AS 05 [2008] 383-386
Schedario/ Lessico oggi
Emanuele Iula s.i.
Resilienza
di «Aggiornamenti Sociali»
Il termine resilienza assume diverse sfumature di significato a seconda del settore
scientifico in cui viene impiegato. In ingegneria, ad esempio, si intende per resilienza l’indice che misura la resistenza di un
materiale alla deformazione e alla rottura
e il suo valore è determinato attraverso una
prova d’urto. In biologia e in ecologia la
resilienza esprime la capacità di un sistema di ritornare a uno stato di equilibrio in
seguito a una perturbazione.
Particolarmente ispirata dalla sua matrice latina (resilire, da re salire, saltare
indietro, rimbalzare), la ricerca in ambito
psicologico fa uso del termine resilienza per
esprimere la capacità, da parte dell’individuo, di fronteggiare un qualsiasi evento
traumatico, acuto o cronico, ripristinando
l’equilibrio psico-fisico precedente al trauma e, in certi casi, migliorandolo.
La prima studiosa a sviluppare il concetto in un vero e proprio disegno di ricerca
fu l’americana Emmy Werner («The children of Kauai: resiliency and recovery in
adolescence and adulthood», in Journal
of Adolescent Health, 13 [1992] 262-268)
in un progetto di durata trentennale iniziato nei primi anni ’60 con l’obiettivo di
analizzare le reazioni di ragazzi esposti a
determinati fattori di rischio sociale (delinquenza, ambiente familiare violento o
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alle prese con gravi patologie di un proprio
componente). Negli stessi anni Fritz Redl
(«Adolescence. Just how do they react?»,
in Caplan G. – Lebovici S. [edd.], Adolescence: Psychosocial Perspectives, Basic
Books, New York 1969, 79-100) coniava
il termine di «resilienza dell’io» studiando l’«invulnerabilità» ai traumi propria
dell’età adolescenziale. Successivamente
il termine fu inteso in maniera più ampia
come capacità dinamica di controllo di sé in
funzione delle sollecitazioni dell’ambiente
(cfr Block J. H. – Block J., «The role of
ego-control and ego-resiliency in the organization of behaviour», in Collins W. [ed.],
Development of cognition, affect, and social
relations. Minnesota symposia on child psychology, 13 [1980] 39-102).
In maniera sempre più chiara, nel pensiero dei vari studiosi la resilienza ha assunto
la connotazione di un processo nel tempo,
suddiviso in tappe, inteso al progressivo
recupero dell’equilibrio psico-fisico della
persona traumatizzata. Posta la causa, è
osservabile come tali percorsi siano contraddistinti da un elevato livello di personalizzazione: è la strategia del cosiddetto
tailoring, utilizzata da alcuni terapeuti che
«tagliano su misura» del paziente le tappe
e i tempi di recupero, come farebbe il sarto
con un vestito. Nella letteratura scientifica
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(cfr Cyrulnik B. – Malaguti E., Costruire
la resilienza. La riorganizzazione positiva
della vita e la creazione di legami significativi, Centro Studi Erickson, Gardolo [tn]
2005) sono state identificate tre tipologie
causali di traumi per risolvere i quali è
possibile avviare processi di resilienza. Le
prime sono definite congiunturali, ovvero
legate a eventi puntuali e improvvisi, come
catastrofi, torture, abusi; vi sono poi le cause di tipo congiunturale e strutturale allo
stesso tempo, inerenti rispettivamente a
deficit o patologie acquisiti o congeniti che,
peggiorando nel tempo, sortiscono effetti
sempre più gravi nella vita dell’individuo
(ad es. la scoperta della malattia di Alzheimer o di forme tumorali); troviamo infine i
deficit strutturali, le cui cause sono di tipo
sistemico, ovvero inserite in situazioni o
contesti complessi e derivanti da più fattori
che agiscono contemporaneamente, quali lo
stress per ritmi di lavoro elevati, l’ambiente
familiare degradato e violento, i maltrattamenti ripetuti, ma anche guerre o conflitti
di portata più ampia (si pensi al genocidio
in Ruanda, alla Shoah o al terrorismo razziale del Ku Klux Klan).
Uno sguardo sulla persona
Un percorso che si caratterizza come
resiliente suscita, nel tempo, racconti del
medesimo evento che possono variare anche
considerevolmente l’uno dall’altro. Già il
semplice riportare alla coscienza il trauma significa depotenziarlo di molti effetti
psicologicamente sfavorevoli; se oltre a ricordarlo, è possibile anche narrarlo, la sua
influenza risulterà ulteriormente ridotta; se
poi, oltre a richiamarlo e a narrarlo, si riesce
a esaminarlo più a fondo e, di conseguenza,
a riutilizzarlo in maniera positiva e propositiva, allora il processo di integrazione di tale
vissuto risulta pressoché completo. Nella
misura in cui si matura una certa distanza
Emanuele Iula S.I.
dal trauma — in senso non esclusivamente
cronologico — e dagli effetti che esso ha
prodotto sulla persona, è possibile intuire
con maggiore chiarezza il passaggio che il
soggetto compie da una comprensione di
sé come vittima passiva e malata, a una
condizione in cui, sempre più attivamente,
ritorna protagonista delle proprie scelte e
della propria vita. Il racconto di sé, dopo
l’incidente/trauma può essere caratterizzato
da parole esprimenti oppressione o incapacità di azione. I suoi mutamenti progressivi
possono essere connessi alla riscoperta di
una capacità di iniziativa già in presente
prima dell’evento traumatico, anche se in
forma latente.
La resilienza si fonda quindi su una componente cognitiva che riorganizza il vissuto nella sua completezza — anche sotto il
profilo emotivo e affettivo — in una forma
più sostenibile per il soggetto e soprattutto
meno distorta. Non è il trauma in quanto
tale a cambiare; a mutare è la comprensione
che si ha di esso.
Un passo ulteriore e determinante per il
buon esito del percorso di riconoscimento
di sé è quello dell’accettazione dell’accadimento quale parte integrante della propria esistenza. Occorre, cioè, accettare la
realtà del trauma e della vulnerabilità che
esso ha rivelato alla persona. L’auspicato
mutamento cognitivo non può procedere
se l’individuo si lascia ridurre a un’infinita schiavitù dalla rievocazione traumatica
e traumatizzante dell’evento. Mediante il
contributo non secondario della relazione
con persone vicine e con l’eventuale ausilio di un intervento terapeutico, il soggetto attraversa una ristrutturazione del
significato che l’incidente riveste e, allo
stesso tempo, della comprensione di sé.
Ricomprendere l’evento significa «ricomprendersi» nell’evento; riraccontarlo è un
«riraccontarsi».
Resilienza
La ricostruzione del senso non è dunque
sinonimo di guarigione totale, poiché l’esperienza di un significato nuovo non vince
la realtà annullandola, ma le conferisce
proporzioni tali da rendere la persona non
più prigioniera di essa. Tecnicamente parlando, si tratta di sviluppare una relazione
a «doppio legame» (cfr Short D. – Casula
C., Speranza e resilienza. Cinque strategie
psicoterapeutiche di Milton H. Erickson,
FrancoAngeli, Milano 2004), in cui la certezza del richiamo e della rievocazione del
trauma (primo legame) sia naturalmente e
stabilmente associata alle risorse e al sostegno ricevuto successivamente (secondo
legame).
L’importanza del gruppo
Proporzionalmente alla sua entità e profondità, un trauma non agisce mai soltanto
a livello individuale, ma intacca anche la
trama delle relazioni in cui la persona è
inserita. Le difficoltà che ne derivano si
manifestano, da una parte, in vissuti come
la sfiducia nel miglioramento della propria
condizione, la mancanza di energie e di
entusiasmo per il proprio lavoro o i propri
interessi; dall’altra, in atteggiamenti di
rigidità e chiusura riguardo agli aiuti provenienti dall’esterno. Perciò la vulnerabilità
del singolo non può essere intesa unicamente come il problema di uno solo — il
soggetto colpito in prima persona —, ma è
anche questione che riguarda sempre una
collettività, un gruppo, una famiglia. Allo
stesso modo, l’innescarsi di un adeguato
processo di resilienza non è solo l’iniziativa
presa dal singolo allo scopo di migliorare
la propria disagevole condizione, ma anche
l’azione di un certo numero di persone, relazionalmente vicine a quella ferita, che
stimolano un processo in grado di riallacciare la trama di relazioni tra il gruppo più
ampio, il soggetto e l’evento sfavorevole su-
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bito da quest’ultimo. Il ruolo fondamentale
ricoperto dal gruppo consiste nello stimolare e sostenere questa sorta di «ritorno
alla vita» di colui che l’evento o le circostanze avevano allontanato dalla vita stessa.
Mentre la persona tende all’isolamento e
alla chiusura individualistica, la relazione
con i soggetti prossimi disvela l’importanza
di un percorso da svolgere insieme e all’insegna dell’interdipendenza. In altri termini,
il processo di resilienza riguarda sempre il
gruppo, si svolge nel gruppo e agisce anche
sul gruppo. La trama delle relazioni con
il proprio passato e quella delle relazioni
con il gruppo hanno bisogno di essere ricostruite insieme.
Il cammino che si avvia a compiere chi
è coinvolto nel processo di resilienza non
risulta ovviamente privo di ostacoli e ambiguità, connessi soprattutto al legame che
va formandosi nei confronti di chi, concretamente, propone l’aiuto. Da un lato, può
nascere un senso di gratitudine verso colui
che offre il proprio appoggio nel facilitare
il reinserimento nel contesto delle relazioni
ordinarie; dall’altro, la percezione della dipendenza che questo percorso implica può
fare sviluppare una reazione aggressiva nei
confronti di quella stessa figura. Questa
ambivalenza e la convinzione di poter compiere tale cammino da soli e l’orgoglio di
volerlo fare da soli, sono il colpo di coda del
trauma che, sotto altre forme, si ripresenta
nella vita della persona, alimentato dalla
resistenza all’aiuto che l’individuo stesso,
talvolta, oppone.
Il benessere possibile
Non c’è resilienza se l’evento traumatico
non viene considerato e «sfruttato» anche
per la spinta propulsiva che è in grado di
imprimere. L’utilità della già citata figura
del «doppio legame» è tesa a mantenere saldamente connessi i linguaggi della
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memoria e delle relazioni, che consentono alla persona di scoprire che si è meno
vulnerabili se ci si affida ad altri. Allora il
trauma non equivale più alla disgrazia che
frantuma la propria vita in mille pezzi, ma
all’opportunità di conoscersi per come si è
realmente, tenendo conto dei limiti e delle
risorse che le situazioni possono offrire.
L’esperienza che abbiamo tratteggiato prospetta il ritorno a un senso di sé più vicino
alla realtà e riconciliato nella possibilità di
una prospettiva nuova, quella delle relazioni. L’interpretazione della resilienza non è
altro che la messa a tema di questa oscillazione fondamentale che si manifesta nel
passaggio dalla prospettiva pre-traumatica
a quella post-traumatica, in cui la realtà si
presenta sotto una luce nuova.
L’opportunità di una migliore conoscenza
dei limiti, propri e della situazione che si
vive, è ciò che permette al benessere desiderato di incarnarsi, innanzi tutto, entro
i confini di quello possibile. In secondo
luogo, lo «stare bene» si configura come
riconoscimento, da parte della persona
che ha subito il trauma, del modo in cui la
collettività ha saputo approssimarsi a lui,
restituendogli, come si è detto all’inizio,
l’equilibrio perduto. La terza dimensione di
questa antropologia del benessere consiste
nel modo in cui la persona, a sua volta,
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si spende nella ricerca e realizzazione di
un benessere maggiore, che include le esigenze personali in quelle della comunità
più ampia. Massimizzare la propria realizzazione e dimenticare la perturbazione
portata dal trauma sono illusioni di guarigione che danneggiano se stessi e il gruppo,
oltre che segni di aver smarrito la spinta
integratrice che permette di «risalire» un
presente a portata di mano nella direzione
di un futuro che offre la fondata speranza
di essere migliore.
Per saperne di più
Brusita Rutto P., Sguardi sulla diversità, celid, Torino 2002.
Cyrulnik B. - Malaguti E. (edd.), Costruire la resilienza. La riorganizzazione
positiva della vita e la creazione di legami
significativi, Centro Studi Erickson, Gardolo (TN) 2005.
L erma M., Metodo e tecniche del processo
di aiuto, Astrolabio, Roma 1992.
Short D. - Casula C., Speranza e resilienza. Cinque strategie psicoterapeutiche
di Milton H. Erickson, FrancoAngeli, Milano 2004.
Sini C., L’origine del significato. Filosofia
ed etologia, Jaca Book, Milano 2004.