Monumenti aperti 2011 Qualche notizia sulla Sardegna Il nome di

Monumenti aperti 2011
Qualche notizia sulla Sardegna
Il nome di Ichnusa dato alla Sardegna dai Greci e di Sandalion dato dai romani sarebbe
dovuto alla forma dell’isola che richiama quella, appunto, di un sandalo; da qui è nato il mito
secondo cui Dio, dopo aver creato tutte le altre terre, ritrovandosi in mano ancora un poco di fango,
lo gettò in mezzo al mare e lo calpestò con il suo sandalo perché non si muovesse. Secondo un altro
mito, Dio, per farsi perdonare di aver creato la Sardegna per ultima, prese da tutte le altre Terre ciò
che di meglio avevano e ne adornò l’isola.
Da diversi anni uno studioso sardo, il Frau, sostiene che la mitica Atlantide non sia altro che
la Sardegna al tempo dell’ultima glaciazione. In quel tempo i popoli orientali che si muovevano
verso occidente trovavano una strettoia fra la Sicilia e la Tunisia, dovuta al basso livello del
Mediterraneo. Superando quella strettoia (secondo il Frau le vere Colonne d’Ercole), poiché la
navigazione avveniva lungo le coste, essi giungevano facilmente in Sardegna, la quale allora non
era una piccola isola dispersa in un vasto mare, ma una grande terra circondata da un piccolo mare.
Quando i ghiacci si sciolsero, la Sardegna non fu più raggiungibile con la navigazione lungo
costa, ma si trasformò in un’isola circondata da un ampio mare. I popoli orientali persero pian piano
la memoria della Sardegna come terra facilmente raggiungibile, e collocarono le Colonne d’Ercole
allo Stretto di Gibilterra e Atlantide finì dove adesso si presume, cioè nell’odierno Oceano
Atlantico, sommersa dalle acque. Il mito degli atlantidi ricchi, potenti, ottimi navigatori, potrebbe
derivare dal fatto che in Sardegna c’era la produzione del rame e del bronzo e della ossidiana e
legname in abbondanza e questi prodotti erano ricercatissimi in tutto il bacino del Mediterraneo.
La Sardegna era attraversata da quattro grandi strade che seguivano, grosso modo, tracciati
già punici e dai quali neppure noi oggi ci siamo allontanati tanto. La prima è l’odierna Carlo Felice,
denominata dai romani a Turre Karalis nella fase più antica, per divenire poi a Karalibus Turrem.
La denominazione più antica sottintende l‘importanza rivestita da Turris Libisonis, l’attuale Porto
Torres nella viabilità. Nei pressi di Bonorva o forse già nella Campeda vi era la diramazione per
Olbia, denominata a Karalibus Olbiae. Di carattere prettamente militare era un altro percorso che
conduceva da Karales a Olbia attraverso l’interno nelle zone della Barbaria, l’attuale Barbagia, che
già nel nome si contrapponeva alla Romania, ovvero alle zone pienamente romanizzate. Vi era poi
l’attuale orientale sarda che da Olbia si snodava sino a Cagliari per circa 260 Km. contro gli attuali
317. Vi è infine l’occidentale sarda che da Karales arriva a Turris Libisonis, o meglio a Tibula, fatto
singolare è che nelle fonti e nei miliari questa strada non è ricordata in modo unitario, ma per
tronconi, due dei quali prendono come punto di riferimento Nora. La stranezza si può spiegare col
fatto che i Romani adottarono il tracciato dei Cartaginesi che non sentirono mai la necessità di
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pensare in modo unitario alla viabilità lungo la costa occidentale: Nora era, con Tharros, la città più
fiorente e punto di partenza di strade per città vicine.
Un riferimento a Nora si trova nella Pro Scauro di Cicerone. Siamo nel 55 a. C. e Marco
Emilio Scauro è propretore in Sardegna. Nell’anno precedente vi fu nell’isola una requisizione di
grano piuttosto importante, dal momento che ad effettuarla fu lo stesso Pompeo Magno; fu in questa
occasione che il generale romano, in procinto di partire col mare in tempesta, davanti ai marinai
ritrosi, avrebbe detto: «navigare è necessario, vivere non è necessario».
Già messa a dura prova da Pompeo, nel 55 vi furono le depredazioni di Scauro: infatti dopo aver
prelevato una prima ed una seconda decima, il propretore ne impose una terza a suo esclusivo
vantaggio, come deduce in via indiretta dalle fonti il Carta Raspi. A trarlo in giudizio non furono
però né il Senato, né i Sardi, che non avrebbero potuto farlo dal momento che nell’isola non vi
erano città alleate e la cittadinanza romana era ristretta a pochi. Scauro fu accusato dai suoi
avversari politici quando pose la candidatura per il consolato del 54 e, a prescindere dalle
responsabilità reali, si tratta di un processo di natura esclusivamente politica. Nel processo i sardi
erano più testimoni che parte lesa, anche perché l’esazione della terza decima appariva lesiva del
popolo romano, che ne era stato privato, più che dei sardi che erano stati costretti a versarla. Il
primo ad avere interesse alla condanna di Scauro era Cesare, dal momento che i due si trovavano su
schieramenti politici avversi: non si dimentichi, infatti, che la madre di Scauro, Cecilia Metella,
aveva sposato in seconde nozze Silla. Promotore dell’inquisizione giudiziaria fu il console Appio
Claudio, legato ai triumviri, accusatore fu Valerio Triario, presiedeva il tribunale M. Porcio Catone.
Il collegio della difesa era costituito da Cicerone, cinque avvocati tra cui Ortensio Ortalo e Clodio,
nove consolari a difesa tra cui Pompeo, tutti, sebbene politicamente divisi, legati dall’inimicizia
comune contro Cesare. Basti pensare che si ritrovarono sullo stesso fronte Cicerone e Clodio che,
nella sua attività di tribuno schierato con Cesare, aveva mandato in esilio proprio l’Arpinate.
Secondo l’accusa, Scauro avrebbe avvelenato, per impossessarsi dei suoi beni, un certo
Bostare, ricco cittadino di Nora. Avrebbe inoltre spinto al suicidio la moglie di un certo Arine, per
averla insistentemente insidiata. Terzo capo d’imputazione fu quello di malversazione a danno della
Sardegna. Cicerone, nel difendere il suo assistito, riporta la diceria secondo cui sarebbe stato lo
stesso Arine a far uccidere la moglie, per poter sposare la madre di quel Bostare la cui morte veniva
sempre imputata a Scauro. Il liberto di Arine avrebbe agito su ordine del suo padrone a Nora
durante i Parentali, festa in onore dei defunti, quando tutti i cittadini erano usciti dalla città a
tributare l’omaggio ai propri cari.
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Rimaneva da confutare l’accusa più grave, quella de repetundis, a sostenere la quale si erano
recati a Roma ben centoventi sardi. Ed ecco qui Cicerone scagliarsi con tutta la veemenza di cui
dispone la sua straordinaria arte oratoria contro i sardi, «Pelliti testes», nelle cui vene scorre sangue
fenicio, punico e libico. Purtroppo l’orazione ci è giunta mutila, sappiamo che Scauro andò assolto
ma uscì politicamente rovinato dal processo. certo sarebbe stato interessante sentire che cosa
Cicerone avrebbe detto della Sardegna e dei sardi se, anziché difensore di Scauro, ne fosse stato
l’accusatore. Certo i miti sulle origini dei sardi non mancano.
L’isola, che per i Romani diventerà nel tempo la terra dei condannati ad metalla, per i Greci
era una terra felice, notevolmente idealizzata dagli autori antichi. Pausania, nella sua Periegesi
dell’Ellade, prendendo spunto dalla notizia dell’invio a Delfi di una statua del dio eponimo dei
Sardi (X,17,1 ss), dice di non sapere come l’isola venisse chiamata dai suoi abitanti; furono gli
Elleni a chiamarla Ichnussa. I primi ad approdare nell’isola erano genti libiche provenienti
dall’Africa e guidati da Sardo, che diede poi il nome alla nostra terra. In seguito, sotto la guida di
Aristeo sarebbero giunte le prime genti greche, seguiti poi dagli Iberi guidati da Norace, fondatore
di Nora; una seconda ondata di Elleni guidati da Iolao fondarono Olbia e Ogryle, forse Gurulis
vetus, l'odierna Padria. Diodoro narra che Iolao, nipote di Eracle, giunse in Sardegna a capo di una
schiera di Tespiadi ed Ateniesi; ci informa inoltre che l'invio di una colonia greca nell'isola avvenne
in seguito ad una richiesta oracolare di Apollo rivolta ad Eracle il quale, ormai giunto al termine
della propria esistenza, designò suo nipote come guida della spedizione. Questi, dopo aver sconfitto
le popolazioni indigene, spartì fra i membri della spedizione la zona più fertile dell'isola chiamata
Iolaeion –identificabile, forse, con la fertile pianura del Campidano- e ne ordinò la coltivazione ad
alberi da frutto; fondò città, istituì tribunali, fece costruire edifici pubblici e di culto e quanto
necessario per il vivere civile e pacifico. Chiamò Dedalo, profugo da Creta rifugiatosi in Sicilia, che
avrebbe lasciato la propria impronta architettonica nelle opere "dedalee" nelle quali è chiaro il
riferimento ai nuraghi ed il tentativo di spiegare in senso eziologico l'origine di tali monumenti. In
onore di Iolao gli abitanti vennero chiamati Iolei, verosimilmente gli stessi Iliensi di età storica
ricordati dagli autori classici fra i celeberrimi populi Sardiniae, Iliensi, Balari e Corsi; a costoro
andò ad unirsi un gruppo di Toiani fuggiti insieme a Enea da Ilio. Un’ultima incursione libica
nell’isola portò al quasi totale annientamento dei Greci, mentre i Troiani trovarono rifugio nelle ben
munite montagne dell’interno, mantenendo il nome di Iliei. Al di là del racconto mitico, appare
necessario cercare di istituire il giusto rapporto fra mito e storia per comprendere se il racconto
sull'arrivo di genti elleniche adombri un nucleo di verità.
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