Una cosmica malinconia
- Sonia Gentili, 14.08.2015
Mappe celesti / 9. I poeti e il mondo del cosmo, anelata catena di trasmissione tra creato e creatore,
trampolino per amori eterni, soprattutto per Dante e Petrarca, una volta perduto il loro fisicissimo
«corpo del desiderio»
La nostra tradizione poetica inizia con un grandioso omaggio alle stelle: tutte e tre le cantiche della
Commedia di Dante si chiudono con questa parola. Ma che senso hanno, nel mondo dantesco, gli
astri e i cieli? Nella cosmologia aristotelico-tolemaica della Commedia – nella quale la parola stella
significa in generale «corpo celeste» il cosmo è diviso in nove sfere concentriche – i cieli, appunto –
di cui la più esterna, detta Primo Mobile, trasmette il proprio movimento di rotazione di cielo in cielo,
fino a quello più interno.
Ai nove cieli tolemaici Dante ne aggiunge un decimo ancora più esterno, cioè quello «cattolico» (così
lo definisce in Convivio II, iii 8) detto Empireo, sede di Dio, degli angeli e dei beati. Questo cielo
immobile, ispirato sul piano fisico al primo motore immobile aristotelico, permette di integrare alla
fisicità dei cieli l’immaterialità del Dio cristiano: l’Empireo contiene gli altri non in senso fisico –
essendo totalmente spirituale non ha luogo concreto – ma in senso causale, poiché provoca il
movimento celeste attraverso l’amore che il Creato prova per il suo Creatore, il quale assorbe e
risolve in sé ogni moto sentimentale delle creature. È questo il senso del viaggio raccontato nella
Commedia, dove l’amore umano di Dante per Beatrice è redento nella dimensione spirituale di guida
verso Dio esercitato dalla donna ormai morta e collocata in paradiso.
I due motori
È questa, al di qua e al di là di Dante, la grande questione dibattuta dai poeti delle Origini in merito
alla natura dell’amore, come spiega con esemplare chiarezza lo straordinario sonetto anonimo n. 386
tramandatoci dal Canzoniere Vaticano, uno dei tre grandi manoscritti che ci trasmettono la poesia
duecentesca. Il testo (edito in Sonetti anonimi del Canzoniere Vaticano, a cura di Paolo Gresti)
spiega che mentre gli animali agiscono solo per impulso naturale, e dunque non vivono il conflitto
interiore della scelta, l’agire umano è mosso da due «motori», ragione e istinto («Naturalmente
animali e planti / fanno tutti loro operazïone / come natura chere, e nonn-avanti, / ché nulli sanno
usare discrezione. / Ma l’omo ha due mutori in fatti manti, / natura ed intelletto co ragione»).
L’istinto porta l’uomo all’amore per il mondo, mentre la ragione lo porta al cielo e a Dio: per questo
abbiamo «diversa openione», cioè libertà di scelta tra il cielo e il mondo («natura vuole amar, però
son tanti /che follemente fanno soduzione: / ’e son seguaci de la volontate / non dicernando lo mal
che n’avene, / e così père, per voglia, ragione. / Ma llo ’ntelletto sta con deïtade / e contastare vuol
chi non fa bene: però ha l’om diversa openione»).
Tutto il dibattito duecentesco sull’amore è imperniato sul dramma del bivio tra terra e cielo al quale
l’uomo è ontologicamente collocato: per questo homo adsimilatur horizonti («l’uomo è simile
all’orizzonte») si legge in Dante De monarchia, III, XV 3. Dante trasforma il bivio in una progressione
lineare dal mondo al cielo perché Dio, secondo il modello aristotelico del primo motore immobile,
«muove in quanto è amato» (Aristotele, Metaphysica 72b3), cioè imprime ai cieli, ai corpi celesti e
alle creature terrene un amore che genera un movimento di ritorno a lui, la cui grandiosa immagine
chiude il Paradiso: «ma già volgea il mio disio e ’l velle / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor
che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 143-5).
Le stelle dantesche non sono che una parte della grande catena di trasmissione del rapporto
d’amore tra Creato e Creatore che redime e assorbe la finitezza degli amori umani. Tuttavia questa
risoluzione del mondo fisico nel cielo divino – cioè questa ottimistica risoluzione dell’amore umano in
amore per Dio vale, nel Medioevo, per i filosofi e i poeti che, come Dante, credono in una
coincidenza strutturale tra ordine fisico, ordine teologico delle cause e strumenti conoscitivi
dell’uomo: una grande architettura di impianto razionalistico, insomma, in cui la scienza e
l’astronomia sono in grado di leggere, capire e descrivere il dispiegarsi di Dio nel mondo e l’universo
come concretizzazione dell’ordine divino.
A questa mentalità scientista, cioè alla possibilità che l’astronomia renda visibile – e riduca ad una
«meccanica» descrivibile – la volontà divina si erano opposti all’inizio dell’era cristiana i padri della
Chiesa: «la geometria e le ricerche aritmetiche, gli studi intorno ai solidi, la rinomata astronomia,
vanità opprimente, a quale fine si volgono? Perché coloro che si dedicano a quegli studi hanno
creduto questo mondo visibile coeterno a Dio, creatore dell’universo, elevandolo alla stessa gloria
che compete alla natura incomprensibile e invisibile», aveva scritto Basilio di Cesarea.
Petrarca, che vive la crisi trecentesca dello scientismo aristotelico medioevale, torna ai dubbi
patristici sulla scienza e afferma una sostanziale divergenza tra il mondo, inaccessibile alla scienza a
causa della sua radicale contingenza, e Dio, ugualmente inaccessibile alla ragione poiché il suo
mistero la trascende; quasi cinque secoli dopo, Leopardi riformulerà lo stesso ragionamento in
chiave atea e materialistica. Ridotto a immagine radicalmente transeunte il contingente e a mistero
impenetrabile ciò che non è contingente, poco importa, infine, che il mistero coincida con Dio, come
in Petrarca, o con la «cieca» natura come in Leopardi: in entrambi i casi la scienza non sa più
descrivere il rapporto tra il mondo fisico e le sue cause prime, e la simmetria tra questi due ordini di
realtà si perde nel mistero di due diverse inconoscibilità.
La luna è muta
Presso entrambi i poeti, i cieli e le stelle non esibiscono più con chiarezza il «senso» della loro
impronta divina, né si aprono più all’uomo come parte finale di un percorso lineare che va dalla
mortalità all’eternità. Il percorso che presso Dante e gli stilnovisti conduceva dall’amore per il
mondo all’amore per Dio non esiste più: gli astri rappresentano piuttosto un silenzioso regno che
mostra all’uomo il suo mistero fisico nascondendone tuttavia il «senso».
La «silenziosa luna» leopardiana che tace di fonte alle domande dell’uomo – sia esso il pastore
errante nell’Asia dei Canti, o la Terra in dialogo con la Luna nelle Operette – è appunto l’astro ormai
sottratto all’ottimismo teologico e scientista di Dante non solo e non tanto dalla scienza
postcinquecentesca, quanto dall’antiscientismo di Petrarca che ha lasciato sul mondo lirico
leopardiano e sui suoi silenziosi cieli stellati un’impronta fortissima, ancora non studiata come
meriterebbe.
Nei Rerum vulgarium fragmenta le cose mortali – prima fra tutte Laura si manifestano agli occhi
dell’uomo con la brevità vana ed ingannevole del fantasma: è questo il primo e fondamentale
significato della definizione complessiva dell’amore terreno come errore nel primo sonetto che apre
il canzoniere petrarchesco. La breve vita umana è sede di un desiderio amoroso destinato ad essere
frustrato perché vorrebbe liberare l’oggetto amato dalla sua finitezza senza tuttavia perderlo
trasformandolo in spirito: le poesie in morte di Laura narrano una perdita senza riscatto in cui,
accanto al valore assoluto delle cose divine espresso nella canzone finale dedicata Vergine, c’è il
valore assoluto di ciò che era e non è più e l’irredimibilità, anch’essa assoluta, della morte.
Formella dellAstronomia collocata sul Campanile di Giotto
Entrambe le due dimensioni, quella vana e fantasmatica delle cose mortali, e quella eterna dei cieli
divini, sono assolute, assolutamente divergenti e non in grado di compensarsi reciprocamente né di
essere poste in una sequenza di superamento dell’una attraverso l’altra: è questa l’innovazione
petrarchesca del valore della morte dell’amata, che nell’orizzonte stilnovistico, e particolarmente in
Dante, era stata vissuta come via di perfezionamento spirituale dalla dimensione umana a quella
divina. Rifiutato come inservibile il cielo spirituale, l’amore petrarchesco riscopre invece il
sentimento già classico della sua perennità fisica: quella del corso ciclico degli astri, del perpetuo
tramontare e risorgere, unico «modello» di eternità desiderabile per l’amante poiché, se fosse
accessibile all’uomo, potrebbe salvare l’esistenza fisica dei corpi e la dimensione terrena dell’amore.
LE POESIE
Catullo
carmen 5
Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e i brontolii dei vecchi severi
stimiamoli tutti un soldo.
Gli astri possono tramontare e tornare:
noi, quando questa breve luce muore,
dobbiamo dormire una notte senza fine.
Dammi mille baci, poi cento, poi
ancora mille e cento ancora
finché, dopo migliaia,
confonderemo i conti per non sapere,
o perché qualche malvagio non ci invidi
sapendo che così tanti baci
possono esistere.
(trad. Sonia Gentili)
Francesco Petrarca
Rerum vulgarium fragmenta,
sonetto 291
I vostri dipartir non sono sì duri,
ch’almen di notte sul tornar colei
che non â schifo le tue bianche chiome:
le mie notti fa triste, e i giorni oscuri,
quella che n’a portato i pensier’ miei,
né di sé m’ha lasciato altro che l nome.
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