MECCANO Franco Menicagli I «Per lavorare servono gli strumenti giusti!», una frase che riaffiora dall’adolescenza quando spesso mi veniva ripetuto che per studiare avrei dovuto tenere sulla scrivania, di fianco ai libri che leggevo, un dizionario. «Quando trovi una parola che non conosci cercala sul dizionario.» Ancora oggi mi capita di trovare qualche parola che non conosco, ma oggigiorno il dizionario è su un server, chissà dove, e con un search e uno scroll la parola è trovata, letta, e forse, memorizzata. L’esigenza non è cambiata dal 98’, è cambiata però la forma dello strumento e soprattutto la velocità con cui riesco a utilizzarlo. Ampliando l’angolo di visione le necessità rimangono sempre le stesse: comunicare, conoscere, scambiare, produrre, cambiano però i modi in cui riusciamo a rispondere a queste esigenze; la tecnica arriva progressivamente in soccorso, rendendo tutto più veloce, facile, leggero, pratico e accessibile. II La tecnica ha fatto progressi tali da rimuovere dal nostro immaginario collettivo alcuni oggetti o strumenti da lavoro, che adesso possiamo scoprire solo nei musei di antropologia. La fine di questi oggetti non è coincisa con la fine del lavoro, o dell’esigenza produttiva, anzi, i nuovi strumenti di lavoro permettono di raggiungere nuovi standard di produttività, rapidità ed efficienza. Nell’universo uomo-lavoro c’è sempre stato qualcuno che ha osservato con diffidenza il cambiamento dei processi e la trasformazione degli strumenti: l’introduzione della meccanizzazione, la digitalizzazione, la perdita di un contatto diretto con il fare. Questa resistenza non è una forma di passatismo, deriva piuttosto dal timore di subire una perdita, soprattutto in termini economici; la paura atavica di essere rimpiazzati. Mi torna in mente un testo profetico «Quando questo circuito imparerà a fare il tuo lavoro, tu cosa farai?». Le soluzioni potrebbero essere molteplici: imparo a farlo meglio e mi riprendo ciò che mi è stato sottratto, cambio lavoro, oppure la più drastica, distruggo il circuito, così da non avere un altro concorrente sul mercato. III Franco Menicagli non è un luddista, non incendia i telai e tantomeno rifiuta la tecnologia, ama però andare alla radice della pratica artistica seguendo un approccio arcaico, oggi diremmo performativo, dove il lavoro con le mani -impreciso, veloce, vivo- riveste un ruolo fondamentale. La mostra MECCANO è un racconto per capitoli che trova i suoi primi fondamenti nelle decorazioni medievali delle arti e mestieri dove gli artigiani, scalpellini, orafi erano ritratti con i propri strumenti di lavoro, intenti nelle loro attività manuali. Ogni arte e mestiere era, infatti, contrassegnata da un’effige-azione-oggetto che la contraddistingueva immediatamente dalle altre. Una corrispondenza precisa chiara e narrativa che abbiamo perso nel corso della storia. Oggi quali oggetti useremmo per ritrarre un artista? Menicagli non risponde in maniera enciclopedica, propone la sua versione: un compendio di strumenti di lavoro, suggeriti, espliciti, funzionali e paradossali. IV Fascette sparpagliate a terra, residuo materiale di opere che non esistono più, ormai inutilizzabili nella loro funzione originaria si trasformano in un tappeto sonoro che infrange il silenzio religioso della contemplazione intellettuale. L’invito è a entrare, calpestare e arrossire. Le due sculture sghembe da cui prende il nome la mostra, realizzate con materiali entrati a far parte del vocabolario dell’artista in maniera fortuita, sono la traccia di un lavoro veloce, carico di tensioni ed equilibri instabili. Sculture destinate a non durare, ogni volta diverse. Menicagli riparte sempre dall’inizio assecondando un principio antieconomico: nuova mostra, nuovo lavoro, nuove energie investite, altro tempo speso. Il video Intaglio ci riporta nuovamente al fulcro della questione, l’artista all’opera con gli strumenti del proprio lavoro. Strumenti antimoderni, primari, forse inadeguati, per un lavoro paradossale. Il senza titolo costituito da tre pannelli in gesso è l’ultimo capitolo della storia, -forse l’epilogo- il protagonista di cui abbiamo parlato fin dall’inizio, finalmente appare nelle sue innumerevoli forme. Possiamo vedere cosa l’artista tiene nel suo studio, come l’organizza; possiamo ipotizzarne l’uso, ma ne siamo tenuti a distanza. Gli strumenti emergono nella loro specificità materiale, se ne possono scorgere anche i segni d’usura; rilievo dopo rilievo, diventa leggibile un’epigrafe e si chiude il cerchio. Un omaggio a quello che è stato, il ricordo nitido di qualcosa di caro che l’artista ha deciso di lasciare morire. Martino Margheri Firenze, Aprile 2016