RAPIDI CENNI SULLA SARDEGNA ROMANA
(A.MASTINO 2005)
La conquista
La prima menzione della Sardegna, in relazione alla storia romana, si trova nel trattato stipulato nel 509/508 a.C. tra Roma e
Cartagine, tramandoci dallo storico greco Polibio (III,2). Tale accordo sanciva, tra gli altri provvedimenti, che Roma poteva
commerciare con la Libia (Cartagine e il suo territorio) e la Sardegna, esclusivamente alla presenza di un κήρυξ o di un
γραμματεύς(un araldo o un segretario) cartaginese. La limitazione era segno della egemonia dei Punici nell’isola, dal
momento che era considerata al pari del territorio metropolitano di Cartagine. I Romani potevano invece commerciare
liberamente con il territorio della Sicilia, che era solo in parte sotto il controllo dei Cartaginesi, che contendevano l’egemonia
sull’isola alle città greche.
La Sardegna è presente anche nel secondo trattato stipulato dalle due grandi potenze nel 348 a.C.. Questa volta Cartagine, forte
dell’egemonia marittima raggiunta, poté imporre ai Romani clausole più restrittive. Era proibito commerciare, fondare città e,
ovviamente, sbarcare armati in Sardegna e in Libia. Se una tempesta li avesse costretti a sbarcare in questi territori, sarebbero
dovuti ripartire entro cinque giorni.
Per oltre un altro secolo le notizie su rapporti tra Roma e la Sardegna sono sporadiche e frammentarie, segno che l’isola,
caposaldo della potenza punica, non rientrava nella velleità espansionistiche dell’emergente città latina. Fu la fine della prima
guerra punico-romana a segnare il momento in cui Roma poté considerare possibile conquistare l’isola, approfittando della
pesante sconfitta inferta ai Cartaginesi. Il pretesto venne offerto da un gruppo di mercenari punici presenti in Sardegna che
reclamava il compenso per gli anni di guerra. Roma, benché in questo modo violasse la pace del 241, accolse le insistenti
richieste di aiuto e mandò in Sardegna il console Ti. Sempronio Gracco che riuscì a conquistarla senza combattere, non
avendo Cartagine la possibilità economica e militare di sostenere un’ulteriore guerra (238 a.C.). Polibio commenta la
conclusione di questi avvenimenti, osservando che in tal modo Cartagine aveva perso “un’isola di grande estensione,
intensamente popolata e ricca di prodotti della terra”. Cosa intende affermare lo storico greco con queste parole? Per quanto
riguarda la notevole densità della popolazione, nessun’altra fonte conferma che l’isola fosse intensamente abitata. Forse Polibio
si riferisce al grande numero di mercenari sardi che militava negli eserciti Cartaginesi. Passando ai prodotti della terra, le
ricchezze del sottosuolo sono tuttora conosciute e anche i Romani sfruttarono la risorse di piombo argentifero, ferro e rame
presenti in Sardegna, tanto da fondare una città chiamata Metalla. Anche lo sfruttamento cerealicolo di tipo latifondistico
perdurò e si intensificò per tutto il periodo romano. La Sardegna divenne infatti uno dei tria frumentaria subsidia reipublicae
(Cicerone), insieme alla Sicilia e all’Africa settentrionale.
La popolazione
Quando la Sardegna passò sotto il dominio romano, era divisa in due realtà ben differenziate sotto il profilo culturale,
istituzionale ed economico. Le città della costa - Carales, Nora, Bithia, Sulci, Neapolis, Othoca, Tharros, Cornus, Bosa,
Olbia - erano abitate da una popolazione di Sardi e Punici profondamente integrati nella lingua, nella religione e nelle
istituzioni. Tale integrazione perdurò per molti secoli, visto che sono numerose le sopravvivenze puniche rintracciabili fino a
epoca romano-imperiale. A titolo esemplificativo ricordiamo l’iscrizione neopunica rinvenuta a Bithia, ascrivibile al II-III sec.
d.C., in cui si menziona la carica del sufeta.
Dobbiamo comunque ricordare che la vita dei sardi non urbanizzati, abitanti le pianure e le colline occupate dai latifondi era
profondamente diversa. Benché furono presto asserviti e impiegati nella coltivazione estensiva di cereali da esportazione,
continuarono a condurre una esistenza più vicina alle forme di vita degli antenati piuttosto che alla nuova cultura ufficiale,
diffusa nei principali centri dell’isola.
Ancora più radicato e vitale era il sostrato nuragico tra la popolazione dell’interno, costantemente impegnata nella lotta per la
sopravvivenza contro gli invasori delle città costiere, prima punici e poi romani, tesi a conquistare nuove terre per lo
sfruttamento latifondistico.
I dati forniti dalla documentazione archeologica rivelano come in Sardegna mantenere vive le tradizioni abbia spesso
significato continuare a frequentare i siti scelti dai Nuragici e reimpiegare i nuraghi e le aree ad essi limitrofi. I nuraghi in
alcuni casi vennero adattati a luoghi di culto dedicati a Cerere, divinità della fertilità della natura assimilabile alla Dea Madre
(per esempio Genna Maria di Villanovaforru e Su Mulinu di Villanovafranca).
La sopravvivenza della cultura indigena era resa possibile dalla politica imperialistica romana fondata sul perseguimento di
un’unità legislativa e giuridica di tutte le parti dell’impero, che non prevedeva necessariamente un’omogeneità culturale, più
difficile da raggiungere perché troppo eterogeneo e variegato il mondo a cui si rivolgeva. Salvaguardando la tradizione e non
ingerendo sulle inerenti problematiche, le autorità romane davano ampio spazio alle istituzioni locali, in modo da rendere,
almeno in questo, meno oppressiva e gravosa la reale sottomissione al potere centrale.
In alcuni casi i siti nuragici vennero sfruttati anche per edificare strutture abitative per lo sfruttamento del territorio, come a
Sant’Antine di Torralba, dove, all’interno dell’antemurale, sono visibili i resti di un edificio, forse una villa rustica, di epoca
romana.
Amministrazione e eventi storici significativi
Nel 227 Roma inviò in Sardegna un governatore, costituendo insieme con la Corsica la seconda provincia romana. Il
magistrato (pretore/ propretore) restava in carica un anno, benché il mandato potesse essere prorogato. Il pretore/propretore
aveva l’imperium e comandava le truppe di stanza nell’isola, si occupava della riscossione delle tasse, tramite il questore, e di
amministrare la giustizia.
In casi di rivolte dei Sardi delle montagne venivano inviati i consoli e proconsoli che al ritorno a Roma potevano ottenere il
trionfo. I prigionieri venivano portati a Roma e venduti al mercato degli schiavi. Da qui nacque l’appellativo Sardi venales
(Sardi da vendere) rivolto agli abitanti dell’isola.
I Romani celebrarono questi trionfi per guerre combattute in Sardegna:
234 il console Tito Manlio Torquato
233 il console Spurio Carvilio Massimo
232 il console Manio Pomponio Matone
175 il proconsole Tiberio Sempronio Gracco
122 il proconsole Lucio Aurelio Oreste
111 il console Marco Cecilio Metello
106? il propretore Tito Albucio
88?il propretore Publio Servilio Vatia Isaurico
Inizialmente anche le città sardo-puniche mal sopportarono il passaggio dal dominio punico, libero e non oppressivo, al sistema
politico romano, molto esigente soprattutto nella riscossione delle tasse. Nel 215 a.C. reagirono con una rivolta capeggiata dai
principes delle città, tra i quali i più noti erano Annone di Tharros e Ampsicora di Cornus. Anche se aiutati dai Cartaginesi
comandati dal generale Asdrubale il Calvo, i Sardi furono duramente sconfitti dall’esercito di Tito Manlio Torquato, nella
pianura retrostante Calares. Il poeta Silio Italico tramanda la notizia di un duello tra il poeta Ennio e Iosto, figlio di
Ampsicora, ma gli storici la considerano una leggenda. Annone e Asdrubale furono fatti prigionieri, Iosto e 12.000 sardi
morirono, altri 4.000 furono catturati. La notte stessa Ampsicora, per il grande dolore causato dalla perdita del figlio e per
l’amaro della sconfitta, si uccise.
Le città sardo-puniche furono duramente colpite rendendo più esosi i tributi dovuti a Roma. Da allora la popolazione della
pianura restò pacificamente sottomessa costituendo, come abbiamo già visto, con la Sicilia e l’Africa i ”tria frumentaria
subsidia reipublicae”.
Infatti le città sarde nella storia di Roma ebbero sempre un ruolo legato all’approvvigionamento di cereali. Durante la guerra
civile tra Cesare e Pompeo, Carales, Sulci e altre città appoggiarono la causa dei cesariani. La rappresaglia delle forze
pompeiane fu tale che Sulci passò dalla loro parte, decisione che le costò una dura punizione: fu costretta a fornire una quantità
maggiore di prodotti agricoli e i beni dei capi politici furono venduti all’asta. Il 16 aprile del 46 a.C., Cesare sbarcò a Carales e
probabilmente in quest’occasione le concesse lo stato di municipium.
Quando il 13 gennaio del 27 a.C. Augusto e il senato si spartirono il governo delle province, la Sardegna fu tra le dodici
senatorie, governate da un proconsole. Nell’isola dovevano operare anche uomini di fiducia dell’imperatore, i procuratores di
rango equestre, con funzioni amministrative finanziarie.
Il centro dell’isola non era comunque pacificato, tanto che nel 6 d.C. lo stesso Augusto inviò contingenti legionari e un
governatore dell’ordine equestre (legatus), di sua fiducia responsabile di fronte a lui.
I tributi
Appena la Sardegna diventò una provincia, Roma cominciò a realizzare una politica fiscale che sarebbe diventata sempre più
esigente e sempre più in funzione dei suoi interessi. Tutte le terre furono confiscate e andarono a far parte dell’ager publicus.
In base a ciò lo Stato romano aveva ogni diritto su queste proprietà, riservandosi di distribuirle secondo le proprie esigenze.
Potevano essere concesse in usufrutto, dietro pagamento del vectigal (canone d’affitto), ai vecchi proprietari sardo-punici, a
ricchi cittadini romani oppure ai publicani, i quali per lo più le sublocavano.
In altri casi le terre erano concesse in proprietà inalienabile ai veterani dell’esercito oppure a gruppi di cittadini inviati a
dedurre un colonia. In Sardegna è attestata la colonia Iulia di Turris Libisonis, fondata da Cesare o da Ottaviano, prima del
16 gennaio 27 a.C. (quando il senato gli conferì il titolo di Augusto). Anche Uselis ottenne questo privilegio e forse anche
Tharros.
Oltre a Carales, ottennero il rango di municipio Sulci e Nora e, probabilmente, Bosa e Olbia. Forum Traiani (Fordongianus)
diventò in epoca imperiale un importante centro commerciale tra la popolazione dell’interno e quella della pianura.
Oltre al vectigal, chi possedeva terre in usufrutto doveva pagare lo stipendium, un’indennità di guerra, fissa nel suo ammontare
e non legata all’andamento della produzione. Dovevano pagare anche la decima, che consiste nella decima parte dei cereali
prodotti e in situazioni straordinarie, soprattutto belliche, lo stato non esitò a riscuotere una seconda decima. Conosciamo anche
il caso di un magistrato disonesto , L. Emilio Scauro, che nel 56 a.C. impose il pagamento di un terza decima! Per questo e
altri motivi i Sardi lo chiamarono in giudizio, ma grazie alla difesa di Cicerone ottenne l’assoluzione. La Pro Scauro (54 a.C.),
benché ci sia pervenuta frammentaria, permette di conoscere l’opinione dei Romani sui Sardi: proprio perché erano discendenti
dei Cartaginesi non potevano avere credibilità, dal momento che i Punici - in qualità di mercanti - avevano la fama di intriganti
menzogneri1.
Non bastavano il vectigal, lo stipendium e la decima, la popolazione doveva fornire di cereali tutto il personale amministrativo
e le forze armate presenti nell’isola, in più doveva pagare altre tasse e sottostare ai soprusi dei pubblicani. Abbiamo anche
pochi esempi di buon governo: M. Porcio Catone, governatore nel 198 a.C., combatté l’usura e gli abusi fiscali. Gaio Gracco,
questore dal 126 al 124 a.C., si vantava di aver riportato vuote le borse che erano piene di denaro alla partenza da Roma,
mentre altri avevano portato con sé anfore piene di vino, quelle stesse che, rientrando, avrebbero riportato piene di denaro.
Ricordiamo che in Sardegna per molto tempo fu proibita la produzione di vino e olio per non fare concorrenza ai proprietari
terrieri italici.
Bibliografia
P.Meloni, La Sardegna Romana, Chiarella Sassari, 1975
A.Mastino, a cura di, Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, 2005
1. Passo tratto dalla Pro Scauro
M. TVLLI CICERONIS PRO M. SCAVRO ORATIO
[42] fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt. ab his ort i Poeni multis Carthaginiensium
rebellionibus, multis violatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi no n deducti in Sardiniam atque
ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. [43] qua re cum integri nihil fuerit in hac gente <pestilentiae> plena, quam valde eam putamus tot
transfusionibus coacuisse? hic mihi ignoscet Cn. Domitius Sincaius, vir ornatissimus, hospes et familiaris meus, ignoscent denique omnes ab eodem Cn.
Pompeio civitate donati, quorum tamen omnium laudatione utimur, ignoscent alii viri boni ex Sardinia; credo enim esse quosdam. [44] neque ego, cum de
vitiis gentis loquor, neminem excipio; sed a me est de universo genere dicendum, in quo fortasse aliqui suis moribus et human itate stirpis ipsius et gentis
vitia vicerunt. magnam quidem esse partem sine fide, sine societate et coniunctione nominis nostri res ipsa declarat. quae es t enim praeter Sardiniam
provincia quae nullam habeat amicam populo Romano ac liberam civitatem?
Tigellio
Tra i pochi sardi che ebbero fortuna a Roma il più conosciuto è Tigellio. Era un apprezzato musicista e cantante, amico intimo
di Cesare, di Cleopatra e di Ottaviano. Nemico acerrimo di Cicerone che per questo temeva ripercussione sui suoi rapporti con
Cesare. Era malvisto anche da Orazio che lo descrive come un personaggio incoerente e volubile, i cui funerali attirarono gli
individui più squallidi di Roma (venditori di impiastri, mendicanti di professione, prostitute, comici di basso rango).
Quinto Orazio Flacco Satire I, 3, vv. 1-191
Omnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos
ut numquam inducant animum cantare rogati,
iniussi numquam desistant. Sardus habebat
ille Tigellius hoc. Caesar, qui cogere posset,
si peteret per amicitiam patris atque suam, non
quicquam proficeret; si conlibuisset, ab ovo
usque ad mala citaret 'io Bacchae' modo summa
voce, modo hac, resonat quae chordis quattuor ima.
nil aequale homini fuit illi: saepe velut qui
currebat fugiens hostem, persaepe velut qui
Iunonis sacra ferret;…
habebat saepe ducentos,
saepe decem servos; modo reges atque tetrarchas,
omnia magna loquens, modo 'sit mihi mensa tripes et
concha salis puri et toga, quae defendere frigus
quamvis crassa queat.' deciens centena dedisses
huic parco, paucis contento, quinque diebus
nil erat in loculis; noctes vigilabat ad ipsum
mane, diem totum stertebat; nil fuit unquam
sic inpar sibi.
A tutti i cantori è comune questo difetto,
che pregati a cantare, si concedono;
se nessun li cerca, mai smettono.
In tal modo si comportava quel famoso sardo,
Tigellio.
Cesare Ottaviano, che poteva forzarlo,
se glielo avesse chiesto
in nome dell’amicizia del padre e della sua,
non avrebbe ottenuto niente;
se invece gli andava, era capace di cantare
“iò Baccanti”
dall’antipasto alla frutta, ora con voce grave,
ora con voce acuta.
Non aveva un minimo di equilibrio quell’uomo:
spesso correva come chi sfugge un nemico,
più spesso camminava come chi porta gli oggetti sacri
di Giunone; certe volte aveva duecento schiavi,
certe volte dieci; ora parlava solo di re,
di tetrarchi e di ogni magnificenza,
ora diceva” mi basta un tavolo a tre piedi e
una conchiglia con sale puro e una toga,
Quinto Orazio Flacco Satire I, 2, vv. 1-4
Ambubaiarum collegia, pharmacopolae,
mendici, mimae, balatrones, hoc genus omne
maestum ac sollicitum est cantoris morte Tigelli.
quippe benignus erat.
La corporazione delle cortigiane, i ciarlatani,
i mendicanti, le attricette, i buffoni, tutta questa genia
è mesta e affranta per la morte del cantore Tigellio.
Era infatti un uomo generoso.
anche di lana grossa, che mi
possa difendere dal freddo”. Ma se a questo uomo
parco,
contento di poco,avessi dato un milione, in cinque
giorni in cassa non gli sarebbe restato
più niente. Di notte stava sveglio fino al mattino,
l’intera giornata la passava a russare; nessuno fu mai
più incoerente.