1 Lucio Gentilini PENSIERO E RIVOLUZIONE NELLA FILOSOFIA DI GYORGY LUKACS Introduzione Il 1° gennaio 1992 – quasi vent’anni fa - nasceva ufficialmente la Federazione Russa dopo che sulle torri del Cremlino il suo tricolore aveva cominciato a sventolare fin dal precedente 25 dicembre al posto della bandiera rossa dell’U.R.S.S.. Nessuno si stupì di un evento pur così importante nella storia del pianeta stesso perchè tutti sapevano bene che l’U.R.S.S. era definitivamente morta e già sepolta senza rimpianti: lo stesso Soviet Supremo, come ultimo atto del suo mandato, l’aveva sciolta ufficialmente il precedente 26 dicembre. Giungeva così a conclusione un drammatico triennio i cui sviluppi politici avevano scandito l’inesorabile ed inarrestabile processo di disfacimento e dissoluzione di quella che era stata la seconda superpotenza della Terra. Il 1989 era iniziato col definitivo ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan il 15 febbraio, saggia e non più rimandabile decisione che faceva finalmente cessare l’inconsulta occupazione militare giunta già al suo decimo anno (!). Era proseguito poi con la perdita degli Stati-satellite della cintura esterna occidentale dell’Impero: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania Est, una dopo l’altra in un tumultuoso vortice di rivolte e manifestazioni si erano liberate della pesante e soffocante tutela sovietica cacciandone a furor di popolo i tristissimi rappresentanti locali. L’evento simbolo per eccellenza di questo processo era stata la celeberrima caduta del Muro di Berlino la notte del 9 novembre. Nei due anni seguenti erano poi giunti a conclusione il processo di liberazione ed il raggiungimento dell’indipendenza dei popoli e Paesi sottomessi all’interno dell’Impero, dalle Repubbliche sul Baltico a quelle sul Caucaso, da quelle nell’Europa orientale a quelle nella sterminata Asia centrale. Il 21 dicembre 1991 era nata così la Comunità degli Stati Indipendenti (C.S.I.) - della quale anche la Russia era una componente - che cercava di tenerli ancora collegati grazie a quei legami ancora utili e necessari dopo settant’anni di appartenenza allo stesso Stato. 2 Colui che aveva saputo affrontare ed interpretare un rivolgimento di questa portata era stato l’allora segretario del P.C.U.S. e poi presidente del Soviet Supremo Michail Gorbaciov che aveva rivelato capacità eccezionali, più uniche che rare: partito nel 1985 con una politica volta a riformare e democratizzare l’U.R.S.S., egli non solo era riuscito a rendersi conto che ciò era impossibile e che l’immenso edificio era talmente corroso che poteva solo crollare, ma, soprattutto, era riuscito ad accompagnare ed a gestire la gigantesca trasformazione senza ricorrere mai alla violenza (che ci fu solo là dove il controllo sovietico arrivava meno, come in Romania). Un impero bicontinentale di quelle dimensioni cascava a pezzi e le sue immense convulsioni avvenivano pacificamente (!); al governo si prendeva atto dell’irreversibilità del fenomeno e quando ci si opponeva ad esso lo si faceva con la sola parola (!); e quando mai si era vista una cosa del genere? In un regime che era stato costruito col e sul G.U.Lag. ora trionfava la ragione e la ragionevolezza – e nel momento in cui doveva sopportare la sua crisi più grave! Per opporsi all’inevitabile cambiamento il 18 agosto 1991 a Mosca era stato perfino tentato un colpo di stato ad opera di un gruppo di alti ufficiali e funzionari che addirittura aveva imprigionato Gorbaciov insieme alla famiglia; tre giorni dopo il golpe era tuttavia già fallito anche per il deciso intervento del presidente della Repubblica Russa Boris Eltsin e per la resistenza popolare, ma questa era stata la fine politica dello stesso Gorbaciov che, incolpato di scarsa vigilanza e di incapacità, fu messo bruscamente da parte mentre il 21 agosto il P.C.U.S. stesso veniva bandito dall’U.R.S.S.. Con questo irriconoscente benservito Gorbaciov venne cacciato dalla scena politica senza che nessuno lo difendesse o ne ricordasse i meriti grandissimi: finì dalla parte degli sconfitti e dei falliti, degli indecisi e degli inadatti al compito, lui che aveva impedito le catastrofi che si accompagnano sempre al crollo di regimi ed imperi, lui che aveva puntato soltanto e sempre sulle vie pacifiche per la soluzione dei problemi anche grandissimi – e che ci era riuscito. Il crollo dell’U.R.S.S. è l’evento che sega la storia del mondo contemporaneo in due, distinta fra un prima ed un dopo - ed è avvenuto nell’ordine e nella compostezza: quanto deve la Storia, il suo popolo, gli altri popoli ed il pianeta stesso, al compagno segretario e presidente Gorbaciov? Nessuno l’ha ringraziato nè lo ringrazia, ma se è vero che il tempo è galantuomo i suoi meriti straordinari prima o poi gli verranno finalmente riconosciuti, anche se è facile prevedere che per allora avrà fatto in tempo a morire dimenticato. La sua umiltà e la sua grandezza furono evidenti fin dall’inizio, già in “Perestroika” l’opera in cui mostrava e metteva a nudo con onestà e sincerità la situazione del suo Paese, in cui offriva come rimedi la trasparenza (la famosa ‘glasnost’), la libertà e la 3 democrazia, in cui chiamava tutti alla collaborazione ed al dialogo perchè sapeva bene che “Non abbiamo ricette universali da proporre”, lui che sedeva sul trono che era stato di Stalin. Così finiva il ‘secolo breve’ secondo la fortunata formula di Hobsbawn, iniziato nel 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale e, appunto, terminato coll’ irreversibile fallimento dell’U.R.S.S. (di tutto ciò che esso comportava). Il crollo dell’U.R.S.S. e, più in generale, del comunismo non ha decisamente nulla di nobile o glorioso e quello che l’esperienza degli Stati del ‘socialismo reale’ ha da insegnare è soltanto che non va ripetuta nel modo più assoluto. Nel momento in cui tuttavia quei Paesi che hanno conosciuto il comunismo sono irriconoscibili e che la nuova generazione sembra non saper nulla di un passato pur così recente, vengono però alla mente anche gli oceani di inchiostro e le montagne di libri, di articoli e di studi che vollero difenderlo, giustificarlo, negarne gli aspetti più violenti, ed anzi esaltarlo come alba di una nuova storia, realizzazione dell’umanità disalienata, éra di felicità e di inarrestabile progresso, ecc. ecc.. Viene davvero da chiedersi cosa mai ebbero in testa tanti intellettuali, come poterono essere così ciechi: non tutti erano dei servi prezzolati, degli striscianti leccatori degli stivali del principe! Ci furono tanti che credettero sinceramente nelle assurdità che scrivevano! E ci fu anche chi aveva saputo costruire una filosofia di tutto rispetto basata sul comunismo e sulla sua rivoluzione, chi aveva pensato che la Storia avesse ormai imboccato la via della vera emancipazione per un’umanità che finalmente si liberava: fior di pensatori e filosofi che meritarono il rispetto e la considerazione anche di chi non accettava il comunismo ed anzi lo cambatteva. In questa sede ci si chiede che ne è stato di costoro; se hanno ancora qualcosa da dire o se vanno seppelliti nella fossa comune dei loro regimi nefandi; se possono offrire ancora qualche spunto interessante o se si devono prendere in considerazione per puro ed unico dovere di storici del pensiero. Se insomma questo dei filosofi del comunismo è un discorso definitivamente chiuso e concluso e non ci si deve (più) curar di loro, ma guardare e passare. Queste pagine proveranno a rispondere a questa domanda prendendo in esame l’opera qui giudicata la migliore di tutte quelle del suo genere, “Storia e coscienza di classe” di Lukàcs. 4 La disciplina di un comunista Gyorgy Lukàcs, ungherese (era nato a Budapest nel 1885) ma di cultura tedesca, fu folgorato dalla rivoluzione russa con la quale “- finalmente! – si era aperta per l’umanità una via che conduceva al di là della guerra e del capitalismo”; nel 1918 si iscrisse così al partito comunista ungherese ed ebbe anche un incarico governativo nella effimera (e violenta) Repubblica Sovietica Ungherese di Béla Kun nel 1919. Dopo il suo fallimento dovette darsi alla fuga e dal 1919 al 1922 si dedicò alla stesura dei saggi che pubblicherà l’anno seguente col titolo di “Storia e coscienza di classe”, il suo capolavoro. Pubblicato nel 1923, già l’anno seguente per bocca dello stesso Zinoviev l’opera venne però censurata in quanto “idealista” dalla Terza Internazionale - e Lukàcs accettò la scomunica. Nè la questione finì così perchè, soprattutto in seguito alla lettura dei “Manoscritti economico-filosofici” di Marx (allora di recente riscoperti), fu lo stesso Lukàcs a ripudiare poi la sua opera: “Questo libro mi divenne completamente estraneo” ebbe a scrivere. Eppure mancava ancora la parola definitiva: nel 1933 Lukàcs giunse a Mosca, ambitissimo culmine dell’impegno di qualsiasi comunista, ma, data la lotta senza quartiere all’interno della dirigenza culturale e politica del P.C.U.S., capì subito che “era per me una necessità tattica prendere pubblicamente distanza da “Storia e coscienza di classe” ... Naturalmente, per poter pubblicare un’autocritica, dovetti sottomettermi alle regole di linguaggio allora dominanti” e fu così che, sempre più convintamente, Lukàcs procedette all’ulteriore disconoscimento e rifiuto dell’opera. Tuttavia il seme era stato gettato e nel mondo libero (o borghese) esso aveva germogliato così che “Storia e coscienza di classe” nei Paesi capitalistici trovava editori che la pubblicavano nella sua stesura originale e senza nemmeno consultare l’autore: insomma, il testo era un successo presso coloro che voleva combattere ed era rifiutato e condannato da coloro che intendeva sostenere! Finiva per essere un’apprezzato strumento intellettuale nelle mani del nemico (di classe) stesso! Fu così giocoforza che, ad oltre quarant’anni dalla sua prima edizione, Lukàcs dovette acconciarsi a curarne un’altra per limitare e contrastare quelle non autorizzate e per fornire al lettore la ‘giusta’ prospettiva nella quale collocare l’opera – costretto ad ammettere quasi a malincuore (!) nella Prefazione del 1967 che l’opera “ha suscitato e suscita ancora oggi una forte impressione su molti lettori”,. Le spiegazioni della censura subita, della sua accettazione convinta e delle rettifiche contenute nell’edizione del 1967 potranno ovviamente essere offerte solo nei 5 prossimi paragrafi che tratteranno del contenuto filosofico dell’opera, ma fin da subito alcune caratteristiche tipiche del mondo comunista emergono con nettezza. Innanzitutto, Lukàcs non protestò e non reagì alla censura non perchè fosse un pavido, ma perchè nella psicologia comunista non esisteva verità fuori del Partito – che non sbagliava mai; per un comunista impellente era l’azione politica (di cui l’attività culturale era un aspetto) e fuori del Partito questa non era possibile, per cui portare avanti le proprie idee fuori o addirittura contro il Partito non aveva semplicemente senso. In secondo luogo, anche Lukàcs fu sempre convinto che le opere di Marx e dei grandi del comunismo (Lenin) erano verità assoluta ed indiscutibile e che la loro retta interpretazione ad opera del Partito apriva gli occhi sulla realtà in modo incontrovertibile: così nei confronti di questo corpus di certezze assolute il pensiero doveva e poteva limitarsi solo alla comprensione ed all’illustrazione. E’ lampante come tutto ciò sia tipico delle Chiese e delle religioni e che il comunismo senza dubbio fu una religione di cui ebbe tutte le caratteristiche e tutte le modalità: l’autonomia del pensiero, l’indipendenza dei propri giudizi, il valore dell’unicità ed irripetibilità della propria mente per un comunista come Lukàcs era semplice ideologia borghese. Lukàcs è uno dei tantissimi esempi di questa disciplina autoimposta ed accettata con convinzione ed entusiasmo e fu da essa che derivò tanta cecità (o, peggio, giustificazione) nei confronti dell’orrore – esattamente la stessa dei fedeli di una religione nei confronti di quel che fa o ha fatto la loro Chiesa. E’ tempo tuttavia di passare all’esame del contenuto filosofico dell’opera. La resa preventiva del Positivismo ... Il Positivismo (borghese) parte precisamente dalla separazione di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto, ponendo da una parte società e natura (l’essere, l’oggetto) e dall’altra l’uomo (il soggetto) che le conosce e le pensa. Per un positivista il pensiero si deve dunque preoccupare unicamente di riflettere (proprio come uno specchio) nel modo più completo possibile l’essere che, essendo quel che è indipendentemente dal pensiero stesso, non va mai posto in discussione. E’ questo l’approccio ‘scientifico’ nei confronti della realtà il cui sforzo è teso a mettere in luce le leggi che la regolano - leggi che naturalmente sono tali perchè immodificabili e che esistono (ripetiamolo pure) in modo del tutto indipendente dal pensiero. 6 E non basta ancora: per un positivista l’operazione della conoscenza della società (come della natura) sarà tanto più proficua quanto più sarà stata in grado di separarne i vari settori, ognuno dei quali va preso per suo conto: economia, diritto, cultura, ecc., vanno studiati ognuno per sè nelle varie branche in cui si articola l’enciclopedia del sapere borghese. Ecco allora che, per esempio, l’economia per il borghese positivista consta di una serie di leggi contro le quali non si può andare, di leggi immodificabili, esterne e preesistenti alla loro conoscenza da parte dell’uomo: scoprire tali leggi, seguirle e/o saperle volgere a proprio favore per un positivista significa dunque aver raggiunto il maggior grado possibile di verità e di concretezza. Il positivista è dunque per sua stessa natura un conservatore perchè ritiene che il pensiero non possa far altro che riflettere la realtà ed adeguarsi ad essa meglio che può e questa è una vera e propria – inevitabile, date le premesse – resa preventiva del pensiero alla realtà. ... e la rivoluzione della dialettica Secondo il vecchio Hegel il bisogno di filosofia sorgeva quando la realtà appariva divisa e frantumata dalle opposizioni e dalle separazioni che si presentavano insuperabili e permanenti; l’intelletto concepiva infatti la realtà come una serie di parti autonome ed indipendenti l’una dall’altra mentre era la ragione a mostrarne – ad un livello superiore di coscienza – l’intrinseco collegamento nella realtà unica ed onnicomprensiva della Ragione. Secondo Hegel l’intelletto concepiva inoltre le cose in modo statico ed immutabile cosicchè per esso la realtà era quel che era in quel momento e tale sarebbe restata, mentre la ragione ne esprimeva il movimento e lo sviluppo nel processo dialettico in cui tutto diveniva secondo un disegno unitario. E’ questa la posizione fondamentale che il Marxismo – e Lukàcs con lui – eredita da Hegel. Se il Positivismo ha dunque una visione della realtà ferma alla sua concezione da parte dell’intelletto (per usare le distinzioni hegeliane), non così il Marxismo che, ad un livello superiore di coscienza (quello offerto dalla ragione), riesce a cogliere l’unità dell’intero processo della realtà stessa, unità che è anche di pensiero ed essere: la ragione mostra come il processo del divenire della realtà è dialettico, cioè basato su contraddizioni e sul loro superamento ad un livello sempre superiore e come la contraddizione della società capitalistica è data dal proletariato sfruttato in un’economia alienatrice. 7 Il dato decisivo è insomma che il proletariato, contraddizione interna del capitalismo e sua negazione, col Marxismo è arrivato ad un pensiero completamente alternativo a quello borghese: se infatti la difesa del capitalismo è affidata al Positivismo che afferma che la realtà è così com’è nè può essere modificata, il materialismo storico (la risposta del proletariato) sostiene invece che, tutto la contrario, la realtà è un processo dialettico in cui (di rivoluzione in rivoluzione) tutto cambia necessariamente. Lukàcs scrisse “Storia e coscienza di classe” proprio per far emergere pienamente il metodo dialettico (piuttosto trascurato nella Seconda Internazionale) nel Marxismo: a quel tempo per lui l’ortodossia non significava venerazione per Marx o per Lenin, ma fedeltà al sistema dialettico. “Il proletariato trasforma la realtà mentre e perchè la conosce” afferma Lukàcs, volendo significare che il materialismo storico era l’arma principale del proletariato contro la borghesia: la sua dialettica era lo strumento metodologico col quale esso sviluppava la sua coscienza di classe, cioè la contraddizione nel capitalismo. Il proletariato conoscendo la società capitalistica conosce anche se stesso e conoscendo se stesso approfondisce sempre di più la sua coscienza di classe e, rendendosi sempre più conto della sua situazione di alienazione e di sfruttamento, sviluppa inevitabilmente il suo rifiuto rivoluzionario della società capitalistica stessa. Insomma: più il proletariato conosce la società intorno a sè, più la dissolve grazie a questa conoscenza stessa. Pensiero ed azione sono la stessa cosa nella ‘filosofia della prassi’: per il proletariato conoscere la sua condizione è agire. Il proletariato nella sua progressiva presa di coscienza (di classe) si libera dalla reificazione positivistica secondo cui società ed economia hanno leggi proprie al di sopra ed al di fuori dell’uomo: questo è il modo di pensare di chi vuol preservare la società così com’è e di chi vuole che essa si riproduca sempre uguale a se stessa. Il materialismo storico parte invece dal riconoscimento che la società costituisce un tutto inscindibile e che essa è il prodotto dell’azione umana: le sue leggi e tutti i suoi aspetti sono azioni umane ed ognuno dei suoi fatti va inevitabilmente riferito al tutto. Lukàcs chiama questa regola del pensiero categoria della totalità e la usa continuamente. La borghesia non accetta la categoria della totalità e per essa la società non è un intero: essa quindi non può comprendere che la società capitalisitica è il predominio di una classe (la borghesia, appunto) su un’altra (il proletariato) e che ogni cosa va riferita a questa verità. 8 La borghesia non potrebbe arrivare a questo riconoscimento senza contraddirsi ed annullarsi e così blocca il processo della realtà e, avendola così paralizzata, cerca di rifletterla (a modo suo) passivamente. Mentre il pensiero positivistico (borghese) tenta allora di far accettare al proletariato il mondo in cui vive come qualcosa di ineluttabile e dotato di leggi autonome e superiori all’uomo stesso, mano a mano invece che il proletariato col materialismo storico conosce e riconosce la realtà effettiva della società capitalistica contemporaneamente e necessariamente prende coscienza della propria condizione alienata, sfruttata e subordinata: così, più la sua conoscenza della società capitalistica si approfondisce, più si sviluppa la coscienza di classe del proletariato e questo non è solo pensiero, ma, contemporaneamente, azione (la famosa praxis). Più conosce il capitalismo, più il proletariato si rende conto di esserne la negazione storica: il proletariato che prende coscienza di sè non è più quello di prima e quindi nemmeno la società lo è più. Ecco come azione e pensiero coincidono. La mitica coscienza di classe Data la sua centralità nella filosofia di Lukàcs (e nell’intero pensiero marxista), la nozione di coscienza di classe va ben chiarita e definita: essa non è qualcosa di psicologico (quel che i proletari pensano) o la somma delle loro idee. Come la storia va ben al di là di quel che vorrebbero le singole volontà di quelli che vi agiscono, così anche la coscienza di classe va oltre quel che i proletari pensano concretamente: essa è verità oggettiva, quella che esprime perfettamente e compiutamente la struttura profonda della società capitalistica. Ora, il proletariato questa coscienza non può possederla completamente perchè non è una mente assoluta fuori della storia, ma, al contrario, è interamente immerso in essa e quindi anche lui in qualche misura accetta l’ordinamento borghese nel quale è nato e vive e soffre (come la borghesia!) della reificazione del capitalismo. Certamente la sua coscienza di classe cresce, tuttavia finchè si trova all’interno della società capitalistica il proletariato non può evidentemente porsi spiritualmente interamente fuori dai limiti di essa e quindi la coscienza che ha di sè (il suo rapporto con l’intero) rimane ancora inevitabilmente incompleta. Tuttavia questi limiti sono storici, e, come tali possono e debbono essere superati. Fermare lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato considerandola solo allo stadio cui è concretamente pervenuta - conseguenza del mancato riconoscimento della categoria della totalità - significherebbe consegnarlo legato mani e piedi alla borghesia, farlo restar prigioniero della reificazione borghese ed assolutizzarne la 9 sudditanza spirituale nei confronti dei suoi sfruttatori: si finirebbe col cacciarsi nel vicolo cieco in cui erano finiti menscevichi e socialdemocratici che - prima dell’Ottobre - stavano portando il proletariato a piccole conquiste ed a piccole riforme fino alla disfatta finale. Ad ogni momento storico corrisponde una coscienza di classe che di diritto va attribuita ai suoi attori anche a prescindere dalle concrete singole coscienze effettivamente sviluppatesi. Il Partito Comunista era l’interprete corretto della storia e la sua visione delle cose era dunque quella vera – così come la coscienza di classe da lui espressa era quella finalmente compiuta. Coscienza di classe e rivoluzione Il Marxismo credeva fermamamente che il capitalismo per la sua stessa logica interna fosse destinato ad incappare in sempre più frequenti e sempre più gravi crisi (di sovrapproduzione) nelle quali tutto il suo meccanismo si sarebbe inceppato ed avrebbe mostrato la sua impotenza a risolverle: lo sbocco inevitabile di tutto ciò sarebbe stata una crisi finale che ne avrebbe segnato la fine. Il capitalismo era incapace (per la sua stessa struttura) ad arrestare la sua folle corsa verso il suicidio. Tuttavia secondo Lukàcs finchè il proletariato non è maturo per rovesciare il sistema di classe (cioè finchè la sua coscienza di classe non è sufficientemente sviluppata), la crisi è destinata a ripetersi ed a riproporsi mentre la borghesia continua a rimanere in sella e a trascinarsi coi suoi strumenti sempre più logori. Certamente la crisi è un esito necessario della società capitalistica, ma da essa si esce a seconda dei rapporti di forza fra le classi e solo quando la coscienza di classe del proletariato è sufficientemente sviluppata da questa crisi si può generare la rivoluzione. Il Partito Comunista è il portatore della completa e compiuta coscienza di classe del proletariato, l’oggettivazione della vera volontà sua e della Storia stessa e quando la rivoluzione scoppia padroneggiare e dirigere gli avvenimenti (già largamente previsti e preparati) è suo compito. 10 La Rivoluzione d’Ottobre Lukàcs scrisse i saggi che compongono “Storia e coscienza di classe” fra il 1918 ed il 1922 ed essi si fusero così con la Rivoluzione d’Ottobre sulla quale tanto riflettè e che gli apparve l’inveramento e la concretizzazione della sua stessa filosofia marxista. L’apocalisse dello zarismo che implodeva e si disintegrava nel caos immenso scatenato da un popolo oppresso e schiacciato per millenni che finalmente spezzava e si strappava di dosso le sue orribili catene non poteva non convincere i marxisti che quella crisi finale del capitalismo già prevista da Marx come inevitabile stava avvenendo realmente nella storia. Ancor più, il successo strepitoso della sparuta pattuglia bolscevica nel portarte a compimento la rivoluzione, dominare e domare eventi così grandiosi, cancellare dalla faccia della Terra la vecchia società e farne emergere una completamente nuova al suo posto, tutto ciò per essi non poteva che essere spiegato in un modo: Lenin ed i bolscevichi avevano potuto compiere un miracolo simile perchè erano stati gli unici a capire ciò che stava avvenendo e perchè. Essi avevano considerato globalmente la società, erano i portatori della compiuta coscienza di classe quindi erano gli unici a sapere cosa le masse ribelli volevano veramente (oggettivamente!): solo loro insomma interpretavano correttamente la storia. Solo loro erano in grado di parlare e di farsi sentire nel luogo più riposto dell’animo dei lavoratori in lotta nè certamente si fermavano alla loro concreta coscienza psicologica: non erano ‘democratici’ nel senso che non pensavano di dover rispettare quel che il proletariato apparentemente voleva e spingevano invece verso dove la storia andava (e doveva andare!). Essi erano l’autocoscienza della storia, l’espressione della vera coscienza (di classe) del proletariato: la venerazione che tutti i marxisti (Lukàcs compreso) hanno sempre avuto per Lenin deriva dalla sua lucidissima applicazione alla realtà della ortodossa dottrina marxista – e fu questa per loro la spiegazione del successo della rivoluzione. Dalla corretta dottrina marxista non si può deviare mai (salvo provvisori adeguamenti tattici) altrimenti non si interpreta più il corso della storia e si va incontro alla inevitabile sconfitta. 11 La coscienza di classe dopo la rivoluzione Dalla partecipazione e dall’osservazione appassionata degli eventi rivoluzionari russi Lukàcs trasse anche una lezione particolare ed apparentemente stupefacente, seppur in linea con tutto il suo discorso: la rivoluzione inevitabilmente coglie il proletariato in parte impreparato a portarla a termine. Se infatti il proletariato (e la sua coscienza) quando scoppia la rivoluzione è tanto sviluppato da non poter più accettare le soluzioni portate avanti dalla borghesia, non può però essere ancora sufficientemente maturo da aver superato tutto il sistema (reificato) di questa: il proletariato è costretto a prendere il potere quando non è ancora pronto e questo è inevitabile perchè finchè vive nella società capitalistica non potrà mai rigettarne interamente l’ordinamento (borghese). Il potere di una società è infatti essenzialmente spirituale (così, per es., lo stato è forte nella misura in cui si rispecchia nella coscienza dei suoi cittadini) e per quanto col continuo approfondimento della lotta di classe il proletariato se ne svincoli sempre di più, egli vive pur sempre in una società di questo tipo e in qualche modo partecipa ad essa: il passaggio al socialismo non è qualcosa di naturale ed organico perchè per raggiungere questo scopo tutto l’involucro culturale nel quale gli individui hanno sempre vissuto deve essere spazzato via e ciò necessariamente può avvenire solo dopo la presa del potere. Il passaggio al socialismo comporta una crisi ideologica terribile del proletariato: dopo la presa del potere, quindi, la rivoluzione è tutt’altro che conclusa, anzi, si può dire che comincia solo allora - in fondo la borghesia ha subito una sola sconfitta ed il proletariato ha conseguito una sola vittoria. Perchè la rivoluzione trascorra veramente nel socialismo è necessario che la coscienza di classe del proletariato (l’ultima della storia) si realizzi pienamente ed a ciò non si oppone solo la borghesia, ma anche il proletariato stesso che stenta a liberarsi da quello che l’ordinamento borghese ha lasciato dentro di lui. In questo periodo il Partito Comunista deve essere inflessibile nel non lasciare il minimo spazio nè fare la minima concessione alla borghesia (ed allo stesso proletariato!) che comporti la minima sudditanza ideologica ad essa. Nessun tentennamento è ammesso: il proletariato sta combattendo soprattutto contro se stesso e va forzato e costretto a liberarsi ed a squarciare e distruggere ciò che della spiritualità borghese ancora rimane in lui. La dittatura del proletariato deve quindi avere un rigore d’acciaio: la lotta di classe continua per lungo tempo ancora dopo la presa del potere ad opera del proletariato, solo che ora essa ha cambiato di livello. La rivoluzione continua ancora per lungo tempo. 12 La società socialista sarà qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato: essa non solo trasformerà il sistema di produzione con la collettivizzazione dei suoi mezzi, ma presupporrà anche un diverso tipo di umanità. Il socialismo è possibile e pensabile solo con una diversa coscienza degli uomini o, meglio, con uomini la cui coscienza sia finalmente libera. Completezza ed armonia L’opera si conclude lasciando alla nostra immaginazione la definizione del libero e felice uomo del futuro socialismo, ma ciò che colpisce nell’opera di Lukàcs è la sua organicità che tutto riassume in un discorso unico: storia, filosofia, politica, questioni pratiche, tutto, tutto è fuso in un unicum armonico che ha, si può dire, anche qualcosa di artistico. Certamente però quest’unità di pensiero e di azione, per quanto apprezzabile, ha dei costi – e siamo alle solite: il rigore e la completezza logica si traducono, anzi, sono l’alibi, per la violenza ed il terrore senza fine che fin da subito caratterizzarono il comunismo. L’unilateralità ed il semplicismo del marxismo applicato sono evidenti nella cecità e nell’insensatezza della repressione senza fine cui si dedicò sempre con costanza e determinazione assoluta, ma va anche ricordato che quelli che Lukàcs visse furono tempi durissimi e nella foresta per sopravvivere bisogna farsi lupi. L’Europa di allora stava attraversando quell’eccezionale periodo di trapasso che vide il crollo di tutto il vecchio ordinamento ottocentesco e la sanguinosa e sofferta nascita del nuovo mondo contemporaneo: tutto era lecito attendersi dal futuro, tutto poteva succedere - e tutto stava succedendo. Per gli spiriti rivoluzionari si poneva l’esigenza di riassumere un’epoca, spiegarne la fine e gettare le basi di quella nuova: Lukàcs interpretò allora il suo tempo alla luce di un marxismo che si sforzò di rendere il più corretto ed il più completo possibile e la sua filosofia fu la sintesi del pensiero classico tedesco con la rivoluzione russa. Oggi gli ardori e le speranze di palingenesi mondiale dei marxisti di un secolo fa risultano incomprensibili e si condannano invece gli orrori della follia dei costi ritenuti necessari per raggiungerli, ma ciò dimostra solo quanto è cambiato il mondo da allora. Conclusione Per concludere la panoramica su “Storia e coscienza di classe” manca ancora da chiarire perchè la Terza Internazionale condannò quest’opera e perchè piacque in 13 Occidente: non stiamo forse parlando del lavoro di un rivoluzionario marxista devotissimo e fedelissimo alla causa? Si è già detto che “Storia e coscienza di classe” fu accusata di ‘idealismo’ ed ora si può comprendere perchè. Il pensiero – la coscienza (di classe o no) – gioca nell’opera di Lukàcs un ruolo decisivo: secondo Lukàcs senza il comportamento cosciente delle masse la rivoluzione non è possibile e, a ben guardare, ciò significa che essa è un atto volontario. Nell’opera di Lukàcs vibra ed aleggia continuamente la fiducia nel pensiero e la possibilità per quest’ultimo di liberare l’umanità (con la rivoluzione): certamente il capitalismo per la sua stessa logica interna tende all’autodistruzione, ma la sua crisi sarà finale perchè gli uomini guidati dalla loro ragione sapranno muoversi di conseguenza – e questo sarà l’elemento decisivo. Ora, tutto ciò effettivamente non era accettabile per quel meccanicismo realista di derivazione engelsiana che il marxismo ufficiale aveva allora fatto proprio e che avrebbe poi trionfato con Stalin: nello sforzo di rendere incrollabile e definitiva la verità del materialismo storico lo sbocco rivoluzionario veniva ritenuto dai marxisti ortodossi il prodotto necessario dello sviluppo storico nel quale gli uomini erano trascinati come dalla corrente di un fiume e del quale il loro pensiero era un riflesso praticamente automatico; e secondo la Terza Internazionale era proprio questo che rendeva davvero oggettiva (perchè non dipendente dall’arbitrio umano) la verità del Marxismo rispetto all’ideologia borghese. Per loro la volontà degli uomini e la loro decisione erano fattori molto più limitati di quel che Lukàcs aveva inteso: un esempio solo apparentemente marginale aiuta a comprendere ancora meglio questa differenza: mentre il Marxismo si era orientato (fin da Lenin) a considerare realisticamente la natura, cioè a ritenerla indipendente dall’uomo e con una sua struttura oggettiva, Lukàcs affermò invece che “la natura è una categoria sociale” volendo con ciò intendere che essa esiste all’interno del rapporto che la società intrattiene con lei: anch’essa insomma fa parte di quel complesso mondo sociale - al di fuori del quale non c’è nulla. Oggi che il comunismo è morto e sepolto queste diatribe risultano poco meno che assurde, lontane, inutili e quant’altro, eppure in esse risuona (ancora una volta) l’alternativa fra la concezione dell’uomo padrone del suo destino e quella dell’uomo trascinato e dominato da qualcosa di ben più grande di lui. Oggi, nell’età della globalizzazione, quest’interrogativo non può essere eluso e forse allora il vecchio Lukàcs ha ancora qualcosa da dire, per esempio ricordarci che, per quanto grande essa ci sembri, è l’uomo che fa la storia.