiva cioè dell’aumento per la
continuazione. * Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 1999,
n. 4559 (ud. 25 febbraio 1999), Lubrano V. Conforme, Cass. pen., sez. II, 13 settembre 1991, n.
9329, Maidecchi. [RV213149]
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117
TITOLO II – DELLE PENE
l Ai fini dell’applicazione dell’interdizione dai
pubblici uffici, nel caso di condanna conseguente
a giudizio abbreviato, poiché le pene accessorie
assumono carattere di automatismo in rapporto
all’entità del trattamento sanzionatorio, il limite
di pena di cui all’art. 29 c.p. non può prescindere
dagli effetti su di esso del procedimento speciale
del rito abbreviato e, quindi, della conseguente
diminuente sulla pena da infliggersi in concreto.
* Cass. pen., sez. VI, 13 maggio 1998, n. 5567 (ud.
16 febbraio 1998), Di Francesco. [RV210996]
l Qualora più reati per i quali intervenga
condanna siano legati dal vincolo della continuazione, l’entità della pena, ai fini dell’applicazione
di una pena accessoria, va determinata non con
riferimento alla pena complessiva, compreso l’aumento per la continuazione, ma unicamente con
riferimento alla pena-base. * Cass. pen., sez. I, 24
settembre 1997, n. 8605 (ud. 11 luglio 1997), Panetta e altro. [RV208580]
l Ai fini dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, occorre far riferimento alla pena alla quale
l’imputato è stato condannato e cioè a quella in
concreto comminata dopo il computo di tutte le
attenuanti e le diminuenti previste dalla legge
senza distinzione di merito o di rito. Ne consegue
che in caso di applicazione della diminuente per
il rito abbreviato di cui all’art. 442 c.p.p., la pena
applicata in concreto è quella risultante dopo la
diminuzione di un terzo imposta dallo speciale
giudizio abbreviato. * Cass. pen., sez. I, 11 settembre 1997, n. 8263 (ud. 19 maggio 1997), Cinà.
[RV208328]
l Ai fini della applicazione della interdizione
dai pubblici uffici, nel caso di condanna conseguente a giudizio abbreviato, il limite di pena di
cui all’art. 29 c.p. va individuato non con riguardo
alla pena irrogata in concreto, dopo la riduzione
conseguente alla diminuente ex art. 442, comma
secondo, c.p.p., ma a quella stabilita dal giudice
prima dell’applicazione di detta diminuente, data
la natura meramente processuale di essa e tenuto
conto del logico collegamento della pena accessoria alla negativa valutazione sostanziale del fattoreato riflessa nella pena principale. * Cass. pen.,
sez. VI, 28 maggio 1997, n. 4951 (ud. 7 marzo
1997), Marchese ed altri. [RV208909]
l Ai fini dell’applicazione dell’interdizione dai
pubblici uffici i limiti di pena fissati dagli artt. 29
e 32 c.p., nel caso di giudizio abbreviato, vanno
individuati non con riguardo alla pena irrogata in
concreto, ma a quella stabilita dal giudice prima
dell’applicazione della diminuente del rito: invero
detta diminuente ha genesi e finalità meramente
processuali che non consentono la sua assimilazione ad una normale circostanza attenuante. *
Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 1996, n. 6321 (ud.
29 marzo 1996), Buonanno. [RV205090]
l Al fine di stabilire se alla condanna debba
conseguire o meno l’interdizione dai pubblici
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Art. 30
uffici, e se questa debba essere perpetua o soltanto temporanea, occorre considerare l’entità
della pena irrogata in concreto, come risultante
a seguito del computo dell’eventuale diminuente per il rito abbreviato; l’art. 29 c.p., infatti, riferendosi genericamente alla «condanna», ha
riguardo esclusivamente alla pena irrogata, in sè
considerata, a prescindere dagli elementi del calcolo aritmetico che concorrono a determinarla. *
Cass. pen., sez. II, 16 aprile 1996, n. 3716 (ud. 18
ottobre 1995), Costa. [RV204745]
l Ai fini dell’irrogazione della pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici il giudice deve
tenere conto dell’entità della pena quale risulta
dalla condanna, senza poter distinguere tra attenuanti di merito, che incidono sulla effettiva gravità del reato, ed attenuanti meramente processuali o premiali, che costituiscono l’incentivo per
la collaborazione dell’imputato alla definizione
del giudizio, e ciò in quanto, come risulta palese
dall’art. 29 c.p., che si riferisce alla condanna inflitta comprensiva delle singole parti componenti,
non è consentito scindere la riduzione premiale
dalla pena principale determinata in relazione
alla gravità del reato. (Fattispecie in tema di patteggiamento in appello). * Cass. pen., sez. II, 31
gennaio 1995, n. 4914 (c.c. 16 novembre 1994),
P.M. in proc. Fagiano.
l Poiché la diminuente prevista per la celebrazione del processo con il rito abbreviato ha
genesi e finalità meramente processuali che la
rendono non assimilabile ad una circostanza attenuante del reato, i limiti di pena fissati dall’art.
29 c.p. per stabilire la durata dell’interdizione dai
pubblici uffici vanno individuati non sulla pena
irrogata in concreto e in maniera definitiva ma in
un momento anteriore vale a dire prima di operare la diminuzione per il rito prescelto. Ne deriva
che qualora venga inflitta una pena inferiore ai
cinque anni di reclusione in conseguenza dell’applicazione della detta diminuente, la condanna
importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. * Cass. pen., sez. IV, 13 aprile 1994, n. 4327
(ud. 1 marzo 1994), Belleri.
30. Interdizione
da una professione o da un’arte (1). – L’interdizione da una professione o da un’arte
priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, una professione, arte, industria, o un
commercio o mestiere, per cui è richiesto uno speciale
permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione o
licenza dell’Autorità e importa la decadenza dal permesso o dall’abilitazione, autorizzazione, o licenza anzidetti.
L’interdizione da una professione o da un’arte non
può avere una durata inferiore a un mese, né superiore
a cinque anni, salvi i casi espressamente stabiliti dalla
legge (31, 33, 79, 139, 140; 15 ss. coord.; 662 c.p.p.; 216,
217 l. fall.; 11 T.U. di P.S.).
(1) Casi particolari d’interdizione da una professione o da
un’arte sono previsti dalle seguenti disposizioni:
02/03/17 10:08
Art. 31
LIBRO I – DEI REATI
a) art. 20, quarto comma, della L. 31 dicembre 1982, n. 979,
recante disposizioni per la difesa del mare, in tema di reati d’inquinamento delle acque marine;
b) art. 186 del D.L.vo 24 febbraio 1998, n. 58, Testo Unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria;
c) art. 22 della L. 1 aprile 1999, n. 91, recante disposizioni in
materia di trapianti di organi e tessuti.
l In
tema di pene accessorie, qualora sia
applicata dal giudice di merito erroneamente la
sanzione disciplinare dell’interdizione dalla professione prevista dall’art. 8 della legge n. 175 del
1992 (che attribuisce espressamente agli ordini
e collegi professionali sanitari la facoltà di promuovere ispezioni presso gli studi professionali
degli iscritti ai rispettivi albi provinciali, al fine di
vigilare sul rispetto dei doveri inerenti alle rispettive professioni) in luogo della pena accessoria
prevista dall’art. 30 c.p., ben può la Corte di cassazione provvedere a rilevare d’ufficio l’erronea
applicazione dell’art. 8 suddetto, trattandosi di
errore non determinante annullamento e rettificabile ai sensi dell’art. 619 c.p.p. * Cass. pen., sez.
VI, 24 maggio 2001, n. 21212 (ud. 11 aprile 2001),
Brussato. [RV219839]
l La sospensione cautelare dall’esercizio della
professione forense adottata dall’Ordine degli avvocati e procuratori non ha alcuna comunanza
con la pena accusatoria dell’interdizione dall’esercizio di una professione di cui all’art. 30 c.p.:
mentre la prima costituisce estrinsecazione di una
funzione amministrativa, la seconda rappresenta
una sezione penale perché consegue di diritto alla
condanna come effetto penale della stessa. Le due
sanzioni pertanto operano in ambiti e su basi diverse, per cui possono concorrere e le sorti dell’una non sono influenzate da quelle subite dall’altra.
(Affermando siffatto principio la Cassazione ha
escluso che, essendo stata dichiarata estinta per
indulto ex D.P.R. 16 dicembre 1986 n. 865 la pena
accessoria dell’interdizione dalla professione, del
pari potesse ritenersi estinta la sospensione cautelare; con riguardo ad una siffatta fattispecie è stata pertanto ritenuta la configurabilità del reato di
esercizio abusivo della professione). * Cass. pen.,
sez. VI, 23 febbraio 1996, n. 2066 (ud. 9 novembre
1995), Torregrossa. [RV204155]
31. Condanna per delitti commessi con abuso di
un pubblico ufficio o di una professione o di un’arte. Interdizione. – Ogni condanna per delitti commessi con l’abuso dei poteri, o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, o ad un pubblico
servizio, o a taluno degli uffici indicati nel n. 3 dell’articolo 28, ovvero con l’abuso di una professione, arte,
industria, o di un commercio o mestiere, o con la violazione dei doveri ad essi inerenti, importa l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione,
arte, industria, o dal commercio o mestiere (332, 37, 79,
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118
982, 140, 323, 328, 334, 357, 358, 360, 3664, 373; 14 ss.
coord.).
SOMMARIO:
a) Condizioni di applicabilità;
b) Abuso della professione.
a) Condizioni di applicabilità.
l La pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici è applicabile in caso di
condanna per un reato di falso commesso da un
pubblico ufficiale, anche se non sia stata contestata
la circostanza aggravante dell’abuso di pubblica funzione di cui all’art. 61, n. 9, c.p., trattandosi di pena
accessoria relativa "ope legis" a tutti i reati commessi
in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione. * Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2011, n. 1450
(ud. 4 novembre 2010), Antoci e altro. [RV249095]
l Il delitto di violazione dei sigilli commesso dal custode rientra nella categoria dei delitti
perpetrati con abuso di poteri o con la violazione
dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad
un pubblico servizio, sicché alla condanna segue
l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. * Cass. pen.,
sez. III, 21 aprile 2006, n. 14238 (ud. 8 marzo
2006), Calise. [RV234118]
l La pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici ex art. 31 c.p. consegue alla condanna
per il delitto di falsa testimonianza, rientrando
questo tra i delitti commessi con la violazione dei
doveri inerenti ad una pubblica funzione. * Cass.
pen., sez. VI, 20 novembre 2003, n. 44758 (ud. 29
ottobre 2003), Continisio. [RV227323]
l La pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici ex art. 31 c.p. consegue ad ogni condanna per il delitto di violazione dei sigilli commesso dal custode, rientrando questo tra i delitti
commessi con l’abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione
o ad un pubblico servizio per i quali l’art. 31 c.p.
prevede la detta interdizione. * Cass. pen., sez. III,
9 febbraio 1998, n. 1508 (ud. 4 dicembre 1997),
Perone V. Conforme, Cass. III, 8 marzo 2010, n.
9169 (c.c. 28 ottobre 2009), Risi. [RV209824]
l La sospensione dall’esercizio del commercio ex art. 15 d.l.c.p.s. 15 settembre 1947, n. 896,
non ha alcuna comunanza con la pena accessoria
ex art. 31 c.p. Invero, mentre la prima ha natura
amministrativa sul piano soggettivo ed oggettivo,
essendo la sua operatività indipendente dall’accertamento giudiziale della responsabilità per
il reato previsto dall’art. 14 del citato decreto n.
896/1947, la seconda costituisce una sanzione
penale, poiché consegue di diritto alla condanna
come effetto penale della stessa giusto il disposto
dell’art. 20 c.p. (Nella specie, nell’affermarsi – sulla base dell’enunciato principio – la legittimità del
cumulo delle sanzioni indicate, si è esclusa la possibilità di far luogo al principio di specialità, invo-
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119
TITOLO II – DELLE PENE
cato dal ricorrente, precisandosi che elemento indefettibile del ricordato principio è che più leggi o
più disposizioni della medesima legge regolino la
stessa materia: di qui l’esigenza che le fattispecie
legali, gli elementi accessori, le sanzioni previste
dalle norme apparentemente concorrenti abbiano
carattere penale e costituiscano delle entità omogenee). * Cass. pen., Sezioni Unite, 28 febbraio
1984, n. 1719 (ud. 28 gennaio 1984), Fantolino.
b) Abuso della professione.
l In tema di pena accessoria della interdizione da una professione, la locuzione «abuso della
professione», utilizzata dall’art. 31 c.p., va intesa
nel senso di uso abnorme del diritto all’esercizio
di una determinata professione, con l’intento di
conseguire uno scopo diverso da quello al quale l’abilitazione è strumentale. (Fattispecie nella
quale è stato ritenuto sussistere tale presupposto
nella condotta di un medico che aveva reiteratamente consentito a soggetto non abilitato di utilizzare il suo nome e la sua posizione fiscale per
l’esercizio abusivo della professione di dentista).
* Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 1999, n. 14368
(ud. 17 novembre 1999), Rotondo. [RV216829]
l La condanna per il delitto di frode in commercio importa la pena accessoria della pubblicazione
della sentenza e dell’interdizione da una professione o arte, in applicazione degli artt. 30, 31 e 518 c.p.
Tali pene vanno inflitte anche con riferimento all’ipotesi del tentativo, poiché le predette norme non
differenziano quest’ultimo dal reato consumato. *
Cass. pen., sez. III, ord. 17 settembre 1996, n. 2196
(c.c. 14 maggio 1996), Volpe. [RV206268]
l L’interdizione temporanea dall’esercizio della
professione, conseguente ad ogni condanna per
delitti commessi con l’abuso di una professione
riguarda nel suo complesso l’attività il cui legittimo esercizio esige una speciale abilitazione e non
soltanto il settore specializzato in cui essa viene in
concreto espletata. (Nella specie è stato rigettato
il ricorso di un medico odontoiatra – condannato
per il reato di cui agli artt. 110-348 c.p., per avere
consentito ad un odontotecnico l’attività di medico
odontoiatra presso il proprio studio dentistico – il
quale deduceva in violazione dell’art. 31 c.p. per
essere stata inflitta l’interdizione temporanea dalla
professione di medico-chirurgo anziché dall’attività di odontoiatra). * Cass. pen., sez. VI, 1 settembre 1995, n. 9297 (ud. 6 marzo 1995), Bignardi.
[RV203078]
32. Interdizione legale. – Il condannato all’ergastolo
è in stato di interdizione legale.
La condanna all’ergastolo importa anche la decadenza dalla responsabilità genitoriale (1) (316 c.c.) (2).
Il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni è, durante la pena, in stato d’interdizione legale; la condanna produce altresì, durante la pena, la
sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale
(3), salvo che il giudice disponga altrimenti (33) (2).
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Art. 32
Alla interdizione legale si applicano, per ciò che
concerne la disponibilità e l’amministrazione dei beni,
nonché la rappresentanza negli atti ad esse relativi, le
norme della legge civile sulla interdizione giudiziale
(424, 425 ss. c.c.; 662 c.p.p.).
(1) Le parole: «potestà dei genitori» sono state così sostituite
dalle attuali: «responsabilità genitoriale» dall’art. 93, comma 1,
lett. b), del D.L.vo 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2014).
(2) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 119 della L.
24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(3) L’art. 93, comma 1, lett. b), del D.L.vo 28 dicembre 2013, n.
154, a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della
sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2014), ha sostituito le parole: «potestà dei genitori» con le attuali: «responsabilità genitoriale» nel secondo comma di questo
articolo. Si ritiene che anche in questo comma vada apportata la
modifica e lo si segnala in attesa di rettifica in G.U.
l La condanna alla reclusione per un tempo
non inferiore a cinque anni produce, durante la
pena, la sospensione dall’esercizio della potestà
dei genitori, salvo che il giudice disponga altrimenti con specifica motivazione. (In applicazione
di tale principio, la S.C. ha ritenuto erronea la
conclusione della Corte territoriale, secondo la
quale, non essendosi il giudice di primo grado
pronunciato sulla pena accessoria della sospensione della potestà genitoriale, sarebbe stata infondata la richiesta di revoca contenuta nell’atto
di gravame). * Cass. pen., sez. II, 21 gennaio 2014,
n. 2661 (ud. 15 ottobre 2013), Braunè. [RV258548]
l Al condannato, ancorché ammesso al programma di protezione per i collaboratori di giustizia, legalmente interdetto ai sensi dell’art. 32 c.p.,
è inibita l’iscrizione presso la Camera di commercio per lo svolgimento di un’attività di impresa.
(Nell’applicare tale principio, la Corte ha precisato
che a diversa soluzione non può condurre né la
disposizione di cui all’art. 17 L. 26 luglio 1975, n.
354, come modificato dall’art. 5, comma secondo,
L. 22 giugno 2000, n. 193, la quale esclude l’operatività dell’incapacità derivante dall’interdizione
ai soli casi di costituzione di rapporti di lavoro ed
assunzione della qualità di socio in cooperative sociali, né la disciplina di cui all’art. 8 della L. 13 febbraio 2001, n. 45, secondo la quale dal rifiuto del
collaborante di accettare adeguate opportunità di
lavoro o di impresa deriva la revoca del programma di protezione, atteso che tale condotta negativa
non può equipararsi al fenomeno normativo ostativo all’esercizio dell’attività di impresa, costituito
dagli effetti preclusivi derivanti dalle pene accessorie). * Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2002, n. 5960
(c.c. 17 dicembre 2001), Mazza. [RV221134]
l Nell’ipotesi di condanna con rito abbreviato
per stabilire se il giudice debba o meno applicare
la pena accessoria dell’interdizione legale di cui
all’art. 32 c.p. deve aversi riguardo alla pena de-
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Art. 32 bis
LIBRO I – DEI REATI
terminata per il reato giudicato, quale risultante
prima della riduzione per la diminuente prevista
dall’art. 442, comma secondo, c.p.p. * Cass. pen.,
sez. IV, 28 dicembre 1996, n. 11238 (ud. 12 dicembre 1996), Gallo ed altro. [RV207331]
l Al cosiddetto «patteggiamento in appello»,
previsto dall’art. 599, comma 4, c.p.p. non sono
applicabili le norme che regolano l’applicazione
della pena su richiesta prevista dall’art. 444 c.p.p.
(Affermando siffatto principio la Cassazione ha
ritenuto che nel caso in cui il giudizio di appello si
sia svolto ai sensi del suddetto art. 599, comma 4,
c.p.p. non possa escludersi l’applicazione di pene
accessorie ed in particolare che sia applicabile
l’interdizione legale durante la pena, disposta nel
giudizio di primo grado). * Cass. pen., sez. VI, 20
luglio 1995, n. 17680 (c.c. 3 maggio 1995), P.M. in
proc. D’Amato. [RV202218]
32 bis. (1) Interdizione temporanea dagli uffici di-
rettivi delle persone giuridiche e delle imprese (2).
– L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese priva il condannato della capacità di
esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente
preposto alla redazione dei documenti contabili societari (3), nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore.
Essa consegue ad ogni condanna alla reclusione
non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso
dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio.
(1) Questo articolo è stato aggiunto dall’art. 120 della L. 24
novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Si veda l’art. 186 del D.L.vo 24 febbraio 1998, n. 58, Testo
unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria.
(3) Le parole: «e direttore generale» sono state così sostituite
dalle attuali: «, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari» dall’art. 15, comma 3,
lett. a), della L. 28 dicembre 2005, n. 262.
32 ter. (1) Incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione. – L’incapacità di contrattare con la
pubblica amministrazione importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che
per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio (2).
Essa non può avere durata inferiore ad un anno né
superiore a cinque (3) anni.
( ) Questo articolo è stato aggiunto dall’art. 120 della L. 24
novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Si veda l’art. 186 del D.L.vo 24 febbraio 1998, n. 58, Testo
unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria.
(3) La parola: «tre» è stata così sostituita dall’attuale: «cinque» dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 27 maggio 2015, n. 69.
1
120
mancanza di autorizzazione. * Cass. pen., sez.
III, 31 ottobre 1992, n. 10422 (ud. 25 settembre
1992), Albert.
32
quater. (1) Casi nei quali alla condanna consegue l’incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione. – Ogni condanna per i delitti previsti dagli articoli 316 bis, 316 ter (2), 317, 318, 319, 319
bis, 319 quater, (3) 320, 321, 322, 322 bis (2), 353, 355,
356, 416, 416 bis, 437, 452 bis, 452 quater, 452 sexies,
452 septies, (4) 501, 501 bis, 640, numero 1) del secondo comma, 640 bis, 644 (5), nonchè dall’articolo 260 del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive
modificazioni, (6) commessi in danno o in vantaggio di
un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad
essa importa l’incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione.
(1) Questo articolo, aggiunto dall’art. 120 della L. 24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione, è stato da ultimo
così sostituito dall’art. 3 del D.L. 17 settembre 1993, n. 369, recante
disposizioni urgenti in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, convertito, con modificazioni, nella L. 15 novembre
1993, n. 461.
(2) Le parole: «, 316 ter» e «, 322 bis» sono state inserite
dall’art. 6, comma 1, della L. 29 settembre 2000, n. 300.
(3) Le parole: «319 quater,» sono state inserite dall’art. 1,
comma 75, lett. a), della L. 6 novembre 2012, n. 190.
(4) Le parole: «452 bis, 452 quater, 452 sexies, 452 septies,»
sono state inserite dall’art. 1, comma 5, della L. 22 maggio 2015,
n. 68.
(5) La parola: «644,» è stata inserita dall’art. 7 della L. 7 marzo
1996, n. 108.
(6) Le parole: «, nonchè dall’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni» sono state
inserite dall’art. 1, comma 5, della L. 22 maggio 2015, n. 68.
32 quinquies. (1) Casi nei quali alla condanna con-
segue l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego. – Salvo quanto previsto dagli articoli 29 e 31, la
condanna alla reclusione per un tempo non inferiore
a due (2) anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo
comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, (3) e 320 importa altresì l’estinzione del rapporto
di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di
amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.
(1) Questo articolo è stato inserito dall’art. 5, comma 2, della
L. 27 marzo 2001, n. 97, sugli effetti del giudicato penale per i dipendenti pubblici.
(2) La parola: «tre» è stata così sostituita dall’attuale: «due»
dall’art. 1, comma 1, lett. b), della L. 27 maggio 2015, n. 69.
(3) Le parole: «, 319 quater, primo comma,» sono state inserite dall’art. 1, comma 75, lett. b), della L. 6 novembre 2012, n. 190.
33. Condanna per delitto colposo. – Le disposizio-
l In
tema di tutela delle acque dall’inquinamento, la pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione va inflitta solo in caso di condanna per scarico eccedente
i limiti di accettabilità e non anche nell’ipotesi di
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ni dell’articolo 29 e del secondo capoverso dell’articolo
32 non si applicano nel caso di condanna per delitto
colposo (43) (1).
Le disposizioni dell’articolo 31 non si applicano nel
caso di condanna per delitto colposo, se la pena inflitta
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121
TITOLO II – DELLE PENE
è inferiore a tre anni di reclusione, o se è inflitta soltanto una pena pecuniaria.
(1) Questo comma è stato così sostituito dall’art. 121 della L.
24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
l Le pene accessorie non possono essere inflitte in caso di condanna per delitto commesso
per eccesso colposo di legittima difesa, trattandosi di reato a tutti gli effetti colposo. * Cass. pen.,
sez. I, 22 gennaio 1982 (c.c. 14 dicembre 1981, n.
1946), Gualandi.
34. (1) Decadenza dalla responsabilità genitoriale
(2) e sospensione dall’esercizio di essa. – La legge
determina i casi (32, 38, 982, 564, 569, 609 nonies) nei
quali la condanna importa la decadenza dalla responsabilità genitoriale (2) (316 c.c.) (3).
La condanna per delitti commessi con abuso della
responsabilità genitoriale (2) importa la sospensione
dall’esercizio di essa (287, 288 c.p.p.) per un periodo di
tempo pari al doppio della pena inflitta (139).
La decadenza dalla responsabilità genitoriale (2)
importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della responsabilità genitoriale (4) di cui al titolo IX del libro I del codice
civile (315 ss. c.c.).
La sospensione dall’esercizio della responsabilità
genitoriale (2) importa anche l’incapacità di esercitare,
durante la sospensione, qualsiasi diritto che al genitore
spetti sui beni del figlio in base alle norme del titolo IX
del libro I del codice civile (315 ss. c.c.).
Nelle ipotesi previste dai commi precedenti,
quando sia concessa la sospensione condizionale della
pena, gli atti del procedimento vengono trasmessi al
tribunale dei minorenni, che assume i provvedimenti
più opportuni nell’interesse dei minori (5).
(1) Questo articolo è stato così sostituito dall’art. 122 della L.
24 novembre 1981, n. 689, in tema di depenalizzazione.
(2) Le parole: «potestà dei genitori» sono state così sostituite
dalle attuali: «responsabilità genitoriale» dall’art. 93, comma 1,
lett. c), del D.L.vo 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2014).
(3) Si veda l’art. 71, terzo comma, della L. 4 maggio 1983, n.
184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori,
in tema di violazione delle norme di legge in materia d’adozione.
(4) La parola: «potestà» è stata così sostituita dalle attuali:
«responsabilità genitoriale» dall’art. 93, comma 1, lett. c), del
D.L.vo 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal trentesimo giorno
successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2014).
(5) Questo comma è stato aggiunto dall’art. 5 della L. 7
febbraio 1990, n. 19, recante modifiche in tema di circostanze,
sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici
dipendenti.
l La mancata indicazione di durata della sospensione dell’esercizio della potestà genitoriale
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Art. 34
non ne comporta la nullità, data la sua predeterminazione legislativa in un periodo di tempo
pari al doppio della pena inflitta, senza possibilità
alcuna di determinazione da parte del giudice. *
Cass. pen., sez. I, 9 maggio 1992, n. 5432 (ud. 13
marzo 1992), Atria.
35. Sospensione dall’esercizio di una professio-
ne o di un’arte. – La sospensione dall’esercizio di una
professione o di un’arte priva il condannato della capacità di esercitare, durante la sospensione, una professione, arte, industria, o un commercio o mestiere, per i
quali è richiesto uno speciale permesso o una speciale
abilitazione, autorizzazione o licenza dell’Autorità (14
ss. coord.).
La sospensione dall’esercizio di una professione o
di un’arte non può avere una durata inferiore a tre mesi
(1), né superiore a tre anni (2) (79, 139, 140).
Essa consegue a ogni condanna per contravvenzione, che sia commessa con abuso della professione,
arte, industria, o del commercio o mestiere (689, 691,
7274), ovvero con violazione dei doveri ad essi inerenti,
quando la pena inflitta non è inferiore a un anno d’arresto.
(1) Le parole: «quindici giorni» sono state così sostituite dalle
attuali: «tre mesi» dall’art. 1, comma 1, lett. c), della L. 27 maggio
2015, n. 69.
(2) Le parole: «due anni» sono state così sostituite dalle attuali: «tre anni» dall’art. 1, comma 1, lett. c), della L. 27 maggio
2015, n. 69.
l Le pene accessorie dell’interdizione temporanea o sospensione dalla professione, arte,
industria, commercio o mestiere non sono applicabili nei confronti di colui che abbia venduto o
messo in vendita merci ovvero che abbia offerto
od eseguito servizi o prestazioni a prezzi superiori a quelli stabiliti dal Comitato interministeriale prezzi (Cip). La normativa vigente in materia
riserva infatti all’esclusiva competenza del ministro e del presidente del comitato il potere di
sospendere il denunciato dall’attività che abbia
dato luogo all’infrazione o di escluderlo dalle assegnazioni di determinate materie, prodotti e di
contingenti di esportazione e di importazione e
dalla concessione dei relativi permessi, nonché
dalle gare previste dal regolamento per la contabilità generale dello Stato. * Cass. pen., sez. VI, 22
ottobre 1984, n. 8951 (ud. 21 giugno 1984), Surra.
l La sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte costituisce una pena accessoria,
essendo una conseguenza ex lege della condanna;
alla sua applicazione non osta, pertanto, la circostanza che, a seguito del fatto per cui è processo,
il questore abbia comminato la sospensione della
licenza. Quest’ultima misura, ha, infatti, solo natura cautelare. * Cass. pen., sez. I, 7 luglio 1978,
n. 9053 (ud. 20 gennaio 1978), Runci.
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