Officium e honestum

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Officium e honestum
Officium
E’ un neutro, derivato da un *opificium non attestato, composto da opem + facio, e significa, in
origine, “lavoro, esecuzione di un compito, o compito da eseguire”.
Entrato nella lingua del diritto, viene a significare nello specifico gli obblighi connessi a una carica,
in particolare il compito di un magistrato. Con uno scarto semantico tipico della mentalità romana,
infatti, si passa dall’idea del lavoro da svolgere al precetto che il lavoro deve essere svolto.
Cogliendo l’implicita indicazione morale insita nel termine, Cicerone scelse questo termine per
tradurre kathékon, azione conforme a natura, razionale e per questo doverosa moralmente: quod
autem ratione actum est, id officium appellamus (fin. 3, 58, 14): “ciò che vien fatto secondo
ragione, lo chiamiamo officium”, in quanto è doveroso seguire la propria natura di esseri razionali.
Cicerone difese la sua scelta (abbastanza anomala: in genere egli preferiva coniare dei calchi
semantici sul greco) anche contro il parere di Attico, come ricorda Pohlenz, che cita l’epistola 16:
Non diciamo forse “officium dei consoli, officium del senato, officium del generale”? (11,4)
Honestum
E’ il neutro sostantivato dell’aggettivo honestus, a, um, che deriva da honos; quest’ultimo
sostantivo indica l’“onore” decretato a qualcuno, dio, uomo o defunto: come afferma Cicerone, è il
praemium virtutis (Brut., 81, 181).
Da questo senso si sviluppa, soprattutto al plurale, il significato di “carica che porta con sé onore”,
cioè la carica politica: da qui il sintagma cursus honorum ad indicare la carriera politica, che
prevedeva a Roma la ricopertura successiva di cariche magistratuali, e che culminava con il
consolato.
Honestum indica dunque “ciò che è onorevole, che reca con sé onore”, ed è quindi inscindibilmente
connesso all’esercizio della virtù, di cui l’honos è il premio.
Cicerone sceglie questo termine per tradurre il greco kalòn, “il bello morale”. Questo termine entra
in filosofia nel V sec., perché si era resa necessaria una distinzione terminologica che esprimesse la
differenza fra due tipi di “bene”: da una parte sono i beni materiali, esterni, appartenenti al singolo
individuo, che il greco indica con il termine agathà (“le cose buone”); dall’altra troviamo il Bene
assoluto, fine ultimo di qualsiasi uomo: “per Platone, interprete di uno spirito greco genuino, il vero
bene e il bello procedono dalla stessa origine prima, e un uomo, un’azione potevano definirsi buoni
solo perché in essi si svelava l’armonia e l’equilibrio dell’animo, perché erano in tal modo partecipi
dell’idea di bene e di bello”. (Pohlenz). La coincidenza, propria dell’etica aristocratica, tra i valori
di “bello” e “buono”, coagulata nell’ideale del kalokagathòs, assume una connotazione
profondamente interiore: il perseguimento del bene assoluto, il kalòn, è del tutto svincolato dal
riconoscimento che la collettività può attribuire a chi l’abbia raggiunto. Il kalòn è dunque il sommo
bene, tanto che il principio etico dello stoicismo, che non riconosce valore ai beni materiali,
prescrive che “solo il bello è buono”.
Cicerone riconosce però la distanza culturale che separa lo spirito romano da quello greco, fondato
sull’identità tra etica ed estetica, e rinuncia a tradurre kalòn con pulchrum, aggettivo che non era,
secondo la mentalità romana, risemantizzabile in termini morali. Per il vir bonus, che coincide con
il civis, il bene supremo è l’honor, che deriva da una vita spesa al servizio della comunità, in cui si
esplica la virtù individuale. Pertanto un comportamento eticamente fondato è honestum.
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