Dispensa n.1 CRISI 1. La grande crisi economica 2008 - 2014 Come studiato lo scorso anno la Burocrazia ha un forte impatto nel sistema economico, perché molte volte la mancanza di risorse frena lo sviluppo ma anche quelle volte che ci sono i soldi la Burocrazia impedisce di usarli. Inoltre le sempre maggiori richieste dello Stato per far fronte alle spese necessarie per svolgere i suoi compiti sono grandemente influenzate agli sprechi e dai privilegi del personale degli enti pubblici, dai comuni e regioni che sprecano i denari pubblici e che nessun governo è mai riuscito a tagliare, la cosiddetta spending review non decolla. Ma la crisi non ha colpito solo l’Italia, infatti numerosi sono gli Stati che si trovano nelle stesse nostre condizioni, ma diversi di essi ne stanno uscendo. Di questo passo, tra molte chiacchiere ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa la discesa agli Inferi dell’Italia nell’eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi certa. Ormai però in perfetta solitudine. Il presidente Barroso ha richiamato il nostro Paese al “coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l’assenza di crescita e di lavoro”. Fino all’altro ieri ci si poteva illudere di avere ancora una buona spalla nelle Francia, dopo che l’Irlanda e tutti i Paesi mediterranei avevano capitolato uno dopo l’altro nelle braccia della troika europea, costretti a rigore e drastiche cure dimagranti inseguendo salute dei conti pubblici, competitività e crescita economica. Ma ormai il bastione francese è caduto. Già 30 anni fa, Mitterrand aveva dovuto, in pieno disastro economico, affossare il suo “socialismo” insieme all’orgoglio francese. Alla fine anche Hollande ne ha seguito le orme arrendendosi all’evidenza: niente riforme, niente crescita. In Francia si cambia musica, mentre in Italia si versano a rilento le decine di miliardi di arretrati di pagamenti dovuti alle imprese (16,3 miliardi di euro sui 100 totali), sul cuneo fiscale ci si ferma ai gesti, e giustizia civile, sulla riforma del mercato del lavoro si parla molto ma si decide poco. Hollande, in cambio dell’impegno delle imprese di creare occupazione, opera tagli di 30 miliardi agli oneri sociali delle imprese riduce le imposte societarie, meno pastoie burocratiche e alleggerimento della normativa sul lavoro. Gli altri Paesi in quarantena entrano in convalescenza. La Spagna grazie alla riforma del mercato del lavoro torna a crescere e ad attirare investimenti. Il Portogallo ritrova dinamismo e riassorbe i disoccupati, l’Irlanda finanzia il debito a lungo termine sui mercati al 3%, cioè a tassi inferiori a quelli dei Paesi che non hanno chiesto aiuti. La crisi dell’eurozona non è finita, la ripresa economica che si profila resta incerta e fragile, anche la locomotiva tedesca perde colpi. L’Italia non può ostinarsi a restare alla finestra: ogni giorno di più le riforme strutturali rimandate, la mancata modernizzazione dello Stato e dei suoi apparati, del mercato del lavoro come del fisco appaiono opportunità di crescita e di occupazione bruciate sull’altare di una miopia politica imperdonabile. Che distrugge l’industria, brucia il lavoro, desertifica il Paese e il suo futuro. Non hanno capito che la crescita nel mondo globale non si fa con il dirigismo e i decreti ma rivitalizzando attività produttiva, economia reale e fiducia e smagrendo lo Stato. Possibile che in Italia non si riesca a fare ciò e presto? Siamo troppo grandi per fallire ma anche troppo grandi per essere aiutati. Però senza crescita il nostro debito diventerà insostenibile. O ci decidiamo ad agire o prima o poi saranno gli altri a costringerci a farlo. Ricordiamo che dalla nascita dell’euro, cioè dal 1999 ad oggi, l’Italia è l’unico Paese che ha visto calare il suo Pil pro capite (-3%). In Germania è aumentato più del 20%, in Francia quasi del 20% e perfino in Grecia è salito del 3%. Spieghiamo in termini semplici le cause della crisi. 1.1. Le dimensioni della crisi Nel 2008 si è verificata una brusca caduta del commercio mondiale, un forte calo della produzione industriale e un forte aumento della disoccupazione che, in Europa, continua tuttora a crescere. Nel solo periodo 2008-2010 si sono persi in Europa 4 milioni di posti di lavoro. Negli anni successivi il dato è ulteriormente aumentato. 1 1.2. La struttura del sistema finanziario Crediti e prestiti sono parte integrante del nostro sistema economico, e permettono un livello di produzione e di scambi enormemente superiore a quello che si avrebbe senza di essi; ma, poiché i crediti non sempre vengono pagati e il denaro in prestito restituito, comportano il rischio di perdite per chi li concede e, se le perdite diventano troppo alte, produzione e scambi possono rallentare notevolmente. Nel nostro sistema economico ci sono vari operatori che se ne occupano, in particolare le banche, e una serie di operatori finanziari specializzati nell’investimento nella gestione di risparmio quali ad esempio, in Italia, SIM (Società di Intermediazione Mobiliare), SGR (Società di gestione del risparmio), SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile), ecc. - Le banche raccolgono denaro da chi ne ha in eccesso (ad esempio da tutte le persone e le imprese che spendono meno soldi di quelli che incassano mensilmente) e lo prestano a chi ne ha bisogno. La raccolta di denaro da parte delle banche può avvenire semplicemente offrendo la possibilità di aprire conti correnti ma anche vendendo al pubblico dei prodotti finanziari quali ad esempio obbligazioni, fondi d’investimento, derivati, ecc. che danno un tasso di interesse sul denaro investito. Molti prodotti finanziari hanno una durata prestabilita, vale a dire che una volta acquistati non è possibile ritrasformarli in denaro prima della loro scadenza, tuttavia possono essere venduti ad altri risparmiatori in un mercato speciale che si chiama Borsa Valori. Per la sua struttura la borsa valori si presta ad attività speculative cioè ad acquisti e vendite di azioni, obbligazioni ecc. effettuati solo per guadagnare sulla differenza tra il costo di acquisto di vendita. - Le banche si fanno anche prestiti fra loro. Ad esempio banche che sono localizzate in zone dove ci sono molti risparmiatori e poche imprese tendono ad avere denaro da prestare ad altre banche o allo Stato, e ugualmente banche localizzate in zone industriali o che indirizzano i propri servizi ad imprese tendono ad aver bisogno di denaro aggiuntivo rispetto a quello che raccolgono dai risparmiatori e possono chiedere prestiti ad altre banche o allo Stato. - Tutti gli Stati danno in prestito denaro alle banche quando queste ne hanno bisogno. Il tasso di interesse a cui lo Stato concede prestiti alle banche si chiama tasso di sconto e influenza la quantità di crediti concessi dalle banche: quando il tasso di sconto è basso le banche, a parità di altre condizioni, concederanno una quantità di prestiti maggiore, perciò in genere quando il tasso di sconto è basso i consumatori faranno più acquisti e le imprese maggiori investimenti. Dunque, riassumendo, le banche raccolgono denaro da privati e aziende che ne hanno in eccesso, da altre banche, e dalle autorità finanziarie statali (Banca centrale). Il denaro può essere raccolto aprendo dei conti correnti attivi, ottenendo dei prestiti, emettendo sul mercato strumenti finanziari quali le obbligazioni. Il denaro raccolto può essere prestato a privati, aziende e Stati che ne hanno bisogno attraverso l’apertura di conti correnti passivi o l’acquisto di obbligazioni emesse da grandi aziende e Stati. Anche le grandi imprese e gli Stati prendono denaro in prestito. Gli Stati prendono in prestito denaro perché sono costantemente in deficit (spendono più soldi di quanti ne raccolgono con imposte e tasse). In Italia le ‘obbligazioni’ emesse dallo Stato si chiamano ad esempio BOT, BTP, CCT, etc. Nella loro attività di raccolta e impiego di denaro le banche devono fare attenzione: 1. Non prestare troppo denaro in più di quanto ne raccolgono, perché se per qualche motivo i risparmiatori chiedessero il rimborso delle somme prestate, la banca potrebbe non avere denaro liquido a sufficienza per rimborsarlo a tutti e in teoria fallirebbe. In molti Paesi ci sono vincoli di legge al tipo di attività (concessione di prestiti solo di breve o solo di lungo periodo), al volume dei crediti che le banche possono concedere. 2. A prestare denaro solo a soggetti che avranno la capacità di rimborsarlo alla scadenza perché, se l’impresa o il consumatore che ha ottenuto il prestito falliscono, i soldi prestati sono persi. 3. Acquistare soprattutto prodotti finanziari sicuri, che, anche se rendono meno di quelli rischiosi, alla scadenza siano restituiti e che in caso di necessità sia possibile vendere a un valore vicino a quello di acquisto. 4. Gli utili, la solidità e la reputazione delle banche e degli altri operatori finanziari dipendono dal valore del loro capitale. Poiché la gran parte del capitale bancario è impiegato in prestiti e prodotti 2 finanziari, se il valore dei prodotti finanziari posseduti cala oppure una gran parte dei prestiti si rivelano inesigibili calano utili, solidità e reputazione. 5. Tutto il sistema finanziario si regge sulla fiducia, in particolare sulla fiducia di chi presta denaro che i debitori siano in grado di restituire i soldi quando richiesto e che i prodotti finanziari di durata prestabilita siano facilmente vendibili. Se la fiducia viene meno a causa di eventi che possono avere un effetto negativo sull’attività economica (guerre, epidemie, eventi naturali catastrofici) o di crisi economica, chi dispone di denaro riduce drasticamente gli investimenti e come conseguenza il livello dell’attività economica si riduce notevolmente. Questa premessa ci permette di capire cosa è accaduto nella crisi economica iniziata nel 2008. 1.3. L’evoluzione del settore finanziario prima del 2008 La crisi del 2008 è dovuta innanzitutto ad alcuni cambiamenti strutturali del sistema finanziario internazionale e statunitense verificatisi a partire dagli anni ’80: - l’aumento nel sistema finanziario del denaro disponibile per investimenti, dovuto sia a un consistente aumento degli attivi commerciali dei Paesi produttori di petrolio e di alcuni Paesi in via di sviluppo che ai bassi tassi di sconto fissati dagli Stati - la progressiva liberalizzazione della circolazione internazionale di capitali - l’allentamento dei vincoli posti dagli Stati alle banche relativamente al tipo di prestiti e alla quantità di denaro prestabile rispetto al risparmio raccolto e una riduzione del controllo degli Stati sulla creazione e gli scambi di prodotti finanziari. - la nascita di nuovi strumenti finanziari assai rischiosi come i derivati, prodotti finanziari il cui valore di emissione è basato sul valore di mercato di altri beni o di altri prodotti finanziari. Questi sviluppi hanno portato negli ultimi 20 anni a una enorme espansione della quantità di prodotti finanziari esistenti, a un aumento del rischio medio dei prodotti finanziari e a una maggiore interconnessione e potenziale instabilità. Così negli anni 2004-2006 si è verificata negli Stati Uniti una forte crescita del credito ai consumatori, grazie a un tasso di sconto tenuto molto basso dalla F.R., la banca centrale americana. Questo, assieme a una serie di provvedimenti iniziati a metà degli anni 70 per favorire l’acquisto di abitazioni da parte di appartenenti alle minoranze etniche e di persone con ridotta capacità finanziarie, ha portato negli anni a un forte aumento degli acquisti di abitazioni il cui valore di conseguenza è andato alle stelle. Le banche hanno concesso un gran numero di mutui sub prime, cioè a famiglie che non erano in grado di fornire garanzie sufficienti, per acquistare abitazioni a un costo che progressivamente diventato molto alto. Ad esempio dal 2004 al 2006 negli Stati Uniti la percentuale di mutui subprime sul totale mutui è passata dall’8% al 20%. I mutui sono stati poi cartolarizzati, cioè trasformati in prodotti finanziari derivati (con un alto tasso di interesse, dovuto alla loro maggiore rischiosità) e venduti a risparmiatori e altre banche. Per rallentare questo trend, la F.R. ha iniziato ad aumentare progressivamente il tasso di sconto, che dal 2% del giugno 2003 arriva al 4,50% dell’agosto del 2005, per poi arrivare a un massimo del 6% nel maggio del 2007. L’aumento del tasso di sconto ha portato a un aumento del costo delle rate dei mutui che, a partire dal 2006, molte famiglie si sono trovate incapaci di pagare. Molte abitazioni sono state così messe all’asta. Nel 2006 si sono avuti 1.200.000 pignoramenti con un aumento del 42% rispetto al 2005, 2.200.000 nel 2007, 3.000.000 nel 2008 e così via. L’offerta sul mercato delle abitazioni pignorate e l’aumentato costo dei mutui sulle abitazioni hanno portato a partire dal 2007 un calo delle quotazioni delle abitazioni (-33% nel 2009). L’alta percentuale di mancati pagamenti dei mutui ha portato a: - grosse perdite e fallimenti nelle banche che li avevano emessi - un calo drastico del valore dei prodotti finanziari basati sui mutui che erano stati emessi - perdite per consumatori, fondi di investimento e altre banche che li avevano acquistati - riduzione del capitale dei fondi di investimento a causa delle perdite - riduzione del valore delle azioni di fondi di investimento e banche a causa delle perdite - vendita delle azioni delle banche e conseguente calo generale dell’indice di borsa americano 3 - riduzione di fiducia sul sistema finanziario e conseguente riduzione degli investimenti e calo del livello dell’attività economica Dal 2007 varie banche americane vanno in bancarotta (fra cui, nel 2009, Lehman Brothers, quarto istituto di credito americano), che vengono acquisite da gruppi bancari in migliori condizioni (Merril Lynch) o si salvano solo grazie all’intervento del Ministero del tesoro statunitense, che concede garanzie e linee di credito a tassi vicini allo zero o addirittura le nazionalizza. 1.4. La propagazione della crisi al di fuori degli Stati Uniti Quindi la crisi finanziaria statunitense si è propagata agli altri paesi attraverso cinque meccanismi fondamentali: - perdite elevate in banche e altri intermediari finanziari non statunitensi che avevano investito su titoli derivati collegati ai mutui sub prime e/o sulle azioni delle banche statunitensi che sono fallite - riduzione dei prestiti interbancari a livello internazionale - riduzione dei prestiti a consumatori e al sistema produttivo, con conseguente calo della produzione e riduzione dei consumi - riduzione degli investimenti e dei consumi a causa della crisi di fiducia sul sistema finanziario internazionale - riduzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti e verso gli altri paesi la cui produzione e consumi si sono ridotti. La riduzione dell’attività economica che si è verificata in Italia sembra sia da attribuire soprattutto alla riduzione delle esportazioni italiane e, in misura minore, da riduzione del credito alle imprese e ai consumatori e da un riduzione degli investimenti e dei consumi. A distanza di cinque anni dalla crisi vari paesi industrializzati, fra cui ad esempio Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, hanno sperimentato una ripresa dell’attività economica, mentre il prodotto interno lordo italiano è ancora in fase di stagnazione. 2. La crisi americana 2.1. Cenni storici Prese l’avvio negli Stati Uniti nel 2007, in seguito alla crisi del mercato immobiliare manifestatasi con lo scoppio di una grande bolla immobiliare (crisi dei subprime) e una susseguente pesante crisi finanziaria, diffusasi poi in tutto il mondo. Tra i principali fattori della crisi economica figurano gli alti prezzi delle materie prime (petrolio in primis), una crisi alimentare mondiale, un'elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo e per finire una crisi creditizia con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici. Alla crisi finanziaria scoppiata nell'agosto del 2007 è seguita una grave crisi industriale (seguita al fallimento di Lehman Brothers per la crisi dei subprime) con una forte contrazione della produzione e degli ordinativi. L'anno 2009 ha poi visto una crisi economica generalizzata, pesanti recessioni e vertiginosi crolli di Pil in numerosi paesi del mondo e in special modo nel mondo occidentale. Tra il 2010 e il 2011 si è conosciuto l'allargamento della crisi ai debiti sovrani e alle finanze pubbliche di molti paesi, soprattutto ai Paesi dell'eurozona, che in alcuni casi hanno evitato l'insolvenza sovrana (Portogallo, Irlanda, Grecia), grazie all'erogazione di ingenti prestiti (da parte di FMI e UE), a prezzo però di politiche di bilancio fortemente restrittive sui conti pubblici (austerità) con freno a consumi e produzione. 2.2. Le cause A partire dalla metà degli anni settanta la creazione di nuovi strumenti finanziari, i progressi tecnologici nel campo dell'informatica, l'aumento della liquidità nell'economia internazionale, accanto all'aumento del costo del petrolio, hanno prodotto un rafforzamento del ruolo della finanza internazionale all'interno del sistema economico che, ad oggi, il peso economico dei prodotti finanziari risulta superiore in larga misura a quello della produzione mondiale di beni e servizi. Grazie alle politiche delle banche centrali, a partire da quelle adottate dalla FED, che favorirono il basso costo del denaro, venne incentivata una più facile erogazione del credito alle famiglie, spinte a indebitarsi in misura crescente per alimentare i consumi, e agli speculatori, portati a effettuare investimenti sui mercati finanziari (con la conseguente creazione di bolle speculative). 4 2.3. La fine del dollar standard e la liberalizzazione dei mercati finanziari Tra il 1971 e il 1973, sotto la presidenza di Richard Nixon, gli Stati Uniti abbandonarono il regime di convertibilità del dollaro in oro quindi decisero di lasciar fluttuare liberamente la moneta secondo la legge della domanda e dell'offerta, operando una serie di svalutazioni monetarie fino al 1973. Ciò favorì un aumento improvviso e repentino della circolazione monetaria (alimentata dall'ingente flusso di petroldollari ricavati dai paesi dell'Opec e reinvestiti sui mercati finanziari e bancari europei). Le politiche di liberalizzazione finanziaria avviate nel mondo anglosassone furono immediatamente recepite dal resto del mondo sviluppato, come l'Unione Europea dove vennero compiute tra il 1985 e il 1990. Le banche centrali furono sollevate dall'obbligo di finanziare i debiti pubblici; allo stesso tempo banche, fondi finanziari e fondi pensione furono liberalizzati, venendo acquisite da soggetti privati; fu liberalizzata la circolazione internazionale dei capitali, non più sottoposti a controlli preventivi o a regole di movimentazione, mentre gli afflussi di capitali si fecero più massicci. 2.4. La crisi dei subprime e crollo delle Borse Cresceva anche l'esposizione al credito delle banche, delle imprese, e delle stesse famiglie, favorita dai tassi d'interesse ridotti e dalla facilità nella concessione dei prestiti. Il ricorso alla sottoscrizione dei mutui a basse garanzie (subprime), sottoscritti anche da persone agiate che confidavano in consistenti guadagni, si fece sempre più frequente, venendo concessi dalle banche spesso con la consapevolezza di non poter essere rimborsati: il trading dei subprime crebbe dal valore di 145 miliardi nel 2001 ai 635 miliardi del 2005. Nel giro di due anni, tuttavia, i tassi di riferimento furono portati tra il 2005 e il 2007 dall'1,5% al 5,25% per intervento della FED, nel tentativo di frenare la speculazione e drenare liquidità dal sistema economico. Nel 2006, come effetto immediato, il numero dei pignoramenti e delle insolvenze si moltiplica. La bolla immobiliare a quel punto esplose facendo precipitare il prezzo delle case e innescando un'ondata di vendite che mandarono in rovina numerosissimi soggetti tra risparmiatori e istituti di credito, provocando un blocco del sistema finanziario americano. La crisi imprevista dei mutui sub-prime, mutui a basse garanzie (perché sottoscritti da contraenti con reddito inadeguato o con passato di insolvenze o fallimenti) concessi dalle banche d'investimento americane, inizia a manifestarsi nel 2006 per scoppiare nel 2008. La crisi raggiunse il punto di non ritorno quando i risparmiatori americani cominciarono a non ripagare più i mutui dando avvio a un massiccio aumento dei pignoramenti (1,7 milioni di case coinvolte nel solo 2007). All'origine di questo fenomeno la vertiginosa crescita del mercato immobiliare americano, con il forte aumento dei prezzi delle abitazioni. Tale "bolla" speculativa si espanse di pari passo col costante apprezzamento delle case. L'indebitamento delle famiglie americane provocò nel 2006 l'esplosione dei prezzi delle attività, e in particolare di quelli immobiliari; l'indebitamento aumentava via via che cresceva il valore delle proprietà immobiliari. Le famiglie più fortemente indebitate avevano scommesso sul protrarsi della crescita, ignorando il rischio di un rovesciamento del mercato. L'esplosione della bolla dei mutui fu amplificata dal fatto che le banche statunitensi, al fine di ridurre l'esposizione rispetto a questi prodotti finanziari altamente rischiosi, vendevano a terzi i mutui stessi attraverso diversi strumenti finanziari. In questo modo le banche scaricavano su altri soggetti i rischi corsi concedendo tali finanziamenti. La cartolarizzazione dei mutui subprime (titoli garantiti dai mutui ipotecari), ha reso infetto l'intero sistema finanziario mondiale di questi titoli, conosciuti come "tossici". La forte svalutazione di questi strumenti innescò difficoltà gravissime in alcuni fra i più grandi istituti di credito americani. (Lehman Brothers) che vennero ridotti al collasso e poi messi in sicurezza dall'intervento del Tesoro. Anche banche europee, come la britannica Northern Rock (quinto istituto di credito inglese), e grossi istituti finanziari (la svizzera UBS, la belga Fortis, la franco-belga Dexia -questi ultimi due parzialmente nazionalizzati dai governi francese, belga e lussemburghese-, la tedesca Hypo Real Estate e l'italiana Unicredit), furono investiti dalla svalutazione dei titoli immobiliari, venendo successivamente o nazionalizzati o costretti a ricapitalizzarsi. Dopo diversi mesi di debolezza e perdita di impieghi, il fenomeno è collassato tra il 2007 e il 2008 causando la bancarotta di banche. Il rapido crollo del mercato immobiliare fu reso più devastante dal graduale 5 rialzo del tasso di sconto operato dalla FED negli anni dell'esplosione della crisi dei mutui. Il peggioramento delle borse, segnato dalle fortissime vendite sul mercato bancario, fu immediato. A causarlo la radicale crisi di fiducia dei depositanti e degli azionisti verso le banche. Ci furono ondate di vere e proprie vendite da panico che riportarono alla memoria crolli storici del mercato come quelli del martedì nero 29 ottobre 1929. A ciò si accompagnò una crisi del credito, determinata dal clima di pessimismo e di diffidenza tra le stesse banche, che portò in breve tempo alla carenza di liquidità nel sistema economico. La crisi dei mutui in pochi mesi colpì anche l'economia reale provocando recessione, caduta degli investimenti e dei redditi e crollo dei consumi. La risposta più immediata alla crisi del credito e alla crisi di fiducia apparve il massiccio intervento degli stati e delle banche centrali che provvidero a tagliare i tassi d’interesse e a immettere liquidità nel sistema economico, cercando di incentivare gli investimenti e la rimessa in moto dell'economia. L'aggravarsi della crisi spinse il governo americano a intervenire con il cosiddetto Tarp (Troubled asset relief program) che prevedeva un programma di interventi statali in più fasi. Il piano di intervento, che all'inizio prevedeva una soglia nominale massima non superiore ai 700 miliardi di dollari, complessivamente ammontò a 7.700 miliardi di dollari. Tale quantitativo di liquidità venne immesso sul mercato bancario a tassi vicino alla zero dalla Federal Reserve, a sostegno delle banche non solo americane, ma anche europee (come Royal Bank of Scotland e UBS) durante il biennio di crisi 2007-2009. I 600 miliardi di titoli tossici posseduti da alcune banche vennero acquisiti dalla Federal Reserve, impedendo il loro fallimento. L’Aig, allora la più grande compagnia assicurativa del mondo, subì fortissime perdite economiche a causa della caduta del settore immobiliare e cadde in crisi di liquidità. Il Federal Reserve System mise in atto una linea di credito del valore 85 miliardi di dollari in favore di Aig in cambio di una quota del 79,9% del capitale della compagnia, realizzando il più importante salvataggio di una compagnia privata nella storia degli Stati Uniti. Il 9 ottobre 2008 la Fed attivò un ulteriore prestito da 37,8 miliardi di dollari in favore della compagnia. 2.5. La bancarotta di Lehman Brothers ed conseguenze nel mondo Il fallimento di Lehman Brothers fu il più grande della storia degli Stati Uniti e fece precipitare nel panico le borse mondiali con effetti devastanti sull'intero sistema economico-finanziario mondiale. Prima che Lehman Brothers annunciasse bancarotta la Federal Reserve e il governo americano avevano cercato di pattuire l'acquisizione da parte di Barclays o di Bank of America. Le agenzie di rating, nonostante la condizione di serio dissesto dell'istituto, mantennero rating più che discreti sul titolo Lehman Brothers fino al giorno della bancarotta ("A" Standard & Poor's, "A2" Moody's, A+ Fitch). La banca d'investimento, all'epoca il quarto istituto di credito americano, non ricevette l'erogazione dei fondi statali né l'intervento di capitali esterni, venendo costretta a iniziare le procedure fallimentari con un indebitamento di 613 miliardi di dollari. Lehman Brothers nel 2007 aveva chiuso i bilanci con ricavi di 19 miliardi di dollari e un utile netto di 4,19 miliardi. La causa del rapido tracollo erano stati i debiti contratti sui mutui ad alto rischio, le massicce svalutazioni dei titoli seguite al crollo del mercato immobiliare e le contemporanee esposizioni che il gruppo aveva accumulato. Come conseguenza immediata del fallimento, in una sola giornata le borse mondiali videro cancellati 1.200 miliardi di dollari di capitalizzazione (quasi 900 miliardi di euro), mentre le perdite europee complessive si attestarono a 125 miliardi. La bolla immobiliare americana ed il successivo fallimento di Lehman Brothers provocarono ripercussioni economiche a livello mondiale. La produzione industriale in Europa a partire dall'autunno del 2008 calò bruscamente, per ridursi ulteriormente l'anno successivo con una pesante recessione che colpì l'intero mondo occidentale, mentre le economie emergenti (Cina, India, Brasile) accusarono solo lievi o poco consistenti flessioni del Pil. Il rapido contagio tra le economie del pianeta mise a nudo un'evidente dipendenza dei modelli di sviluppo dal commercio estero. In America Latina i paesi più colpiti furono quelli dell'America centrale, esportatori di materie prime. L'economia cinese vide ridotta la crescita dal 13 al 9% con una riduzione dell'export. L'India crebbe invece del 7,3 rispetto al 9,3% del 2007. Anche l'Europa orientale conobbe grosse difficoltà legate soprattutto alla frenata della domanda della Germania, maggior partner delle economie della zona. La Russia mantenne invece un dinamismo costante con uno sviluppo complessivo nel 2008 del 6 5,6%. Altri paesi soffrirono gravi effetti immediati dall'esplosione della crisi finanziaria americana: la Danimarca entrò in recessione nel primo trimestre del 2008, colpita soprattutto dalla crisi del mercato degli immobili, da una forte disoccupazione e dalle difficoltà nel settore bancario che porteranno al fallimento di 11 istituti di credito. La produzione industriale dell'area euro evidenziò nei mesi conclusivi del 2008 una riduzione del quasi 3%; particolarmente colpita fu la produzione manifatturiera tedesca. Ancor peggio l'Islanda, la cui fragile economia fu messa in crisi dal fallimento quasi contemporaneo delle tre maggiori banche del paese e da una massiccia svalutazione della corona, accompagnata a tassi di disoccupazione e inflazione a due cifre. L'Islanda, che aveva ricevuto il sostegno finanziario del Fondo Monetario Internazionale (FMI), di stati europei e degli USA, rifiutò però la restituzione di quattro miliardi ai risparmiatori britannici e olandesi colpiti dal fallimento della banca Icesave. Il Pil degli Stati Uniti sul finire dell'anno si contrasse del 6,3%, mentre la produzione industriale si ridusse complessivamente nel 2008 del 2,2% e la disoccupazione passò dal 4,9 al 7,2. Nel periodo ottobre-dicembre il Pil del Giappone, sebbene la sua economia fosse meno esposta rispetto alle turbolenze del settore finanziario, si ridusse del 3,2%; a fine anno il saldo della bilancia dei pagamenti fu negativo per la prima volta dal 1996. Anche il Regno Unito, ugualmente esposto alla crisi del settore immobiliare e bancario come gli Stati Uniti, risentì di un forte rallentamento dell'economia con una crescita nel 2008 dello 0,7% rispetto al 3% dell'anno precedente. La crisi determinò un aumento verticale della disoccupazione che compresse la capacità di spesa delle famiglie, favorì la propensione al risparmio, indebolendo la domanda aggregata. In Europa la recessione determinò effetti profondamente negativi con forti riduzioni di Pil in Irlanda (-5,0%), nel Regno Unito (-2.8%), e in Germania (-2.3%), Paesi Bassi e Spagna (-2,0%), Belgio (-1,9%), Francia (-1,8%). Dati ancora peggiori si registrarono nell'Europa dell’est, dove la crescita a cavallo tra metà 2008 e 2009 accusò sensibili cali: Lettonia (-6,9%), Estonia (-4,7%), Lituania (-4,0%), Polonia (-2,0%), Italia (-3,1%). L'export delle economie meno sviluppate, risultato della riduzione del prodotto e dei consumi nei paesi più avanzati, segnò una brusca riduzione, nell'ordine del 12,3%. Il segno di una ripresa, già in corso nel 2009, fu il rialzo deciso dei costi delle materie prime (nel 2009 quelle industriali del 27%, quelle alimentari del 15%). Essa fu però più decisa nelle economie emergenti e più stentata in quelle avanzate; più dinamica apparve la ripresa degli Stati Uniti in confronto all'Europa. Da poco più di 40 dollari a barile, il prezzo del Brent, il greggio di riferimento per i mercati europei, è salito fino ai 70 dollari in giugno. A partire da ottobre, le quotazioni del petrolio hanno fluttuato all'interno di un andamento compreso tra i 70 e gli 80 dollari a barile. L’andamento dei mercati azionari e obbligazionari manifestò un miglioramento delle prospettive economiche a partire dal secondo trimestre del 2009. A partire dal secondo trimestre del 2009, invece, le condizioni dei mercati finanziari subirono un significativo miglioramento, stabilizzandosi negli ultimi tre mesi dell’anno. 2.6. Parziale ripresa economica (2010-2013) Nel corso del 2009 la caduta dell'economia negli Stati Uniti ha evidenziato una decisa risalita, tanto da far registrare una variazione positiva del 5,6%. Nel primo trimestre del 2010 si verificò un aumento di prodotto interno lordo del 2,2%, favorito soprattutto dall'aumento dei consumi e dall'accumulo di scorte; sul fronte dell'occupazione, la percentuale dei senza lavoro non accusò miglioramenti, rimanendo nel 1º trimestre pari al 9,7% (15 milioni di disoccupati). Anche l'eurozona dopo aver seguito un andamento negativo nella prima parte dell'anno, tornò a percentuali di sviluppo positive nel 3º trimestre, non registrando alcuna variazione nel trimestre successivo. Le economie emergenti dell’Asia, dopo essere state colpite duramente nella prima parte dell’anno, tornarono a evidenziare un'accelerazione grazie soprattutto alla ripresa cinese, che guidò il recupero degli scambi commerciali. La Cina riuscì a limitare le conseguenze congiunturali attestandosi su una crescita dell’8,7%. Complessivamente nel 2010 il pil mondiale crebbe del 5%, pur distribuendosi in maniera molto eterogenea nelle diverse aree del pianeta (più stentata in Europa, ad eccezione della Germania, più dinamica in USA e Giappone). Si registrò mediamente una sostenuta ripresa nei paesi sviluppati, ed un'ancor più forte nei paesi emergenti, dove le economie mostrarono 7 un rapido e deciso recupero (Cina e India in media del 10%). Il Pil italiano, dopo la crescita del primo e secondo trimestre 2011, calò per un intero semestre, proseguendo nella discesa anche per l'intero 2012 ed il 2013, documentando lo stato di recessione dell'economia del paese. Nella seconda metà del 2012 la dinamica dell’economia globale rimase debole e le stime di crescita del commercio internazionale erano riviste al ribasso. Complessivamente si registrava una disparità della ripresa tra alcuni paesi occidentali, in particolare Regno Unito, Stati Uniti e Giappone, e l'area euro la cui la crescita invece mostrava un tasso negativo: in Francia e Germania la produzione industriale declinava, mentre nei paesi dell'Europa meridionale si evidenziavano pesanti segnali di stagnazione. Le stime preliminari della crescita del Pil del quarto trimestre 2011 certificavano che l'economia europea era entrata in recessione; Italia, Spagna, Portogallo e Grecia apparivano invece già in recessione, come anche Belgio e Paesi Bassi. L’Italia presentò il dato peggiore di tutti i paesi, fatta esclusione della Grecia, destinata assieme al Portogallo ad essere fanalino del continente. Secondo le stime dell'Ocse nell'insieme il Pil aggregato del G7 per il 2012 si incrementava dell'1,4%, ma in maniera molto difforme: se la Germania accumulava una crescita dello 0,8, la Francia non registrava alcun aumento, la Gran Bretagna subiva un calo dello 0,7%, mentre USA e Giappone crescevano del 2,3 e del 2,2. Se il Pil europeo rimaneva fermo, il Pil mondiale si portava invece sul 3,5. A differenza di Italia e Spagna, il Pil di Germania e Francia rimaneva leggermente superiore allo zero. 2.7. Piani di salvataggio nel resto d'Europa A beneficiare degli aiuti di stato sono stati anche altri grandi gruppi finanziari: Dexia e Fortis. La prima, banca specializzata nei prestiti alle collettività locali, finanziandosi in gran parte a breve termine, vendendo obbligazioni agli investitori o indebitandosi verso altre banche, si trovò particolarmente esposta alla crisi del credito e al clima di sfiducia tra gli istituti finanziari non più disposti a prestarsi denaro tra loro. Il governo belga intervenne per primo iniettando liquidità per 3 miliardi di euro insieme agli azionisti belgi. Anche il governo francese intervenne riservandosi una parte consistente del capitale della banca. Il Lussemburgo partecipò al piano di salvataggio. Anche il gruppo bancario belga-olandese Fortis subì una parziale nazionalizzazione. La valutazione al ribasso delle stime sulla solidità di Hypo Real Estate (tedesca) e la conseguente richiesta di rifusione da parte dei creditori causò il rischio di tracollo dell'istituto tedesco. L'authority tedesca intervenne con un piano di salvataggio della HRE e anche su altre Banche. Altri piani di salvataggio vennero predisposti da Svezia, Danimarca, Portogallo, Grecia e Paesi Bassi. Gli aiuti effettivamente erogati dai governi alle banche dei rispettivi sistemi nazionali furono 1.240 miliardi di euro (10,5% del Pil Ue). I tre maggiori mercati bancari europei beneficiati dagli aiuti furono quelli Germania, Francia e Gran Bretagna. Ai dieci maggiori istituti di credito europei furono destinati 620 miliardi, mentre le successive venti banche ricevettero il 25% del totale. In totale è stato calcolato che il costo dei salvataggi bancari nel mondo produsse un aumento del debito consolidato dei paesi del G7 (dove era compresa anche l'Italia) di 18.000 miliardi di dollari, fino a un livello di indebitamento mai toccato di 140.000 miliardi. 3. Crisi in Gran Bretagna e salvataggio del sistema bancario La presenza nelle banche di asset "tossici" favorì l'allargamento della crisi, intaccando anche diversi paesi europei: le borse del vecchio continente accumularono sin dallo scoppio della crisi molteplici perdite. La crisi dei mutui toccò per prima la Northern rock, quinto istituto di credito britannico, specializzato nei mutui immobiliari. A metà settembre del 2007, la diffusione della notizia che la banca non sarebbe stata in grado di ripagare i suoi clienti innescò il panico tra i risparmiatori che presero d'assalto gli sportelli nel tentativo di recuperare i propri depositi. La Northern rock aveva continuato tuttavia a concedere ai clienti prestiti sino a cinque volte l'ammontare dei salari e fino al 125% del valore delle case, nonostante tutti gli avvertimenti sull'instabilità economica e il possibile crollo delle quotazioni degli immobili. La Banca centrale britannica procedette quindi alla nazionalizzazione dell'istituto impegnando circa 110 miliardi di 8 sterline. L'intervento della Banca d'Inghilterra fu poi rivolto all'intero sistema bancario, attraverso interventi di ricapitalizzazione e acquisti ingenti di bond a favore di vari istituti. 4. Crisi greca La Grecia, nella prima parte del 2009, sembrava avere attraversato la fase di crisi internazionale in maniera relativamente meno negativa, supportata dalla capacità di resistenza delle sue esportazioni e da consistenti aumenti salariali. Negli anni precedenti la Grecia aveva conosciuto uno sviluppo economico sostenuto (nel 2006 il pil cresceva del 5,6%, nel 2007 del 4,28%). Nell'ultima parte del 2009 la situazione però peggiorò drasticamente, il PIL calò del 2,04%. A ottobre il nuovo governo a guida socialista di George Papandreou rese noto che il deficit di bilancio nel 2009 avrebbe raggiunto il 12,7% del Pil: più del triplo di quanto previsto dall'amministrazione precedente. Il governo Karamanlis aveva nascosto un buco di bilancio nei conti di Atene sconosciuto alle autorità europee. Gli effetti di tale annuncio si concretizzarono nel declassamento dell'affidabilità finanziaria della Grecia sul suo debito da parte delle maggiori agenzie di rating, suscitando forti preoccupazioni circa la possibilità di default della Grecia. Il governo Papandreou scelse una linea di intervento che puntava ad attuare una serie di tagli della spesa pubblica insieme a provvedimenti profondamente impopolari. Standard & Poor’s tagliò il rating sul debito di Atene a BBB+; dopo pochi mesi la stessa agenzia opererà taglio di rating sul debito greco di altri tre livelli declassandolo a BB+, ossia al livello di "obbligazione spazzatura" Emerse il rischio di un "contagio" che toccasse anche altri stati della periferia europea come Portogallo, Spagna e Irlanda. Nei mesi successivi la Grecia sarebbe stata costretta a operare nuovi tagli decisi del deficit statale ed approvare pesanti interventi di riduzione della spesa statale, venendo obbligata dalle continue emergenze di liquidità ad essere rifinanziata con nuovi piani di concessione di credito da parte di FMI. Ulteriori riduzioni del rating greco fecero aumentare le preoccupazioni mondiali sul possibile default della Grecia o su una eventuale sua uscita dall'eurozona, provocando forti ribassi nelle piazze borsistiche. Lo "spettro" dell'insolvenza greca continuò ad agitarsi sull'Europa per tutto il 2011 e fino al 2012, provocando un persistente stato di instabilità sui mercati borsistici del pianeta. Nel maggio 2010 venne varato un finanziamento da 110 miliardi di euro, in cambio di forti interventi di austerità da parte del governo greco, appoggiato dall’Unione Europea. I dubbi del governo di Berlino e i timori di un allargamento del "contagio" ad altri stati periferici come il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e anche l’Italia finirono per generare il panico nei mercati, con l'allargamento della crisi all'intera Eurozona. Presto, l'inefficacia dei piani di austerità e la profonda crisi dell'economia del paese indussero la BCE e l'UE ad avviare complesse trattative per la riduzione del debito greco, Nell’ottobre 2011 si decise un abbattimento forfettario del debito del 50% a carico dei creditori privati. Nel timore che il taglio del debito potesse non essere sufficiente ad evitare l'insolvenza delle casse greche, nuove misure economiche e riforme vennero richieste, soprattutto dalla Germania a condizione dell'ottenimento di un secondo piano di assistenza finanziaria. Nella notte del 21 febbraio l'Eurogruppo concesse con riserva un prestito di 130 miliardi alla Grecia evitandone l'insolvenza. Lo stato greco in cambio fu costretto ad accettare un controllo più stringente dei bilanci da parte della Troika (UE, BCE, FMI), con il rafforzamento della missione dei contabili della Commissione e del Fondo monetario presso Atene. Oggi ne 2015, con la caduta del governo e dopo l’annuncio delle prossime elezioni greche i rendimenti sui titoli sono saliti più del 12% segnalando il timore dei mercati per la capacità dello Stato greco di onorare i suoi impegni di rimborso a breve scadenza. Il Leader del partito in testa nei sondaggi, ha dichiarato che vuol farla finita con la Troika e con le politiche di austerità, con l’intenzione di arrivare a una ristrutturazione del debito e forse anche all’uscita dall’eurozona. Per fortuna nessun panico. Alcuni Paesi come Germania, Francia, Austria, Belgio, Olanda e Slovacchia hanno già recuperato i livelli di reddito del 2007. Altri che rasentavano il precipizio Irlanda, Spagna 9 e Portogallo hanno ripreso a crescere e ciò per le riforme economiche intraprese e il ritorno dei capitali esteri e di fondi freschi. 5. Crisi irlandese L'Irlanda fu investita dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare con il repentino ribasso dei prezzi delle abitazioni, tra 2007 e 2008, che gettò in crisi l'intero sistema bancario del paese. L'Irlanda aveva conosciuto un periodo di espansione economica tra i più vasti della sua storia, a tal punto che tale periodo storico venne definito della "Tigre celtica" (ventennio 1988-2008). Le conseguenze della crisi nei mesi del 2009 apparvero dure: riduzione del Pil del 7,5%, tasso di disoccupazione al 13,8% nel 2009 (12,5% nel marzo 2010), un aumento del deficit pubblico da 33,6 miliardi di euro a 40,46 miliardi di euro, e un rapporto debito-PIL del 63,7%. L'impennata degli spread fra titoli del debito irlandese e titoli tedeschi, rafforzava i segnali di sfiducia del mercato nei confronti delle finanze irlandesi e della sua capacità di ripagare i rendimenti. Dopo che la BCE aveva già elargito finanziamenti a medio termine per le banche irlandesi, il governo fu costretto a cedere alle pressioni europee e del FMI accettando a fine novembre un programma di salvataggio accanto a un prestito di 85 miliardi di euro, cui sarebbe corrisposto un piano di austerità e di contenimento del deficit, con severe riduzioni della spesa sociale, tagli degli stipendi pubblici e applicazione di nuove imposte. 6. Crisi portoghese A inizio aprile 2010 le banche portoghesi danno l'annuncio di non essere in grado di acquistare in asta i titoli del debito pubblico portoghese, destando la sorpresa del mercato. Il Portogallo stava scontando la condizione di tassi di crescita economica molto lievi, dovuti all'erosione continua di competitività, di salari troppo alti rispetto alla produttività, di infrastrutture inadeguate o insufficienti, istruzione inadeguata e scarsa razionalizzazione della spesa pubblica. L'assenza di sviluppo si combinò con un gettito fiscale insufficiente, fattori che inseriti nel contesto di una crisi di fiducia degli investitori condussero rapidamente il Portogallo ad essere incapace di rifinanziarsi sul mercato e di onorare il debito già contratto. Dopo aver fatto richiesta ufficiale di aiuti per 80 miliardi di euro, l'eurogruppo approvò il piano di salvataggio del Portogallo, concesso a condizione che il parlamento approvasse il risanamento di bilancio. Il parlamento portoghese sarà costretto a discutere e approvare pesanti misure riduzione del disavanzo e delle spese, tra le più dure degli ultimi 50 anni. 7. Crisi spagnola 7.1. Cenni Storici Nei primi mesi del 2008 il boom economico ha segnato una forte battuta d'arresto, conseguentemente alla crisi di alcuni settori industriali e in primo luogo di quelli legati all'edilizia, trainanti per la crescita economica del Paese. La tendenza si è confermata nel 2009, durante il quale il PIL è diminuito del 3,6%. Nel dicembre 2009 al paese iberico è stato attribuito il primo posto nel Misery Index di Moody's, classifica costruita sommando disoccupazione (19,1% nel 2009) e rapporto deficit/pil (10,1%): la Spagna, con 30 punti, «è il paese più a rischio d'Europa» (anche più di Grecia, Lettonia e Lituania) ed è entrata nella lista dei "sorvegliati speciali" Ue. La crisi mondiale ha avuto infatti effetti disastrosi sull'economia spagnola: il rapporto debito pubblico/Pil è passato dal 34% del 2007 al 67% del 2009, i debiti di famiglie e imprese sono schizzati al 177% del Pil, i disoccupati sono arrivati a quota 4 milioni (la disoccupazione è passata dall'8,3% del 2007 al 19,1% del 2009) e nel 2010 il 20,33%. Nel secondo trimestre del 2011, il debito pubblico è aumentato al 65,2% del PIL, il massimo degli ultimi 14 anni, rimanendo tuttavia ancora basso rispetto ad altri paesi europei, come la Grecia (160% del PIL nel 2010), l'Italia (119% nel 2010), la Francia (81,7% 10 nel 2010) e la Germania (83,2% nel 2010). A fine 2011, il debito pubblico spagnolo ha toccato il suo record, raggiungendo il 68,5%. Nel primo trimestre del 2012 il debito pubblico spagnolo è cresciuto del 5,36% toccando il record storico al 72,1%. Nel primo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione in Spagna è salito al nuovo livello record del 24,44%. Alla Spagna spetta anche il record negativo della disoccupazione giovanile nell'Unione Europea: a maggio 2012 i giovani sotto i 25 anni senza un lavoro erano in Spagna il 52,1%, contro il 22,7% della Ue-27 e il 22,6% della Ue-17 (zona euro). Nel giugno 2012 Moody's ha tagliato il rating della Spagna di tre gradini, da A3 a Baa3 e l'ha messa sotto osservazione per un possibile ulteriore declassamento. La decisione, spiega l'agenzia di rating, è dettata da diversi fattori, tra cui la decisione del governo spagnolo di chiedere 100 miliardi di euro di prestito per ricapitalizzare il sistema bancario, che aumenterà il debito pubblico del Paese. La crisi bancaria in Spagna e il declassamento del suo debito sovrano hanno spinto i rendimenti dei titoli di stato iberici a 10 anni ad un rendimento che sfiora il 7% annuo e che è considerato un punto di non ritorno sulla strada del default (in quanto proprio il superamento della soglia del 7% per gli interessi sul debito pubblico aveva innescato i piani di salvataggio a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo): il 18 giugno 2012 lo spread tra i Bonos e i Bund tedeschi è volato a 573 punti, con i tassi decennali sul debito spagnolo al 7,09% annuo. Nel luglio 2012, per fronteggiare la crisi, il governo Rajoy vara nuove imponenti misure di austerità: soppressione già a partire dal 2012 delle tredicesime agli statali, che avranno anche meno giorni di ferie e meno permessi sindacali, riduzione del sussidio di disoccupazione al 50% della retribuzione, tagli al sistema pensionistico e ai ministeri, aumento del 3% dell'Iva dal 18 al 21% e quella ridotta dall'8% al 10%. Il tasso di disoccupazione è salito a settembre 2012 al 25,8%. Anche per i giovani con meno di 25 anni la situazione continua a essere nera: i senza lavoro sono più di 1 su 2, e sono saliti dal 53,8% di agosto al 54,2% di settembre. Le previsioni dell'economia spagnola sono di una timida crescita solo nel 2015 (+0,5%). Nel 2013 il premier spagnolo Mariano Rajoy ha comunicato che il rapporto tra deficit e Pil in Spagna nel 2012 si è attestato al 6,7%, facendo peggio di quanto aveva programmato il governo, che aveva come obiettivo di stabilità fissato con Bruxelles un rapporto al 6,3%. e il tasso di disoccupazione ha raggiunto un nuovo massimo storico al 27,2%, il debito pubblico spagnolo ha toccato un nuovo record storico, salendo al 92,2% del Pil. Mentre alla fine del 2013 il debito pubblico spagnolo è salito al 93,4%. 7.2. Punti di forza dell'economia spagnola Tuttavia, la crisi ha evidenziato anche alcuni dei punti di forza dell'economia spagnola: il settore finanziario in generale ha mostrato una robustezza notevole nel contesto della crisi di mutui subprime; un'altra caratteristica è l'espansione delle aziende spagnole in tutto il mondo, soprattutto in America Latina e Asia (in particolare Cina e India). D'altra parte la Spagna, nonostante la crisi, ha una posizione di rilievo in diverse aree di innovazione come le energie rinnovabili, il settore farmaceutico, le bio-tecnologie, i trasporti e le piccole e medie industrie di alta tecnologia, che sono consolidati punti di forza per iniziare un recupero e cambiare le basi del modello economico. Diverse società spagnole sono leader mondiali, quali Iberdrola, aziende tecnologiche quali Telefonica, Movistar, Gamesa, Indra, Hisdesat, costruttori di treni come il CAF, Talgo, multinazionali come l'azienda tessile Inditex, le compagnie petrolifere come la Repsol; le sei maggiori società di infrastrutture di trasporto al mondo sono spagnole come Ferrovial, Acciona, ACS, OHL e FCC. Esportazioni Nel 2010 le esportazioni sono cresciute del 17,4%, attestandosi a 185,8 miliardi di euro e recuperando i livelli pre-crisi, con un contributo di 1,1 punti percentuali alla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL), stabilizzando l'economia spagnola rispetto alla recessione del 2009. Il miglioramento delle esportazioni, in particolare verso i Paesi emergenti, ha permesso di compensare il deficit commerciale aumentato a causa dell'aumento globale dei prezzi dell'energia. Nel 2012 le 11 esportazioni spagnole sono aumentate del 3,8% a 222.643.9 milioni di euro, la cifra migliore della serie storica. Prodotto interno lordo e sua composizione Nonostante la crisi, la Spagna è oggi la decima potenza economica mondiale (dietro a Stati Uniti, Giappone, Cina, India, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Brasile). Le attività economiche del paese hanno il loro baricentro nella città di Barcellona e nella corrispondente regione della Catalogna, la quale, grazie alla sua posizione geografica privilegiata, vicino alle altre grandi potenze Europee (quindi luogo di transito obbligatorio di tutti i traffici via terra da e per la Spagna) e affacciata sul Mediterraneo, è caratterizzata da un'economia estremamente avanzata e competitiva su scala internazionale. La composizione del Prodotto interno lordo spagnolo è la seguente: Sett. Primario (7%): in un periodo relativamente breve, l'agricoltura è passata da una situazione di grande arretratezza ad una fase molto meccanizzata, che utilizza tecniche moderne e pianifica operazioni di investimento. Gran parte del suolo è arido o semiarido e le risorse idriche, essendo scarse, hanno bisogno di interventi statali. Molto marcata è la diversità tra terre non irrigate (meseta) e quelle irrigate delle valli. Nelle prime si coltivano cereali, nelle seconde ortaggi, piante industriali (quali, tabacco, cotone, etc…). Sono diffusi anche la vite, l'ulivo e gli aranci coltivati nelle tipiche colline e coste meridionali. I prodotti agricoli esportati, sono in concorrenza in particolare con l'Italia, mentre è con il Portogallo che divide il primato mondiale per la produzione di sughero. Nei pascoli si allevano in prevalenza ovini (lana merinos), bovini e suini. La pesca di acciughe, sardine, tonni, lavorati dalla moderna industria conserviera, acciughe sotto sale, sardine sott'olio e tonno in scatola, è molto sviluppata e conta su una buona flotta. Sett. Secondario (29%): le risorse minerarie hanno favorito lo sviluppo industriale. Vi sono giacimenti di zinco, ferro, rame, piombo, zolfo, mercurio, ecc. L'attività industriale è divisa in 4 aree: Asturie e Prov. Basche con Bilbao (navale, ferroviario, meccanica e siderurgica), Madrid (chimica, petrolchimica, elettronica), Barcellona (alimentare, tessile, elettronica), Valencia e Cartagena (raffinerie, aerospaziale). Importante è il comparto tessile e la calzaturiera, in ammodernamento. Sett. Terziario (64%): è in grande espansione, con un turismo internazionale e vie di comunicazione efficienti ed ammodernate. La navigazione marittima ha grande importanza. Lo sviluppo delle telecomunicazioni e delle tecnologie informatiche è notevole. Di rilievo sono anche le attività bancarie, assicurative e commerciali. 7.3. Spagna oggi Dopo una prolungata doppia recessione, la Spagna sembra aver svoltato l'angolo. La crescita è ripresa e la disoccupazione è in calo. L’ha scritto il Fondo monetario internazionale, aggiungendo che: «Le condizioni finanziarie sono drasticamente migliorate, con i rendimenti del debito sovrano ai minimi, una solida ripresa degli investimenti aziendali e un inizio di ripresa per i consumi privati». La Spagna è uno dei Paesi a maggior ritmo di crescita tra i malati d’Europa, con il suo invidiabile 1,2%, mentre l’Italia è condannata a un Pil in calo dello 0,2, il peggior dato dal 2000. Così, se il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan non sorridono, gongola, invece, il Governo di centrodestra guidato da Mariano Rajoy: da quando si è insediato nel 2011, la disoccupazione si è ridotta dai 5 milioni ai 4,4. Con buona pace di tutti i suoi detrattori, dai socialisti agli indignados e a tutte le parti sociali, che per mesi hanno portato la protesta in piazza, criticando la sanguinosa cura dimagrante imposta ai conti pubblici. Secondo l’economista Centeno, professore dell’Università di Madrid: la Spagna di Rajoy è oggi in testa a qualunque classifica europea per disuguaglianze tra ricchi e poveri, per precarietà, per povertà infantile, per fallimento scolastico, per persone disoccupate senza alcun sostegno economico. Egli non parla solo di Spagna, ma anche di Italia, testimoniando la continua perdita del potere d'acquisto della classe media negli ultimi trent'anni: «Fino alla fine degli anni 70 le famiglie in Spagna e in Italia vivevano col solo reddito del capo famiglia, sufficiente per garantire la dignità della casa, buoni studi per i figli che avrebbero poi trovato un lavoro migliore di quello dei genitori. Ora non è più così». La Spagna nei suoi cinque anni di feroce crisi economica ha visto disintegrarsi l’edilizia che, da sola, costituiva il 12 18% il Pil: gli effetti sull’indotto e sul tasso di disoccupazione sono stati drammatici. In Europa l’Italia è al terzo posto per la disoccupazione giovanile (under 25) con il 42,9%, dietro a Cipro (43,2%), ma è sempre la Spagna in vetta con il pesante 53,9%. E in alcune regioni meridionali il tasso supera il 70%. In pratica 8 spagnoli su 10 (di età tra i 18 e i 24 anni) sono senza lavoro. Scompare, così, “la generación de los mil euros”, detti anche “mileuristas” che campavano con mille euro al mese. Ora in Spagna, esiste la generazione dei “Ni-ni”, ovvero di chi “ni estudia ni trabaja”, non studia e non lavora. Un esercito di 900 mila persone, pari al 23,1% della popolazione giovanile. La Spagna è sempre più un paese per giovani. Disoccupati. 7.4 Irlanda e Spagna oggi – Segni di ripresa Il Premier irlandese Enda Kenny ha precisato che il risanamento dell’Irlanda è avvenuto in virtù di una forte sintonia tra politica e paese reale. Dimostrata dall’ampia collaborazione tra le parti sociali che ha permesso di programmare una riduzione del costo del lavoro unitario che a fine 2015 varrà il 15%. Se era stato lo scoppio della bolla immobiliare a mandare ko l’Irlanda, il percorso di risanamento è stato drastico e a largo raggio: sette manovre finanziarie dal 2008 ad oggi sono costate agli irlandesi tra tagli della spesa pubblica e nuove tasse qualcosa come 30 miliardi. Il deficit che nel 2010 era balzato sopra il 10% ora è sceso al 7,3% e dovrebbe rientrare nel 2015 sotto il 3%. La crescita del Pil che nel 2013 è del +0,2%, e dovrebbe raggiungere il 2% già nel 2014. Logicamente dobbiamo tener conto che l’Irlanda è un Paese di 4,5 milioni di abitanti e che ha attuato una politica spregiudicata di marketing che ha attirato i capitali di grandi società estere, come Google, Twitter, Intel, ecc. Anche la Spagna ha una storia a sé. Infatti sta uscendo dal programma di sostegno della Bce, inoltre il tutto è supportato dalla stabilità politica. Però il governo di Rajoy ha portato la tassazione a valori elevati ed inoltre la Spagna non ha una manifattura specializzata come quella italiana. La Spagna, di fronte al disastro del proprio sistema bancario, chiese l’aiuto europeo e l’ottenne. Oggi la sua economia cresce e il suo spread è ritornato ad essere inferiore al nostro. Dovevamo fare anche noi la stessa cosa con Monti? Fu fatta la scelta di non chiedere aiuto, una scelta difficile e più rischiosa, anche perché, nel caso dell’Italia erano in gioco rischi e opportunità che non si presentavano alla Grecia, al Portogallo, all’Irlanda e alla Spagna. Era improbabile che il fondo salva Stati europeo e il Fmi avessero risorse sufficienti se l’Italia avesse chiesto di essere salvata. Molti governi ed istituzioni consigliavano di chiedere l’aiuto perché dubitavano che potessimo farcela da soli ed avevano anche il timore di un eventuale contagio, inoltre non vedevano malvolentieri un’Italia ridotta a uno stato di forzata e docile soggezione per molti anni a venire. Probabilmente le risorse non sarebbero state sufficienti sia per la dimensione stessa del Paese, sia per la natura del focolaio, ben più che per il sistema bancario a differenza della Spagna. Una domanda di aiuto ci avrebbe precluso l’accesso al mercato e probabilmente senza fornirci mezzi sufficienti. La missione del governo non doveva certamente essere solo quella di salvare finanziariamente l’Italia, ma anche di far pesare le idee e la capacità negoziale del nostro Paese per contribuire ad orientare la governance dell’intera eurozona, nel momento in cui avesse dimostrato la capacità di risanamento. Oggi possiamo dire che è stato conseguito l’obiettivo di ridare credibilità e influenza dell’Italia sul piano internazionale. 7.5. Confronto Italia - Spagna Non si tratta solo dei tassi di interesse sui Titoli di Stato spagnoli che sono migliorati più dei nostri, ma anche dalla valutazione che sta uscendo dalla crisi prima di noi. Italia e Spagna nella crisi sono finite nella categoria delle economie periferiche dell’eurozona, mentre fino al 2008 la Spagna era considerata più forte di noi. Ciò perché dal 1992 al 2008 il tasso di crescita media annua del Pil è stata del 3% per loro e dell’1,3% per noi. In quel periodo l’ammodernamento del loro Paese è stato più sviluppato che in Italia anche perché partiva da una base produttiva e di benessere più debole della nostra. Gli investimenti fissi lordi sono cresciuti in media annua del 3,7% per loro e dell’1,2% per noi. E’ noto come la crescita spagnola si è fondata su una bolla bancaria-immobiliare enorme che esplodendo ha causato un grave danno. Infatti la disoccupazione è passata tra il 2008 e il 2013 dall’11,3% al 27% con quella giovanile dal 24,6% al 53,2%. In Italia invece si è passati, nello stesso 13 periodo dal 6,7% al 11,8% e quella giovanile dal 21,3% al 35,3%. Anche il debito pubblico sul Pil è aumentato in Spagna passando dal 40,2% del 2008 al 91,3% nel 2013, incrementi ben superiori a quelli italiani. Nella crisi le scelte tra i due Paesi sono state diverse. La Spagna ha deciso di chiedere l’aiuto del Fondo salva Stati europeo (Esm). Il prestito concesso per ristrutturare il sistema bancario di circa 100 miliardi di euro canalizzato a banche per la loro ricapitalizzazione. Però il prestito va ad aumentare il debito pubblico spagnolo ed incide sul deficit per gli interessi. Si tratta di un buon accordo per la Spagna perché le scadenze per il rimborso vanno fino a 15 anni e i tassi sono ben più bassi di quelli di mercato. Inoltre la Spagna è entrata in una vigilanza della Commissione europea che la sottopone a controlli periodici della Bce e del Fmi. L’Italia invece ha deciso di non chiedere l’intervento del Fondo Esm per diversi motivi: il nostro sistema bancario non era così disastrato, che un prestito ci avrebbe assoggettato a condizioni di ristrutturazione fiscale molto dure portandoci a una recessione più grave e una lesione della nostra sovranità ed inoltre non potevamo permetterci un aumento ulteriore del debito pubblico. In conclusione si può dire che l’Italia è stata meno abile per discutibili orgogli nazionali e instabilità governative. Nove banche italiane contro una sola spagnola hanno sbattuto contro gli stress test della Bce. Poco importa che Madrid è dovuta intervenire direttamente a salvare i propri istituti con un apposito piano, quello che conta per il mercato è che oggi il sistema finanziario spagnolo appare più solido del nostro. Così anche il particolare spread che lega i Btp ai Bonos si adegua raggiungendo livelli di due anni e mezzo fa. Prima lo scarto tra Italia e Spagna era più che altro legato alla differente stabilità dei Governi dei due Paesi, oggi invece la distanza tra Roma e Madrid la si misura più in termini di riforme (effettuate o soltanto promesse) di crescita e appunto di solidità del sistema bancario, presunta io reale che sia. L’Italia paga il mancato intervento a favore del proprio settore bancario, ma al netto degli aiuti europei il nostro sistema è in realtà molto più solido. 7.6 Perché la Spagna è ripartita La Spagna è uscita dalla Recessione, dopo nove trimestri di contrazione il Pil spagnolo è tornato a crescere, anche se di poco: un modesto + 0,1%. La Spagna assieme alla crisi finanziaria mondiale e alle difficoltà sul debito dell’Eurozona ha dovuto sopportare il crollo dell’immobiliare e il crack delle Casse di Risparmio. Vediamo quali sarebbero i motivi per i quali la sua ripresa può essere più rapida rispetto a quella degli altri Paesi, Italia inclusa: Stabilità Politica Il governo Rajoy può contare su un’ampia maggioranza in Parlamento. La legislatura terminerà nel 2015 e quindi ha potuto introdurre misure anche di pesante austerità e varare riforme strutturali profonde senza dover negoziare per mesi. Investitori esteri tornano nel Paese Negli ultimi quattro anni la Spagna ha potuto contare su 105 miliardi di euro di investimenti diretti dall’estero. Risorse fresche per le imprese, acquisizioni, nuovi stabilimenti. Nello stesso periodo l’Italia non ha raggiunto i 70 miliardi. C’è un divario preoccupante: per la Spagna nel 2012 gli investimenti dall’estero hanno raggiunto i 28 miliardi di euro, per l’Italia si sono fermati a meno di 9 miliardi. Chi ha liquidità e chi vuole scommettere su un’attività produttiva preferisce la Spagna all’Italia. I rendimenti dei Titoli di Stato che nel 2012 era superiore al 7%, oggi sono scesi sotto il 4%. La fiducia degli investitori è tornata. Molti grandi gruppi dell’auto, da Ford a Renault, da Peugeot-Citroen a Nissan hanno deciso di potenziare la loro produzione in Spagna. A spingerli sono stati molti elementi: i costi, la tassazione, la flessibilità delle regole del lavoro, la stabilità generale del sistema economico. In soli sei mesi del 2013 ha prodotto 1 milione e 156 mila veicoli, con un aumento del 5,5%. Oggi la Spagna è il secondo produttore in Europa e l’undicesimo nel mondo. L’Italia, nello stesso periodo ha prodotto 360 mila autoveicoli, con un calo del 3,1%. Lavoro ancora più flessibile 14 In Spagna è stato realizzato un sistema di regole che rende il mercato del lavoro molto flessibile. L’intento del presidente Rajoy è di aumentare la flessibilità in uscita nel breve periodo, per dare fiato alle imprese, far ripartire l’economia e creare posti di lavoro. Poi ha di fatto dimezzato i costi di licenziamento per le imprese in difficoltà economica in un mercato del lavoro nel quale non esiste l’art. 18 e l’impresa, anche dopo la decisione del giudice sul reintegro può sempre scegliere di licenziare pagando un indennizzo al dipendente. La ritrovata forza dell’export A trainare il Pil della Spagna è l’export, cresciuta nel 2013 del 3,6% rispetto al 2012. Nello stesso periodo in Italia si è registrata una significativa flessione sia dell’export (-4,4%) e sia dell’import (9,8%) e la contrazione maggiore si è rilevata verso i Paesi extra Ue (-5,4% per l’export e -15,5% per l’import). La Spagna invece ha aumentato le proprie vendite nei Paesi emergenti con un incremento dell’esportazioni dell’8%, del 13% verso la Cina, del 40% verso il Brasile e del 62,4% verso il Sudafrica. 8. La crisi italiana La crisi del debito italiano fu scatenata da tre ragioni combinate: l'alto livello del debito pubblico, in rapporto al PIL; la scarsa o assente crescita economica; la scarsa credibilità dei governi e del sistema politico, spesso apparso privo di decisione o tardivo nell'affrontare le emergenze del paese agli occhi degli osservatori internazionali e degli investitori. L'indebitamento estero del settore privato, il forte deficit della bilancia commerciale, cui va aggiunto il dato dell'enorme debito pubblico pregresso, indussero molti investitori, soprattutto esteri, a nutrire sfiducia verso la capacità dell'Italia di essere solvibile, provocando un deflusso di investimenti e un ritiro improvviso dei capitali. Il 2009 aveva visto un crollo del Pil italiano del 5%, mentre l'indebitamento della amministrazioni pubbliche era aumentato a 80,8 miliardi, il deficit aveva visto un incremento del 2,6%. Molto pesante fu il crollo del settore industriale, calato del 15,1%, come anche gli ordinativi che subirono un brusco contraccolpo. Particolarmente consistente fu il crollo del settore dell'auto, con un calo delle vendite a dicembre del 2008 del 48,9%. Sul fronte del debito pubblico, tra il 2008 e il 2010, nel contesto di una scarsa crescita e di un'economia in stagnazione il debito pubblico italiano aumentò dal 103,6% al 119,0%. A partire dal 2008 la forbice tra buoni del tesoro poliennali e Bund inizia ad ampliarsi, era quasi del tutto irrilevante nel 2006, quando il tasso di rendimento dei titoli italiani rispecchiava un'affidabilità superiore ai Treasuries americani e ai Gilts britannici. Nel 2008 lo spread raggiunse la soglia vicina ai 100 punti base, salendo l'anno successivo fino ai 176 punti base. Fino all'inizio dell'estate 2011 i buoni del tesoro poliennali italiani avevano conservato contenuti rendimenti e buona appetibilità sul mercato, tanto da essere considerati un "bene rifugio", al pari dei titoli dei paesi più solidi dell'eurozona (Germania, Paesi Bassi, Austria e Francia). Per oltre dieci anni dall'introduzione della moneta unica l'Italia aveva potuto collocare a tassi vantaggiosi i propri titoli di stato nonostante le difficoltà riscontrate dall'Italia. In un'asta tenutasi a metà luglio, però, i titoli a 15 anni vennero venduti al 5,90%, il massimo della storia della moneta unica, mentre quelli a 5 anni al 4,93%. L'ampliamento dello spread contribuì a innescare una crisi di fiducia, in una progressività crescente, il differenziale nel 2011 si attestò a 200 punti a fine giugno, a 350 a inizio luglio, a 400 a inizi agosto, e arrivare a 500 ai primi di novembre. Le banche italiane, benché scarsamente esposte sul versante degli asset tossici, erano largamente posseditrici di buoni del tesoro. Il 60% del portafoglio titoli delle principali 5 banche italiane includeva bond italiani. La situazione era resa ancora più seria dal fatto che l'Italia fosse costretta continuamente a emettere titoli per rifinanziarsi, con aste a scadenza settimanale. A fine novembre lo spread continuò a crescere, giungendo alla soglia dei 495 punti, con il titolo triennale che sfiorò l'8% tornando a livelli sfiorati solo nel 1996. Sotto le pressioni di Piazza Affari in caduta e dei rendimenti dei titoli italiani in costante ascesa, il premier Silvio Berlusconi, nella serata del 12 novembre, raggiunto un accordo col capo dello stato Giorgio Napolitano, rassegnò le proprie 15 dimissioni. Il senatore a vita Mario Monti formò un nuovo governo, composto esclusivamente di tecnici. In conseguenza il differenziale btp-bund si ridusse sensibilmente. All'inizio del 2012, dopo la manovra di 20 miliardi di euro attuata dal governo Monti allo scopo di consolidare le finanze dello stato, si assisteva a un miglioramento dell’opinione dei mercati, che vide calare in modo consistente i costi dell’indebitamento italiano in una serie di aste del debito sovrano con buone sottoscrizioni. Lo spread andò incontro a una progressiva riduzione fino al mese di marzo. La riduzione dei rendimenti fu dovuta in particolare all'operazione di liquidità di tre anni della Bce, che alcune banche italiane utilizzarono per acquistare debito sovrano. Sul versante dell'economia reale la situazione continuava a mantenersi però nel complesso negativa, vedendo la disoccupazione giovanile in costante aumento, un considerevole calo dei consumi, una riduzione del credito dalle banche. Nel febbraio 2012 la BCE elargì un prestito di 530 miliardi a tre anni al tasso dell'1% alle banche europee, nell'intento che tale somma potesse stimolare la ripresa economica col sostegno da parte degli istituti di credito a imprese e famiglie. A settembre il presidente della BCE Mario Draghi annunciò un nuovo piano di quantitative easing sul mercato secondario. 8.1 Il problema dell’Italia è fermare il proprio declino storico. E’ necessaria una lettura storica alla profondità della crisi e proprio l’assenza di una visione chiara è il peccato grave che si può rimproverare al governo Renzi. In Occidente esistono due principali modelli di crescita. Quello anglosassone si basa su capacità di influenza internazionale: politica monetaria/finanziaria espansiva, liberismo interno, investimenti in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie, contenimento salariale, elevata concentrazione della ricchezza. Invece il modello tedesco si fonda su: forte compattezza istituzionale e sociale, politica monetaria restrittiva, centralità dello Stato nel fissare le priorità sistemiche, orientamento all’export, alta tecnologia, relazioni industriali che permettono una più equa distribuzione del reddito. Per entrambi l’aumento della produttività è un presupposto per la crescita, ma mentre il primo si fonda sulle virtù liberali, il secondo richiede disciplina e compattezza. In Italia la produttività ha smesso di crescere dalla seconda metà degli anni 80, da allora lo Stato è andato avanti con svalutazioni e debito pubblico. La Banca d’Italia ha dimostrato che l’enorme massa di risparmio accumulata negli anni del boom economico venne impiegata per finanziare non i nuovi investimenti ma il debito pubblico. Lì abbiamo perso il treno della crescita. L’entrata nell’euro prima e la crisi dei mercati finanziari poi hanno fatto saltare l’equilibrio di sopravvivenza del nostro modello. Monti ha cercato di assoggettare il Paese alla logica tedesca della disciplina, ma con risultati negativi sia perché noi non siamo la Germania e sia perché occorreva operare per un lungo periodo e perché ci voleva una grande forza politica. Adesso la forza politica c’è ma manca la direzione. Ciò che serve all’Italia e alla UE è un grande piano di investimenti. Sul versante interno occorre spiegare al Paese che la crescita senza aumento della produttività non si va da nessuna parte. Lo Stato deve creare le condizioni perché chi dà un contributo tangibile alla produzione di valore e ricchezza possa lavorare ed essere premiato, tornando poi a investire in infrastrutture e alcuni comparti strategici. Occorre poi dichiarare guerra a tutte le oligarchie che chiudono la società italiana, liberare il Paese da mille cupole burocratiche, localistiche, corporative, accademiche, sindacali che soffocano le sue forze generative. Quindi premiare l’investimento, la ricerca, l’innovazione, la flessibilità, la professionalità. 8.2 Innovazione La società Instagram nata nel 2010 ha 30 milioni di utenti e solo 13 dipendenti, la Kodak nel 2012 è finita nel dissesto finanziario ma si è salvata rifocalizzando la produzione nella tecnologia per la stampa. Il senso di questi due esempi è che se la new economia è a scarsa intensità di manodopera e quindi non promette molto in termini di occupazione, non ci sono comunque alternative, perché restando ancorati al passato si rischia l’estinzione come dinosauri. L’Innovazione sembra essere la causa del recente problema occupazionale, perchè le imprese tecnologicamente avanzate generano una domanda di lavoro inferiore. Il problema è governare l’innovazione in una logica di occupazione. L’innovazione seppur contribuendo poco in termini occupazionali diretti, genera un indotto di domanda per servizi tradizionali e per ogni posto di lavoro creato in centri di eccellenza innovativi ne nascono cinque in altri settori. Chi non innova invece perde. Nei 18 Paesi europei che 16 sono rimasti indietro il problema occupazionale è più alto. Tra questi c’è l’Italia che è 49esima per competitività; l’innovazione non è un’opzione: per crescere e creare lavoro non ci sono alternative. Anche se esistono singoli casi di eccellenza, dobbiamo focalizzare più energie nei settori innovativi che stanno crescendo in altri Paesi: robotica, medicina avanzata, nanotecnologie, ecc. Tutti devono rimboccarsi le maniche: governo, istituzioni finanziarie, media, imprese, famiglie e UE per accelerare le riforme sul mercato del lavoro, alla digitalizzazione, riforma della scuola e della PA. Lo sforzo deve investire non solo la politica e il governo ma anche le imprese, i media e le famiglie: le iniziative sporadiche e separate non bastano. Tra gli italiani c’è scarsa consapevolezza del ruolo dell’istruzione e dell’innovazione. Soltanto il 20% delle famiglie considera un’istruzione di qualità come priorità per il rilancio occupazionale e oltre il 60% ha scartato l’idea di mandare i figlia a studiare all’estero. Le famiglie pongono l’istruzione di qualità dei propri figli come un dato quasi secondario per ottenere sviluppo e crescita. Mentre l’istruzione appare come il primo pensiero nei cittadini di Belgio, Francia, GB e Germania, in Italia appare solo all’ottavo posto. Gli italiani si chiamano fuori demandando la soluzione del problema occupazionale allo Stato (burocrazia, incentivi fiscali) e alle banche (credito).. L’87% sono preoccupati della situazione economica dell’Italia (51% la media europea). Il 44% degli italiani accetterebbe un salario minimo tra i 600 e 800 euro al mese (in Francia il 35% si aspetta un salario d’ingresso tra 1.300 e 1.400 euro al mese). Siamo diventati un popolo di pessimisti. La fascia dei più ricchi e di chi non è ricco ma ragiona da ricco istruisce così il proprio figlio: primo passo l’educazione sociale, il sapersi comportare, la conoscenza del bello; secondo passo le lingue e la capacità di destreggiarsi in luoghi diversi del mondo; terzo passo e più importante un’istruzione di grande qualità, che non è una spesa ma un investimento. Un qualsiasi lavoro immediato è visto come una grande opportunità. L’Italia è il campo di una battaglia mediatica ostile a scuola e istruzione (da noi l’istruzione obbligatoria è di 14 anni, mentre in Giappone è di 21 anni. Negli USA su 100 giovani in età universitaria ben 72 sono iscritti ad un Ateneo, in Italia appena 34. Molti si pongono la domanda “a cosa serve sfornare dottori su dottori?” Serve alla vita quotidiana, a sé stessi, a capire il mondo, a vivere meglio. Infatti un ventenne di oggi ha un’attesa di vita di 530.000 ore di vita e solo 80.000 saranno dedicate al lavoro. Il resto andrà al riposo, al cibo, al tempo libero, alla costruzione della personalità. Ecco perché l’istruzione è una opportunità, sicuramente per lo sviluppo del Paese, ma anche personale del singolo individuo. 8.3. Uscire dall’Euro ? Troppo spesso si tende a fare della Ue il bersaglio facile dei problemi di qualsiasi Paese. L’euro è il capro espiatorio della mancata crescita e il simbolo del fallimento. Si dimentica che è stato grazie alla moneta unica e ai tassi accessibili che almeno due milioni di italiani hanno potuto indebitarsi e comprare una casa. Occorre cambiare le regole che legano i 28 Paesi quando esse non funzionano a dovere. Ma non deve essere un messaggio di “liberi tutti” e delegittimare Bruxelles che avrebbe solo l’esito di un disfacimento e non di un rafforzamento dell’Europa. Ci si avvierebbe verso la destabilizzazione nemica sempre dei cittadini. Sottolineare i punti deboli nei patti europei non vuol dire eluderli ma dobbiamo delinearne di più efficaci. Molti studiosi sostengono che uscire dall’Euro è pericolo perché “prima dell’Euro deficit di bilancio elevati e crescenti avevano solo fatto aumentare a dismisura il debito, di cui tuttora paghiamo gli oneri gravosi, senza promuovere una crescita stabile. I tassi d’interesse erano arrivati a livelli proibitivi per i mutui delle famiglie e il credito alle imprese”. Vediamo se queste tesi sono accettabili: - “Deficit elevati e crescenti” al tempo del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, nel 1981, il rapporto tra debito pubblico e Pil era pari al 60%. Solo dopo il divorzio che rendeva la Banca d’Italia autonoma dal Tesoro, cioè la sollevava dall’obbligo di comprare Titoli di Stato alle condizioni di interesse che stabiliva il Tesoro, il debito inizia a crescere. - “Senza che i deficit promuovessero una crescita stabile” le politiche della Banca d’Italia nel dopoguerra furono considerate come esempi di ottima pratica economica in Europa e nel mondo. Sotto l’abile guida di Governatori come Einaudi, Menichelli, Carli, Baffi e Ciampi, tra il 1950 e il 17 1990, l’economia italiana non andò male. Anzi, la mitica Germania, in quel periodo crebbe del 4,05% in media, la Francia del 3,86%, mentre l’Italia fece registrare una crescita media del 4,36%. - “I tassi di interesse erano arrivati a livelli proibitivi” ma parliamo di tassi Nominali, mentre in politica economica quello che conta sono i tassi Reali, cioè tasso nominale meno l’inflazione. E in quegli anni l’Italia ha beneficiato di una condizione dei tassi reali ottimale, la stessa di cui godono oggi gli USA, la GB, Germania e Giappone, cioè tassi reali vicino allo zero o addirittura negativi. Oggi abbiamo un tasso reale sul BTP a 10 anni vicino al 2-3%, tra i più alti del mondo, superiore perfino a quelli della Turchia che pagano un tasso nominale superiore al 10%. In conclusione uscire dall’Euro sarebbe una follia. In gran parte degli economisti è ormai prevalente la convinzione che la moneta unica e le regole che la disciplinano siano state un errore, e che l’austerità che esse inducono condannino l’intera Europa ma soprattutto i Paesi meno efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Potremmo uscire da questi trattati ma non risolverebbe il problema della scarsa efficienza del nostro sistema e le riforme sarebbero ancora necessarie se si vuole una crescita non effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento che consegue ad ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui lavoratori che è quanto ora si sta facendo. Se alcuni importanti Paesi volessero uscire dalla moneta unica si avrebbe una catastrofe finanziaria, con un vortice delle fughe di capitali, della speculazione, dei fallimenti bancari. Per l’Italia sono poco adatte misure di rafforzamento rapide e risolutive, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i comparti del nostro sistema. E’ da più di 40 anni che l’Italia vive alla giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di futuro ma diverse modalità di ottenere, a spese dello Stato, un consenso elettorale nel presente. Quando poi i primo otto anni della moneta unica ci regalarono risorse eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste furono sprecate per ottenere consenso non per mettere in sicurezza il Paese. E poi nel 2008 è arrivata la crisi finanziaria americana e la festa è finita. Non esiste un singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie da affrontare non con il bisturi ma a sciabolate. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico e privato, nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in quasi tutti i comparti della P.A., nella legislazione del lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno, ecc. ecc. tutte dovute all’assenza di un progetto futuro. La difficoltà nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi, l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito inducono il politico, che voglia mantenere un continuo consenso elettorale, a strafare con annunci e presenzialismo mediatico. LUTTWAK (economista di fama mondiale) scrive quanto segue: l’Italia deve uscire dall’euro. Sono sempre di più quelli che cominciano a dire che l’Italia debba uscire dall’euro. L’Italia è uno Stato parassitario, è come un asino che ha sulla schiena un peso enorme, tanto che ormai cammina a rilento, quella soma enorme (cioè la macchina pubblica) farà piegare le gambe alla povera bestia. Alcuni dicono che il debito che il debito pubblico non è un problema perché anche il Giappone ce l’ha. Però il debito giapponese lo si vede a occhio nudo: megainfrastrutture, istituzioni moderne, capitale umano altamente formato. Invece il debito italiano è svanito nelle pance e nelle tasche dei politici. L’entrata dell’Italia nell’euro è stato un errore enorme, è stato voluto dai politici per sentirsi più europei Prodi dovrebbe ammetterlo di aver fatto un grave errore. Altri politici vedevano alcuni vantaggi, uno dei quali era di realizzare una disciplina monetaria in modo che i Paesi del Nord Europa ci controlleranno e ci imporranno dei limiti, di renderanno fiscalmente responsabili. Noi eravamo un Pese inefficiente che però cresceva più della media europea, c’era una Confindustria debole e un Sindacato forte, vi era una forte svalutazione che si portava via i risparmi. Dobbiamo uscirne perché con l’euro non c’è e non ci sarà crescita e ci sarà maggiore disoccupazione. Il debito è di oltre 2.000 miliardi e l’Italia per il Fiscal Compact deve ogni anno ridurlo di 100 miliardi circa; ciò significa che non si deve fare deficit ed inoltre si devono trovare risorse pari a venti volte l’IMU pagata. Si parla inoltre di una Patrimoniale ma per rimanere nell’Europa ci vorrebbe la Gestapo a individuare dipinti, arazzi, i patrimoni privati, invece limitandosi ai conti in banca (come fece Amato nel 1992) si fa un’ingiustizia perché si colpiscono i soldi del pensionato. Con un debito così e l’aumento minimo dei tassi si va verso il 18 fallimento perché: devi pagare gli interessi, non fare deficit e tagliare 100 miliardi all’anno. IMPOSSIBILE. Ci si culla sul pensiero che alla fine l’Europa salverà l’Italia Renzi vuole che l’Europa consenta di non calcolare gli investimenti ma ciò non ha alcun valore perché non si può aiutare un Paese che paga 450.000 euro all’anno di pensione a un signore in Sicilia (l’ex commissario ai rifiuti), questo Stato non ha diritto a un centesimo. A Bagheria (Pa) c’è il 40% di disoccupazione. E’ un FALSO perché il 60%lavora per l’inutile Regione, per la Provincia inutilissima e per il Comune oberato da centinaia di dipendenti. Fino agli anni 60 Bagheria prosperava con l’export di limoni, ma da quando si è nell’eurozona quel limone non è più concorrenziale con quello che viene dal Marocco. Per Berlino l’euro è stato un affare perché la Germania si è salvata, se ci fosse ancora il Marco sarebbe salito alle stelle bloccando le sue esportazioni, invece con l’euro ha potuto continuare ad esportare senza danni guadagnando almeno 1.000 miliardi! 8.5 Il braccio di ferro con Bruxelles per certi versi è ridicolo perché ruota sull’aggiustamento dei conti pubblici italiani dello zero virgola, che costerebbe un paio di miliardi, su un bilancio che conta 835 miliardi di spese e 786 di entrate. Concentriamo la nostra attenzione su due misure chiavi della prima manovra Renzi: - 5 miliardi di taglio dell’Irap, con un risparmio medio per le aziende di circa 700 euro annuo per ogni dipendente - 1,9 miliardi per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Due misure che si sommano alla conferma degli 80 euro per dieci milioni di dipendenti, agli aggiustamenti a favore delle famiglie e delle partite Iva a basso reddito. Ma queste misure non basteranno a rilanciare la crescita se non saranno soddisfatte due condizioni: - rilancio degli investimenti con completo e miglior uso dei fondi strutturali europei. - la credibilità dell’Italia sulla capacità di onorare l’enorme debito pubblico e di ridurlo. Infatti il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali. Le privatizzazioni e le dismissioni immobiliari restano al palo. Lo stesso governo prevede una riduzione degli investimenti pubblici. Il debito pubblico salirà ancora, dal 127,8% del 2014 al 129,7 % del 2015Pil, togliendo i 60,3 miliardi che l’Italia ha tirato fuori per finanziare i fondi europei salva Stati di cui hanno beneficiato Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro. Il Ministro Padoan dice che questa crisi è forse la peggiore dell’era capitalista, ma i numeri della sua legge di Stabilità non sono da emergenza, sono da ordinaria amministrazione. La crisi italiana non è solo una crisi di fiducia, è soprattutto una crisi di investimenti; si investe poco perché non si ha fiducia. Ma anche perché mancano infrastrutture, tecnologie, laureati, e forse anche voglia di competere, di sacrificarsi, di rischiare. In una situazione così bloccata solo una massiccia iniezione di liquidità potrebbe far diminuire il valore dell’euro, fin troppo forte per il nostro sistema produttivo, e far aumentare l’inflazione troppo bassa per il nostro debito pubblico. E solo grandi investimenti finanziati dall’Europa, dallo Stato e dagli enti locali possono creare lavoro e anche migliorare i parametri della nostra economia: perché puoi tassare e tagliare finchè vuoi, ma se il Pil non riparte qualsiasi parametro tenderà sempre a peggiorare. Nel 92 Amato tra tagli e tasse muoveva 90.000 miliardi per salvare il bilancio pubblico e la Lira. Oggi con tassi relativamente bassi e una moneta fin troppo forte si muovono 20 miliardi di euro, quasi tutti per mantenere provvedimenti già decisi, come gli 80 euro. Ma non bastano. Che ci facciamo con un miliardo qui ed uno là, un contributo alla scuola ed uno ai Comuni, un miliardo e mezzo per i nuovi ammortizzatori sociali ai disoccupati, vale a dire un decimo di quello che servirebbe? Prodi mise 7 miliardi per tagliare il cuneo fiscale, ma aumentò l’Irpef ai ceti medi, per cui molti lavoratori dipendenti non ebbero alcun beneficio, anzi dovettero pagare più tasse. Con Monti abbiamo finanziato il salvataggio delle banche altrui senza avere in cambio la flessibilità che ci serviva: il risultato è stata la Deflazione. Sono quindi manovre forse per l’avvenire, non per la ripresa qui ed ora. 8.5 Il declino economico 19 Il degrado etico e l’inefficienza sono connessi? Certo: la corruzione drena risorse, come l’evasione fiscale, siamo terz’ultimi in Europa quanto al tasso di legalità. La questione coinvolge sia il codice penale e sia il codice morale. Quanto contano in Italia le qualità professionali, le competenze, le esperienze? Ben poco, basta vedere il caso di un dirigente genovese rinviato a giudizio per inondazione colposa e nel contempo viene premiato dal Comune, così come il caso di una signora eletta al Csm senza averne i titoli. Ma i titoli vanno a rotoli quando il bando per la direzione del Museo egizio di Torino non preveda la conoscenza dell’egittologia o quando la gestione di Pompei viene sottratta agli archeologi. Chi decide è la politica e qui conta l’appartenenza e non la competenza: il Garante della privacy è un dermatologo, agli Affari regionali c’è un farmacista, il sottosegretario all’Istruzione è una imprenditrice di moda, il vice ministro dell’Agricoltura è un laureato in lettere. La Commissione Ambiente del Parlamento è un odontoiatra. Nel 2006 un’indagine a livello europeo ci poneva al tredicesimo posto su tredici (ultimi) per la capacità di utilizzare il nostro capitale umano. La crisi era già iniziata, benchè non lo sapessimo, tuttavia adesso lo sappiamo: l’incompetenza produce inefficienza e l’inefficienza costa cara. La Stagnazione. Il contrasto alla stagnazione passa da formazione, riforma del welfare e coinvolgimento dei sindacati. Ma un quadro politico instabile spinge i leader a cercare consensi immediati. L’indicatore più preoccupante della crisi è la lunga stagnazione della produttività del lavoro. Tra le cause prossime vi è certo la carenza di investimenti, ma vi è anche la ridotta capacità di valorizzare le conoscenze e l’impegno dei lavoratori. Nei Paesi scandinavi e in Germania si è sperimentata, in forme diverse (a volte con grandi coalizioni) una via condivisa di riorganizzazione basata su tre pilastri: ha coinvolto le organizzazioni sindacali, senza delegittimarle, ma spingendole a innovare e contribuire alla crescita della produttività; ha puntato a una riforma del Welfare per ridurne i costi e a una riforma del mercato del lavoro per renderlo più flessibile, sperimentando nuove forme di protezione sociale per chi perde il lavoro; infine investendo in formazione ha cercato di legare la mobilità del lavoro al rafforzamento dei nuovi settori ad alta tecnologia e con produzioni di qualità, più protetti dalla concorrenza di costo dei Paesi emergenti. In Italia è soprattutto l’instabilità del sistema partitico che ostacola una soluzione di questo tipo. Entrambe le forze principali sono, in forme diverse, partiti deboli con leader forti che condizionano le scelte ai loro interessi. Persiste l’esigenza di consolidamento elettorale a breve del Presidente Renzi che entra in conflitto con i tempi lunghi e con i rischi elevati di realizzazione efficace di una via condivisa. Ciò sembra riflettersi su due terreni di azione dell’attuale governo. Anzitutto nella scelta di provvedimenti per rilanciare l’economia che devono tenere sempre d’occhio anche la eventuale resa elettorale immediata. Da qui la preferenza per interventi distributivi a sostegno della domanda (bonus, sgravi, ecc.) che possono essere utili per agevolare la ripresa ma aggravano soltanto i conti pubblici e soprattutto non toccano il nodo della produttività. Ma questa non è una strada efficace per il rilancio della produttività e la ripresa dello sviluppo, perché il rilancio della produttività non dipende solo dal maggiore spazio per il mercato ma da una fiducia vera che implica collaborazione e condivisione e richiede la valorizzazione del lavoro non solo come fattore di costo ma come chiave per il rilancio della produttività. Le imprese esprimono varie sfumature di scetticismo, denunciano la scarsa competitività e lasciano aperta la strada a possibili delocalizzazioni. E’ un segnale di allarme e un monito ad agire, sia a livello territoriale che nazionale. A giudizio delle imprese gli interventi più immediati necessari riguardano principalmente tre aree: infrastrutture, energia e burocrazia. 8.6 Il governo e gli enti locali Regioni Il governo e le regioni stanno cercando un accordo sui tagli previsti dalla legge di stabilità agli enti locali, circa 6 miliardi di euro che i governatori dovranno trovare riducendo la spesa sanitaria e quella per i trasporti o aumentando ticket e tariffe per uguale importo. Della sanità si parla ogni giorno, i tagli ai trasporti locali sembrano invece non importare granchè a questo governo, quasi che lo sviluppo della mobilità sostenibile nelle nostre città fosse un problema di sprechi. Non è così, la mobilità è una fondamentale leva di competitività di un Paese, dall’efficienza del sistema trasporti 20 (pubblici, privati, integrati) dipende anche la capacità di produrre ricchezza, di attrarre investimenti e flussi turistici dall’estero. Manca una politica di indirizzo forte a livello centrale, in molte regioni non si spendono i fondi strutturali che puntualmente Bruxelles si riprende indietro, per incapacità e insipienza. Per alcuni sindaci e assessori illuminati (quelli di Milano, per fare un esempio) che si fanno bastare le risorse attuali, lasciando spazio ai privati e rinnovando a costo zero, ce ne sono altri fermi al palo. Abbiamo un piano nazionale del trasporto fermo al 1997, contratti di servizio tra enti locali e aziende in scadenza, privati anche stranieri che vorrebbero entrare sul mercato dei trasporti locali ma chiedono da anni regole certe ed uniformi. Serve una dose di politica economica e industriale mirata e moderna. Comuni Scintille tra Governo e Comuni sulla legge di stabilità. Fassino, presidente dell’Anci ha lanciato un allarme: la Finanziaria 2015 pesa non per 1,2 miliardi ma per 3,5 miliardi sui Comuni. Ciò creerà problemi di sostenibilità e senza correttivi le città sono a rischio dissesto. I Comuni hanno già contribuito con oltre 17 miliardi, ma chiedono che lo sforzo richiesto sia sostenibile, sono quindi necessari correttivi alla legge di stabilità. Inoltre è necessario ripristinare il fondo per il finanziamento delle linee metropolitane nelle grandi aree urbane anche per sostenere una politica di crescita. 8.7 Il sistema bancario italiano Per anni politici e banchieri ci hanno garantito che il nostro sistema bancario era il più solido di tutti. La smentita arrivata dall’esame della Bce si può dunque spiegare in due modi: o i problemi delle banche italiane sono stati sottovalutati o sono stati sopravvalutati dall’Europa. Oppure tutte e due le cose insieme. Delle nostre colpe parlano i numeri: siamo la maglia nera, con due grandi istituti chiamati a rafforzare il loro capitale; un terzo dei miliardi che mancano sono addebitati a noi, la più antica banca del mondo, Monte dei Paschi, è oggi la più debole d’Europa. Avessimo ricapitalizzato prima, invece di sbandierare ottimismo, forse avremmo anche avuto più credito disponibile in questi anni. Giudicare la solidità di banche di una nazione che ha perso un decimo del suo Pil in sette anni è infatti cosa ben diversa che giudicare le banche tedesche. Siamo sempre sotto pressione, è un po’ quello che accade anche ai nostri conti pubblici. Renzi ha dovuto strappare quasi con la forza uno sconticino dello 0,2% (la Commissione voleva lo 0,5%, e il governo ha accettato lo 0,3%). Ricordiamo che a fare il peso specifico di un Paese sono: crescita economica, credibilità internazionale, proiezione estera, forza militare, ecc. Ogni debolezza amplifica le altre: l’economia reale condiziona i test sulle banche, questi provocano il crollo delle banche, che a sua volta influenza l’economia reale. Per esempio stimolando i lavori contro il dissesto idrogeologico in Italia si creerebbero 7 mila nuovi posti di lavoro solo al Sud. Il rischio frane e alluvioni interessa praticamente tutto il Paese con 6.633 Comuni e oltre 6 milioni di cittadini in aree a rischio idrogeologico. Il rilancio dell’occupazione potrebbe avvenire anche attraverso gli interventi contro il dissesto. Per esempio, solo al Sud servono 471 interventi per 1.380 milioni di euro (finanziabili con mutui quindicennali) e ne potrebbero nascere circa 6.900 nuovi posti di lavoro. Bonifiche gonfiate, truffe da 500 milioni di euro, malaffare che estende i suoi tentacoli dal nord al sud, uno stato di emergenza concepito per ottenere denaro dal Ministero dell’Ambiente per bonifiche mai eseguite, progetti di risanamento faraonici ma irrealizzabili. Fiumi di denaro, circa 100 milioni erogati per la Laguna di Grado, 230 milioni per il risanamento da inquinamento di mercurio, e così via per decine e decine di altri progetti tecnicamente improponibili ed economicamente insostenibili. 8.8 Investimenti La chiave di volta per far ripartire la crescita è aumentare le risorse per gli investimenti. Il giudizio delle imprese sulla manovra è sostanzialmente positivo perché vi sono previste oltre ai tagli alla spesa anche misure per lo sviluppo. Importante è l’azzeramento del costo del lavoro dal calcolo dell’Irap e la decontribuzione del contratto a tempo indeterminato per tre anni per i neoassunti. La legge di stabilità ha previsto circa 220 milioni per il 2015, 400 per il 2016, 480 per il 2017 e 510 per il 2018 in favore del credito di imposta automatico sulle R&I (risorse e innovazione). Ma le imprese 21 non sono soddisfatte completamente perché la norma prevede che si debba trattare di investimenti aggiuntivi rispetto a quelli realizzati nel triennio 21012-2014, che penalizza le imprese che durante la crisi hanno fatto sforzi per rinnovare e stare al passo. Occorrono più risorse anche per gli investimenti in infrastrutture troppo limitate nel provvedimento Sblocca Italia. Si deve seguire una spending review più determinata e un taglio più incisivo alle partecipate pubbliche. Un altro argomento importante per le imprese è la tassazione degli immobili e macchinari. L’Imu che gli imprenditori pagano sui capannoni oggi è consistente, frutta allo Stato oltre 4 miliardi di euro ed è deducibile dalle imposte per il 25%, se ne chiede la deducibilità totale. La manovra deve essere collegata ad un piano di riforme, in particolare quella del mercato del lavoro, sulla delega fiscale, la riforma della Pa e quella della Giustizia. Quasi uno studente su due non prosegue gli studi dopo il diploma per mancanza di risorse e perché non ritiene che essere laureati aiuti realmente nella ricerca del lavoro. Alla scuola è riconosciuto un ruolo informativo ma non di orientamento effettivo; nove su dieci chiedono di intensificare le esperienze in azienda durante il percorso scolastico e ritengono sia ancora troppo forte il gap scuola-impresa. All’indagine ha partecipato un campione di circa 1.500 under 29, di cui il 56,3% era maschile, il 68,4% era in possesso di diploma e 26,3 % di laurea. 8.9 Degrado morale e civile Ma il decadimento dell’Italia non è solo nel campo economico, ma anche moralmente, è un’Italia maleducata e violenta. Le statistiche ci informano che i reati sono in calo, ma in realtà la stragrande maggioranza non vengono neppure più denunciati. Chi viene preso non viene per niente condannato e la fa franca, al massimo riceve una pena simbolica (perfino sospesa). Non ci sono statistiche che segnalino il degrado dei rapporti umani, l’aggressività sempre pronta ad esplodere (anche per futili motivi), l’inaridirsi delle relazioni tra le persone, la maleducazione dilagante che confonde la cortesia con la debolezza. L’umiliazione della violenza subìta, la paura, il senso di violazione della propria persona o della propria casa sono ferite difficili da sanare. Basterebbe innanzitutto applicare la legge (dai magistrati) che prevede che chi aggredisce un altro essere umano finisce in carcere, ma in Italia si tollera tutto, numerosissimi sono i casi denunciati dai Media. Ma non è soltanto un problema di repressione, il degrado è dentro di noi. Sta crescendo una generazione maleducata, prepotente (con le eccezioni che confermano la regola) per colpa dei padri sempre e sempre schierati con i figli, pronti a scusare i loro reati come semplici “marachelle”. Non a caso chiudono i luoghi (cinema, teatri, locali storici) in cui per secoli gli italiani avevano vissuto la loro vita sociale. Chiunque su un autobus o un treno, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggerei, aggredire il personale. Per strada può distruggere i cassonetti e qualunque altro arredo urbano. In ogni caso l’impunità è garantita. Abitare in una casa popolare vuol dire spesso essere costretti a stare barricati in casa perchè c’è sempre un prepotente pronto a usare la violenza per impadronirsene. Inoltre l’Italia non è più UN solo Paese: ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici e mezzi di trasporto di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani. Non dimentichiamo le cricche politiche locali che fanno ciò che vogliono, usano a loro piacimento enormi risorse a disposizione. Poi, casualmente, qualche Procura interviene. Questo e molte altre cose eguali o peggiori, è il Paese reale. Una gran parte di italiani non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe e fatte rispettare da una vera autorità. Non riesce più a credere che esista uno Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che possono contare solo su se stessi, che nessuno gli farà trovare un lavoro, nessuno gli darà una pensione decente, ad assicurargli la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica. Nessuno controlla e dirige realmente più niente, nessuno è davvero al timone del Paese. E’ la sensazione di questo vuoto che più contribuisce ad esasperare ogni egoismo e a incrinare ogni fiducia. Si deve ricostruire un’autentica comunità politico-statale. Le radici di queste difficoltà riguardano la tenuta morale della società prima ancora che l’economia. Di fronte alle difficoltà dell’economia e del lavoro, cresce l’erosione del tessuto morale. Ognuno si 22 rinchiude nel proprio “particulare”, cerca di adattarsi e di difendersi in ogni modo, a volte anche aggirando o violando la legge (corruzione, criminalità, ecc.). Cresce anche la sfiducia nel futuro e si manifesta con la volontà di non intraprendere, di non assumersi rischi e quindi di non lavorare insieme con altri, di cooperare. L apolitica non sembra in grado di contrastare questa deriva anche perché è essa stessa affetta da un’erosione morale, è sempre meno mossa da una visione degli interessi collettivi, ma delle convenienze di singoli leader. Lo sforzo immane che richiede la ricostruzione morale e istituzionale del Paese è al di là delle possibilità di questa politica debole. Ma siamo in presenza anche di un forte Degrado Civile. L’Italia cade a pezzi, il suo territorio è perennemente in pericolo. In qualunque parte della Penisola bastano appena 24 ore di pioggia intensa per allagare interi quartieri di città, fa chiudere le scuole, fa franare tutto ciò che può franare, fa interrompere ogni genere di comunicazione. Eppure tutti i rischi erano a tutti ben noti, eppure erano stati stanziati i fondi per i lavori necessari e persino dopo l’esecuzione dei lavori stessi. Non c’è niente da fare: i muraglioni si sbriciolano, gli argini non tengono, le fogne saltano, i ponti crollano! 8.10 Cosa si deve fare e cosa si sta facendo? L’Italia è la terza economia dell’eurozona ma con un debito pubblico incomprimibile anche per la cronica assenza della crescita ha assoluta necessità di una scossa. La Commissione europea a luglio evidenziava la necessità di ridurre il carico fiscale sul lavoro, di creare un ambiente più favorevole per le imprese e riformare il mercato del lavoro. Un più graduale processo di riequilibrio del debito pubblico può aiutare ad evitare una spirale recessiva della domanda ma i margini di manovra che ne derivano dovranno essere utilizzati per rilanciare la crescita ed innalzare il potenziale di sviluppo nel medio e lungo termine. Ciò vuol dire che la Legge di Stabilità appena varata va nella giusta direzione. Si usa la scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani. Con il Tfr in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. Poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero o se in Europa tutti i Paesi, tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15%, la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30%, il gap tecnologico con i Paesi emergenti (cioè il tempo che occorre a loro per costruirsi una tecnologia simile alla nostra) è crollato da undici a sette anni. Ci siamo mangiati, a partire dagli anni 90 più del 30% dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione. Ci domandiamo quanto è costata la liquidazione dell’Efim e se abbiamo fatto bene a cancellare l’Iri, scontiamo privatizzazioni sbagliate, abbiamo ostacolato le creazione di grandi imprese nei settori agroalimentari, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazioni. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che forse potranno soccorrere la congiuntura, ma per il sistema produttivo sono irrilevanti. Per fortuna il sistema in cui siamo integrati ci obbligherà ad un processo doloroso di ristrutturazione: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico ed i capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. E il governo? Dovrà aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà, dovrà favorire il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguare il sistema del welfare, sostenere lo sviluppo tecnologico, incalzare gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. Il pacchetto di nuove misure della legge di stabilità porterà l’aggiustamento strutturale oltre gli 0,3% punti di Pil nel 2015, migliorando il cammino verso l’obiettivo di bilancio di medio termine. 23 Le Ricette per far uscire l’Italia dalla crisi. Per uscire dalla recessione e crescere l’Italia ha bisogno di Riforme strutturali, di Stimolare la domanda attraverso politiche monetarie e fiscali rapide ed incisive. Il crollo della domanda interna e in parte anche estera sta uccidendo l’Italia che dal 2007 al 2014 ha perso oltre il 10% del Pil. Se non saremo in grado di rilanciare la domanda, potremo fare tutte le riforme strutturali che vogliamo ma non riusciremo a riprenderci. E’ evidente che prima si devono affrontare gli aspetti strutturali che in Italia si chiamano. Riforma Fiscale, Riforma della Pubblica Amministrazione, Riforma della Giustizia senza sceglierne una a discapito delle altre perché sappiamo che ci vogliono che ci vogliono anni per vedere i risultati delle politiche di riforma. C’è bisogno di completare le riforme iniziate per essere credibili in Europa, senza dimenticare anche la Riforma Elettorale, la Revisione del Titolo V della Costituzione per riaccentrare nello Stato i poteri trasferiti alle regioni (come sul turismo). Per creare un clima economico più favorevole e creare soprattutto posti di lavoro è fondamentale costruire l’ambiente adatto a far decollare lo spirito imprenditoriale, dobbiamo lavorare sulla formazione, sulla ricerca e lo sviluppo. Renzi ha espresso molte e dure invettive contro i politici da rottamare, contro i burocrati, contro i sindacati, contro i magistrati, contro i salotti buoni, contro i club contrari alla innovazione, contro Bruxelles. Ma ha esposto pochi ragionamenti su come intervenire nel profondo sul fenomeno della evasione fiscale, del sistema degli incentivi alle imprese, sui mercati chiusi dalle corporazioni professionali, sul sistema del socialismo municipale e delle migliaia di società partecipate, sui capoccioni locali che drenano risorse pubbliche solo per auto riprodursi. Ognuna di queste battaglie sarebbe difficile e dura, ma ognuno di questi problemi incide sulla capacità di ripresa dell’Italia molto più delle ferie dei magistrati e del sistema di elezione dei senatori. Infine deve convincere gli italiani che devono cambiare anche loro. Il peso della tassazione su imprese e banche è enorme, il peso altrettanto abnorme di una burocrazia ossessiva, chiudono spazi vitali di crescita. Questa realtà è figlia di colpe nostre e di colpe europee, che hanno origine in un eccesso di rigore. E’ necessario attuare investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, una vera azione di sviluppo che promuova la qualità e il valore della nostra manifattura. Si deve cambiare la macchina dello Stato, centrale e territoriale, ridurre almeno il tasso di oppressione che subiscono imprese e cittadini. Si intervenga con serietà sulla macchina della Giustizia civile, amministrativa, fiscale e penale. Si faccia di tutto perché l’accesso al credito torni ad essere garantito alle piccole e medie imprese, non devono essere più tollerate una spesa pubblica improduttiva, i privilegi e le prepotenze a discapito dei giovani di valore. E’ senza dubbio positivo uscire dal bicameralismo perfetto e dire al mondo che il sistema italiano garantisce finalmente la governabilità. Guai, però, a ridare troppi poteri al nuovo Senato e a quelle stesse Regioni che con il nuovo Titolo V si vogliono ridimensionare. La Strada Obbligata conto l’Austerità. Si prevede che nei prossimi anni la crescita del reddito italiano sarà a un ritmo medio intorno all’1%, ben al di sotto dei tassi di interesse di medio-lungo termine. Quando il tasso di crescita è sistematicamente inferiore a quello di interesse, la situazione del debitore tende a peggiorare e rischia di diventare instabile. Gli interessi sul debito si accumulano. L’Irlanda, la Spagna e il Portogallo sono già usciti da questa situazione. L’Irlanda che aveva fino al 2013 un debito simile a quello italiano in rapporto al PIL e un disavanzo addirittura superiore al nostro, ha registrato un miglioramento del proprio rating passando a ad “A”, la Spagna con disavanzo più alto dell’Italia è salita a “BBB”. Per uscire dal rischio e riportare l’indice di crescita sopra il livello dei tassi di interesse, non ci sono molte soluzioni. La Banca centrale europea potrà certo intervenire sui mercati e far calare ulteriormente i rendimenti. Non rimangono che le riforme strutturali che sono essenziali per aumentare il potenziale di crescita dell’economia italiana. Pur riconoscendo che il Jobs act va nella direzione giusta (se non viene annacquato) vi sono anche altre riforme essenziali che devono essere adottate, con la massima urgenza, come quella della Giustizia, del Fisco dei Servizi Locali, ecc. Nel febbraio 2015 il Centro Studi della Confindustria ha sfornato due dati interessanti: previsto un +2,1% del PIL nel 2015 e +2,5% nel 2016 e ciò permette di vedere una ripresa dell’economia. 24 Anche la Banca d’Italia vede un futuro più roseo grazie al Quantitative Easin (Q.E) di Mario Draghi, al calo del prezzo del petrolio e al cambio più favorevole euro-dollaro. Eppure fino a dicembre le previsioni erano negative, però è entrata in vigore la nuova Legge Sabatini che agevola l’acquisto di nuovi macchinari per l’industria e si è avuto nel quarto trimestre 2014 un +18,8% di ordinativi. Se l’Italia non è come la Grecia è perché siamo la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania e rilanciare questo settore, dopo anni di crisi, è di vitale importanza e ci si sta riuscendo. Altri timidi segnali positivi si vedono nel settore occupazionale, a dicembre Renzi ha strombazzato che l’occupazione è cresciuta di 93.000 unità, ma si deve tener conto che a ottobre e novembre si era registrato un calo più o meno pari all’aumento di dicembre. Se guardiamo invece all’intero anno 2014 il totale degli occupati è di poco superiore al dato dell’anno precedente. Perciò niente euforia perché il mercato del lavoro non è ancora ripartito. Se il raffronto viene fatto con il resto d’Europa il panorama peggiora ulteriormente perchè il tasso di disoccupazione in Italia è del 12,9% (peggio di noi ci sono solo la Grecia, Spagna, Cipro e Ungheria) mentre gli altri sono ben lontani come Germania a 4,8%, Olanda a 6,7%, Finlandia a 8,9%, ecc. Le grandi imprese che assumono sono pochissime, però la maggioranza ha riacceso i motori e comincia a riassorbire i lavoratori sospesi (specialmente nell’edilizia, assicurative e finanziarie). Per fortuna stanno aumentando le Star Up innovative, nate per sviluppare, produrre e commercializzare beni o servizi ad alto contenuto tecnologico, del 45% al Sud e 32% al Centro Nord. Il Jobs act non è ancora partito, i primi decreti delegati sono all’esame del Parlamento, dopo sarà più facile assumere. 8.11 Motivi per essere ottimisti La prospettiva per il 2015 è quella di un altro anno di stagnazione, ma dobbiamo essere ottimisti. Se siamo riusciti a mantenerci a galla nella recessione, molto lo dobbiamo alle aziende che esportano. Negli ultimi mesi del 2014 l’euro si è indebolito del 10% circa e ciò può spingere l’export. Dei buoni risultati dell’export dobbiamo ringraziare in larga parte gli USA, che ha avuto un incremento del 4,6% della crescita. Un altro motivo è il costo del petrolio. Per l’Italia, come paese importatore di Materie Prime, avere un barile di greggio a prezzi dimezzati rispetto ai massimi storici, significa una bolletta energetica meno pesante, e una ulteriore spinta agli investimenti. Ma in primis servirebbe una Europa meno confusa, un governo italiano che capisse la necessità delle riforme e anche una burocrazia non ostile verso chi vuole intraprendere. E’ un paese sopraffatto dalla sottocultura del nichilismo, dalla sfiducia nelle istituzioni e dall'incapacità di immaginare il suo stesso futuro, una nazione in cui prevale un radicale scetticismo sulla possibilità di uscire dalla crisi, ma che pure sta compiendo passi da gigante in alcuni settori che, se adeguatamente valorizzati, potrebbero trainare la nostra economia. Questi i 5 punti più importanti. 1. Eccellenze da valorizzare L'Italia sta vivendo un momento nero della sua storia, e su questo non c'è dubbio. Ma non tutto è perduto e non siamo affatto un paese senza futuro. Sono i dati a dirlo: cultura, manifattura, agricoltura e turismo continuano ad essere i pilastri della nostra economia e anche nell'ultimo anno hanno registrato una positiva crescita, creando innovazione e posti di lavoro. Mentre recessione e politiche di austerity fanno crollare la domanda interna, l'industria italiana ha superato, negli ultimi 5 anni, il fatturato estero di Germania e Francia, raggiungendo - negli ultimi due anni - un saldo commerciale con l'estero di oltre 100 miliardi di dollari (un record che ci accomuna solo a Cina, Giappone e Corea del Sud). L'agricoltura italiana è copiata nel mondo per i suoi standard di eccellenza e la sua falsificazione internazionale copre un giro d'affari di 60 miliardi di euro all'anno. E tutto ciò nonostante gli immani ostacoli burocratici che le imprese italiane devono affrontare per rimanere a galla. 2. La sindrome della quarta settimana La spinta propulsiva del Made in Italy non argina, tuttavia, la contrazione dei consumi interni. A fronte di un pessimismo generalizzato sulle condizioni economiche del paese (l'88,1% degli italiani ritiene che siano peggiorate nell'ultimo anno) ci sono esigenze drammaticamente reali: il 30,8% della popolazione non arriva a fine mese con le proprie entrate, il 51,8% ci riesce solo utilizzando i 25 propri risparmi per pagare mutuo o affitto. Uno su quattro è ricorso a un prestito bancario negli ultimi 3 anni. Il 69,9% degli italiani ha avvertito una perdita del potere d'acquisto nell'ultimo anno: si taglia su regali, pasti fuori casa, vacanze, spese per l'automobile. E si privilegiano sempre più i pagamenti rateizzati per l'acquisto di elettrodomestici, automobili, ma anche per coprire cure mediche. 3. Come cambiano le spese Da un'indagine, dell'ultimo anno, emerge un paese più attento a offerte, sconti e promozioni; consumatori che non rinunciano alla qualità e prediligono, per risparmiare, prodotti km zero; che scelgono il low cost ma non per i prodotti alimentari, il cibo biologico o le apparecchiature tecnologiche, per i quali si è disposti a investire di più. Le famiglie composte da una sola persona acquistano badando soprattutto al prezzo ma anche alla qualità; comprano spesso prodotti senza brand in punti vendita di fiducia, ma non rinunciano alla qualità quando si tratta di prodotti alimentari. Attenti e consapevoli, badano a innovazione quando si tratta di scegliere un prodotto. Usano il web per informarsi su validità di apparecchiature tecnologiche, vacanze, gestori di telefonia, e per effettuare i propri acquisti. 4. Scollamento dalle istituzioni Le difficoltà economiche degli italiani si manifestano in un progressivo impoverimento del ceto medio e da una crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sette italiani su dieci riferiscono di essersi allontanati da esse e quasi la metà del paese sembra non avere un chiaro orientamento politico. Si salvano a fatica, ma senza raggiungere il 50% dei consensi, Quirinale e Magistratura (mentre perdono sempre più punti partiti e sindacati). Aumenta la fiducia riposta in scuola e Chiesa (49%, il 12,4% in più rispetto al 2013), quest'ultima grazie al dirompente "effetto Bergoglio": il Pontefice riscuote apprezzamenti trasversali per fasce di età e stato civile ed è amato dall'87% degli italiani. Su Europa e moneta unica le posizioni sono ancora diametralmente opposte: il 62,5% ritiene che l'Unione europea sia ancora giovane e che serva maggiore impegno per farla funzionare; il 25,7% auspica la fuoriuscita dall'euro. 5. Amici animali e Giochi L'indagine si è focalizzata anche sul rapporto tra italiani e mondo animale. Quattro su dieci hanno accolto almeno un animale in casa. Il più amato continua a rimanere il cane. Mantenerli non costa molto: la metà degli italiani spende meno di 1 euro al giorno per il cibo a loro destinato, mentre la spesa per il veterinario è contenuta entro le 100 euro all'anno. C'è anche la sensibilità verso il mondo animale che nell'81,6% si dice contrario alla vivisezione e l'85,5% all'utilizzo di animali per produrre pellicce. Per quanto riguarda i giochi, il "Gratta e vinci" si conferma il più amato (il 31,8% ci gioca almeno una volta all'anno); ma il 10,1% ha perso molti soldi al gioco, con il rischio ludopatie. Solo un italiano su tre pratica sport regolarmente, forse anche a causa della crisi: i più sportivi sono infatti gli italiani del Nord Ovest, l'area più benestante dello Stivale. Lo sport da stadio si guarda preferibilmente da casa, con la Pay per View (scelta dal 32,5% degli intervistati); si spende poco, invece, per seguire lo sport dal vivo: il 56,9% ha ammesso di non aver speso nulla nell'ultimo anno per l'acquisto di biglietti negli stadi. Anche nel campo del Turismo dobbiamo registrare un forte arretramento, infatti, nel 2013 Londra ha il primato europeo con 16 milioni di visitatori, Parigi si ferma al secondo posto con 15,9 milioni di presenze (forse per l’effetto trainante delle Olimpiadi del 2012) e3 Roma è indietro con 12,6 milioni di presenze, con un modestissimo incremento rispetto al 2012 del 5%. Eppure Roma garantisce la più grande offerta di beni archeologici al mondo, è anche la capitale del Cattolicesimo che attira i pellegrini da ogni parte del mondo, inoltre ha un clima straordinariamente favorevole (periodo di freddo intenso in soli 3 mesi all’anno). Come si spiega ciò? I servizi pubblici sono scadentissimi, un sistema museale frammentario, le professionalità legate al turismo sono slegate, non riescono a fare sistema (ristoranti, alberghi, B&B, ecc.) con enormi perdite di profitti (Londra ha incassato oltre 12 miliardi di euro). 26 INDICE 1. La grande crisi economica 2007 – 2014 1.1 Le dimensioni della crisi 1.2 La struttura del sistema finanziario 1.3 L’evoluzione del settore finanziario prima del 2008 1.4 Propagazione della crisi al di fuori degli USA 2. La crisi Americana 2.1 Cenni storici 2.2 Le cause 2.3 La fine del Dollar Standard 2.4 La crisi del Subprime e crollo delle Borse 2.5 La bancarotta di Lehman Brothers e conseguenze nel mondo 2.6 Parziale ripresa economica (2010 – 2013) 2.7 Piani di salvataggio nel resto d’Europa 3. Crisi in Gran Bretagna e salvataggio del sistema bancario 4. Crisi Greca 5. Crisi Irlandese 6. Crisi Portoghese 7. Crisi Spagnola 7.1 Cenni storici 7.2 Punti di forza dell’economia spagnola 7.3 Spagna oggi 7.4 Irlanda e Spagna oggi - Segni di ripresa 27 pag. “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ 1 1 2 3 4 4 4 4 5 5 6 7 8 9 9 10 10 10 10 12 12 12 7.5 Confronto Italia – Spagna 7.6 Perché la Spagna è ripartita 8. La crisi Italiana 8.1 Il problema dell’Italia 8.2 Innovazione 8.3 Uscire dall’euro? Cosa dice Luttwak? 8.4 Il braccio di ferro con Brussels 8.5 Il declino economico 8.6 Il governo e gli enti locali: Regioni e Comuni 8.7 Il sistema bancario italiano 8.8 Investimenti 8.9 Degrado Morale e Civile 8.10 Cosa si deve fare e cosa si sta facendo 8.11 Motivi per essere ottimisti 28 “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ 13 14 15 15 16 17 18 19 20 20 21 21 22 24