INTRODUZIONE Alla ricerca dell`inedito perduto: vita

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INTRODUZIONE
Alla ricerca dell’inedito perduto:
vita e morte dell’ossimoro
La prolificità di Pasolini ha permesso molto spesso negli
ultimi anni, come in generale nei trentacinque anni successivi alla sua scomparsa, il recupero postumo di molti testi sconosciuti; tanti di questi si può dire che abbiano contribuito
ad arricchire ed anche riproblematizzare gli orizzonti della
critica letteraria pasoliniana. La tensione illimitata dell’autore verso la costruzione drammatica della propria identitàdiversità attraverso le più disparate forme d’arte e trasfigurazioni letterarie di sé, dei personaggi e dei temi al centro della
sua vita interiore e delle sue vicende biografiche, nonché la
sua necessità profonda e vitale di autoespressione hanno
prodotto infatti un corpus di opere che è difficile poter ritenere chiuso e definito, viste le continue e progressive acquisizioni di inediti o il bisogno di rilettura e revisione, critica e
filologica, suscitato da testi pure già noti. Se vivace e fertile
d’altronde è ancora, fortunatamente, un serio dibattito critico sulla produzione letteraria e filmica dello scrittore, netta
si avverte spesso nel pubblico la sete di un Pasolini purchessia, il bisogno di inseguire tracce della sua scrittura tralasciate, ritrovate e rilanciate multimedialmente con l’ennesimo
scoop, per completare la vulgata che persino nel canone dei
centoni ad usum delle mortificanti antologie scolastiche ha
istituzionalizzato un autore, che – per istinto e per intime,
ossimoriche contraddizioni – è nella e contro la tradizione.
La tendenza alla ‘mummificazione’ dello scrittore, idolatrante e neutralizzante insieme, negli stereotipi commerciali
del pressappochismo di massa, trova però una forte, insuperabile resistenza interna nei testi che la mercificazione dell’opera intellettuale avrebbe bisogno di compulsare o promuovere secondo le formule adatte al lettore-consumatore:
LA DIVERSITÀ A TEATRO
INTRODUZIONE
tra abiure e uso antitradizionale della tradizione, segni di un
impegno politico conflittuale e controverso da etichettare e
irresolubili polarità tematiche in chiaroscuro, le opere pasoliniane non offrono il fianco alle semplificazioni auspicate
dal circo degli imbonitori pseudo-intellettuali, ma costituiscono un terreno ancora fecondo e generoso per analisi critiche rigorose e a-devozionali che cerchino di delineare e
riscrivere infaticabilmente, grazie a nuove chiavi interpretative o a nuove scoperte testuali, il profilo letterario dell’autore. In questa luce va così letto l’ampliamento del corpus di
una delle branche relativamente meno studiate della produzione pasoliniana, quella teatrale, e della relativa bibliografia
critica, che si è potuta giovare di nuove indicazioni di non
secondaria importanza sulla poetica dello scrittore o sulle
implicazioni della tendenza a fare autobiografismo della
propria autobiografia, mettendo in scena la drammaturgia
delle intenzioni e delle tensioni irrisolte dell’Io.
I drammi giovanili pasoliniani scompaginano le cronologie e le priorità stabilite tra gli interessi dello scrittore ed
aggiungono tasselli ad un mosaico compatto di interrelazioni tra le esperienze biografiche e la scrittura delle opere già
note, in primis le liriche coeve delle Poesie a Casarsa e dell’Usignolo della Chiesa Cattolica.
In particolare, La sua gloria (1938) dimostra la precocità
dell’interesse per la sperimentazione della forma teatrale in un
Pasolini appena adolescente, attestando primi, ingenui tentativi di plurilinguismo mimetico e una prima immedesimazione in un personaggio intellettuale, tormentato dal bisogno di
dare sfogo ai fermenti della propria irrequieta sensibilità, nonché dalla sete del possesso eterno del «nome divino»1 della
gloria. La scrittura poetica è già osservata nelle sue interazioni possibili o mancate con la prassi e l’azione dell’impegno
politico, in nome, in questo caso, del patriottismo dell’ambientazione risorgimentale del dramma.
L’Edipo all’alba (1942) è invece prova dei tentativi com-
piuti per la faticosa elaborazione di una lingua tragica italiana, che fosse all’altezza dello stile dei classici greci: Pasolini
mostra che l’ipotesi e l’idea di una rilettura del mito edipico
sorsero in lui molto prima di mettere in cantiere la realizzazione del progetto filmico dell’Edipo re e si cimenta in un
prosimetro che sfodera uno stile oscuro, ma si lascia fendere
da una sensualità vitalistica nella rappresentazione della contrapposizione ossimorica tra l’esaltazione e i rimorsi della
colpa nel delirio esibizionistico del personaggio di Ismene. È
il primo dramma in cui emerge, sotto forme velate e allusive,
il desiderio omosessuale e la vocazione alla confessione impudica e travagliata, che sarà tipica dell’Usignolo della Chiesa
Cattolica. Se Ismene invoca su di sé la punizione del padre
terreno, l’eroe mitico che tardivamente ha preso coscienza
della mostruosità della propria esistenza e della sua «impura
prole»2, il protagonista dei Turcs tal Friul, il ribelle ed iconoclasta Meni Colus, sfiderà il silenzio indifferente del Padre
divino, a cui la comunità casarsese imbelle si affidava attendendo in preghiera l’invasore turco del titolo; egli osa combattere non solo il nemico in arrivo, quanto piuttosto e
soprattutto un’atavica abitudine alla sottomissione nei confronti del destino e dei dogmi di una religione che predicherebbe l’astensione dall’azione. Esempio di un friulano meno
prezioso e letterario di quello delle poesie e più ricalcato sugli
usi della lingua effettivamente parlata in Friuli, ma pur esente da tentazioni vernacolari, questa pièce mette in scena il
contrasto tra la pia e devota passività dei casarsesi e la vitalità proterva e selvaggia dei Turchi, adoperando anche canti e
controcanti, punto cardine delle successive re-interpretazioni
del testo negli interessanti allestimenti scenici postumi dell’opera. Come già ne La sua gloria, inoltre, la spinta alla concretezza dell’impegno sociale si contrappone alla contemplazione e alla riflessività, nel binomio composto da Meni e dal suo
doppio, il fratello Pauli. Questo nome, palesemente carico di
allusioni autobiografiche, tornerà come Paolo ne La poesia o
1. LSG, p. 46.
2. Edipo all’alba, TE, p. 38.
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LA DIVERSITÀ A TEATRO
INTRODUZIONE
la gioia, atto unico che per la prima volta ammette nel mondo
del teatro pasoliniano la chiara rappresentazione di una figura di tipo paterno: ben prima di ‘fare i conti’ con il proprio
padre biografico attraverso la scrittura poetica e le opere filmiche degli anni ’60, Pasolini in questo testo del ’47, pubblicato solo nel 2001, immagina una raffigurazione scenica dei
tormentati disequilibri relazionali del proprio nucleo famigliare, del rancore alcolico di Carlo Alberto Pasolini, della
sua straziante percezione della distanza psicologica e ideologica che separava il suo conformismo conservatore dalla
moglie e dal figlio. A Paolo/Pier Paolo l’unica via di fuga da
un irresolubile inferno famigliare era parso lo squisito narcisismo della sua poesia, ricca di vibrazioni sacrileghe e di echi
del maledettismo francese, nonché luogo in cui la sua diversità si faceva dicibile.
Così già in queste prime opere pasoliniane si accampa precocemente la diversità martirizzata, fonte di scandalo e oggetto di repressione da parte dei rappresentanti della Norma, in
un’ossimorica compresenza di blasfemia e ‘santo’ coraggio,
trasgressione e ansia di purificazione, pulsioni vitali ed idealità politica. Così il governo del nemico straniero, austriaco,
condanna il patriota e ‘traditore’ Guido Solera al carcere
duro ne La sua gloria, mentre il microcosmo sociale del borgo
friulano senza tempo si libera come di un capro espiatorio di
Meni, temendone i proclami provocatori nei confronti di Dio
e seguendo le direttive di ordine e devozione del capo della
preghiera. Il coro si ergerà a giudicare l’empietà dei desideri
erotici di Ismene nell’Edipo all’alba, che supplicherà il padre
di ucciderla, mentre un genitore implicito in una figura fraterna deriderà sprezzante il ‘poeta democratico’ de La poesia
o la gioia. La raffigurazione cristologica dell’Io messo alla
gogna si trasformerà nel tempo: la societas e il potere politico
e religioso che fanno da contraltare alla diversità dell’individuo diventeranno infatti irriconoscibili. La liberazione sessuale della coppia eterosessuale produttrice e consumatrice di
beni sostituirà un edonismo coatto alla morale sessuale di un
tempo, conservando l’ostilità per qualunque modello di sessualità differente, dietro l’apparenza della tolleranza e attraverso forme più sotterranee ma non meno feroci di ‘soppressione’: l’Uomo di Orgia così non sarà crocifisso nella pubblica piazza, ma, dopo aver relegato nei sepolcri imbiancati delle
case borghesi la propria trasgressione, cercando di recuperare la lingua muta del corpo, di fronte all’anomia3 di una sessualità ormai meccanicamente disumana si renderà conto che
tale linguaggio non possiede più l’aura sacrale della vitalità
arcaica, ma confonde vita e morte. Non gli resterà quindi che
testimoniare vanamente la diversità repressa in forme sottili e
quotidiane da una società ‘normalizzatrice’ con un suicidio in
abiti femminili, che non farà del suo corpo il sacro fulcro di
scene di ‘deposizione’ simili a quelle del primo teatro pasoliniano, ma lo renderà puro e semplice oggetto di scherno. La
religione cattolica, secondo l’opinione pasoliniana, d’altro
canto perderà pian piano il monopolio della vita
interiore/esteriore degli individui a favore della chiesa del
qualunquismo televisivo e dei diktat della pubblicità, sicché il
travaglio religioso sarà definitivamente espulso dai fermenti
delle coscienze. Il potere infine saprà rigenerarsi in un trasformismo che saprà riassorbire e rendere inutili le forme di
opposizione, vanificando i progetti del personaggio eponimo
in Pilade, o trattando come semplice protesta temporanea l’afasia linguistica della borghese Rosaura in Calderón4.
Entrerà in crisi lo stesso istituto letterario del Doppio,
nell’atrofizzazione della prolifica figura dell’ossimoro: l’ultima opera teatrale di Pasolini, Bestia da stile, sarà «molecolarmente pervasa dalla presenza di un dramma ultimo,
totale: il dramma, ormai comicamente livido, della impossibilità della scrittura»5.
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3. Cfr. Il sogno del centauro, SPS, pp. 1475-1476.
4. Cfr. Pilade, TE, pp. 450-451, Calderón, ivi, pp. 738-739 e Bestia da
stile, ivi, p. 828.
5. P. VOZA, Introduzione a P. P. PASOLINI, Bestia da stile, Palomar, Bari
2005, p. 23.
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