4. Fondamenta teoriche e aspetti critici della - Omero

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Fondamenta teoriche e aspetti critici della globalizzazione
Pompeo Della Posta
Dipartimento di Scienze Economiche
Università di Pisa
E-Mail: [email protected]
Agosto 2005
Introduzione*
Con il termine globalizzazione ci si riferisce comunemente alla fase attuale di liberalizzazione
commerciale e finanziaria grazie alla quale è possibile disporre di merci e di capitali provenienti da
paesi diversi dal nostro.1 Questo, tuttavia, non è un fenomeno nuovo: tralasciando il fatto che i
commerci hanno da sempre contraddistinto la presenza umana, infatti, basta pensare alla fase di
apertura commerciale e di libero movimento dei capitali che caratterizzò la fine del 1800 e i primi
anni del 1900 per trovare esempi di situazioni simili in passato. In quel periodo si ebbe quella che
viene comunemente definita come la prima ondata di globalizzazione, contrassegnata anche da una
migrazione umana di dimensioni impressionanti.2 A tale prima fase ne seguì una seconda, incentrata
soprattutto sulla riapertura delle relazioni commerciali internazionali, che ebbe luogo nei quaranta
anni che seguirono la fine della Seconda guerra mondiale. Dalla fine degli anni Ottanta del secolo
scorso, poi, prese avvio l’attuale fase, la terza ondata di globalizzazione ben distinta, negli aspetti
che la definiscono, dalle altre. In effetti, mentre le legislazioni nazionali di praticamente tutti i paesi
al mondo impongono attualmente forti restrizioni all’ingresso delle persone e quindi al fattore
produttivo lavoro, al fattore produttivo capitale è generalmente permesso di spostarsi liberamente in
ogni parte del globo, per essere impiegato in operazioni sia di breve che di medio e lungo termine.
Sebbene questo, come ho sopra accennato, non sia un fenomeno nuovo (si pensi soltanto al ruolo
svolto dai capitali europei nella costruzione della linea ferroviaria transcontinentale americana),
assume oggi aspetti di novità sia per l’importanza dei movimenti di capitale a breve termine, spesso
accusati di essere fonte inevitabile di instabilità, sia per il ruolo svolto dagli investimenti diretti
* Questo saggio si basa sul contenuto di alcune conferenze, incontri e lezioni sul tema della globalizzazione che ho
tenuto in questi ultimi anni e sulle lezioni dell’insegnamento di Economia Politica Internazionale del corso di laurea in
Scienze per la Pace e di Economia Internazionale della Facoltà di Economia dell’Università di Pisa. Non sono affatto
rituali i ringraziamenti che devo ai partecipanti ai vari incontri e agli studenti delle mie lezioni, per i molti spunti,
osservazioni e arricchimenti che mi hanno fornito nel tempo.
1
Come è facile immaginare, gli esercizi intellettuali volti a individuare la definizione più arguta e calzante del termine
‘globalizzazione’ sono innumerevoli. Si veda De Benedictis e Helg (2002) per una sintesi di alcune di tali definizioni.
2
Bonaglia e Goldstein (2003) e De Benedictis e Helg (2002) riportano il dato, fornito dalla Banca Mondiale (2002),
secondo il quale negli anni che vanno dal 1870 al 1914, circa il 10% della popolazione mondiale avrebbe partecipato a
migrazioni, nella maggior parte dei casi intercontinentali.
esteri, che permettono di sfruttare le opportunità di produzione a più basso costo offerte, per
esempio, dall’abbondanza di offerta di lavoro o dagli incentivi fiscali forniti dal paese ospitante.3
La fase attuale di globalizzazione è oggetto da più parti di obiezioni, dubbi e perplessità, anche a
causa del notevole aumento delle esportazioni dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati,
che inevitabilmente pongono in grave difficoltà i lavoratori non qualificati di questi ultimi.4 Inoltre,
molte aree del globo sembrano essere state danneggiate, piuttosto che beneficiate, dalla
globalizzazione.5
In questo breve saggio cercherò di analizzare le ragioni di tali resistenze, mettendole soprattutto
in relazione con le argomentazioni teoriche a favore dell’apertura commerciale e finanziaria ed
evidenziando come, almeno in alcuni casi, la teoria economica semplicemente ignori i problemi che
si presentano nella realtà.
Esaminerò dunque dapprima le ragioni teoriche a favore della globalizzazione commerciale (par.
1), facendole seguire dai punti critici messi in rilievo dai movimenti di opposizione alle forme
attuali della globalizzazione (par. 2); seguirò poi lo stesso approccio nell’esaminare la
globalizzazione finanziaria6, esaminando le ragioni che ne forniscono una giustificazione teorica nel
par. 3 e gli aspetti critici nel par. 4. Alcune osservazioni finali chiuderanno il lavoro.
3
Per approfondimenti sul tema della globalizzazione si vedano, fra i molti altri testi che affrontano questo argomento, i
bei lavori di Bonaglia e Goldstein (2003) e Helg e De Benedictis (2002), dai quali ho attinto molti dei dati e delle
citazioni riportate in questo articolo, che trattano in maniera molto bene argomentata e spesso anche problematica le
ragioni della globalizzazione. Per chi sia interessato agli aspetti critici delle forme della globalizzazione e del cosiddetto
Washington Consensus prodotto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale è inevitabile consultare
Stiglitz (2002). Moltissimi altri lavori - dal famoso No logo di Naomi Klein, che è diventato una sorta di manifesto del
pensiero new global a riviste come Altreconomia - presentano gli aspetti critici e concreti della fase attuale della
globalizzazione, spesso sconosciuti non solo al pubblico, ma anche agli stessi economisti internazionali. Trovo questi
ultimi contributi particolarmente interessanti e utili poiché non ritengo che le informazioni su come si manifesta la
globalizzazione nella realtà siano solo “esempi – e come tali (…) soggetti alla stessa critica cui va sottoposta molta della
letteratura noglobal e cioè di scegliere l’evidenza che meglio conferma una teoria” (Bonaglia e Goldstein, 2003, p. 71).
Credo, infatti, innanzitutto che tale critica non possa essere limitata alla letteratura new global, ma riguardi certamente
moltissime altre categorie – fra cui temo che si debba includere anche quella di noi economisti - e poi che tali ‘esempi’
siano molto più vicini alla realtà di tante nostre teorie dalle quali, sebbene siano spesso basate su assunzioni discutibili,
pretendiamo poi di derivare prescrizioni per la politica economica.
4
Orati (2004) propone l’adozione di forme di ‘protezionismo illuminato’ volto a temperare le conseguenze negative
della globalizzazione.
5
In realtà, ancora Bonaglia e Goldstein (2003) e De Benedictis e Helg (2002) riportano dati secondo i quali, sebbene il
numero in termini assoluti dei poveri (definiti come coloro che dispongono di meno di 1 dollaro di potere d’acquisto al
giorno) nel mondo, sia aumentato nel tempo (stabilizzandosi negli ultimi venti anni intorno a 1 miliardo e 200 milioni),
la loro percentuale sia quasi ovunque diminuita (con l’eccezione dell’Africa Sub-Sahariana, i paesi dell’Europa dell’Est
e l’Asia Centrale). Analoghe conclusioni vengono raggiunte considerando l’Indice di Sviluppo Umano che vede un
miglioramento generalizzato del tasso di mortalità infantile, dell’aspettativa di vita alla nascita e del tasso
d’analfabetismo adulto. Nonostante ciò De Benedictis e Helg (2002) riconoscono che “difficilmente una situazione in
cui esiste più di un miliardo di esseri umani in condizioni di povertà estrema può conciliarsi con un qualsivoglia sistema
di valori. I miglioramenti - dove si sono verificati – non sono di grandi dimensioni ed è molto bassa la probabilità che di
questo passo si riescano a raggiungere nel 2015 gli obiettivi stabiliti nel 1995 al Social Summit di Copenhagen (i
cosiddetti International Development Targets)” (p. 170)
6
La tassonomia che adotto riflette la situazione attuale, caratterizzata dalla liberalizzazione dello scambio di merci e del
movimento dei capitali, ma, a differenza di altri periodi storici e in particolare della prima fase di globalizzazione sopra
ricordata, dalla restrizione dei movimenti del fattore lavoro.
2
1. Le ragioni a favore del libero commercio
Sono diverse le ragioni che sembrano giustificare in maniera definitiva il libero commercio
internazionale rispetto al protezionismo, vale a dire rispetto all’imposizione di misure di politica
commerciale, quali restrizioni quantitative o dazi, che limitano o impediscono del tutto gli scambi di
beni e servizi fra un paese e l’altro.
Innanzitutto, l’apertura agli scambi e al commercio internazionale sembra di per sé preferibile a
una situazione di autarchia; il protezionismo, in effetti, versione moderna del mercantilismo del
XVII secolo, consente il mantenimento di rendite di posizione e penalizza i consumatori, i quali
potrebbero invece beneficiare dell’approvvigionamento di beni a minore prezzo prodotti all’estero.
E’ stato calcolato il costo per i consumatori, della protezione accordata negli Stati Uniti, per
esempio, ai produttori di zucchero nei confronti della produzione Centro-americana, o, agli inizi
degli anni Ottanta del secolo scorso, ai produttori di automobili nei confronti dei concorrenti
giapponesi. In questo secondo caso fu calcolato, per esempio, che le restrizioni ‘volontarie’ delle
esportazioni da parte dei giapponesi (fu questa la forma ambigua che assunse il protezionismo
americano), fecero sì che i consumatori pagassero mediamente circa 1000 dollari in più per ogni
auto acquistata. La ragione per cui, nonostante ciò, in determinati casi vengono introdotte misure
protezionistiche - sia pure, come vedremo, a rischio di ritorsioni da parte del paese nei confronti del
quale sono applicate - risiede nel fatto che mentre i singoli produttori riescono a far sentire con
forza la propria voce e a rappresentare i propri interessi presso le autorità di governo, come è
evidente che sia nella situazione in cui un produttore sia costretto a cessare la propria attività a
causa della concorrenza estera o i lavoratori di un determinato settore vengano licenziati in quanto
non più competitivi rispetto alle produzioni dislocate all’estero, i consumatori, che sono coloro che
beneficiano, o, come vedremo, dovrebbero beneficiare della liberalizzazione commerciale, soffrono
di un problema di azione collettiva, non riescono, cioè, a rappresentare adeguatamente i propri
interessi presso le autorità di politica economica, anche perché ogni consumatore subisce un costo
che spesso non percepisce, sebbene tale costo sia significativo, soprattutto a livello aggregato.
I benefici del libero commercio vennero mostrati formalmente per la prima volta dal padre della
teoria economica, Adam Smith.7 Di tale contributo parlerò nel prossimo paragrafo, mentre in quelli
seguenti presenterò le altre argomentazioni a favore del libero commercio.8
Asso (s.d.) rileva, tuttavia, come i primi teorici dell’apertura commerciale, Adam Smith, David Ricardo, John Stuart
Mill riconoscessero che il processo di liberalizzazione degli scambi non dovesse essere un fine in sé, ma andasse
analizzato alla luce del confronto fra costi e benefici e nel caso in cui i primi superassero i secondi, dovesse
pragmaticamente lasciare il posto a politiche protezionistiche.
8
I prossimi tre paragrafi sintetizzano l’esposizione standard della teoria del commercio internazionale presentata in libri
di testo standard come Salvatore (2004) e Krugman e Obstfeld (2004).
7
3
1.1. La teoria dei vantaggi assoluti di Adam Smith e la sua opposizione al mercantilismo
Adam Smith, alla fine del XVIII mostrò i benefici del commercio internazionale elaborando la
sua teoria dei vantaggi assoluti. In sintesi, ciò che egli dimostrò in un semplice modello a due beni e
due paesi, era che se un paese è maggiormente produttivo nella produzione di un bene e l’altro
paese è maggiormente produttivo nella produzione dell’altro bene, i due paesi avranno convenienza
a specializzarsi ciascuno nella produzione del bene nel quale è maggiormente produttivo, nel quale
cioè ha un vantaggio assoluto. Attraverso il commercio internazionale, infatti, sarà possibile
scambiare i prodotti ottenuti a più basso costo in un paese con quelli ottenuti a basso costo dall’altro
paese e ottenere così una maggiore produzione complessiva: ciascuno dei due paesi dunque, otterrà
una produzione maggiore specializzandosi e partecipando successivamente allo scambio
internazionale, piuttosto che producendo in autarchia. Per dirla in termini moderni, il commercio
internazionale non sarebbe un gioco a somma zero, nel quale, cioè, i guadagni di un giocatore
corrispondono alle perdite dell’altro, ma un gioco a somma positiva, nel quale cioè entrambi i
partecipanti ottengono dei guadagni.
Adam Smith, in fondo, non faceva altro che applicare all’economia internazionale il
ragionamento da lui seguito nel dimostrare i benefici della divisione del lavoro: così come gli
individui si specializzano (o almeno dovrebbero!) nell’attività economica nella quale sono più
produttivi, nella quale cioè ottengono il massimo risultato con il minimo sforzo, e tramite il reddito
conseguito attraverso la vendita della loro produzione acquistano sul mercato tutti gli altri beni di
cui hanno bisogno per sopravvivere, così, assimilando un individuo a una nazione, converrà fare a
quest’ultima.
La teoria dei vantaggi assoluti di Adam Smith smentiva dunque le teorie mercantiliste che
decantavano le virtù di quei paesi i quali esportavano il più possibile e importavano il meno
possibile: le esportazioni, in effetti, venivano pagate in oro e l’oro a sua volta sembrava poter
rappresentare la ricchezza di una nazione, consentendo di sostenere le spese per il mantenimento di
regge lussuose o il pagamento degli eserciti con i quali conquistare altre terre e mantenere il
controllo di quelle già possedute. 9 In particolare, il contributo di Adam Smith si manifestava in un
paese, l’Inghilterra, e in un periodo storico, quello della rivoluzione industriale, caratterizzato dallo
scontro fra la vecchia aristocrazia terriera e la nascente imprenditoria industriale, la prima schierata
9
Già David Hume, in realtà, con la sua teoria del flusso della moneta (price-specie flow mechanism) dimostrava proprio
negli stessi anni come un paese non fosse in grado di mantenere in permanenza una posizione di esportatore netto.
L’argomento di Hume era il seguente: la capacità di un paese di esportare i propri beni dipende dal fatto che i prezzi dei
beni esportati sono più bassi dei prezzi dei beni prodotti all’estero. Dal momento, però, che il prezzo dei beni dipende
positivamente dalla quantità di oro in circolazione in un paese, tanto maggiore l’aumento di oro in seguito all’aumento
4
su posizioni protezioniste, volte al mantenimento delle proprie rendite agrarie, l’altra invece
favorevole alla liberalizzazione degli scambi e dunque contraria, per esempio, all’introduzione delle
‘Corn Laws’, leggi che tendevano appunto a proteggere il grano prodotto in Inghilterra in maniera
meno efficiente, cioè a prezzi maggiori, rispetto a quello prodotto in Francia. Era in effetti interesse
degli industriali godere di un libero spazio commerciale che avrebbe permesso loro da un lato di
diminuire i salari dei propri lavoratori e di produrre dunque a costi più bassi, visto che
l’approvvigionamento di grano per la loro sussistenza sarebbe potuto avvenire a costi minori e
dall’altro di esportare liberamente i prodotti dell’industria che essi ottenevano grazie alle tecniche
innovative che stavano sperimentando.
1.2. La teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo
Agli inizi del XIX secolo David Ricardo portò un ulteriore decisivo contributo alle ragioni del
libero commercio. Egli mostrò, infatti, sempre utilizzando un modello semplificato a due paesi e
due beni, che anche nel caso in cui un paese sia maggiormente produttivo dell’altro, in termini
assoluti, in entrambi i beni, esiste l’incentivo a specializzarsi in uno dei due, vale a dire in quello nel
quale è comparativamente più efficiente, cioè nel quale gode di un vantaggio comparato. Solo
facendo così, in effetti, potrà dedicare tutto il proprio tempo disponibile alla produzione dei beni nei
quali ha vantaggi comparativamente maggiori. Anche in questo caso è facile pensare ad esempi
intuitivi: si pensi a un professionista che ritenga di essere molto più veloce del proprio segretario
nello sbrigare le pratiche di ufficio, ad esempio scrivere lettere ai clienti, recarsi in banca o
all’ufficio postale, cosa che, per esempio, faceva quando ancora non poteva permettersi un
collaboratore. Nonostante egli ritenga di essere molto più produttivo della persona che ha assunto
anche nello sbrigare le pratiche per cui quest’ultima è pagata, tuttavia, egli non prenderà neanche in
considerazione l’ipotesi di fare a meno di tale collaborazione: solo così, infatti, potrà dedicare tutto
il proprio tempo all’attività nella quale ha un enorme vantaggio comparato rispetto al suo
collaboratore, quello cioè dell’attività che svolge professionalmente.10
1.3. La teoria moderna del commercio internazionale e il teorema di Hecksher-Ohlin
delle esportazioni nette, tanto maggiore l’aumento dei prezzi rispetto all’estero, e tanto minore il vantaggio competitivo
del paese, il quale vedrebbe dunque ridurre gradualmente il proprio saldo commerciale positivo .
10
Non posso resistere alla tentazione di osservare che il vantaggio comparato del libero professionista deriva non solo
dalla sua preparazione e perizia professionale, ma anche dalla protezione di cui egli gode, in barba all’efficienza
economica e ai principi elementari dell’economia di mercato, grazie all’iscrizione a un albo professionale ad accesso
controllato e tale da fissare dei minimi tariffari che egli applica ai propri clienti. Nessuno, almeno per quanto ne so, ha
mai calcolato il costo per la collettività di tale forma di protezionismo, del quale peraltro nessuno fa quasi mai
menzione.
5
Ancora oggi i contributi di Adam Smith e di David Ricardo costituiscono la base delle
argomentazioni di coloro che esprimono posizioni favorevoli al libero commercio. I loro modelli,
tuttavia, si fondavano su un impianto teorico insoddisfacente alla luce della rivoluzione marginalista
che si sviluppò fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo con Pareto, Walras e Marshall, fra gli
altri. I modelli di Smith e Ricardo, infatti, si basavano sulla teoria del valore-lavoro, sull’idea cioè,
che il valore di un prodotto dipendesse esclusivamente dalla quantità di lavoro in esso contenuto. Il
lavoro poi, era ritenuto omogeneo e non era stata ancora introdotta l’idea della produttività
marginale del lavoro, del fatto cioè che l’impiego di un’unità aggiuntiva di lavoro possa dar luogo a
maggiore o minore quantità di prodotto; mancava anche il concetto di uguaglianza, in equilibrio, fra
la produttività marginale in valore del lavoro e il salario nominale corrispondente, necessaria per
comprendere e giustificare teoricamente il fatto che un lavoratore non specializzato guadagni 7 euro
per un’ora del suo lavoro e un divo dello sport, del cinema o dello spettacolo ne guadagni, per
esempio, 70.000. Inoltre, il modello di Smith e Ricardo non considerava il fattore produttivo
capitale, oltre a quello lavoro.
Modelli successivi, in particolare quello di Haberler degli anni Trenta del secolo scorso, hanno
riformulato su basi coerenti con l’impianto marginalista e neoclassico le idee originali di Smith e
Ricardo, mostrando in maniera altrettanto intuitiva i benefici del commercio. In particolare, è
possibile mostrare, attraverso un semplice approccio grafico relativo a un modello semplificato a
due paesi e due beni, come grazie al libero commercio un paese possa superare i limiti angusti della
propria frontiera delle possibilità produttive, come un paese, cioè, attraverso la specializzazione
produttiva prima e il libero commercio poi, possa disporre di una combinazione di prodotti tale da
permettergli di raggiungere una curva di benessere collettivo più elevata rispetto al caso
dell’autarchia.
Il modello di Hecksher-Ohlin (dal nome dei due autori, maestro e allievo, che lo hanno elaborato
nella prima metà del secolo scorso) dimostra poi (utilizzando un modello a due fattori produttivi lavoro e capitale - due beni e due paesi) qualcosa di ancora molto intuitivo, vale a dire che,
ipotizzando che i due paesi abbiano ciascuno una dotazione relativa elevata di un fattore produttivo
diverso (il paese A sia molto ricco, per esempio, di capitale, mentre il paese B sia molto ricco di
lavoro) e che i due beni siano ad alta intensità relativa ognuno di un fattore produttivo diverso (il
bene X, per esempio, abbia necessità soprattutto del fattore lavoro, mentre il bene Y abbia bisogno
soprattutto del fattore capitale), allora il paese A produrrà ed esporterà il bene Y. Ciò è dovuto al
fatto che il bene Y ha bisogno, per essere prodotto, soprattutto del fattore capitale, che è proprio il
fattore di cui è relativamente più dotato il paese A, e che proprio per questa ragione sarà
relativamente più a buon mercato rispetto al paese B, permettendo così al bene Y di essere meno
6
costoso nel paese A che nel paese B. Naturalmente, per ragioni simmetriche, il paese B produrrà ed
esporterà il bene X.
Un corollario del teorema di Hecksher-Ohlin è il pareggiamento del prezzo dei fattori produttivi
e del prezzo dei beni. L’intuizione economica suggerisce con chiarezza tale conclusione: se il paese
A produce il bene Y perché è relativamente più a buon mercato, allora la domanda di capitale in
questo paese aumenterà, mentre diminuirà la domanda di lavoro, visto che non viene prodotto il
bene X che è ad alta intensità proprio di lavoro. L’aumento della domanda di capitale ne causerà,
tuttavia, un aumento del prezzo che, per questa ragione, condurrà all’aumento graduale del prezzo
del bene Y, che comincerà dunque ad avvicinarsi al prezzo del bene Y prodotto nel paese B. Per
ragioni simmetriche la stessa cosa succederà con il prezzo del fattore lavoro nel paese B, che
aumenterà facendo gradualmente aumentare il prezzo del bene X che è ad alta intensità del fattore
lavoro. Ciò porterà - o meglio dovrebbe portare - gradualmente e nel tempo a un pareggiamento del
prezzo dei fattori e dei beni nei due paesi: in termini facili da comprendere, se oggi il lavoro in Cina
costa 1 euro l’ora e in Europa costa 10 euro l’ora, il fatto di produrre manufatti ad alto contenuto di
lavoro non specializzato in Cina e di smettere di produrli in Europa dovrebbe gradualmente
condurre a un aumento del salario orario cinese (a causa della maggiore domanda di manodopera
non specializzata) e a una riduzione del salario orario europeo (a causa della minore domanda di
manodopera non specializzata). Ciò dovrebbe condurre, nel tempo, non soltanto a un pareggiamento
dei salari europei e cinesi, ma anche a un pareggiamento nei prezzi dei prodotti ottenuti in Cina e
Europa.11
1.4. Protezionismo e dilemma del prigioniero
E’ possibile giungere a una conclusione analoga, a favore del libero commercio, considerando il
fatto che il protezionismo non permette di imporre dazi o altri tipi di restrizioni alle merci in entrata,
senza che analoghe misure restrittive riguardino le merci in uscita. In effetti, non appena un governo
applicasse vincoli di qualunque natura al commercio internazionale, non è difficile comprendere
che immediatamente il paese che li subisce metterebbe in atto analoghe misure di ritorsione,
applicando le medesime restrizioni. Si tratta, come non è difficile comprendere, di un caso classico
di ‘dilemma del prigioniero’, una situazione cioè, nella quale se ognuno dei due giocatori pone in
essere le azioni che ritiene ottimali nella convinzione che l’altro non reagisca (cioè il paese sceglie
l’azione ottimale per ogni data azione dell’altro), i due paesi si troveranno in una situazione
contrassegnata da un livello di benessere inferiore rispetto alla situazione in cui i due paesi
stipulano invece accordi di cooperazione che li impegnano a mantenere aperti gli scambi
7
commerciali.12 In effetti, se è vero che l’applicazione di dazi o restrizioni favorisce una determinata
industria nazionale, consentendo ai proprietari e ai lavoratori di mantenere la propria occupazione, o
comunque di sostenere con maggiore facilità la concorrenza estera, l’applicazione di misure
analoghe da parte del paese estero danneggia quelle imprese e quei lavoratori che proprio dalle
esportazioni traggono invece il proprio successo.13 Inoltre, l’importazione di materie prime o
manufatti intermedi a più basso costo dall’estero potrebbe permettere a determinate attività
produttive di competere sui mercati internazionali; nel caso di doversi rifornire a prezzi più alti sul
mercato interno tale competitività sarebbe invece perduta. A tale proposito, Bonaglia e Goldstein
(2003) riportano il dato secondo il quale la protezione accordata, sia pure temporaneamente,
all’acciaio statunitense nel 2002, avrebbe comportato la perdita di lavoro per un numero di persone
che oscilla fra le 19 mila e le 32 mila, a fronte dei 3.700 posti di lavoro salvati.
1.5. Protezionismo e guerra
Infine, una ragione spesso avanzata a difesa del libero commercio è quella che si deduce dalla
storia europea del XX secolo, che vide coincidere la chiusura commerciale con la formazione di
nazionalismi esasperati e dittature e che condusse alla seconda guerra mondiale. La liberalizzazione
commerciale, l’apertura delle frontiere, gli scambi di beni ma anche di influssi culturali e di
relazioni inter-personali che necessariamente accompagnano il passaggio di merci da un paese
all’altro, garantirebbero dunque la convivenza civile e la pace, 14 come se il potersi cimentare
liberamente nell’arena commerciale evitasse di doversi impegnare in ben più disastrosi confronti di
tipo militare.
2. Gli aspetti critici dell’attuale globalizzazione commerciale
Date le argomentazioni esposte in quanto precede, sorge spontaneo domandarsi per quale ragione
l’attuale processo di globalizzazione sia soggetto alle critiche provenienti non solo dai movimenti
11
In effetti, sia Bonaglia e Goldstein (2003) che De Benedictis e Helg (2002) riportano dati che mostrano come tale
meccanismo abbia certamente operato in occasione della prima fase della globalizzazione.
12
Il ‘prisoner’s dilemma’, descrive l’incentivo di due detenuti a denunciarsi l’un l’altro al fine di beneficiare degli
sconti di pena previsti per i collaboratori di giustizia. Tale incentivo fa sì che ognuno di essi finisca per rinnegare
l’impegno assunto inizialmente da ciascuno dei due a non rivelare i crimini commessi dall’altro. In tal modo essi
ottengono però un esito peggiore rispetto a quello che avrebbero conseguito se nessuno dei due avesse parlato. Non
denunciandosi, infatti, avrebbero impedito alla polizia di avere le prove sufficienti ad incriminarli per reati gravi e dopo
poco sarebbero stati rimessi in libertà, evitando di scontare gli anni comminati invece in base alle confessioni
reciproche.
13
Non è da escludere, tanto per fare un esempio che appartiene alla storia italiana, che l’architettura del ventennio
fascista abbia fatto un uso così abbondante dei marmi provenienti dalle Alpi Apuane anche a causa del crollo verticale
delle esportazioni dovuto all’autarchia adottata in quegli anni.
14
Bonaglia e Goldstein (2003), per esempio, indicano fra i vantaggi derivanti dal libero commercio proprio il
mantenimento di relazioni pacifiche fra i popoli.
8
new-global,15 ma anche da molti settori sociali e produttivi.16 A questa domanda sarà data risposta
nel paragrafo seguente, dove presenterò gli elementi che possono giustificare almeno una parte dei
rilievi critici mossi all’attuale globalizzazione dei mercati dei beni. Come cercherò di dimostrare, in
molti casi tali rilievi non sono necessariamente in conflitto con la teoria economica, in quanto le
conclusioni cui quest’ultima giunge sono dovute a determinate assunzioni. Va da sé che se le
assunzioni poste a base di una teoria non sono soddisfatte, le conclusioni di tale teoria non
dovrebbero essere ritenute necessariamente valide. Molto spesso accade, invece, che certe
conclusioni assumano un valore assoluto, indipendente dalle condizioni alle quali sono state
ottenute e siano quindi applicate senza la cautela dovuta.
2.1. La mancata attenzione ai problemi distributivi da parte della teoria economica
Innanzitutto deve essere rilevato come la teoria economica ignori in molti casi il problema
distributivo. Nel caso specifico dei vantaggi comparati di Ricardo, per esempio, il fatto che la
specializzazione produttiva e la liberalizzazione del commercio permetta di aumentare il valore (in
termini di ore-lavoro) della produzione nazionale complessiva, fa sì che si ignori il fatto che
l’aumento della produzione possa avvenire a totale detrimento di un determinato gruppo sociale.
Ciò che conta, dunque, è che esistano le risorse necessarie a compensare il gruppo o il settore che
risulta svantaggiato dall’apertura commerciale, e non che tali risorse vengano effettivamente
destinate a compensare tale settore. Per fare un esempio facilmente comprensibile: ammettiamo che
l’apertura commerciale comporti una sostanziale riduzione dei prezzi dell’abbigliamento, ottenuta
attraverso l’importazione di manufatti dall’estero prodotti a costi molto più bassi. Il fatto che tali
minori prezzi siano ottenuti causando la chiusura delle fabbriche di abiti sul territorio nazionale,
non comporta obiezioni di tipo teorico, in quanto è sufficiente osservare che il governo, se volesse
farlo, troverebbe le risorse per compensare il settore che sta soffrendo dalla concorrenza con
l’estero, per esempio tassando i consumatori e riducendo così (senza annullarlo del tutto) il
beneficio derivante dall’acquisto di beni prodotti all’estero a più basso prezzo. E’ evidente che la
realtà è ben diversa e il fatto che il governo riesca o meno a indennizzare il settore costretto alla
ristrutturazione o addirittura alla dismissione dell’attività soggetta a concorrenza internazionale, non
Il movimento si definisce ora new-global, piuttosto che no-global, come si definiva – e soprattutto come lo definiva la
stampa e molta parte del mondo accademico - inizialmente: già questa differenza terminologica è esemplificativa del
diverso atteggiamento nei confronti della globalizzazione, non contestata in termini assoluti, ma piuttosto per le forme
distorte che assume.
16
Una domanda simile se la pone Rodrik (1999): “If globalization is a bowl of cherries, why there are so many glum
faces around the table?”. Bonaglia e Goldstein (2003) individuano due ordini principali di spiegazioni del diffuso
malcontento nei confronti delle forme assunte dalla globalizzazione: 1) L’eccessiva diversità nella struttura produttiva e
disparità nei rapporti di forza fra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati; 2) La diversità nelle legislazioni nazionali
relative alla sfera sociale e ambientale.
15
9
è irrilevante: è comprensibile dunque che il settore che sia costretto a cessare la propria attività
cerchi di attuare qualunque azione capace di evitare tale esito.
2.2. L’assunzione di perfetta mobilità dei fattori da un settore produttivo all’altro
Direttamente legata a questa vi è l’osservazione che il teorema di H-O assume la perfetta
mobilità dei fattori produttivi all'interno di un paese, fra i diversi settori della produzione: un
operaio agricolo o del settore automobilistico, questa è l'assunzione del modello, può diventare
programmatore per computer senza alcun costo o difficoltà. E' chiaro che avendo assunto con tanta
facilità l'assenza di costi nel passaggio da un settore all'altro, il teorema di H-O rimuove il problema
dal tappeto. Da questo punto di vista, dunque, non si avrebbero elementi per commentare il ruolo
svolto, per esempio, dai sindacati nel difendere i posti di lavoro nei settori in difficoltà a causa della
concorrenza estera, semplicemente perché la teoria ignora i problemi che essi pongono.
Resta poi da capire se veramente un’economia che si apra al commercio internazionale subendo
però, in conseguenza di ciò, un forte aumento della disoccupazione, possa anche in termini di
produzione complessiva trovarsi in una posizione migliore rispetto alla situazione precedente. Se,
per assurdo, all’apertura commerciale corrispondesse, infatti, l’assoluta incapacità di coloro che
erano impiegati nei settori non più competitivi sui mercati internazionali a trovare una nuova
collocazione occupazionale nei settori nei quali il paese ha un vantaggio comparato, si avrebbe con
ogni probabilità una diminuzione - e non un aumento - della produzione nazionale, con ben poche
risorse da destinare alla redistribuzione.
E’ evidente che tale effetto di rigidità sarà tanto maggiore quanto più ci soffermiamo sugli effetti
di breve periodo, piuttosto che di medio e lungo, nel quale coloro che hanno perduto l’occupazione
dovrebbero ritrovarla nei ‘nuovi’ settori. L'analisi di economia positiva, dovrebbe comunque
lasciare posto a maggiore cautela nel passare ad un'analisi di tipo normativo.
2.3. Differenze nella regolamentazione sociale e ambientale
Si dice poi che molti aspetti sgradevoli della globalizzazione (lavoro minorile, assenza di
regolamentazione sociale più in generale, e assenza di regolamentazione ambientale), siano mali
necessari se vogliamo che la legge dei costi comparati di Ricardo, e dunque il modello di HecksherOhlin, possano operare. Ma il teorema di H-O parla semplicemente di differenze salariali derivanti
dalla diversa quantità di lavoro offerto, a parità di tutto il resto: indubbiamente l'assenza di
regolamentazione sociale o l'assenza di regolamentazione ambientale incentiva maggiormente le
imprese a spostarsi verso quel dato paese, ma - questo è almeno quanto dice il modello di HecksherOhlin, generalmente invocato quale fondamento teorico della liberalizzazione commerciale 10
l'incentivo esisterebbe ugualmente, anche se si imponessero a livello internazionale clausole sociali
o clausole ambientali.
Va riconosciuto, tuttavia, che se da un lato, forse paradossalmente, i politici e gli industriali dei
paesi sviluppati (almeno quelli che non hanno ancora delocalizzato la produzione all’estero), sono
diventati i paladini dei diritti sindacali dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo (gli USA, per
esempio, per evidenti ragioni hanno spinto con forza, senza successo, per l’adozione, in seno agli
accordi del WTO, di una clausola sociale relativa ai diritti dei lavoratori), dall’altro sono proprio i
paesi in via di sviluppo che non intendono adeguarsi a standard di regolamentazione sociale. A tale
proposito va ricordato che anche in Italia, almeno fino a una cinquantina di anni fa, non era inusuale
che i bambini venissero occupati nei lavori familiari, soprattutto nelle campagne, per cui è possibile
concludere che tali fenomeni siano da ascrivere a determinate e transitorie fasi dello sviluppo di un
paese. Diversi autori, inoltre, ritengono non necessaria o addirittura dannosa l’adozione di
regolamentazioni internazionali in tema sociale. Per quanto riguarda il lavoro minorile, per
esempio, molta parte del mondo accademico osserva, anche sulla base dell’esperienza concreta, per
esempio del Bangladesh, che l’adozione di regolamentazioni rigide sul lavoro minorile nei paesi in
via di sviluppo potrebbe risultare controproducente, alimentando ben peggiori tipi di sfruttamento
dei minori. E’ inoltre senz’altro vero che il divieto di esportazione di prodotti ottenuti con l’impiego
del lavoro di minori non esclude che essi vengano adibiti alla produzione di beni per il mercato
nazionale. Ritengo tuttavia che misure in tal senso possano rappresentare comunque delle
importanti indicazioni di tendenza, di lungo periodo piuttosto che di breve, capaci di sottolineare
l’importanza della scolarizzazione della popolazione al fine di aumentare il benessere di un paese. 17
Meritevoli mi sembrano dunque quelle iniziative, ricordate da Bonaglia e Goldstein (2003), che
associano gli aiuti alimentari alle famiglie dei paesi in via di sviluppo all’impegno a mandare i
bambini a scuola.18
Passando invece alla regolamentazione in tema ambientale, è forse curioso, ma ben
comprensibile visti gli evidenti interessi economici in gioco, che gli USA, così attenti alle questioni
sociali dei paesi in via di sviluppo, rifiutino invece di accettare l’adozione di standard ambientali a
17
Nella prospettiva di un mondo uniformemente sviluppato resta il problema del reperimento delle risorse naturali (la
dirompente crescita dell’economia cinese e le conseguenti necessità di consumo del suo miliardo di abitanti, i cui effetti
si cominciano a manifestare nell’aumento del prezzo del petrolio, ne sono un chiaro esempio): in tale prospettiva credo
che non esista alternativa – oltre alla riduzione dei consumi e alla ‘sobrietà’ - all’impiego di risorse rinnovabili.
18
Non concordo, tuttavia, con Bonaglia e Goldstein (2003), quando affermano: “Il problema sta dunque nelle
condizioni di povertà e nel basso rendimento atteso dall’istruzione. Visto che in molti Pvs l’accesso all’istruzione è
difficile e che spesso la migliore educazione non è condizione sufficiente per accedere a lavori più gratificanti e meglio
retribuiti, le famiglie preferiscono mandare i propri figli a lavorare anziché a scuola” (p. 47, mio il corsivo). Non mi
sento di condividere questa affermazione – peraltro non dimostrata, né sostenuta da alcuna evidenza empirica soprattutto per il fatto che mi è difficile credere che le famiglie povere dei paesi in via di sviluppo siano nella
condizione di poter scegliere se mandare i propri figli a scuola e che se non lo fanno ciò dipenda da complessi calcoli
11
livello internazionale, quale ad esempio la convenzione di Kyoto per la riduzione dei gas serra.
Bonaglia e Goldstein (2003) si soffermano, rigettandola, sull’ipotesi di imporre vincoli
all’esportazione di legname da parte di molti paesi in via di sviluppo, responsabile, secondo i
movimenti ambientalisti, della irreparabile distruzione di milioni di ettari di foreste. Anche in
questo caso (vedi la nota 18) non concordo con la loro analisi. Innanzitutto credo che debba essere
dimostrata l’affermazione secondo la quale “La gran parte del legname delle foreste è utilizzato
localmente come fonte di energia; solo una piccola parte è esportato: impedire le esportazioni
avrebbe ben pochi effetti sulla preservazione delle foreste” (p. 49); in secondo luogo l’utilizzazione
per le necessità interne potrebbe essere maggiormente attenta al mantenimento e alla riproduzione
delle foreste ed essere priva quindi delle caratteristiche predatorie proprie dell’utilizzo a fini di
esportazione; in terzo luogo credo che anche in questo caso valgano le visioni di lungo periodo e le
indicazioni di tendenza che ricordavo a proposito del lavoro minorile: l’attenzione da parte del
mondo sviluppato al patrimonio forestale dei paesi in via di sviluppo certamente aumenterebbe la
loro consapevolezza della necessità di limitarsi a coglierne i frutti, evitandone la distruzione.
2.4. Effetti dinamici della specializzazione in un settore piuttosto che in un altro
Il fatto di specializzarsi in un settore piuttosto che in un altro, non manca di produrre effetti nel
più lungo termine. Non è, cioè, indifferente il settore nel quale ci si specializza: una
specializzazione nel campo dell’elettronica permette probabilmente di godere nel tempo di aumenti
della produttività molto più elevati rispetto a quanto non sia possibile fare specializzandosi, per
esempio, nella produzione di prodotti agricoli o manufatti. In effetti, esistono diversi casi (Africa in
primo luogo) nei quali il divario fra Nord e Sud del mondo, dopo che il processo di liberalizzazione
ha avuto luogo, si è ampliato, anziché ridursi. Bonaglia e Goldstein (2003) riportando uno studio di
altri autori, mostrano, in effetti, che il rapporto fra il reddito pro-capite nei paesi ricchi e quelli più
poveri è passato da 11 nel 1870 a 52 nel 1985.19
Il fatto che la specializzazione in un settore piuttosto che in un altro possa produrre nel tempo un
differenziale di crescita fra i paesi tale da far aumentare, anziché diminuire, il divario fra di essi,
porta inevitabilmente anche a domandarsi quali siano le origini di una determinata situazione: è
possibile cioè che oggi un paese goda di vantaggi comparati in un settore a più lento incremento di
produttività, ma che tale situazione dipenda, ad esempio, dalle guerre coloniali avvenute molti
decenni prima, che hanno interrotto lo sviluppo tecnologico del paese in questione. Il ricorrere
all’idea dei vantaggi comparati, in questo caso, rischierebbe dunque di perpetuare una situazione
intertemporali relativi al rendimento atteso dall’istruzione, anziché da semplici e purtroppo stringenti vincoli di
bilancio.
12
(non favorevole neanche in prospettiva dinamica) determinata da eventi - spesso caratterizzati dalla
sopraffazione violenta - del lontano passato.20
Proprio il riconoscere che possano esistere settori dinamici, ad alto tasso di crescita, fa sì che i
governi spesso proteggano una determinata infant industry, cioè un’industria nascente, di cui lo
stato riconosce di avere bisogno al fine di crescere nel lungo periodo, ma che non potrebbe
sopravvivere nei suoi primi anni di vita sul mercato, ad esempio perché necessita di elevati costi di
impianto che possono essere sopportati solo vendendo una grande quantità di prodotto. Solo
attraverso la concessione di sussidi e più in generale di protezione l’industria nazionale potrà quindi
crescere e svilupparsi. Anche in questo caso, tuttavia, non è detto che la concessione di protezione
sia la cosa più giusta da fare. C’è infatti chi sostiene, portando esempi che non mancano anche in
Italia, che l’industria rimarrà sempre infant e che una volta che abbia iniziato a godere di
protezione, continui a reclamarla anche in età adulta. Altro punto critico, inoltre, risiede nel fatto
che non è assolutamente scontato che il governo riesca a prevedere con sufficiente accuratezza quali
siano i settori strategici da sostenere perché capaci di fungere da volano dell’economia, o che
addirittura le scelte strategiche siano determinate dall’esistenza di conflitti di interesse o perfino
corruzione.
Può succedere poi, come è stato il caso per gli stati Centro-americani produttori di cacao, che
una nuova norma (una Direttiva europea, nel caso specifico) stabilisca che il cioccolato possa essere
prodotto anche soltanto con burro di cacao, o con sostanze derivate che impiegano una quantità
minima di cacao. In quel caso quegli stati scopriranno amaramente che non è stata una buona idea
specializzarsi nella produzione di un prodotto agricolo, non solo perché il gap produttivo è andato
ampliandosi nel tempo rispetto ai paesi che si sono specializzati in prodotti ad alto contenuto
tecnologico, ma anche perché l’industria alimentare, nelle mani degli stessi paesi sviluppati, ha
scoperto processi e metodi tali da rendere pressoché inutile la materia prima per la quale i paesi in
via di sviluppo godono di un vantaggio comparato.
In quel caso ci si ricorderà di un principio ben noto in Economia, che è quello della
diversificazione del rischio, che non segue chi decide di specializzarsi nella produzione e
esportazione di un solo prodotto, rischiando appunto che si presenti un qualunque problema inatteso
su questo mercato, nell’assenza di reti di salvataggio rappresentate dalla presenza di settori
produttivi alternativi che possano almeno parzialmente assorbire lo shock settoriale negativo.
E’ opportuno però rilevare che l’ampliamento della differenza fra Nord e Sud non implica necessariamente un
peggioramento nel benessere dei paesi relativamente più poveri.
20
Esplicite a questo proposito sono le parole, riportate da Bonaglia e Goldstein (2003), di Baran e Sweezy, secondo i
quali il capitalismo fu introdotto come un processo di “saccheggio a cielo aperto, schiavismo e sangue inteso a soffocare
le fiorenti industrie dei territori invasi” (p. 68).
19
13
E’ da notare che la protezione che molti dei paesi in via di sviluppo reclamano per le loro infant
industries è duramente contestata, attraverso il WTO, da quei paesi del mondo sviluppato che hanno
basato il loro successo economico proprio sul ricorso a tali misure negli stadi iniziali della loro
industrializzazione.21
Le argomentazioni precedenti ben giustificano, dunque, la conclusione, presentata da Bonaglia e
Goldstein (2003), della necessità di prevedere reti di protezione per le fasce di popolazione più
povere e vulnerabili e che “la liberalizzazione commerciale non può essere una misura isolata e fine
a se stessa, ma parte di una strategia di sviluppo e riduzione della povertà” (p. 45).
2.5. Impatto del commercio internazionale sull’ambiente
Le teorie sul libero commercio non considerano minimamente l’impatto sull’ambiente derivante
dal trasporto delle merci oggetto di scambio. Nel calcolo, cioè, dei costi di produzione, non rientra il
costo sociale rappresentato dall’inquinamento e dalla riduzione delle risorse naturali, una esternalità
negativa che dovrebbe essere internalizzata e che, se ciò fosse fatto, renderebbe sicuramente meno
conveniente il commercio internazionale di determinati prodotti.
2.6. Mercati dei beni caratterizzati da concorrenza monopolistica o da oligopolio
Dal momento che i mercati dei beni dei paesi sviluppati sono caratterizzati da concorrenza
monopolistica o oligopolio, spesso non è il prezzo l’elemento determinante per la scelta di un
prodotto, cosicché la delocalizzazione produttiva permette l’aumento del profitto dei produttori,
piuttosto che la riduzione del prezzo di vendita. Non è difficile rendersi conto, in effetti, che merci
prodotte nei paesi in via di sviluppo a costi di produzione molto bassi, vengono poi spesso vendute
sui mercati occidentali a prezzi elevati (fonti giornalistiche riportavano il dato significativo di
scarpe di una ben nota marca vendute a un prezzo di circa 100 euro in Italia, il cui costo per la
manodopera in Cina si aggirerebbe intorno a 1 euro: pur riconoscendo la presenza di inevitabili
costi di immagine e pubblicità necessari al mantenimento di posizioni oligopolistiche o di
concorrenza monopolistica e il loro contributo al valore del prodotto finale, questa proporzione di
1/100 fra costo della manodopera e prezzo di vendita si commenta da sola). Se da un lato, dunque,
si reclama e si favorisce la concorrenza perfetta nel mercato del lavoro, dall’altro si ignora che tali
condizioni di concorrenza perfetta non ricorrono, in molti casi, nel mercato dei beni: ciò dovrebbe
condurre quanto meno ad interrogarsi circa gli effetti di tale asimmetria.
Ulteriore punto, collegato a quello appena visto, è relativo al confronto, nei paesi sviluppati, fra
il salario dei lavoratori non qualificati e il compenso dei dirigenti: potrebbe ben accadere, in effetti,
21
Anche Chang, citato da Bonaglia e Goldstein (2003), nota, insieme a moltissimi altri autori e commentatori, questo
14
che i risparmi ottenuti con i licenziamenti dei lavoratori non qualificati siano destinati all’aumento
dei compensi dei dirigenti (la cui giustificazione in termini di aumenti di produttività dovrebbe
essere dimostrata) piuttosto che alla diminuzione dei prezzi di vendita del prodotto.
2.7. Asimmetria nell’applicazione della teoria economica
Più in generale, molte delle controversie sembrano nascere dal fatto che la teoria economica sia
applicata in maniera asimmetrica o impropria. E' possibile citare numerosissimi esempi in tal senso,
ma fra tutti basta ricordare che i paesi sviluppati (che, come sopra ricordavo devono la loro
posizione attuale anche all’adozione iniziale di misure protezionistiche) reclamano a gran voce il
libero commercio quando tale liberalizzazione riguarda i prodotti nei quali essi godono di vantaggi
competitivi, ma quando sono sfidati dalla concorrenza sui prodotti agricoli da parte dei paesi in via
di sviluppo, sono i primi a non voler eliminare i dazi. Esempio simile è la recente applicazione, sia
pure temporanea, da parte degli USA, di dazi sull’acciaio importato, a difesa dei produttori
nazionali o, ancora più significativa, la differenza di comportamento tenuto dagli Stati Uniti nei
confronti della richiesta dei paesi africani di essere esentati dal pagamento delle royalties sui vaccini
contro l’Aids: pur essendosi schierati a difesa degli interessi delle società farmaceutiche in quel
caso, erano pronti ad avanzare la stessa richiesta dei paesi africani nel caso in cui fosse stato
necessario ricorrere alla vaccinazione di massa contro il carbonchio o antrace.22
2.8. E’ proprio vero che la globalizzazione allontana la guerra?
La tesi, riportata nel paragrafo 1.5, secondo la quale il libero commercio internazionale dovrebbe
allontanare la guerra, sebbene coerente con gli avvenimenti che hanno condotto alla seconda guerra
mondiale, sembra smentita dagli eventi che hanno preceduto la prima guerra mondiale,
caratterizzati da una ampia apertura commerciale e finanziaria e da enormi flussi migratori umani.
Le guerre di questi ultimi anni poi, secondo molti osservatori non sono indipendenti dalla
necessità di controllo delle fonti energetiche (principalmente il petrolio) da parte dei paesi
relativamente sprovvisti, per cui l’affermazione secondo la quale la globalizzazione allontanerebbe
la guerra, avrebbe senz’altro bisogno di maggiori qualificazioni.
E’ senz’altro vero, inoltre, che le istituzioni internazionali preposte alla regolamentazione dei
commerci internazionali, in primo luogo l’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc),
possano favorire la definizione di accordi internazionali che, in quanto tali, soddisfino pienamente
le parti contraenti. Nella realtà, tuttavia, l’Omc, si è spesso trasformata in fonte di applicazione
paradosso.
22
Bonaglia e Goldstein (2003) rilevano questo paradosso. Barcellona (2005) approfondisce gli aspetti giuridici della
globalizzazione, soffermandosi in particolare sulla questione delle vaccinazioni anti-Aids.
15
asimmetrica di norme a danno dei paesi in via di sviluppo e a favore di quelli sviluppati. Ciò
soprattutto a causa del maggiore peso economico e del conseguente maggiore potere contrattuale di
molti dei paesi sviluppati rispetto a quelli in via di sviluppo, o a causa del fatto che alcuni paesi non
sono neanche in grado di mantenere le loro delegazioni presso la sede dell’Omc a causa degli
elevati costi che ciò implicherebbe - e sono dunque incapaci di influenzare in alcun modo il
contenuto e l’andamento dei negoziati stessi.
E’ evidente che una tale situazione mantenga intatto il potenziale di conflittualità e di
aggressività, anche di tipo militare, fra un paese e l’altro.
3. Le argomentazioni economiche alla base della globalizzazione finanziaria
La liberalizzazione del movimento dei capitali sia a breve che a medio e lungo termine, si basa
sull’idea che i capitali debbano essere liberi di spostarsi dove il loro impiego risulta più efficiente
e/o più necessario.
3.1. L’efficienza economica
Così come, considerando il mercato dei beni, nel campo cioè del commercio internazionale, la
teoria economica standard giunge alla conclusione che il libero mercato sia da preferire al
protezionismo, visti i guadagni in termini di maggiore prodotto che è possibile ottenere per tutti i
partecipanti, nel considerare il movimento dei fattori produttivi il medesimo approccio teorico
suggerisce la loro libera circolazione. Lasciamo per il momento il caso del fattore lavoro per
concentrarci invece sul fattore capitale, visto che stiamo trattando della globalizzazione dei mercati
finanziari internazionali.23 L’idea di base che sta dietro alla prescrizione della libera circolazione dei
capitali, adottata in maniera sempre più diffusa negli ultimi 15-20 anni24 è molto semplice. Il tasso
di interesse (il prezzo da pagare per la rinuncia da parte di qualcuno all’uso di capitale e per
l’impiego da parte di altri di capitale preso a prestito) dovrebbero riflettere la scarsità relativa di
capitale: se in un dato paese il tasso di interesse che viene corrisposto sui titoli è maggiore che in
altri paesi, è bene che i capitali vi si dirigano, in quanto così facendo colui che presta fondi ottiene
un compenso maggiore e, soprattutto, il capitale si dirige laddove è più necessario, in quanto è
scarso rispetto ai bisogni di quel paese e per questo più remunerativo. Si pensi a un paese che ha
una dotazione di capitale così ampia da essere difficile trovare modi per impiegarla in maniera
Asso (s.d.) avverte però che “in materia di globalizzazione finanziaria il verdetto emesso dai fondatori della scienza
economica è sempre stato assai meno netto e assoluto rispetto a quanto avveniva sul versante della globalizzazione
reale” (p. 7), come egli mostra in maniera dettagliata in Asso (2002).
24
Si ricordi che la liberalizzazione del movimento dei capitali in Europa è avvenuta a partire dal 1990, seguendo le
indicazioni contenute nell’Atto unico europeo che, modificando i Trattati di Roma che avevano determinato la nascita
dell'allora Comunità economica europea (oggi Unione europea), stabiliva la libera circolazione dei fattori produttivi
lavoro e capitale.
23
16
profittevole, ed altri paesi nei quali manca invece qualunque infrastruttura, pre-condizione per
l’avvio dello sviluppo: è facilmente comprensibile che il permettere al capitale di muoversi da un
paese all’altro aumenti l’efficienza complessiva del sistema economico, convogliando le risorse
laddove sono maggiormente profittevoli e dunque necessarie.
3.2. Il movimento dei capitali come fonte di assicurazione interterritoriale
La libera circolazione dei capitali consente un migliore funzionamento del sistema economico
anche perché permette ai paesi di godere di una sorta di assicurazione interterritoriale. Il libero
movimento dei capitali sarebbe opportuno, dunque, non solo al fine di soddisfare i bisogni
strutturali dei paesi che ne sono relativamente sprovvisti, ma anche in caso di necessità temporanee,
per far fronte a difficoltà congiunturali, al fine di permettere di assorbire gli effetti negativi di shock
temporanei che riducono il reddito del paese in questione. I settori produttivi o le regioni colpite
dalla crisi potranno così ottenere sul mercato internazionale dei capitali, dai paesi caratterizzati dal
buon andamento dell’economia e dalla disponibilità di capitali inutilizzati, le risorse necessarie per
la loro sopravvivenza e per la loro riorganizzazione. Tale meccanismo ha ben funzionato, per
esempio, negli Stati Uniti in occasione della crisi dell’auto dei primi anni Ottanta del secolo scorso,
quando le regioni in difficoltà hanno potuto superare tale periodo difficile anche grazie ai
finanziamenti ricevuti dagli Stati la cui situazione economica era prospera. In Europa potrebbe
verificarsi una esigenza simile, nel caso in cui uno o più paesi vengano colpiti, a differenza degli
altri, da shock negativi.25
4. Gli aspetti critici della globalizzazione finanziaria
Anche nel caso della globalizzazione finanziaria, se da un lato esistono ragioni teoriche a suo
favore molto difficilmente contestabili, dall’altro il modo con il quale tali teorie trovano
applicazione può dar luogo ad alcune obiezioni, come argomento nei paragrafi che seguono.
4.1. Movimenti dei capitali a breve e a lungo termine
La globalizzazione finanziaria era già molto accentuata nel XIX secolo. Nell’esempio ricordato
all’inizio di questo articolo, quello della costruzione della ferrovia transcontinentale americana,
finanziata con capitali europei, risultavano in tutta evidenza i vantaggi in termini di allocazione
efficiente delle risorse. Come è facile comprendere, tale impegno nella costruzione delle
infrastrutture doveva, come fu, essere finanziato con capitali a lungo termine, con capitali, cioè, la
La presenza di un’unica autorità monetaria e dei vincoli fiscali stabiliti nel Patto di stabilità e crescita (sebbene
allentati recentemente proprio per considerare eventuali casi di crisi congiunturali) impedisce, infatti, l’adozione di
misure anti-cicliche di politica economica nei paesi colpiti da shock asimmetrici.
25
17
cui restituzione avviene soltanto dopo almeno un decennio.26 L’attuale movimento dei capitali
riguarda invece essenzialmente quelli a breve termine che non garantiscono la disponibilità delle
cifre prese a prestito per un ampio e ben definito periodo di tempo. E’ evidente che tale situazione
possa presentare dei seri problemi: come si può pensare, ad esempio, di prestare denaro per
costruire un'abitazione di due piani, avendo l'opzione di ritirare tali fondi al termine della
costruzione del primo piano? L'indebitamento relativo all'attuazione di progetti di lungo termine
dovrebbe dunque anch’esso essere anch’esso a lungo termine.27 Si obietterà in questo caso che
l'unica condizione alla quale i capitali saranno invogliati a indirizzarsi verso le economie che ne
hanno scarsità è quella di ricorrere al prestito a breve termine: meglio quello di niente. A parte il
fatto che si potrebbe sostenere assolutamente il contrario (cioè meglio non ricevere alcun
finanziamento, piuttosto che un finanziamento che rischia di lasciare incompiuta l'opera da
finanziare), tale posizione ignora il fatto che in moltissimi casi (ad esempio negli anni Ottanta del
XX secolo), è stata l'offerta di capitali piuttosto che la domanda a determinare gli spostamenti dei
capitali stessi. In particolare, le ingenti disponibilità di liquidi derivanti dai proventi petroliferi in
conseguenza degli shock degli anni Settanta hanno creato una disponibilità di credito a buon
mercato per i paesi in via di sviluppo, salvo poi chiedere la restituzione ai primi segni di incertezza,
o di mutamento delle condizioni del mercato.
E’ senz’altro vero, inoltre, che i capitali a breve termine possono finanziare investimenti a lungo
termine, operazione compiuta, per esempio, dalle aziende di credito, le quali trasformano depositi a
vista in impieghi anche a medio e lungo termine. Tuttavia, nel caso delle banche, esistono dei
coefficienti operativi che devono essere rispettati, per non parlare dell’esistenza di organismi che
svolgono le funzioni di prestatore di ultima istanza al fine di evitare il verificarsi di situazioni di
panico e di bank runs (corse agli sportelli). Tali organismi non esistono sui mercati internazionali,
anche al fine di evitare il verificarsi di fenomeni di azzardo morale, fenomeni, cioè per i quali chi
presta denaro non avrebbe alcun incentivo a verificare la qualità del debitore, certo del fatto che in
ogni caso i fondi da lui prestati gli saranno comunque restituiti in caso di fallimento del debitore
stesso.
I capitali a breve termine, dunque, dovrebbero essere impiegati per lo più al fine di risolvere i
problemi di breve periodo legati al verificarsi di shock asimmetrici in determinate aree geografiche
A tale proposito, Asso (s.d.) ricorda anche che “episodi virtuosi di globalizzazione finanziaria si verificarono in Italia
negli ultimi decenni del’800, quando il processo di industrializzazione fu efficacemente sostenuto dalla presenza di una
rete di nuove istituzioni bancarie e capitale prevalentemente franco-tedesco” (p. 8).
27
E’ possibile argomentare che anche il finanziamento a lungo termine non sarebbe in grado di proteggere
completamente un’economia soggetta a una crisi di fiducia, visto che ciò causerebbe comunque un immediato
innalzamento dei tassi di interesse, con pesanti ripercussioni sull’economia. Nel caso di indebitamento a lungo termine,
tuttavia, il paese debitore avrebbe almeno il tempo per predisporre le contromisure adeguate al fine di resistere alle
pressioni speculative, possibilità che non esisterebbe nel caso di indebitamento a breve termine.
26
18
e solo a determinate condizioni dovrebbero essere utilizzati per finanziare investimenti a lungo
termine, al fine di evitare che i fondi facilmente prestati possano essere repentinamente ritirati,
anche solo in base al ‘contagio’ che potrebbe estendere una situazione di crisi a paesi i quali in
realtà non avrebbero ragione di essere coinvolti.
E’ opportuno anche ricordare il fatto che il teorema di Hecksher-Ohlin dimostra i vantaggi del
commercio internazionale ipotizzando l’immobilità internazionale del lavoro e del capitale. Il
commercio internazionale, quindi, opera come sostituto della loro mobilità, dal momento che i due
fattori produttivi di fatto circolerebbero liberamente per il tramite delle merci commerciate
internazionalmente. Almeno da questo punto di vista, dunque, il fatto che il movimento dei capitali
sia impedito totalmente o parzialmente, non produrrebbe alcuna perdita di efficienza economica e
tale eventualità potrebbe dunque essere valutata, nel caso risultasse opportuna, per esempio al fine
di limitare l’instabilità prodotta dalla volatilità dei capitali.
4.2. Efficienza del mercato dei capitali e attacchi speculativi autorealizzantisi
Il libero movimento dei capitali, come si è visto, è giustificato sulla base del fatto che i tassi di
interesse, che dovrebbero guidare le scelte di investimento da un paese all’altro, riflettono la scarsità
relativa del capitale e forniscono dunque i corretti incentivi al mercato. Non è difficile rendersi
conto, tuttavia, che non sempre il segnale fornito dai tassi di interesse è quello corretto, soprattutto
perché non sempre gli operatori sul mercato riescono a leggere correttamente tale segnale a causa
della presenza di asimmetrie di varia natura: tassi di interesse elevati, per esempio, potrebbero
essere dovuti semplicemente a un elevato premio per il rischio del debitore per cui dovrebbero
attrarre solo i risparmiatori propensi al rischio e non anche gli altri, i quali invece per miopia o per
mancanza di informazione, potrebbero ugualmente acquistare i titoli offerti a condizioni
apparentemente vantaggiose. Paradossale appare, da questo punto di vista, il fatto che i capitali non
si dirigano necessariamente verso i paesi che soffrono di scarsità relativa di tale fattore, ma trovino
impiego in maniera cospicua negli Stati Uniti, i quali peraltro proprio grazie a tali afflussi possono
permettersi di mantenere l’alto assorbimento interno, cioè l’elevato livello di consumi e
investimenti, che causa l’ampio deficit commerciale americano di questi ultimi anni.28
Alti tassi di interesse, inoltre, sempre per problemi di asimmetrie informative (in particolare per
problemi di selezione avversa) potrebbero essere dovuti alla creazione di Ponzi games, vale a dire a
giochi irresponsabili condotti da debitori i quali costruiscono posizioni ultra-speculative che
sperano di controllare solo attraverso l’ulteriore indebitamente a tassi di interesse crescenti: è
Paolo Savona non esita a definire questo come il nuovo ‘scandalo monetario internazionale’, dopo quello denunciato
da Triffin negli anni Sessanta del secolo scorso (che poi condusse alla caduta del sistema a cambi fissi di Bretton
28
19
inevitabile che tali castelli di carta, di cui non mancano esempi anche recenti in Russia, crollino
prima o poi, dopo gli iniziali fulgori.
Il
mercato
dei
capitali
internazionali,
inoltre,
è
soggetto
ad
attacchi
speculativi
autorealizzantisi:29 se, in presenza di accordi di cambio fisso, gli attacchi sono self-fulfilling, cioè
possono avere luogo anche in presenza di fondamentali in ordine, non sarebbe opportuno lasciare il
capitale libero di muoversi, rischiando così di causare instabilità finanziarie non necessarie e
soprattutto non dettate dal corretto operare dei mercati, ma motivate soprattutto da band wagon
effects, piuttosto che da herd behaviour o contagio finanziario. Il fatto che gli attacchi speculativi
siano prodotti da aspettative autorealizzantisi, piuttosto che da divergenze nei fondamentali
economici, cioè da politiche economiche eccessivamente espansive, e comunque non coerenti con
l’impegno a mantenere la parità valutaria, giustificherebbe dunque l’introduzione di misure di
controllo e limitazione del libero movimento dei capitali. Tali misure di second best, viceversa, non
avrebbero alcuna giustificazione economica nel caso in cui il mercato funzionasse efficacemente e
la speculazione svolgesse il ruolo di guardiano del mercato e di ‘controllore’ del corretto operato
delle autorità di politica economica.30
Anche senza voler ricorrere a tali forme radicali di intervento correttivo del malfunzionamento
del mercato dei capitali, è ormai ben chiara, come riportano Bonaglia e Goldstein (2003) la
necessità che la liberalizzazione finanziaria sia accompagnata da misure di regolamentazione e
supervisione dei mercati e più in generale da un approccio di cautela e gradualità.
4.3. I possibili benefici di una Tobin tax
Osservando la presenza di imperfezioni di mercato, diversi economisti31 hanno fatto propria una
proposta di Tobin di alcuni anni fa di procedere alla tassazione del movimento dei capitali, al fine di
rallentarne la dinamica e di evitare così una eccessiva volatilità dei mercati finanziari.32
Tale tassa potrebbe essere applicata in primo luogo allo scopo di raccogliere fondi da destinare
alla lotta contro la povertà e all’adozione di programmi di sviluppo nelle aree povere del mondo.33
La Tobin tax troverebbe giustificazione, inoltre, nel fatto che la speculazione provoca effetti
destabilizzanti, producendo un'esternalità negativa sull'intera economia. Troverebbe piena
Woods), relativo all’abnorme creazione di dollari necessaria a finanziare la guerra del Vietnam e i programmi di
sviluppo americani.
29
L’attacco speculativo avrebbe natura autorealizzativa in quanto la banca centrale sarebbe indotta alla svalutazione dal
prodursi dell’attacco stesso, mentre nessuna svalutazione avrebbe luogo in assenza di attacco.
30
A tale proposito vedi Della Posta (2002).
31
Tobin (1978) e Eichengreen, Tobin e Wyplosz (1995). Ul Haq, Kraul e Grunberg (a cura di) (1996) presenta in
dettaglio le diverse argomentazioni a favore e contro l’introduzione della Tobin tax.
32
La Tobin tax, tuttavia, sarebbe una tassa sui periodi favorevoli, inefficace nei momenti di crisi grave .
20
giustificazione dunque l'imposizione di una tassa che, al pari della tassa sulle emissioni di sostanze
inquinanti (carbon tax, per esempio), permetta agli individui di internalizzare gli effetti negativi
sopportati dall'intera collettività.
Sebbene da molte parti si riconosca la correttezza di queste posizioni, si obietta, tuttavia, che i
controlli sul movimento dei capitali non possono essere imposti, perché in ogni caso sarebbero
facilmente aggirati. In effetti, un’applicazione limitata a solo alcuni paesi lascerebbe lo spazio a
swaps e operazioni simili sui derivati che permetterebbero di eludere molte di tali misure.34 La
stessa cosa si potrebbe dire, tuttavia, pur tenendo conto delle dovute differenze, sui controlli ai
movimenti delle persone e in effetti, come vediamo quotidianamente, l'immigrazione illegale
continua ad avere luogo, alimentando fra l’altro le organizzazioni criminali. Nonostante che la legge
che limita l’accesso di extra-comunitari nel nostro paese sia aggirata in maniera sistematica e
significativa, nessuno propone, tuttavia, la sua abolizione, come si argomenta invece a proposito
della Tobin tax.35 Accanto alle ragioni, evidenti e comprensibili soprattutto in un contesto
problematico come quello attuale, a favore del mantenimento di una legislazione restrittiva nei
confronti delle persone (e del fattore lavoro), potrebbero dunque ben trovare posto le ragioni a
favore della limitazione del movimento dei capitali a breve termine, che invece vengono lasciati
liberi di circolare nonostante i problemi e l’instabilità da essi prodotta.
Osservazioni conclusive
In questo breve saggio ho presentato in forma necessariamente semplificata le ragioni teoriche
generalmente portate a sostegno della liberalizzazione degli scambi commerciali e del movimento
dei capitali che caratterizzano l’attuale fase di globalizzazione. Accanto ad esse ho però esposto,
tentando di ricollocarle all’interno del contesto scientifico, le principali obiezioni, avanzate da più
parti, alle forme che la globalizzazione assume attualmente. Ciò che emerge è che a molte di tali
obiezioni la teoria economica, almeno così come è formulata al momento, non riesce a dare
risposta, semplicemente perché le assunzioni su cui si basa ignorano - per una ragione o per l’altra quegli aspetti.
33
Secondo Bonaglia e Goldstein (2003) la Tobin tax permetterebbe di ottenere un gettito compreso fra 50 e 250 miliardi
di dollari all’anno: una cifra ragguardevole, se si pensa che nel 2000 gli aiuti totali dai paesi OCSE ai paesi in via di
sviluppo sono stati pari a 50 miliardi di dollari.
34
La convenienza a porre in essere swaps valutari, tuttavia, è tanto maggiore quanto più elevate sono le aliquote sul
movimento dei capitali: con aliquote basse come quelle proposte per la tassazione del movimento dei capitali, che
oscillano fra lo 0,05% e lo 0,25%, sarebbero da verificare, dunque, gli incentivi e i margini per l’attivazione di tali
operazioni derivate sui cambi.
35
Un incremento del numero dei lavoratori stranieri fino al 3% della forza lavoro permetterebbe peraltro, come nota
Rodrik, citato da Bonaglia e Goldstein (2003), un aumento delle rimesse da parte degli immigrati per un importo di 200
miliardi di euro, una somma pari a circa 5 volte l’ammontare degli aiuti annui dei paesi sviluppati a quelli in via di
sviluppo.
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