Rappresentazioni del corpo, della sessualità e dell

Francesca Vallarino Gancia*
RAPPRESENTAZIONI DEL CORPO, DELLA SESSUALITA’ E
DELL’AFFETTIVITA’ IN DONNE VITTIME DELLA TRATTA
Il fenomeno della tratta degli esseri umani che da più di un decennio si è
riaffacciato in molti paesi europei, non solo è diventato oggetto di indagine
sulle differenti modalità di reclutamento e assoggettamento coercitivo, ma ha
imposto un ripensamento dei modelli di intervento e cura delle giovani donne
provenienti, in particolare modo, dalla Nigeria e da molti paesi dell’Est
Europeo.
L’Italia costituisce una delle principali aree di destinazione e approdo delle
organizzazioni criminali e delle persone destinate alla prostituzione, anche per
la sua posizione geografica sul Mediterraneo che ne facilita gli ingressi illegali
soprattutto dai paesi balcanici.
Se è vero che l’emigrazione espone le persone ad un cambiamento dei
parametri spazio-temporali e dei differenti linguaggi comunicativi, non
possiamo non tener conto degli aspetti più complessi concernenti le
rappresentazioni del corpo ed i conseguenti vissuti a livello corporeo1.
Gli atteggiamenti corporei e gli aspetti complessi della comunicazione non
verbale assumono forme differenti da cultura a cultura, e comportano
cambiamenti non automatici né scontati, dove natura e cultura, biologia e
psichismo si incrociano. Il corpo resta il luogo privilegiato della
manifestazione dei conflitti, come d’altronde accade anche in Occidente; e a
qualsiasi latitudine e in qualsiasi cultura esprime la sofferenza interna
dell’individuo e parla più di quanto una mente smarrita possa dire.
Mi sembra importante riflettere sulla questione del corpo, partendo da alcune
testimonianze delle ragazze che vengono a Mamre2 a chiedere aiuto per
riprendere in mano la propria vita, dopo essere passate dall’esperienza della
tratta.
In realtà la richiesta di aiuto non sempre nasce da loro, ma spesso sono spinte
dalla rete protettiva che le circonda; la loro motivazione ad intraprendere un
percorso di aiuto psicologico è debole e incerta, quasi quanto il loro desiderio
di cambiamento. Bisogna lavorare sull’instabilità emotiva che le caratterizza,
costruire basi di fiducia attraverso uno spazio di ascolto “pulito”, ritessere
legami interrotti non solo e non sempre con la famiglia, ma anche con se
* Psicologa psicoterapeuta. Direttore del Centro Mamre
S. Abou ha esaminato la percezione del tempo, dello spazio, dell’Io e dell’ideale dell’Io negli immigrati di
inizio secolo. Vedi S. Abou, L’identitè culturelle, Editions Antrophos, 1981
2 Il Centro Mamre è stato fondato a Torino nel 2001. Attualmente ha due sedi di psicoterapia e aiuto
psicologico per persone e famiglie immigrate. Specifici modelli di intervento e di cura psicoterapeutica sono
indirizzati alle donne vittime della tratta. L’équipe del Centro è formata da psicologi psicoterapeuti, psichiatri,
etnopsichiatri, antropologi medici e mediatori interculturali.
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1
stesse, aiutarle a raccontarsi e a ricostruire la propria biografia, la propria storia
personale riprendendo il discorso del loro progetto migratorio che è il filo
conduttore, il ponte tra il passato e il futuro.
Lavorando su questi aspetti si costruiscono nuove identità, nuove visibilità
sociali, nuovi luoghi, in persone che hanno vissuto per un periodo più o meno
lungo della loro vita “fuori luogo”.
“Fuori luogo” erano i loro corpi, non solo perché fuori dal loro contesto
originario, dalla loro cultura, dal loro paese, ma perché “in nessun luogo” o in
“non luoghi”, non riconosciuti come facenti parte della persona e che la
persona non riconosce come facenti parte di Sé.3
Lasciati i “luoghi della memoria” i corpi si dirigono (a volte costretti) verso
“non luoghi” dove si incontrano, ignorandosi, migliaia di itinerari individuali,
dove i passi si perdono e dove facilmente si possono inserire profondi sensi di
solitudine, che in certi casi possono sconfinare in vere e proprie angosce,
timori abbandonici, vissuti in cui questi corpi si sentono persi e lasciati a se
stessi o in balia di altri.
Tutto ciò può essere motivo di disorientamento e mettere a dura prova la
tenuta psicologica e l’identità della persona.
Il non luogo è il contrario della “dimora” dove tutto è familiare, dove si
depositano gli oggetti cari e si ritrovano gli affetti e i punti di riferimento.
I “non luoghi” sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e
frequentati da individui simili ma soli. Augè parla di stazioni, aeroporti, grandi
supermercati, ma per quanto riguarda le donne della tratta, sono anche le
frontiere, i marciapiedi, i parcheggi, o le camere d’albergo anonime e
intercambiabili.
Mi pare emblematico, a questo punto, introdurre la storia di Angela (nome
fittizio), ragazza di 20 anni proveniente dalla Bulgaria che si racconta con
diverse identità: ad ogni colloquio sostiene di essere nata in un luogo
differente da quello detto la volta precedente (la prima volta dice di essere nata
in Ucraina, poi in Moldavia e infine in Bulgaria), di avere nomi differenti a
seconda delle persone che incontra e di essere stata venduta dal padre a due
uomini che l’hanno trasportata per 5 anni (dall’età di 15 a 20 anni) verso
luoghi che erano solo di transito, ma non sapeva mai quando sarebbe finito il
suo viaggio, perché nessuno era in grado di aiutarla.
Il suo corpo era in balia di altri, era in continuo transito, in anonimo
passaggio, un contenitore sballottato, un corpo dotato di un’imprecisa e
frammentata identità.
Identità debole fin dall’inizio, essendo nata Angela da una coppia anomala, in
cui padre e madre sono due fratelli. Lei è il frutto di una sessualità non
normata, non controllata, frutto di un incesto.
3
Cfr. M. Augè, Non luoghi, Edizioni Elèuthera,1993
2
Parla del padre come di una persona buona con lei, e anche se non la mandava
a scuola stava sempre in casa con lei; ma quando beveva un po’ di più voleva
che lei gli “facesse delle cose strane”.
Ci dice che Angela non è il suo vero nome, ma da quando è stata venduta dal
padre le sono stati cambiati così tanti nomi che ora non sa nemmeno che
nome dare a sua figlia che ha già un mese di vita.
Ad ogni frontiera che passava le veniva cambiata identità; è stata trasportata in
Moldavia dove le è stato “insegnato come lavorare” sulla strada, una sorta di
iniziazione attraverso il dolore e la violenza, è passata in Romania dove è stata
per un anno, ha transitato attraverso la Turchia dove si è fermata qualche
mese, è stata portata in Kosovo dove era costretta a lavorare in locali
notturni, ed è arrivata in Albania, luogo della sua partenza per l’Italia.
Nel caso di Angela si configura bene questa espressione di “corpo fuori
luogo”, corpo trasportato in altri luoghi alienati ed alienanti, appunto “non
luoghi”.
Le ragazze che incontriamo ci raccontano che nel periodo del loro lavoro
hanno incontrato centinaia di corpi, uomini e donne, di cui non ricordano né
volti né nomi. In alcuni casi si ricordano dell’ultimo cliente perché è l’uomo
che le ha aiutate a fuggire o con il quale hanno negoziato un tipo di lavoro
differente. E non è infrequente che se ne innamorino, iniziando una nuova
storia che spesso è la riedizione di quelle passate dove si ripropongono le
stesse dinamiche di sfruttamento.
In ogni modo si tratta di corpi venduti, per cui di nessuno e di tutti, costretti a
lasciare qualsiasi cosa, chiunque, ad andare da un’altra parte, chiamati ad
abitare luoghi non sicuri, non definiti. Corpi inopportuni e condannati perciò
all’esclusione sociale, corpi scissi tra affettività e sessualità.
Corpi continuamente trasformati, e per dirla con un concetto di F. Remotti,
“corpi culturalmente modellati”.4
Rappresentazioni del corpo e cultura
Credo che andando avanti in queste riflessioni non si possa non tenere conto
del significato del termine “cultura”, con tutto ciò che comporta in quanto a
complessità.
In questi ultimi anni è cresciuto l’interesse per il concetto di cultura,
soprattutto da parte delle scienze sociali, con una particolare attenzione da
parte dell’antropologia.
Sembrano tutti concordi ad affermare che la cultura non sia solo quell’insieme
complesso di conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costumi, valori e idee
condivise da un gruppo e trasmesse da una generazione all’altra5, ma la cultura
partecipi alla costruzione di identità diverse attraverso i miti, i simboli, le lingue,
4
5
Cfr. F. Remotti (a cura di), Forme di umanità, Edizioni Paravia, Torino, 1999
Cfr. E.B. Tylor, Primitive Culture, Harper Row, 1973
3
le visioni cosmologiche e i rituali caratteristici di una determinata popolazione o
gruppo etnico.
Possiamo condividere la definizione di cultura di J.e J. Comaroff che
affermano: “Noi concepiamo la cultura come uno spazio semantico, il campo
di segni e di pratiche nel quale gli esseri umani si costruiscono e si
rappresentano in rapporto con gli altri e, in conseguenza di ciò, si
costruiscono e si rappresentano le loro società e le loro storie”.6
La cultura non è mai un sistema chiuso, definito una volta per tutte, ma al
contrario essa contiene saperi che partecipano alla “costruzione di diverse
forme di umanità”. E le varie manifestazioni culturali, tutte le manifestazioni
culturali in realtà, passano attraverso il corpo o ineriscono al corpo.
Anche le manifestazioni culturali più spiritualizzate in realtà esigono una
presenza, un esercizio del corpo, necessitano di una preparazione a cui il
corpo è tutt’altro che estraneo.
Non si può prescindere da questa consapevolezza della presenza e
dell’incidenza del corpo.
Nei rituali iniziatici africani, per esempio, ma anche in altri rituali di
determinati gruppi, è il corpo ad essere oggetto di continue trasformazioni che
incessantemente ridefiniscono la sua estetica, la sua forma, i suoi confini,
attraverso massaggi, tatuaggi, cicatrici, incisioni, scarificazioni, circoncisioni e
cosi via.
Sappiamo che un tratto comune ai rituali iniziatici o a qualsiasi pratica
effettuata sul corpo è il dolore: esperienza emotivamente intensa che non la si
dimentica più per tutta la vita. Lascia un segno nell’esistenza di chi l’ha
provato.
Tutto ciò rinvia a un complesso universo simbolico come a differenti
percezioni del corpo, della persona, della sessualità, della morte.
Risulta chiaro allora che la nostra rappresentazione del corpo come inviolabile
sia un prodotto culturale tanto quanto quello di un corpo soggetto a continui
modellamenti.
Gli antropologi, gli psicologi, e gli operatori nelle scienze sociali sono
consapevoli da parecchi decenni di quello che Marcel Mauss negli anni ’30
chiamava “le tecniche del corpo”.7
Mauss metteva in luce come, per esempio, l’attività del camminare fosse
un’attività che si impara culturalmente, come il respirare, il parlare, il mangiare,
o il modo di vestire siano anch’esse attività culturali. Vediamo allora come
tutte le manifestazioni del corpo siano modellate culturalmente.
cit. in A. Mary, “Conversion et conversation: les paradoxes de l’entreprise missionnaire” in Cahiers d’Etudes Africaines,
160, XL-4
7 Cfr. M.Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, G.Einaudi Editore, 1965
6
4
Iniziazione e modellamenti del corpo in donne vittime della tratta
Mi soffermo a sottolineare l’importanza che assume il corpo in quanto
“oggetto culturalmente modellato”, perché analogamente, anche se in contesti
culturali differenti, con modi e fini diversi di attuazione, mi pare si possa fare
un parallelo di come vengano modellati, trasformati i corpi delle ragazze
vittime della tratta.
Non credo che sia un parallelo troppo azzardato, nonostante le differenti
percezioni di questo modellamento siano evidenti.
Sappiamo, partendo dalle storie delle nostre ragazze, che c’è una sorta di
“iniziazione al lavoro di strada con modellamento del corpo”.
Se i corpi vengono diversamente modellati a secondo delle culture, dei periodi
storici, degli strati sociali, dei vari contesti, forse vengono modellati partendo
da determinate idee, presupposti che sono quelli che ineriscono a una certa
qual idea di essere umano, a una certa qual idea di “persona”.
Persona, nei casi delle ragazze vittime della tratta, da assoggettare,
sottomettere, sfruttare, abbandonare e uccidere in alcuni casi.
Si può pensare ai riti voodu per quanto riguarda le ragazze provenienti dalla
Nigeria, riti di assoggettamento psicologico; come invece per le ragazze
provenienti dall’Est Europeo l’iniziazione alla strada, come la definisco,
avviene attraverso la violenza fisica e non solo.
Riprendendo l’espressione di “corpo culturalmente modellato”, credo che tutti
possano essere d’accordo sul fatto che per le ragazze che sono state vittime
della tratta si attua un intervento, una trasformazione del corpo di tipo estetico
che ricalca certi modelli delle nostre società occidentali.
Chi ha fatto un viaggio in treno o in pullman da Torino a Milano per esempio,
gli sarà capitato di vedere gruppi di ragazze (di solito nigeriane) che salgono
con l’aspetto di bambine e lungo il tragitto si trasformano; si truccano (mi
verrebbe da dire si mascherano in funzione di questa recita che dovranno
fare), si cambiano (in treno ci sono dei veri commerci di vestiti adatti a
svolgere il lavoro), si mettono le unghie finte e delle vistose parrucche e
scendono che sono trasformate in donne.
Vediamo allora come i vestiti appariscenti che connotano subito la donna
come prostituta, il trucco, le unghie finte, il cambiamento di pettinatura, fanno
parte di tutte quelle trasformazioni del corpo e, in definitiva, di quelle
modificazioni della persona che la rappresentano in un determinato modo e le
danno una certa percezione di sé, anche attraverso un certo modo di
muoversi, attraverso un certo linguaggio da imparare e adottare.
Mi raccontava una ragazza ucraina che le era stato dato un quaderno con le
poche parole che doveva usare con i clienti. In modo emblematico la prima
parola da dire loro era: “soldi”. Le altre erano “parcheggio, 5 minuti, non si
parla”. E poi altre più specifiche riguardo alle prestazioni sessuali.
5
Segre, uno studioso di queste tematiche, ha riscontrato che la percezione del
mondo e della sessualità di queste ragazze si modifica al costo altissimo di un
profondo mutamento di personalità che è peraltro indispensabile loro per
affrontare questo tipo di vita.8 Devono apprendere velocemente l’uso
dell’aggressività e della volgarità, devono adattarsi velocemente ai nuovi
luoghi, sia di lavoro che di abitazione (spesso sono case fatiscenti dove
abitano in spazi ristretti con altre ragazze o alberghi di infima categoria).
Anche le ore di lavoro e i ritmi sonno-veglia sono alterati.
E’ importante sottolineare che c’è un vero modellamento, una trasformazione
del “chi si è” psicologicamente e socialmente. E in questo caso il “chi si è”
socialmente è stigmatizzante, oggetto di disapprovazione e lascia la donna
nell’esclusione e nell’invisibilità sociale.
I continui cambiamenti, una continua trasformazione di identità, diventa come
una recita dei rapporti all’interno di relazioni in cui non esiste scambio né
desiderio, né affettività, ma sono forzati e costretti nei limiti del contratto.
La prostituzione come progetto di emancipazione
Alla luce di tutto ciò è lecito pensare che tutto questo produca una
trasformazione nella percezione che si ha rispetto al maschile, alla sessualità e
al proprio corpo.
Vedremo più avanti che queste trasformazioni, questi modellamenti culturali,
come li abbiamo definiti, si dimostreranno ambivalenti nei confronti delle
donne vittime della tratta. Ambivalenti in quanto se da una parte le danno la
connotazione ambigua ed emarginante della prostituta, dall’altra c’è una sorta
di attrazione.
Riguardo alla percezione della prostituzione in Romania, tra i numerosi fattori
che determinano le giovani ragazze a scegliere la prostituzione (condizioni
economiche precarie, problemi familiari, aggressioni sessuali precedenti,
matrimoni falliti e figli a carico), vi è anche l’attrazione verso un mestiere che
promette una serie di vantaggi: guadagni grossi, possibilità di divertimento
sicuro, opportunità di incontrare uomini con buone posizioni sociali,
possibilità di proposte di matrimonio e speranze di arrivare a possedere
determinati status symbol che i nostri mass media ripropongono
insistentemente (abiti firmati, telefonino trendy, gioielli, auto di lusso e così
via)
Se è vero che è presente una sorta di inevitabilità a dover sottostare a certe
condizioni di sfruttamento, è anche vero che c’è il senso di poter andare
incontro a nuove “possibilità di divenire”.
Cfr. S. Segre, La prostituzione come costruzione sociale e l’identità delle prostitute straniere in Italia, in
“Quaderni di Sociologia”, Vol. XLIV,22
8
6
Non poche ragazze che incontriamo ci dicono di avere lasciato al loro paese
una situazione familiare difficile e dei figli piccoli.
Mi viene in mente una donna che è venuta a Mamre e che mi ha espresso
chiaramente il suo dramma per aver lasciato in Moldavia il suo bambino di
pochi mesi ad una vicina di casa. E’ scappata dal paese per sfuggire alla sua
tossicodipendenza e alla estrema povertà che non le permetteva nemmeno di
far sopravvivere il figlio. Consapevole dei danni della droga su se stessa e
indirettamente sul figlio, sola senza genitori né marito, è partita per l’Italia per
venire a lavorare sulla strada. Il suo progetto era di disintossicazione
autonoma e lavorare sulla strada per poter dare un futuro a suo figlio.
Arrivata nel nostro paese è stata presa tra le maglie di alcuni sfruttatori che
l’hanno venduta a tre gruppi differenti e con i quali, racconta, non c’erano
margini né di autonomia né di negoziazione. Ha lavorato qualche mese sui
marciapiedi combattendo tra l’astinenza della roba, la vergogna e il disgusto di
sé e il pensiero del figlio da crescere. Mi diceva che resisteva per lui, ma poi
non ce l’ha più fatta e ha denunciato.
Da quattro anni questa donna è uscita dalla tossicodipendenza, è stata
sostenuta in un percorso di reinserimento sociale ed è stata aiutata da Mamre
con colloqui psicologici. Oggi ha trovato un buon lavoro e sta per sposarsi.
Ma ha perso suo figlio che nel frattempo è stato dato in affidamento alla
famiglia a cui l’aveva lasciato al momento della partenza.
A volte vive ancora profondi sensi di solitudine, ma ha acquistato fiducia in se
stessa, ha ricostruito la sua dignità che credeva perduta e non si sente più
persa in “non luoghi”, in balia di altri, ma ha costruito una familiarità e dei
riferimenti affettivi, difficili spesso da ripensare una seconda volta.
Ma ho in mente anche una giovane donna rumena (Maria, nome fittizio) la
quale mi raccontava che cercava di ottenere più clienti possibili per mettere da
parte denaro che le permettesse di comprare quello che voleva per essere “alla
pari” con tutti. Mi diceva: “…tanto gli uomini erano interessati solo a
raggiungere l’orgasmo, la relazione non esisteva. Sono dei pezzi di merda e
basta. Io gli lascio fare tutto quello che vogliono, ma poi sono io che li sfrutto
e gli faccio ripagare tutto, mi devono camminare sotto le suole”. Maria sta
seguendo un percorso di reinserimento sociale, ma ha difficoltà a instaurare
relazioni stabili con chiunque, e con gli uomini in particolare è sempre viva
l’idea che oggi l’aguzzino è lei e che si vendicherà del male subìto.
In questo senso bisogna un po’ abbandonare il modello spesso riproposto
della donna vittima, andare oltre il binomio vittime/aguzzini, perché, anche se
in modo invisibile, sovente all’interno di questo tipo di coppia i rapporti di
potere sono negoziati, se non addirittura rovesciati.
Quindi al di là delle ragioni economiche, sicuramente presenti e pressanti, c’è
un altro livello di motivazioni, a volte forse inconsce e inconsapevoli, altre
volte più calcolate, che partono tutte da un immaginario esterno fabbricato a
partire dai modelli delle nostre società occidentali, e che influenzano le spinte,
i desideri, i progetti migratori delle persone che arrivano da noi.
7
Tutte queste trasformazioni cambiano la percezione di sé modificando anche
la dimensione della sessualità e mettendo in gioco simbolicamente la gerarchia
tra i sessi.
J.e J. Comaroff prendono in esame proprio questo aspetto: il potere di tipo
imprenditoriale che viene esercitato da queste donne attraverso una propria
autonomia, per arrivare ad avere accesso a beni e potere economico.
Uno psichiatra che lavora in una ASL di Torino mi raccontava che in una città
delle Marche, non molto tempo fa, si è verificato il fenomeno delle “donne
russe”. E’ iniziato quando un imprenditore delle Marche è andato in Russia ed
è tornato con la moglie. La signora in questione ha impiantato un vero
business, facendo venire in Italia altre donne russe e organizzando matrimoni
con uomini italiani. La concertazione tra loro era realizzata in modo tale che le
donne potessero spogliare economicamente il proprio marito, divorziare ed
eventualmente risposarsi con un altro uomo con lo stesso fine.
La donna oggi attraverso la prostituzione non fa altro che replicare, sul
versante dello sfruttamento dei corpi, questa consuetudine femminile con la
gestione del potere e dei beni.
Non è così infrequente che alcune donne, dopo aver pagato il loro debito agli
sfruttatori, diventino loro stesse sfruttatrici. C’è una sorta di identificazione
con l’aggressore e di coerenza con le economie occidentali di mercato.
La sessualità e la prostituzione nei luoghi d’origine
Che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo è un luogo comune
da tutti conosciuto.
Ma vale la pena per un momento analizzare il fenomeno, differenziando la
percezione della sessualità e l’attività della prostituzione nei paesi d’origine, alla
forma che si è sviluppata recentemente nei luoghi d’arrivo (Europa).
I paesi dell’Europa centro-orientale e dell’ex Unione Sovietica hanno avuto
una sempre crescente espansione nel circuito del sesso commerciale, che fino
alla fine degli anni ’80 presentava modeste dimensioni, o perlomeno non si
conosceva il fenomeno perché illegale e praticato clandestinamente.
E questo perché sotto le dittature di questi paesi tutto veniva controllato,
censurato, dalle informazioni agli studi, dal lavoro ai beni di consumo,
dall’educazione ai comportamenti, dallo stile di vita alle attitudini e ai desideri,
e anche la sfera sessuale era sottoposta a una forte censura e non esisteva una
dimensione pubblica della sessualità.
Veniva controllata l’affettività (tra marito e moglie non c’era un atteggiamento
di fiducia), e i rapporti amorosi (tra fidanzati non si parlava mai di questioni
politiche e non ci si poteva mai lasciare andare ad atteggiamenti troppo
confidenziali); la femminilità veniva negata e la sessualità era un forte tabù in
un periodo in cui L’Europa era l’Occidente libero che permetteva le
contestazioni alle donne, la liberazione della loro femminilità e l’esaltazione
della loro sensualità.
8
Nei paesi di regime anche le mode erano standardizzate.
Si potrebbe dire anche in questo caso che i regimi, con le loro censure,
rigidità, violenze psicologiche e non, con i loro muri reali e immaginari, hanno
culturalmente modellato i corpi, le mode, i modi di pensare, la percezione di
come essere persona, di come vivere l’affettività e la sessualità.
Un’affettività fredda anche se profonda (e l’intensità della loro affettività la
possiamo vedere dal molto che sono disposte a sacrificare per le loro famiglie,
i loro figli), un’affettività modellata (riprendendo il termine già spesso usato)
in una cultura di per sé fredda; una sessualità negata, repressa, subìta e vissuta
passivamente.
Le giovani generazioni, che sono quelle delle ragazze che vengono da noi oggi,
sono tutte concordi nel sostenere che la sessualità era ritenuta qualcosa di
sporco, di vergognoso, di cui non si parlava mai, né a scuola, né in famiglia,
era vissuta in modo nascosto.
Non si fa fatica a pensare che la percezione della sessualità e il rapporto con il
maschile fosse di subordinazione, dove il ruolo dell’uomo assumeva una
posizione di tipo autoritario e maschilista.
Ovviamente ogni generalizzazione è fuorviante, ma intenzionalmente
enfatizzo degli aspetti che sicuramente sono stati condizionanti per molte
donne dell’Est Europeo, dal momento che i contesti culturali e sociali
influenzano anche le modalità di espressione dell’affettività e della sessualità.
Con la caduta dei regimi che imponevano una programmata organizzazione
sociale nasce un iniziale senso della liberazione, seguito subito da un forte
disorientamento, da un senso di dis-organizzazione e una conseguente
confusione.
Non c’è più lo Stato, ma al suo posto non c’è nulla e la gente si accorge subito
che regna il caos. Non ci sono più certezze, punti di riferimento e le stesse
istituzioni non sono in grado di garantire nulla, nemmeno il lavoro che si
aveva fino a quel momento. Crolla lo Stato che controlla, ma al suo posto non
nasce uno Stato Sociale che difende i diritti dei cittadini. Tutti sono in balia di
se stessi o degli altri e non c’è la capacità di prendere in mano la situazione
perché l’omologazione precedente non ha permesso che si sviluppasse un
pensiero individuale, creativo, ideativo, capace di emergere.
La caduta dei regimi provoca cambiamenti troppo veloci che non riescono ad
essere subito interiorizzati.
Anche il vissuto della sessualità come tabù viene rapidamente modificato, in
nome di una liberalizzazione del sesso.
La prostituzione che sotto il regime comunista veniva praticata di nascosto
perché non legale, dopo il 1989 esce da un relativo anonimato e semi
clandestinità per conoscere una larga espansione.
In Romania, ma in molti paesi dell’Est, attorno agli anni 1993, si vede un
esplosione di case chiuse e si struttura sempre di più “l’industria del sesso”.
9
Dagli anni 1998 al 2002 la prostituzione dell’Est entra in una rete
internazionale, dimostrando di essere in grado di creare una rete di criminalità
organizzata molto efficiente.
Con l’apertura delle frontiere si aprono i nuovi orizzonti del sesso a
pagamento e la rappresentazione del desiderio sessuale fa un ingresso
massiccio nella quotidianità, attraverso i circuiti dei mass media: Internet,
video porno, tv private, giornali, inserzioni di massaggi, offerte di posti di
lavoro all’estero come ballerina o fotomodella, finti annunci matrimoniali,
spogliarelliste e quant’altro.
Secondo una ricerca di Ian Taylor e Ruth Jamieson la crescita di consumo dei
servizi sessuali può essere compresa solo se considerata come parte della più
ampia cultura delle società di mercato.9
L’allargamento di questo consumo è parte del processo di liberalizzazione del
commercio e delle attività economiche a livello globale e della più generale
riorganizzazione della vita politica ed economica attorno al cittadinoconsumatore, catturato in un gorgo crescente di consumismo.
La prostituzione sembra essere sempre più propriamente un “bene di
consumo”.
Come afferma Paola Monzini la spinta a considerare la mercificazione del
sesso come un’opportunità, agisce soprattutto sull’immaginario di giovani
donne che vivono in situazioni di precarietà economica e disagio familiare,
portandole a sottostimare i forti rischi di sfruttamento spesso connessi
all’organizzazione stessa in questo tipo di attività.10
Al momento del crollo dei regimi, la prostituzione, praticata di nascosto e
considerata illegale, ha iniziato a diffondersi in modo spontaneo.
Molti altri paesi dell’Ex Unione Sovietica, paesi baltici e paesi dell’Europa
centro-orientale hanno conosciuto una notevole espansione nel mercato del
sesso, con una specializzazione nello sfruttamento delle donne.
E’ indicativo un fatto che mi è stato riferito da una mediatrice culturale
proveniente dall’Estonia: quando si chiedeva alle ragazze di 13/14 anni che
cosa volessero fare da grandi, loro dicevano con orgoglio che avrebbero fatto
le “prostitute”; questo sogno era motivato dal fatto che le prostitute che
lavoravano nei bordelli avevano vestiti costosi e guadagnavano molto denaro,
in confronto ai loro genitori che con due lavori e dei miseri stipendi a
malapena mangiavano.
L’immaginario della prostituta era di una donna alta, magra, bella. La
prostituta era il modello da raggiungere, un modello di autonomia,
emancipazione, libertà. Un modello che certamente permetteva di dare un
aiuto economico anche alle loro famiglie.
Proprio questo si poteva ottenere venendo in Europa.
9
Cfr.I. Taylor e R. Jamieson, Sex Trafficking and the Mainstream of Market Culture in “Crime Law & Social Change”, 32 – 1999
10
P. Monzini, Il mercato delle donne. Prostituzione, tratta, sfruttamento, Edizioni Donzelli, 2002
10
Da ricerche sul campo si è visto, per esempio, che l’Ungheria ha una
efficientissima industria sessuale, articolata sia nel campo della prostituzione
che in quello della produzione di video e film.
Oggi quasi la metà delle persone che si prostituiscono in Europa sono
immigrate. La loro presenza ha incominciato a diventare consistente a partire
dalla fine degli anni ’80, e ora le straniere hanno un ruolo fondamentale nei
mercati di ogni paese, se pensiamo che il giro di affari delle persone ridotte in
stato di semi schiavitù si aggira attorno ai 7 miliardi di dollari all’anno.11
Trasformazioni e differenti modalità di reclutamento e prostituzione
La prostituzione ha assunto nuove modalità di essere praticata e la
rappresentazione di questo mestiere si è modificata.
Le nuove forme di incontro tra chi si prostituisce e chi paga sono cambiate :
vengono assunte nuove forme di reclutamento delle ragazze per i diversi paesi
dell’Europa.
Le strategie alla base dello sfruttamento, che ne permettono la sua
realizzazione e sviluppo, variano anche in relazione delle nazionalità
d’appartenenza e della capacità di autodifesa dei gruppi di donne coinvolte,
nonché dal loro “progetto migratorio” o dalla costrittività violenta o meno che
subiscono per esercitare la prostituzione.
In altri termini, si ipotizza che le organizzazioni criminali o i singoli sfruttatori
abbiano incominciato a praticare uno sfruttamento differenziale, non più solo
attraverso l’uso della violenza sia fisica che psicologica, ma nella ricerca di
consensi o modalità di “quieto vivere” tra le parti in causa, nella possibilità di
accettare delle mediazioni per rendere strumentalmente vantaggiose le
aspettative della donna (ad esempio non essere assoggettata a forme di
violenza o torture) e degli sfruttatori (guadagnare denaro senza entrare
continuamente in conflitto con la donna)12.
Inoltre, sulla base delle tipologie e delle modalità con la quale si esercita la
prostituzione, variano i rapporti tra gli sfruttatori e le donne coinvolte, sia
nella fase di reclutamento e di assoggettamento, sia in base alla volontarietà o
meno espressa dalla donna nonché la capacità di contrattare i luoghi dove si
effettua l’attività di prostituzione..13
Per le donne dei paesi dell’Est provenienti, in particolare, dall’Albania,
Moldavia, Romania, la modalità di reclutamento è attuata ancora attraverso
raggiri con promesse di lavoro e di matrimonio e l’assoggettamento è basato
sulla violenza fisica e psicologica, sull’isolamento sociale e sul controllo
Cfr. P. Monzini
Cfr. F. Carchedi, Prostituzione, migrante e donne trafficate, Edizioni Franco Angeli, 2004
13 Cfr. F. Carchedi, La prostituzione straniera e la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale, in “Le condizioni
degli immigrati in Italia”, Agenzia romana per la preparazione al Giubileo, F. Carchedi (a cura di) “Migrazioni.
Scenari per il XXI secolo”, Vol.II, So.gra..ro Spa, Roma, 2000
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ravvicinato, nonché sulle minacce nei confronti dei familiari. La prostituzione
è ancora attuata sulla strada, anche se negli ultimi anni si assiste ad uno
spostamento negli appartamenti.
Per le donne russe, polacche , ucraine, slovene, bosniache il reclutamento ha
modalità di tipo consensuale, mediante contratti attraverso agenzie di viaggio.
Spesso il lavoro viene svolto per strada, ma appare consistente anche quello
svolto nei locali di intrattenimento o in appartamenti.
Per le donne nigeriane (si comprende anche la tratta di persone provenienti
dal Ghana, Costa d’Avorio e Camerun)il reclutamento è basato su promesse di
lavoro e con forme di indebitamento per sostenere le spese di viaggio e i primi
mesi di permanenza nel paese d’arrivo. Viene stipulato un contratto suggellato
dal rituale woodoo che vincola la donna al rispetto assoluto del medesimo e al
pagamento del debito. I luoghi dell’esercizio della prostituzione sono
generalmente per strada, anche se in misura sempre maggiore vi è uno
spostamento verso gli appartamenti o i locali notturni. Le donne presenti da
maggior tempo nel paese lavorano in appartamenti, locali notturni o in
Internet per porno video o film.
Tutte le ragazze che incontriamo a Mamre ci dicono che lo scarto tra l’ideale
sognato e la realtà a cui si va incontro si dimostra subito abissale.
E’ pur vero che nei paesi dell’Est e dell’Ex Unione Sovietica la donna, con
poche eccezioni, “viveva una mancanza di libertà totale essendo
completamente sottomessa alla dominazione dei genitori o del marito” (tratto
dal documento rumeno sulla prostituzione), la sua affettività era inibita,
desessualizzata e orientata prevalentemente verso la famiglia. Direbbe Freud:
“l’amore inibito nella meta”.
La sessualità era subìta e quindi vissuta in modo passivo.
Ma se da un lato, quindi, c’è un atteggiamento marcatamente difensivo nei
confronti della sessualità, dall’altro questa dimensione risulta per loro una
possibilità di affermarsi ed affermare dei diritti.
Per le ragazze e le donne in questione, fuggire dai propri paesi che hanno gravi
problemi sociali (alcolismo, violenze intrafamiliari, abbandoni di minori) e
pesanti problemi economici (alto tasso di disoccupazione, bassi stipendi,
crescita sproporzionata dell’inflazione) significa voler costruire progetti di
autonomia ed emancipazione, andare incontro a desideri di
individualizzazione, essere disposte anche a sottostare alle regole dello
sfruttamento da parte di organizzazioni criminali. La prostituzione è vissuta
allora come chiave di cambiamento per una vita diversa.
Come sosteneva una ragazza moldava: “se devo scegliere da chi essere
sfruttata scelgo tra più sfruttatori”. E’ l’illusione di una scomposizione del
trauma che pare meno dolorosa da affrontare ed elaborare.
Questo dà la cifra del fatto che la sudditanza (sessuale) non è più tollerata, in
un mondo dove gli scambi, anche sessuali, sono diventati commerciali e a
livello planetario.
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La donna, con la sua merce, entra a far parte del mercato e ha potere di
negoziazione. La prostituzione è la possibilità di affacciarsi a nuove realtà e a
nuove possibilità di essere.
In questo senso la prostituzione sembra essere legata a un processo di
emancipazione o emancipazione di un “falso sé” illusorio.
Attraverso la prostituzione la donna sviluppa il suo progetto migratorio
modificando la percezione di sé e della sua sessualità.
Allora, i luoghi fino ad allora abitati vengono lasciati per altri luoghi, in fondo
non meno freddi dei loro. A ben pensarci, le nostre città ricalcano il modello
delle città nordiche, rispetto alle quali le ragazze dell’Est possono provare un
minor senso di spaesamento, meno perdita di senso e di luogo rispetto ad
esempio alle ragazze provenienti dall’Africa, dove il contesto ambientale è
completamente differente.
L’effetto di straniamento provocato dallo sradicamento dal proprio paese
d’origine e dalla perdita dei riferimenti simbolici e affettivi significativi, viene
enfatizzato nel caso delle ragazze che si prostituiscono per la prima volta in un
paese straniero con un ambiente, un clima, una cultura molto differenti dalla
loro.
Nell'ambiente "nuovo" cadono i riferimenti significativi e la struttura della
personalità corre il pericolo di indebolirsi e di frantumarsi.
Si rafforza così un bisogno di dipendenza affettiva da oggetti familiari che viene
cinicamente sfruttato dagli sfruttatori che, sulla base di processi di
identificazione e spostamento vengono vissuti come “protettori”.
Da un punto di vista psicodinamico si tratta di un tentativo di colmare il senso
di vuoto e di sradicamento vissuto allontanandosi dal loro paese.
Percorsi di cura con donne vittime della tratta
Il lavoro condotto al Centro Mamre da un'équipe di psicoterapeuti, psichiatri,
etnopsichiatri, antropologi medici e mediatori culturali consiste in colloqui
psicoterapeutici che permettono alla persona di affrontare, gestire ed
eventualmente superare il dolore che crea problema.
Molte ragazze che provengono dal mondo della tratta hanno subìto mille
trasformazioni e cambiato mille maschere di recita, e abbandonando quel
vissuto per entrare in nuovi progetti di vita devono accettare nuove
trasformazioni ed entrare in un altro percorso, quello della protezione sociale.
Sembra di andare incontro ad una “duplice spoliazione”: dal mondo torbido e
abbietto, dagli incontri occasionali e spesso perversi, al mondo, in un certo
qual senso, delle origini. O per lo meno dove si vorrebbero ritrovare le origini
di se stesse. Ma le origini sono lontane perché si è passate da continue
trasformazioni di identità, da cambiamenti spazio-temporali a modificazioni
della percezione di sé.
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E’ allora possibile costruire insieme a queste donne un progetto umano
credibile?
Bisogna rompere le barriere della paura reciproca, instaurare relazioni di fiducia,
sospendendo ogni giudizio moralistico, e accettare le bugie o le mezze verità
che vengono raccontate e che fino a quel momento hanno permesso loro di
sopravvivere; è necessario stabilire una relazione di profondo rispetto e
attraverso un ascolto attento e partecipante percorrere con loro la ri-narrazione
della propria vita rivisitando il progetto migratorio e, realisticamente,
riprogettare nel futuro.
Molte ragazze, uscite dal mondo della strada, provano sensazioni di diffidenza,
sfiducia, rassegnazione, apatia, depressione, fino ad arrivare ad atteggiamenti di
aggressività, al disgusto di sé, e a tentativi autolesivi se non anticonservativi.
In tutto questo percorso non facile né scontato si possono generare equivoci o
malintesi, dovuti alle difficoltà che spesso le ragazze (e non meno gli operatori)
trovano all’interno delle comunità di accoglienza.
Non bisogna mai cadere nell’atteggiamento missionario o nell’illusione salvifica
che, in termini psicologici, è l’onnipotenza di sostituirci a loro con un Io
vicariante.
A volte abbiamo l’impressione che siano deboli e fragili e che il loro Io sia
destrutturato. Ma nella maggior parte dei casi, queste ragazze che hanno subìto
traumi terribili, si sono strutturate delle difese forti e un Io aderente alla realtà.
Il primo compito durante l’ascolto è raccogliere le motivazioni e i desideri al
cambiamento, ma non di meno è importante una valutazione realistica delle
possibilità di realizzazione.14
Bisogna lavorare sul presente, sul “qui ed ora”, riducendo la portata delle
ambizioni e articolandole in obiettivi progressivi.
Solo in questo modo la possibilità del dialogo è davvero intrinseca nella
situazione, è strutturale.
Creare un progetto umano credibile significa, allora, creare un contesto di
ascolto su ciò che le ragazze sono in grado di portare di loro, della loro storia,
delle loro trasformazioni, e attraverso questo percorso poter lavorare sulle loro
risorse, riprendendo le loro parti migliori che le aiuteranno a ricostruire fiducia,
autostima e identità, al fine di creare una nuova cornice e di generare una nuova
prospettiva, con la possibilità di poter scegliere uno tra i tanti modi possibili di
essere al mondo: il loro. Rispettando la loro soggettività di “esseri unici”.
Ma in qualsiasi lavoro di cura non basta usare l’ascolto, l’empatia, il rispetto o la
simpatia: bisogna che la persona avverta che ci prendiamo cura di lei.
E prendersi cura significa tenere conto dei diversi livelli di appartenenza della
persona, compreso il livello degli antenati, degli spiriti, dei morti, delle divinità.
Prendersi cura significa tenere conto dell’identità della persona e come questa
identità si è formata, tenere conto della ragione di essere della persona, ancora
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Cfr. M. Da Pra Pochessia, Prostitute, prostituite, clienti. Che fare?, Edizioni Gruppo Abele, 2001
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prima della sua storia, andare al di là di ciò che è manifesto e lavorare attorno
agli elementi impliciti del mondo che deve rappresentare.
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