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PARTE
Le forme poetiche
RIFLESSIONE LETTERARIA
La neoavanguardia
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La Neoavanguardia sorge in contrasto
a quel rinnovamento letterario verificatosi in Italia nel secondo dopoguerra, attraverso quella esperienza collettiva che
si è soliti definire “Neorealismo” e che
si estende dal ’43-’45 fino alla metà degli
anni Sessanta.
Sotto questa “etichetta” sono stati messi
autori e libri molto diversi fra loro, all’interno di una fioritura letteraria per lo più
romanzesca, che risulta essere una delle
più ampie e delle più ricche che si incontrino nella storia della letteratura italiana
di ogni tempo. Solo per fare qualche
nome e ricordare qualche titolo, potremmo citare Uomini e no di Elio Vittorini, Il compagno di Cesare Pavese, Il
sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo
Levi, Se questo è un uomo di Primo Levi,
molte delle opere di Vasco Pratolini.
Tutte queste opere avevano trovato il loro
punto di partenza e di riferimento in tre
coordinate di carattere politico, filosofico
e culturale: l’entusiasmo post-resistenziale; il concetto di “impegno”, formulato dallo scrittore-filosofo francese
Jean-Paul Sartre (1905-80); la teoria dell’arte come “rispecchiamento” della
realtà, che risaliva a Marx ed Engels.
Inoltre, secondo gli scrittori neorealisti,
che si riallacciavano alla grande stagione
del Realismo ottocentesco, l’opera d’arte
doveva riuscire a dare una testimonianza dei dati reali della storia e, come
tale, sarebbe potuta divenire “esemplare”, cioè sarebbe servita in qualche
modo a cambiare il mondo.
Intorno agli anni Cinquanta queste premesse entrano in crisi: venuto meno l’entusiasmo post-resistenziale (eravamo nel
periodo della cosiddetta “guerra fredda”),
si diffondeva l’impressione che in campo
internazionale, e in particolare in Italia, la
situazione politica tendesse a rinchiudersi, e che le speranze suscitate dalla
Resistenza fossero destinate ad essere
deluse fino in fondo. Nel ’56 l’invasione
dell’Ungheria da parte della Russia determinò un altro grande motivo di crisi
per l’intellettuale di sinistra, delu-
dendo la speranza di un rinnovamento politico-sociale generale.
Il “boom” economico portò intanto gli
intellettuali a considerare più da vicino il
rapporto alienante dell’uomo con la civiltà industriale e l’attenzione si spostò
sui problemi della fabbrica, del lavoro,
delle differenze di classe.
Anche l’illusione di un mondo nuovo,
più giusto e più uguale, basato sui valori
della Resistenza, stava cadendo.
Inoltre il concetto di “impegno”, così
come era stato formulato negli anni Cinquanta, venne contestato con argomentazioni ricavate dalla cosiddetta
“scuola di Francoforte”. Semplificando molto, le idee del gruppo di teorici che ne facevano parte possono
ridursi a questo, che riguarda più da vicino il nostro discorso: il neocapitalismo
ha sviluppato una grande capacità di
riassorbire il dissenso, e opere letterarie e artistiche anche estremamente
“impegnate”, che vogliono porsi come rivoluzionarie, finiscono con l’essere
“mercificate”, ridotte cioè a prodotti di
consumo; il dissenso può essere tollerato abbastanza facilmente dal “sistema” grazie alla manipolazione dei
media, divenendo anzi una specie di
valvola di sfogo funzionale rispetto al sistema stesso. Per portare un esempio:
l’operaio che lavora in fabbrica tutto il
giorno accumula un potenziale “rivoluzionario” nei confronti del “capitalismo”
che lo sfrutta e lo aliena; ma se, quando
ritorna a casa la sera, si legge un bel
libro “rivoluzionario” in cui magari il protagonista si pone alla testa di lotte per la
giustizia sociale, egli si identifica nel
personaggio, si sente tranquillizzato e
soddisfatto, e smorza così tutta la sua
carica “rivoluzionaria” accumulata durante il giorno.
Questo discorso, qui espresso in modo
molto riduttivo, contribuiva a mettere in
crisi quella fiducia nell’impegno del
letterato e dell’artista di cui si parlava
prima; cioè gli autori, almeno alcuni, cominciarono a ritenere che il loro sforzo di
interpretare la realtà come una linea pro-
gressiva fosse inutile, perché non riusciva a trasformarsi da sforzo conoscitivo
(l’esame obiettivo e spregiudicato della
realtà) in prassi (la pratica politica). Si
possono scrivere belle opere impegnate,
sostenevano, ma in realtà queste opere
restano impegnate solo nell’intenzione di
chi le scrive: di fatto anch’esse scadono
a prodotto di consumo, perché contribuiscono ad arricchire chi le produce.
Anche la “teoria del rispecchiamento”
venne messa in discussione dalle nuove
filosofie come la Fenomenologia e lo
Strutturalismo, che mettono in crisi
l’oggettività del reale, affermando che
il mondo è sostanzialmente inconoscibile e che nell’opera d’arte possiamo
soltanto descrivere ma non interpretare
alcuni aspetti della realtà quotidiana.
Si stava inoltre diffondendo la Psicanalisi, in cui si affermava che l’uomo non
solo non conosce la realtà esterna, ma
neanche la propria realtà profonda, dalla
quale tuttavia rimane condizionato.
Incominciavano intanto a uscire opere in
versi e in prosa che erano sovversive rispetto alla letteratura precedente. La
prima raccolta poetica fu Laborintus
(1956) di Edoardo Sanguineti, e su questa linea si costituì di lì a qualche anno
quello che fu denominato il “Gruppo ’63”,
che si propose come Neo-avanguardia,
cioè avanguardia nuova rispetto a quelle
del primo Novecento.
Ispirandosi alle idee ora esposte, i componenti del gruppo rifiutavano la possibilità che l’opera d’arte fosse “impegnata”:
l’unica realtà che l’opera neoavanguardistica sentiva di poter rispecchiare era una
non-realtà, così come il caos della società capitalistica era considerato un nonvalore. Tale non-valore poteva essere
rispecchiato dall’artista solo mettendo in
discussione anche la fiducia tradizionale
del lettore nell’ordine psicologico e linguistico, perché questo ordine, essendo portatore di non-valori, non poteva essere che
non-ordine. In definitiva il ragionamento
era: l’artista, se vuole farsi interprete del
travaglio esistenziale dell’uomo, per essere rivoluzionario non può continuare a
esprimersi col linguaggio di quel sistema
che egli contesta: la contestazione del
sistema dovrà iniziare proprio dalla contestazione del linguaggio, veicolo dei
non-valori del sistema.
Gli scrittori del Gruppo ’63 si ponevano
perciò come prioritario il problema del
linguaggio: anche sulla scorta della linguistica che in quegli anni incominciava
a farsi strada nella cultura italiana, essi
affermavano più o meno questo: che il
linguaggio è il canale attraverso il quale
passano i contenuti e i modelli della società da essi contestata. Anche le opere
rivoluzionarie, usando il codice comune
del linguaggio, si fanno veicolo dei valori
della classe dominante. Distruggendo il
linguaggio convenzionale, essi dicevano,
si interrompe il canale, e del resto i valori
di una società che risulta essere il caos,
possono essere rappresentati solo da un
linguaggio caotico.
Come il Neorealismo aveva guardato ai
grandi modelli del Realismo ottocentesco, la Neoavanguardia cerca anch’essa
di darsi “un passato” guardando alle
grandi avanguardie storiche europee e i nomi che ricorrono in questi anni
sono quelli di Kafka, Joyce, Musil, o
anche il Futurismo e gli altri “ismi” che
ne derivarono, come il Dadaismo.
Anche in Dada l’aspetto aggressivo-distruttivo è la caratteristica più saliente: i
dadaisti proclamavano l’aggressione
ai luoghi consacrati dei valori borghesi («l’Onore, la Patria, la Morale, la
Famiglia, l’Arte, la Religione, la Libertà,
la Fraternità») e al sistema rappresentativo dell’arte tradizionale. Contro l’oggetto-feticcio, come essi chiamavano le
opere d’arte del passato, conservate e
custodite nei musei, i dadaisti producevano opere effimere, volutamente soggette alla cancellazione e aperte alla
distruzione, come il quadro-lavagna di
Francis Picabia (1879-1953) o il legno di
Max Ernst (1891-1976), esposto in una
birreria, con accanto un’ascia pendente.
Ma questi nuovi prodotti dell’arte trovavano anche in Italia degli estimatori, e
anche da noi si faceva avanti un’arte che
rappresentava la negazione del linguaggio artistico tradizionale, come i sacchi di
Alberto Burri (n. 1915) o le tele tagliate di
Lucio Fontana (1899-1968), che
nell’intenzione dei loro ideatori volevano essere opere sottratte alle
leggi della mercificazione.
Tuttavia la Neoavanguardia è finita nella situazione paradossale
di plasmare, per questa strada, un
linguaggio incomprensibile,
che è impotente a comunicare
proprio con quel pubblico che era
protagonista delle lotte e delle rivoluzioni sociali. Il libro non comprensibile, il “non-libro”, finì
inoltre con l’essere anch’esso un
oggetto mercificato: ricercato solo
dagli “addetti ai lavori”, finirà
nelle biblioteche degli specialisti
della letteratura.
Nonostante ciò, la Neoavanguardia portò alla ribalta alcuni problemi che furono in seguito
fecondi spunti di riflessione
per autori ed editori, e colpì il
bersaglio del “sentimentalismo”
nel quale stava cadendo anche il
Neorealismo, una volta esaurita
la spinta ideale che ne aveva determinato la nascita.
Alberto Burri, Sacco 5P (sacco, acrilico, vinavil e stoffa su tela). Città di
Castello, Fondazione Albizzini.
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