Uno sguardo sul corpo: tra emancipazione e nuove forme di

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Uno sguardo sul corpo: tra emancipazione
e nuove forme di asservimento
MARIA MONETI
Il corpo ha una storia? In che senso potrebbe averla se esso sembra essere proprio il residuo biologico non metabolizzabile, l’invariante universale,
ripetitiva e statica, della natura umana, l’orizzonte insuperabile entro cui si
situa ogni storia e ogni cultura? Spiegare perché, e in che senso il corpo ha una
storia, e anzi si rivela a partire dalla dimensione storica, è l’intento principale
di un’opera di grande respiro, a carattere multidisciplinare, dal titolo Histoire
du corps, curata da Alain Courbin, Jean-Jacques Courtine e Georges Vogarello,
ed. Seuil, Paris 2005.
Il proposito di questo lavoro è quello di mostrare che il corpo umano deve
essere pensato non come un dato, bensì come qualcosa di costruito, una realtà
situata entro parametri culturali e simbolici, di volta in volta diversi. Il filo
conduttore è la ricerca dei modi in cui il corpo si rende visibile e si fa oggetto
di attenzioni particolari, di specifiche manipolazioni, prescrizioni, divieti ecc.,
nelle varie epoche storiche, e nelle diverse culture. La storia del corpo è dunque storia di ciò che entro determinati contesti si vede/non si vede, è dicibile
/non dicibile, coperto/svelato, nascosto /esibito, di ciò che attira l’attenzione
o scompare dal campo visivo, ma soprattutto dei grandi sistemi simbolici,
rappresentativi, interpretativi in virtù dei quali il corpo viene pensato, sentito
e raffigurato, con le sue funzioni, con il dolore e il piacere, il cibo, la sessualità,
la malattia, la deformità, la bellezza, l’agilità, la prestazione, la forza ecc.
Nei presupposti epistemologici di questa ricerca è implicita la tesi dell‘integrale “culturalità” dell’esistenza umana, senza residui “naturali”, e che questo
è il carattere distintivo dell’uomo rispetto agli animali non umani. C’è una
certa unilateralità in questo assunto: da un lato esso sottintende una barriera
tra l’umano e il pre-umano che lo sviluppo delle scienze etologiche tende a
ridimensionare; dall’altro opera una forma di riduzionismo, anche se rovesciato,
nell’enfasi con cui riporta tutto alla dimensione storica e culturale, cancellando quella biologica, nella sua invarianza e astoricità; né il pre-umano è privo
di “cultura” - nel senso dell’apprendimento sociale e delle varianti locali di
comportamenti - né l’umano è forgiato interamente da prospettive culturali.
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Ci sono costanti biologiche dalle quali le culture non possono prescindere –
non esistono corpi viventi che non abbiano fame, per quanto variabili siano
i modi di soddisfarla - ma anche costanti culturali, presenti in ogni civiltà e
in ogni tempo, in particolare proprio quelle relative alla gestione del corpo,
della sessualità e della riproduzione: per esempio, l’universale tabù dell’incesto; oppure la regolamentazione e istituzionalizzazione delle relazioni sessuali
e riproduttive; o ancora il fatto che gli esseri umani coprono sempre parti del
corpo e provano pudore nei confronti di certe funzioni fisiologiche.
Ma qui entriamo già in un tema controverso. Il pudore è davvero una
costante antropologica, che travalica storia e culture? Su questo verte il saggio di
Anne Marie Sohn (le corps sexué, III) che parla di “erosion de la pudeur privée”
e di .”règles de la décence publique balayées”, di una colossale trasformazione
del costume e del modo di percepire il corpo, cominciata alcuni decenni fa e
attualmente in corso, anzi in moto accelerato verso mete sempre più radicali e
imprevedibili. Dopo una tradizione millenaria di condivisione sociale di quello
che si suole chiamare “il comune senso del pudore” sembra che sia in atto una
rimozione collettiva, anzi una tendenza all’esibizione sempre più cruda di parti
del corpo e di atti riferiti alla sessualità, in una dialettica ambigua tra liberazione e
mercificazione, tra diritto al piacere e pornografia, tra femminismo e nuove forme
di sfruttamento, tra emancipazione dai vincoli e colonizzazione del corpo da
parte delle ferree leggi del mercato. Se è vero che il testo fondativo della cultura
occidentale, la Genesi, ricostruisce il passaggio dal pre-umano all’umano con
il celebre “e conobbero di essere nudi”, si potrebbe dire che l’epoca presente
segna un passaggio, o una regressione, a una nuova dimensione umana, o se si
vuole post-umana, caratterizzata dalla scomparsa di quell’imbarazzo verso la
propria nudità, che la tradizione aveva percepito come la soglia paradigmatica
dell’antropogenesi, dell’uscita dall’innocente, ma limitata, condizione animale.
L’indagine sulle trasformazioni storiche del corpo rivela una serie di ambiguità e di sorprese. Una di queste è l’apparente paradosso, nell’età moderna, di
una sempre maggiore individualizzazione del corpo, intesa come emancipazione
dalle prescrizioni religiose, da una parte, e di una sua parallela socializzazione,
dall’altra, di un’invasione delle imposizioni collettive. Da un lato l’età moderna si apre con la proclamazione del diritto di proprietà sul corpo da parte
dell’individuo (v. Secondo Trattato sul governo J. Locke); dall’altro cominciano
a delinearsi, in vari modi, le pretese che lo stato ritiene suo diritto avanzare nei
confronti dell’individuo quanto all’uso del suo corpo sia come strumento di
lavoro, sia come mezzo di trasmissione della vita, sia come risorsa economica,
sociale, militare, in qualche modo pubblica. Quanto più regrediscono le prescrizioni religiose tanto più avanzano quelle politiche e sociali. Esse riguardano
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l’incremento o il decremento demografico – sia che si voglia incoraggiare la
riproduzione, come nel ‘700, quando l’elevato tasso di natalità era considerato
necessario alla ricchezza e alla potenza della nazione; sia che si voglia al contrario imporre un controllo delle nascite, quando il tasso demografico sembra
crescere in modo superiore alla crescita delle risorse alimentari -. Oppure hanno
a che fare con la salute e le caratteristiche biologiche che si trasmettono per
via ereditaria; questo è il tema dell’eugenetica sviluppatasi tra ‘800 e ‘900 in
Inghilterra, negli Stati Uniti, e poi in Germania, e ancora in vigore in diversi
paesi europei e asiatici, fino agli anni ’90 del secolo scorso, se pur con diverse
forme ideologiche e differenti modalità operative, che vanno dagli incentivi alla
riproduzione per individui “dotati”, alla segregazione e sterilizzazione forzata
per individui “debolmente dotati”, fino alla soppressione e allo sterminio dei
presunti portatori di tare genetiche. È importante sottolineare che questa intrusione delle istituzioni pubbliche nella sfera intima del corpo non è un fatto
marginale, ma un elemento costitutivo della modernità, molto presente, ad
esempio, nella letteratura utopica tra ‘600 e ‘700. Un solo esempio: nel Vrai
Système l’utopista Dom Deschamps, mette in scena un mondo, ovviamente
perfetto, nel quale tutte le donne in età fertile sono obbligate a mettere il loro
latte a disposizione della collettività, per il nutrimento non solo dei bambini
ma anche dei malati, dei deboli e degli anziani
È nel XX secolo che si producono le svolte più radicali, le scoperte più
significative e le rivoluzioni più ambigue. Una di queste è la rinascita dello
sport, inteso come attività agonistica che si ispira all’uso liberale del corpo proprio del mondo antico. G. Vigarello (S’entrainer, e Stades. Le spectacle sportif
desw tribunes aux écrans, III) analizza le luci e soprattutto le ombre di questo
progetto, in particolare l’insinuarsi sempre più prepotente della logica della
razionalità economica all’interno di questa rivalutazione del corpo atletico, che
vorrebbe avere intenti solo estetici, agonistici, liberali e che finisce invece per
piegarsi alla logica del professionismo, della prestazione a tutti i costi, della
corruzione e del doping.
Poi ci sono le ambivalenti conquiste della medicina: da un lato una medicalizzazione sempre più vasta dei processi fisiologici, dall’altro le conquiste
legate alle vaccinazioni, agli antibiotici, alla creazione di ambienti asettici, alla
chirurgia, alla terapia del dolore e all’anestesia. Progressi che hanno distanziato
l’occidente da tutto il resto del mondo sul fronte della qualità, ma soprattutto
della quantità della vita. Le più spettacolari rivoluzioni recenti, i trapianti di
organi e la mappazione del genoma umano, rendono evidente l’ambivalenza
dei progressi medici e scientifici quando la logica della razionalità economica
colonizza le zone più intime della vita corporea: si parla di “fame di organi” e
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si denuncia, con linguaggio “osceno” (A. M. Moulin, Le corps face à la médecine, III) la” penuria di organi” come si denuncia la rarità di una merce; la
mercificazione si insinua nell’ambito della cosiddetta “donazione” di organi da
vivente a vivente, e piega questa grande conquista della scienza nella direzione
sordida dello sfruttamento del corpo. Analogamente, il progetto genoma che
si propone la decodificazione dell’intera sequenza del DNA umano, produce
la comparsa dell’apparentemente incongruo “brevetto della sequenza genomica”, ossia del deposito di una scoperta prodotta in laboratorio ai fini della sua
commercializzazione – e nascono le cause civili sull’uso delle cellule del corpo
di un malato per costruire queste sequenze, il che fa riapparire, a nuovi livelli,
la domanda sulla “proprietà” del corpo.
Sempre sulla linea dell’ambivalenza si situa il tema della liberazione
sessuale e della diffusione della pornografia, immediatamente piegata all’uso
commerciale: si tratta di una tappa fondamentale della liberazione della donna
oppure, desacralizzando il corpo femminile, questa liberazione è un’altra forma
di sfruttamento e di mercificazione? (v. A.Marie Sohn Le corps sexué, cit.) La
riscoperta e la valorizzazione del corpo, nella modernità, è sempre soggetta a
questa dialettica: da un lato libera e svela ciò che prima era vincolato e coperto,
dall’altro lo consegna immediatamente alla logica della razionalità economica.
Un caso tipico è quello della curiosità per la teratologia. Non è la prima volta
che il “mostro” è oggetto di attenzione: già in era premoderna ogni corte – di
principi, nobili, alti prelati – si dotava di qualche nano, o uomo peloso, o
donna barbuta o enfant sauvage, in uno stretto collegamento tra esotismo
e teratologia. Quello che è nuovo, in questo sguardo curioso e cinicamente
affamato di mostruosità, è ancora una volta l’utilizzo della deformità a fini
commerciali. Il padre dei fratelli Tocci, due siamesi uniti dal bacino in giù,
non solo non nasconde la sua disgrazia, ma chiede alle autorità di poter esibire
pubblicamente i suoi figli e trarne così un vantaggio economico (J-J. Courtine
Histoire et anthropologie culturelle des difformités, III).
Vorrei concludere con qualche riflessione su quella che gli autori ritengono
essere la svolta epistemologica che ha reso possibile la nascita di una storiografia
del corpo. È solo nel XX secolo, in seguito a una particolare attenzione riflessiva nei confronti del corpo, che una “histoire du corps” si rende possibile; ed
è quindi a questo punto di svolta che possiamo riguardare indietro, al resto
dell’opera, come al prodotto di ciò che è avvenuto nell’era contemporanea.
Una svolta fatta di tre elementi: la psicanalisi con la scoperta del corpo come
origine e focus energetico delle pulsioni, e al tempo stesso come luogo di scarica
dei conflitti sotto forma di sintomi; la fenomenologia, che sostituisce il cogito
cartesiano, una soggettività costituita di puro pensiero, con un soggetto cor166
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poreo, situato nel tempo e nello spazio, e perciò sempre condizionato nei suoi
atti cognitivi dalla sua corporeità. Infine, come terzo elemento, l’antropologia
culturale, con la sua investigazione sui modi diversi in cui la corporeità esiste
e si esprime nelle differenti culture. Queste le tre rivoluzioni epistemologiche
che mettono il corpo al centro della scena.
Tra le condizioni politiche, invece, emerge in primo piano il movimento femminista con il suo forte accento sulla differenza rimossa, quindi sul
corpo come luogo di una soggettività incarnata. In quest’ultima prospettiva
A. Courtine (Introduction vol. III.) attira l’attenzione sugli slogan di rivendicazione della “proprietà” dell’individuo sul suo corpo come appunto una
novità portata alla ribalta dal pensiero femminista. Su questo punto vorrei fare
un’ultima riflessione. E’ innegabile che quegli slogan fossero un cavallo di
battaglia delle lotte femministe – in particolare a favore dell’aborto -. Ciò che
invece mi sembra dubbio è sia la novità che la forza rivoluzionaria di queste
parole d’ordine. Per la novità ho già accennato al fatto che J. Locke ha rivendicato il diritto di proprietà dell’individuo sul suo corpo, già nel XVII secolo.
In questo senso, concepire il corpo come “cosa di proprietà” non solo non
è nuovo ma si iscrive in un filone di pensiero tradizionale che, con i termini
ideologici propri del pensiero femminista, potremmo definire sia “maschilista”
che “borghese”- vedi la rivendicazione del diritto di proprietà come diritto
naturale fondamentale -. In secondo luogo ci sono state, di recente, riflessioni
sullo statuto del corpo femminile più articolate e più profonde, che hanno
preso le distanze sia dalla rivendicazione del corpo-proprietà che dall’individualismo ideologico che la ispirava. Mi riferisco a quelle filosofe, come Sh.
Benhabib o C. Gilligan, che hanno gettato luce sugli aspetti intrinsecamente
relazionali – quindi non riferibili ai valori dell’autonomia e della proprietà,
ma a quelli del dono e del prendersi cura – propri del corpo femminile; e che
hanno posto il problema dell’accettazione/rifiuto della maternità in termini
diversi da quelli del diritto all’autogestione: nei termini del sentirsi, o non
sentirsi pronte, in un determinato momento del percorso biografico proprio
di ciascuna donna, ad accettare quel parziale spossessamento del proprio
corpo, costituito dall’istallarsi in esso di un ospite che, nello stesso tempo, si
annuncia sia come minaccia (hospes-hostis) che come ente debole, bisognoso e
dipendente. In questo dilemma, che nei quadri dell’annunciazione – si veda ad
esempio l’Annunciazione di Simone Martini – è rappresentato al limite della
blasfemia, con una Madonna che si ritrae con tutto il corpo e guarda l’angelo
portatore della notizia con espressione dura e accigliata, sta la complessità del
vissuto del corpo femminile, un vissuto che è potuto solo da poco venire alla
luce, una volta infranti sia i luoghi comuni tradizionali che sacralizzavano
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ideologicamente il corpo femminile come corpo materno, sia i cascami ideologici dell’emancipazionismo di stampo maschile, che valorizzava del corpo
femminile solo l’ autonomia e l’appropriazione di sé. Questo potrebbe essere
un ulteriore capitolo: la storia del corpo continua.
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