LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Paradiso
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto II
Cielo I o della Luna. Le anime che non compirono i voti. Ammonizione ai lettori. Arrivo e
penetrazione del corpo di Dante nel corpo della luna: la vera causa.
Sin dal primo canto i lettori hanno avvertito il tenore concettuale di questa cantica, pertanto considerino
bene se sia il caso di proseguire in questa nuova esperienza; e così dunque il Poeta: “o voi che siete in
piccioletta barca,/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca”;
ammonimento a chi lo ha fin qui seguito; ora l’impegno dovrà essere ben più serio.
Come si vede, Dante continua ad avvalersi della metafora del mare: nel canto precedente era l’approdo
a “diversi porti per lo gran mar de l’essere”, ora sono “la piccioletta barca” e il “mio legno che
cantando varca”; e la metafora prosegue con l’esortazione “tornate a riveder li vostri liti:/ non vi
mettete in pelago”, in alto mare, con il rischio di prendere la rotta e poi di perderla: “rimarreste
smarriti”, poiché “l’acqua ch’io prendo già mai non si corse”. Il pensiero ci corre così ad Ulisse,
presente già nel XXVI dell’Inferno e nel primo del Purgatorio; ora qui, ma poi verrà ripreso in quel
“varco/ folle d’Ulisse” di cui dirà nel XXVII, unica immagine evocata della terra nell’atto di
oltrepassare i cieli, prima di immergersi nell’eternità.
E allora chi invocare per trarre ispirazione al canto? “Minerva spira, e conducemi Apollo,/ e nove Muse
mi dimostran l’Orse”.
Assicuratosi l’intervento delle divinità ispiratrici della Poesia, il Poeta si rivolge a quelli che, volendo,
sono in grado di seguirlo, a coloro che da sempre si sono dedicati agli studi seri “al pan de li angeli”,
allo studio della sapienza divina, un pane “del quale/ vivesi qui ma non sen vien satollo”, se non in
cielo; li consiglia a seguirlo “metter potete ben per l’alto sale/ vostro navigio, servando mio solco/
dinanzi a l’acqua che ritorna equale”, e così proseguendo il discorso metaforico del mare. Se dunque lo
seguiranno si meraviglieranno più dei compagni di Giasone, quando da condottiero lo “vider fatto
bifolco”, a guidare l’aratro aggiogato ai due mitici buoi.
Nel canto precedente abbiamo notato come lo sguardo di Beatrice, fisso al cielo, significasse salire; vi si
riallaccia Dante “la concreata e perpetüa sete/ del deiforme regno cen portava/ veloci quasi come ‘l ciel
vedete”. Guardare al cielo è metafora dello sguardo interiore verso la sapienza, un motore capace di
spingere verso l’alto la sete della sapienza: “Beatrice in suso, e io in lei guardava” e giungono “ove
mirabil cosa/ mi torse il viso a sé”; e Beatrice legge in viso lo stupore di Dante e “drizza la mente in Dio
grata,,, che n’ha congiunti con la prima stella”, sono giunti al primo cielo, della luna. Dante credeva di
intravedervi una nube che la ricoprisse “lucida, spessa, solida e pulita/ quasi adamante che lo sol
ferisse”. La meraviglia di Dante nasce dal fatto che questa superficie solida, spessa, “quasi adamante”
possa accogliere al suo interno il corpo di Dante; certo il raggio di luce penetra nell’acqua, ma non
comprende “s’io era corpo, e qui non si concepe/ com’una dimensione altra patio”. Se un corpo penetra
un altro corpo, come accade lì, quale meraviglia e quale desiderio di comprendere non deve suscitare in
noi il fatto ancor più prodigioso della natura umana unita in Cristo a quella divina: in cielo si potrà
vedere chiaramente quello che ora “tenem per fede”! Lì tutto sarà chiaro, così come i primi e intuitivi
principi.
Grato ora a Dio ché “dal mortal mondo m’ha remoto”, e il suo corpo non è più soggetto alle leggi della
fisica, un altro dubbio assale Dante, che cosa siano quelle che noi chiamiamo macchie lunari. Beatrice a
tanta ingenuità, “sorrise alquanto”. Con questo sorriso si apre ancora un esempio di lectio. La premessa:
l’opinione degli uomini può errare circa verità che non hanno come base il dato sensibile; poiché
l’intelletto umano può elaborare conoscenze solo partendo da quanto i sensi estrapolano dal dato
esterno. Pertanto - e la cosa non deve meravigliare - se questa è la premessa, la gamma di conoscenze
dell’umano intelletto è veramente limitata; se poi si pensa che anche il dato sensibile può essere mal
estrapolato, “la ragione ha corte l’ali”. Ma, continua Beatrice, “dimmi quel che tu da te ne pensi”: è la
presentazione della tesi degli avversari che il maestro, Beatrice, confuterà dimostrando “falso il creder
tuo”; e Dante: vedere i corpi di quassù, più chiari e più lucenti, ci permette di cogliere meglio il fatto che
la diversità del loro splendore dipende dalla maggiore o minore densità della materia dei corpi stessi “i
corpi rari e densi”. Allora Beatrice prima esorta Dante a porre attenzione alla confutazione della sue
idee, come fosse la tesi degli avversari, “l’argomentar ch’io li farò avverso”, poi all’esposizione della
propria tesi: “La spera ottava vi dimostra molti lumi”; nel cielo delle stelle fisse ci sono molti corpi
celesti, lumi, diversi fra loro “di diversi volti”, sia per qualità, nel quale, che per quantità, nel quanto; se
questo dipendesse esclusivamente dalla rarità o densità dei corpi, “una sola virtù sarebbe in tutti,/ più e
men distributa e altrettanto”, mentre “virtù diverse esser convegnon frutti/ di princìpi formali, e quei,
fuor ch’uno,/ seguiterieno a tua ragione distrutti”; in sostanza, dice Beatrice, il principio della densità
richiederebbe che l’influenza degli astri sui corpi fosse di una specie sola, diversa solo per quantità,
quale più quale meno, mentre la molteplicità e la diversità delle specie e degli individui terrestri richiede
influenze molteplici e qualitativamente diverse; influenze che dipendono da princìpi formali diversi, e
non da un principio solo, come invece postulerebbe l’opinione di Dante. E ancora, prosegue Beatrice, se
la rarità fosse il criterio di distinzione di ciò che è più o meno oscuro, “di quel bruno”, i casi sarebbero
due, o la luna in quelle zone sarebbe scarsa di materia da una parte all’altra, laddove è meno scura, o,
come un corpo ha parti con più o meno grasso, avrebbe parti più e parti meno dense, come un libro ha
pagine più sottili e altre più spesse. La prima ipotesi è sconfessata dall’eclisse, il sole rimane egualmente
sbarrato per tutta la superficie. Più complicato è dimostrare la falsità della seconda ipotesi, ossia che
raro e denso siano disposti a strati; tuttavia se dimostrata errata, tutto l’argomento di Dante sarà tale.
Bene, argomenta ancora Beatrice, supposta una densità dove più e dove meno, quando il raggio di luce
incontra la parte più densa di materia dovrebbe tornare indietro e riflettersi, come l’immagine viene
riflessa da uno specchio. Se però pensi che lì il raggio di sole è più oscuro, perché riflesso da più
lontano, allora rifletti sull’esperimento degli specchi. Prendi tre specchi, due li poni ad un’eguale
distanza da te: il terzo, più lontano, in mezzo ai primi due; tu, rivolto verso di essi fa’ in modo che alle
tue spalle sia posta una sorgente di luce che si rifletta sui tre specchi, e il riflesso torni a te, vedrai che la
fonte luminosa risplenderà in maniera uguale, anche se quella riflessa dallo specchio più lontano è meno
forte “benché nel quanto tanto non si stenda/ la vista più lontana, lì vedrai/ come convien ch’igualmente
risplenda”. Ora che l’errore, come neve ai raggi del sole, ha lasciato nudo il tuo intelletto, lo “voglio
informar di luce”. “Dentro dal ciel de la divina pace/ si gira un corpo ne la cui virtute/ l’esser di tutto
suo contento giace”, nel cielo Empireo si volge il Primo Mobile o Cristallino, in questo vi è, giace, una
potenzialità, virtute, che si riverbera tutta sull’ottavo, a sua volta, contenuto nel Cristallino: tutte, e
ciascuna stella, ivi contenute, le stelle fisse, dispongono a loro volta di potenzialità peculiari volte a
proiettarle su “li altri giron”, pianeti; ciascuno in differenti modi possiede virtù distinte “per varie
differenze/ le distinzion che dentro da sé hanno/ dispongono a lor fini e lor semenze”, insomma in scala
vanno ad influire sulla generazione di specie e di individui diversi. Ora appare chiara la conclusione,
“questi organi del mondo così vanno,/ come tu vedi omai, di grado in grado,/ che di sù prendono e di
sotto danno”, insomma questi cerchi concentrici ricevono virtù da quelli che li contengono e, a loro
volta, la trasmettono a quelli da essi contenuti, ognuno con potenzialità differenti; e tutti a riflettersi sul
punto terminale che è la terra.
“Riguarda bene omai”, attento all’ultimo passaggio: i cieli non potrebbero influire sullo spirito se a loro
volta non fossero presieduti e mossi “da’ beati motor”, dalle intelligenze angeliche, come i colpi del
martello traggono origine dal(la mente del) fabbro: ciascun cielo è riflesso della potenza del suo angelo
motore, come il corpo umano è riflesso dell’anima. “Virtù diversa fa diversa lega/ col prezïoso corpo
ch’ella avviva,/ nel qual, sì come vita in voi, si lega”; l’intelligenza angelica sta al suo cielo, come
nell’uomo l’anima sta al corpo. La perfezione angelica, come elemento formale, comunica al proprio
cielo la sua virtù, come l’anima al corpo comunica “letizia per pupilla viva”. E, dunque, dalla virtù
angelica, “da essa vien ciò che da luce a luce/ par differente, non da denso e raro”, proprio perché “essa
è formal principio che produce, conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro”. Alla diversa perfezione
delle gerarchie angeliche corrisponde una diversa influenza da parte dei cieli, e ognuna di esse, senza
l’ostacolo della densità, passa attraverso i cieli inferiori.