Ellenisti: caso, necessità e disegno

3. Ellenisti (Epicurei, Stoici, Euclide): caso, necessità e disegno
(età ellenistica e greco-romana IV sec.a.C. III sec.d.C.)
Il contesto storico: politico, sociale e culturale
1. la dimensione politica imperiale (autonoma, universale e “trascendente”), l’imporsi
delle individualità personali e scientifiche, le direzioni e le forme della cultura
2. le parole comuni della filosofia ellenistica nella forma di filosofia dell’uomo e
come base di definizione e giustificazione del valore della conoscenza e della scienza.
Gli autori, le scuole e le strade proposte
1. Epicuro (341 – 271)
2. gli stoici (IV a.C. – III d.C.)
3. Euclide (sec. IV-III)
Il contesto storico: politico, sociale e culturale
Avvertenza cautelare preliminare sui termini storiografici dalla ampia cronologia. Un arco di tempo
molto lungo indicato con un unico denominatore: ellenismo; in realtà con indicatori interni più
articolati: epoca alessandrina 323-146 a.C. (fino alla conquista romana della Grecia), epoca
ellenistico-romana 146 a.C. – 529 d.C. Un arco di tempo che si apre con l’espansione della
monarchia macedone di Alessandro (seconda metà del IV secolo a.C.; la data della sua morte è
l’inizio simbolico dell’età ellenistica, il 323) e si prolunga, nel mondo latino, sino alla fine
dell’impero romano e oltre, cioè fino al formale inizio dell’età medievale, il 476 d.C. per la storia
politica (l’imperatore Romolo Augustolo viene deposto dalla carica, ed è l’ultimo imperatore, da
Odoacre, capo germanico proclamato re), e per la storia della filosofia il 529 d.C., anno in cui
Giustiniano, imperatore d’Oriente (dell’Impero romano d’Oriente) chiude con decreto l’Accademia
fondata da Platone ad Atene nel 387 a.C. Un unico denominatore, “ellenismo”, adottato per
richiamare circa otto secoli, più che definire, segnala la lontananza prospettica di chi osserva e
definisce; lo sguardo coglie delle uniformità e delle tendenze di lungo corso ma ad esse sacrifica
realtà singolari uniche e processi plurimi in atto, destinati a rivelarsi strumenti irrinunciabili di
osservazione e di scoperta. Bisognerà adottare uno sguardo a doppia distanza capace di vedere
prima la situazione culturale complessiva di lungo periodo, e poi le proposte e le tesi di carattere
filosofico-scientifico dei diversi soggetti storici: scuole, autori, testi.
Emblematica, in tal senso, la storia delle opere di Aristotele che rappresenta un evento culturale di
grande rilievo nel pieno dell’età ellenistica. Scomparse alla sua morte, quelle opere ricompaiono nel
I secolo a.C. nella sistemazione attuata da Andronico da Rodi. Un ordine che non ricostruisce la
situazione originaria delle opere aristoteliche ma presenta la volontà di seguire
contemporaneamente quei due criteri che ricorrono in modo esplicito nei progetti culturali del
periodo ellenistico: una visione complessiva del sapere e la distinzione specialistica delle aree
indagate. Le opere di Aristotele sono ordinate da Andronico in una sequenza enciclopedica, in senso
letterale, uno sguardo circolare complessivo, mostrano cioè lo sguardo totale che la filosofia
aristotelica si impegna di adottare, dalla logica e filosofia prima alla poetica. La sequenza interna al
corpus aristotelicum pone in risalto tuttavia i settori disciplinari “specialistici” di indagine, per i
quali Aristotele stesso prevede, nel rispetto di regole comuni di logica e razionalità, una
metodologia specifica e propria, imposta dalla natura particolare dell’oggetto indagato.
1. la dimensione politica imperiale (autonoma, universale e “trascendente”), l’imporsi
delle individualità personali e scientifiche, le direzioni e le forme della cultura
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1.1. monarchie uniche, monarchi divini e sudditi devoti. Nell’ampio arco di tempo preso in
considerazione muta il quadro politico che aveva fatto da sfondo al nascere e all’affermarsi della
filosofia greca. La fine dell’indipendenza delle pòleis è segnata dal prevalere di regni di vaste
dimensioni, come l’impero macedone, le monarchie ellenistiche, l’impero romano: il cittadino,
divenuto suddito, dispone di scarse libertà e vive in prima persona il tema della propria sorte,
casualità e fortuna; l’intellettuale, privato di ruoli e iniziativa propri nello spazio politico, tende a
circoscrivere l’ambito delle proprie ricerche a quei saperi, come la logica, l’etica, la matematica o la
medicina, che tendendo allo specialismo e promettendo garanzie di settore, non suscitano il sospetto
dei sovrani; in cambio infatti della rinuncia a ruoli politici diretti o autonomi, sia come studiosi sia
come cittadini, il filosofo e lo scienziato ottengono dai sovrani il riconoscimento di una certa libertà
di ricerca e la disponibilità di istituzioni attrezzate come biblioteche e laboratori in cui studiare e
operare per nuclei, scuole e circoli di iniziati.
1.2. scienze e filosofie nell’età degli imperi. Si moltiplicano, in quest’epoca, le scuole filosofiche i
cui programmi, pur diversi tra loro, sono diretti all’uomo considerato nella sua individualità,
propongono cammini, con massime ed esercizi “spirituali” orientati prevalentemente verso la
liberazione dalle paure e dai turbamenti; per favorire il conseguimento di tale fine, nel quale
consiste la saggezza, ogni scuola elabora specifici esercizi, forme di riflessione, terapie per la cura
dell’anima: sotto la guida dei maestri, all’interno di scuole, come il Giardino di Epicuro o la Stoa di
Zenone, gli allievi riflettono sui testi filosofici, ne discutono le proposte, si preparano ad affrontare
gli eventi della vita, imparando a vedere in essi (anche in quelli più difficili da sopportare come il
lutto, la malattia, gli insuccessi) accadimenti naturali dotati di una loro ragion d’essere; nella scuola
che Plotino apre a Roma, la rilettura dei testi antichi induce al distacco da ciò che è reale,
molteplice, per tendere misticamente verso il principio supremo, l’Uno. In questi centri di cura, per
lo più per iniziati ma senza il rigore delle antiche e tramontate gerarchie sociali, la filosofia diventa
soprattutto un’arte di vivere, una pratica di saggezza che non si esaurisce nella conoscenza; parte
dal conoscere, dalla cultura generale e dallo stesso sapere scientifico, ma per tradursi in un ideale di
vita filosofica che, in quanto fondato sulla “retta conoscenza” e non su infondate opinioni, credenze
e superstizioni, dovrà essere caratterizzato da serenità e moderazione, amicizia e solidarietà.
1.3. trattati filosofica nel rispetto della forma e della logica scientifica esplicitamente
codificata: felicità e specialismi. Alle riflessioni filosofiche, in cui prevalgono le preoccupazioni
etiche, si affiancano le indagini scientifiche, alla ricerca di una loro autonomia di metodo e di
contenuto: nasce in età ellenistica la figura dello scienziato come figura autonoma dal filosofo e si
affermano forme di razionalità, come quella geometrica di Euclide e quella medica di Galeno, che
domineranno per secoli la cultura scientifica. Ma, nelle scuole filosofiche, il dato culturale
dominante è quello di una stretta congiunzione tra filosofia e scienza a partire da una nuova
urgenza, quella etica; tratto che emerge da tutta la produzione filosofica del periodo ellenistico pur
nella estrema varietà delle posizioni e delle contrapposizioni. Non la conoscenza per se stessa e
dunque i saperi e gli specialismi, ma la ricerca di tranquillità, serenità, felicità genera la domanda di
senso e conseguentemente lo studio del mondo condotto su basi scientifiche empiriche e razionali.
In questa congiuntura si delinea un legame strettissimo tra etica e fisica; tra la ricerca delle
condizioni di serenità e lo studio del mondo nei suoi aspetti generali e in quelli specifici dei molti
fenomeni che lo riguardano.
Nella produzione rimasta ricorrono forme del testo molto distanti dalla tradizionale impostazione di
un programma di studio o di un trattato (come accade nelle opere aristoteliche), come lettere e
raccolte di sentenze; ma immediato e programmatico è in esse il passaggio dal fine etico
all’impegno scientifico per la definizione di una cosmologia complessiva e per l’analisi di settori
particolari. Al di là dell’apparente frammentarietà dell’epistolario o dell’aforisma, le principali
filosofie ellenistiche sono sostenute da un solido sistema filosofico la cui struttura logica geometrica
è comunque solitamente delineata in forme che richiamano l’architettura del trattato: in esso il
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filosofo e lo scienziato sistemano ordinatamente le conoscenze dell’intera realtà, riproducono
l’ordine razionale che governa l’universo, ora richiamandosi al moto degli atomi, come fanno gli
epicurei, ora al disegno di un Lógos provvidenziale, come gli stoici, ora a una gerarchia di gradi
della realtà emanati dall’Uno, come i neoplatonici; nell’ordine sistematico del trattato vengono
ricomposte (anche in forma eclettica) tutte le conoscenze sul mondo fisico e umano a disposizione.
Alla radice di queste procedure ordinate secondo logica vi è un’opera che fin dal III secolo
accompagna e definisce, in modo particolare, la cultura ellenistica; infatti, nell’ambito delle ricerche
scientifiche, a partire dal III secolo, è il rigoroso ordine argomentativo degli Elementi di Euclide che
diviene il modello di esposizione scientifica ritenuto capace di archiviare tutte le conoscenze; a esso
si ispireranno Archimede per le sue opere di meccanica, Aristarco per quelle di astronomia, Galeno
per quelle di biologia e medicina.
1.4. i luoghi: le istituzioni (pubbliche) e il sostegno, la ricerca di spazi liberi.
La diffusione del trattato e il costituirsi di autonome discipline scientifiche fanno leva su istituzioni
culturali, come il Museo di Alessandria e le grandi biblioteche delle città ellenistiche, in cui la
comunità degli studiosi può operare. Importanti poli di attrazione per filologi, letterati, eruditi,
filosofi, scienziati, il Museo e le biblioteche di Alessandria, Pergamo, Antiochia nascono per
iniziativa dei sovrani ellenistici; con il prioritario fine di imporre a una società caratterizzata dalla
presenza di molte etnie e tradizioni, una nuova omogeneità fondata sulla superiorità della cultura
greca e della lingua della koiné, i re ellenistici avviano, spesso in rivalità fra loro, un imponente
processo di raccolta delle opere del mondo antico: creano biblioteche (con responsabili della
conservazione e della catalogazione delle opere, traduttori, copisti, disegnatori e, infine,
commentatori e interpreti, ispiratori e guide per circoli di dotti e di fedeli), dove immagazzinano
testi appartenenti alla tradizione culturale greca, orientale, ebraica che provengono dalle più diverse
regioni del bacino del Mediterraneo e del Vicino Oriente; finanziano l'istituzione di centri di ricerca
scientifica in cui lo studioso possa disporre di opere da consultare, laboratori in cui operare, edifici
in cui alloggiare a spese dei sovrani.
Spazi protetti, nei quali gli intellettuali trovano mezzi e finanziamenti messi a disposizione dal
sovrano, le grandi istituzioni culturali ellenistiche possono però apparire come carceri dorate nelle
quali il filosofo è limitato nella sua libertà e autonomia; all’ironico sguardo del filosofo scettico
Timone, il Museo alessandrino, massima istituzione culturale egiziana, si presenta come una
«gabbia di Muse» dove «vengono allevati degli scribacchini libreschi che si beccano eternamente».
Una consapevolezza che si riflette nella pluralità dei luoghi in cui la filosofia decide di operare: le
pubbliche Accademie (per lo più per specialisti) e accanto, o per differenza, i circoli culturali aperti
di iniziazione come il giardino (orto di Epicuro), il portico (degli “stoici”), e accanto, per ulteriore
differenza ed esplicito contrasto e contrapposizione, la pubblica piazza, i luoghi alla periferia della
città (ai confini, al margine come i cimiteri per Antistene). In quest’ultimo caso, l’opposizione
critica è pressoché totale: non le scuole ufficiali di ricerca e studio come l’Accademia di Platone o il
Liceo di Aristotele, nemmeno i luoghi culturali di ricerca gestiti e finanziati dal potere politico
come la Biblioteca di Alessandria d’Egitto e nemmeno i circoli pur aperti ma sempre per iniziati
come la scuola epicurea e stoica; la natura e il diretto rapporto con essa in tutti i suoi aspetti è il
luogo in cui vivere per una autentica cultura, per una libera scienza, per un’etica che si oppone ad
ogni forma di asservimento.
1.5. i testi e le forme del filosofare (forme e performances)
1.5.1. Lettere, massime, sentenze, esortazioni. È il caso di Epicuro e delle opere dello stoicismo (o
almeno di ciò che resta delle loro opere). Convinto assertore del carattere liberatorio
dell’insegnamento filosofico, Epicuro ripetutamente raccoglie in massime da imparare a memoria e
ricordare, in lettere da rileggere e meditare, i punti essenziali del programma di liberazione dai
turbamenti indicati nel quadrifarmaco (riassunto in un papiro scoperto ad Ercolano: «La divinità
non è cosa da far paura. La morte non è cosa da guardare con sospetto. Il bene è cosa facile da
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conseguire. Il terribile è cosa facile da sopportare.» Terapia, il cui scopo è la guarigione degli
allievi-amici ancora lacerati dai timori della morte, degli dei, del dolore, la filosofia è per Epicuro il
solo farmaco in grado di fornire all’uomo i mezzi per conquistare la salute dell’animo: tali mezzi
consistono in esercizi di meditazione e memorizzazione da condurre «giorno e notte», in sforzi
concreti per tradurre in pratica i principi appresi nella scuola, attraverso l’analitica messa in
discussione delle convinzioni popolari sul destino umano, sull’oltretomba, sui castighi divini, sul
dolore. Epicuro fa ampio ricorso alla forma epistolare per indirizzare ai propri allievi brevi
compendi della filosofia che egli espone nelle lezioni orali e nei più articolati trattati. Nelle lettere
egli condensa gli aspetti più significativi della sua riflessione, facendone l’oggetto di una facile
lettura, di una rapida memorizzazione e di un’ampia diffusione tra allievi e amici del Giardino. La
scelta della brevità, leggibilità e divulgabilità va posta in relazione con la triplice finalità
pedagogica, pratica e terapeutica della filosofia di Epicuro; tesa a formare eticamente i suoi studenti
(fine pedagogico), a orientarli verso un ideale di vita filosofica (fine pratico), a liberare i loro animi
da ogni infondata paura (fine terapeutico), la lettera indica precisi esercizi spirituali da compiere
«giorno e notte», precetti e massime da apprendere e applicare, farmaci con cui guarire gli animi.
È il caso di Seneca, principale esponente della tradizione stoica nella cultura latina. Le Epistulae
che egli indirizza all’amico Lucilio costituiscono il momento culminante della riflessione del
filosofo, oltre che la sua opera più celebre e originale. In esse Seneca applica il modello epicureo
della lettera come colloquium destinato non solo a discutere temi teorici generali, ma anche a
esortare al bene e a fornire una guida per la meditazione. L’epistula si presenta come il genere
letterario più adatto a una pratica quotidiana della filosofia: essa consente di prendere spunto dalla
realtà vissuta per delineare un magistero spirituale che accompagna il destinatario in un percorso di
perfezionamento progressivo.
1.5.2. Trattati e formalizzazione scientifica: una nuova pratica di generazione delle opere filosofiche
e l’emergere di nuove forma del testo scientifico, il trattato; forma nuova per modalità di
formazione e per esigenze di trasmissione del sapere. «Per spiegare il diverso clima culturale
occorre tener conto anche di un diverso tipo di organizzazione e di trasmissione del sapere. La
cultura filosofica e scientifica dei secoli V e IV a.C. era una cultura affidata in gran parte alla parola
e alla discussione, benché il libro fosse già una realtà. Ma il libro — si pensi ai dialoghi di Platone e
a quelli perduti di Aristotele — era più il deposito di un’elaborazione orale che una costruzione
autonoma. L’ambito di formazione delle dottrine filosofiche e scientifiche erano le scuole,
l’Accademia e poi il Liceo, ove gli scambi orali erano intensi. Ma già nelle scuole prende forma un
tipo di scritto, la bozza di lezioni, gli appunti (tali sono le opere conservate di Aristotele) che si
muovono nella direzione del trattato. Nell’epoca ellenistica, filosofia e scienze si scindono anche a
livello istituzionale: ad Atene restano le vecchie scuole filosofiche e se ne fondano di nuove, ma gli
scienziati sono altrove, ad Alessandria o a Siracusa. Ad Atene continua la tradizione della
discussione filosofica, ma ad Alessandria il libro nella nuova veste del trattato diventa la vera forma
dell’elaborazione scientifica come forma appropriata all’autonomia di ogni edificio scientifico
assiomatico.» (Cambiano Giuseppe 1981 Filosofia e scienza nel mondo antico, Loscher, Torino,
26-27) È il caso dell’opera di Euclide. Ricomposizione ordinata e rigorosa delle conoscenze dei
matematici greci, gli Elementi, con la loro articolata scansione in definizioni, postulati, assiomi,
dimostrazioni, offrono un modello nuovo e organico di sistemazione del discorso scientifico: ogni
conoscenza e ogni questione trova la sua collocazione in un ordine espositivo serrato e impersonale
che non ammette lacune e ripetizioni, genericità o ambiguità espressive; ogni termine viene definito
e ogni proposizione è connessa alle altre secondo un rigoroso procedimento dimostrativo. Il trattato
euclideo si presenta così come forma costitutiva della scientificità: solo se si rivelano riconducibili
alla sua rigorosa struttura, i saperi (la biologia, l’astronomia, la fisica, la medicina ecc.) possono
qualificarsi come scientifici.
1.5.3. Performances filosofiche critiche, provocatorie, libertarie. È il caso dei cinici. «Sul piano
teorico e nella pratica quotidiana, i Cinici sviluppano una vera e propria contestazione globale non
più solo della Città, ma della Società e della Civiltà. La loro protesta è una critica generalizzata
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dello stato civilizzato, critica che sorge nel IV secolo, con la crisi della Città, e che vede tra i suoi
terni principali il ritorno allo stato selvatico. Sul piano negativo, essa si realizza attraverso la
denigrazione della vita nella città ed il rifiuto dei beni materiali prodotti civiltà. In positivo,
abbiamo uno sforzo per recuperare la vita semplice dei primi uomini, che bevevano l’acqua delle
sorgenti e si nutrivano di ghiande raccattate sul suolo o raccogliendo i frutti delle piante. Per
apprendere di nuovo a mangiare erbe crude, poi, i Cinici si propongono due modelli: i popoli
selvaggi che hanno conservato inalterato questo tenore di vita, e gli animali che non sono stati mai
contaminati fuoco di Prometeo. In effetti, il Cinismo è percorso da una corrente antiprometeica,
volta contro l’invenzione del fuoco, portatore di tecniche e di civiltà . Per inselvatichirsi, non basta
mangiare cibi crudi, né praticare l’omofagia di quel Diogene che, pagando di persona, disputa ai
suoi cani un pezzo di polpo crudo; occorre anche disarticolare il sistema di valori su cui la società si
fonda. Il ritorno alla selvaticità passa attraverso la critica a Prometeo, non più sacrificatore
responsabile della separazione tra dei ed uomini, ma Titano civilizzatore dell’antropologia culturale,
mediatore colpevole di aver tratto l’umanità dallo stato selvaggio facendole il dono attossicato del
fuoco.» (M. Detienne, Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Bari 1981,p.113)
Contro ingiustificate convenzioni, inutile complessità, istituzioni politiche sede storica di violenza,
menzogna, esclusione. «Antistene non lesinava il suo disprezzo per gli Ateniesi che si vantavano di
essere autoctoni, anzi diceva che non erano più nobili delle chiocciole e delle cavallette»
«(Antistene) Consigliava agli Ateniesi di decretare che gli asini sono cavalli e poiché quelli lo
ritenevano assurdo, disse: “Eppure da voi per diventare strateghi non occorre alcuna istruzione:
basta l’alzata di mani”.»
«(Diogene) Era bravo nel trattare gli altri con estrema alterigia. Definiva bile (kolé) la scuola
(skolé) di Euclide, la conversazione di Platone “perdita di tempo” (diatribén – katatribén) gli
agoni dionisiaci grandiose meraviglie per gli sciocchi, i demagoghi ministri della massa.»
(testimonianze tratte da: Diogene Laerzio, Vite di filosofi, Libro VI, Laterza, Bari 1976 pp. 203213)
A commento: «…ciò per cui un essere umano deve davvero provar pudore non può essere stabilito
in alcun modo mediante convenzioni sociali, tanto più che la società stessa sembra basata su
perversioni e irragionevolezze di ogni genere. Il cinico, dunque, prende allegramente congedo
dall’incarnita tutela del comune senso del pudore, con relativi comandamenti. Infatti, i costumi
morali — pudiche convenzioni incluse — potrebbero poi in realtà rivelarsi assurdi o perversi; e
allora: solo un controllo ispirato ai principi della natura e della ragione potrà fornire basi sicure.
L’animale politico rompe con la politica del pudendum. Mostra come gli esseri umani, di norma,
provino pudore per le cose sbagliate, per la loro physis, per il loro lato animale, che è innocuo,
mentre restano intatti comportamenti irragionevoli e orribili come l’avidità, l’ingiustizia, la crudeltà,
la vanità, la prevenzione e la cieca follia. Diogene rovescia questa prospettiva.» (Sloterdijk o.c.
p.137)
Vivere al meno. Il mantello «Antistene era soprannominato il puro Cane o il Cinico schietto. Come
afferma Diocle, fu il primo a rendere due volte tanto il mantello e ad usare soltanto questo
indumento e a portare un bastone e una bisaccia. Anche Neante conferma che fu il primo a
raddoppiare il mantello. Invece Sosicrate nel terzo libri, delle Successioni dei filosofi afferma che
il primo fu Diodoro di Aspendo, che pure si lasciò crescere la barba e usava bisaccia e bastone.»
(Diogene Laerzio o.c.) «Secondo alcuni, (Diogene) fu il primo a raddoppiare il mantello per la
necessità anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; si serviva
indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione, per dormirci, per conversare» (ivi)
«Tutto quello che possiedono, i cinici se lo portano addosso. Per Diogene e i suoi vuol dire: un
mantello parapioggia, buono per ogni stagione, un bastone, uno zaino contenente i pochi averi (fra
cui forse uno stuzzicadenti), un pezzo di pomice per le pulizie personali, una borraccia di legno, i
piedi calzeranno semplici sandali.» (Peter Sloterdijk Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano
1992 p. 122) Il cibo «Una volta (Diogene) vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò
via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: “Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità”. Buttò via
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anche il catino, perché pure vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava
di un pezzo di pane.»
2. le parole comuni della filosofia ellenistica nella forma di filosofia dell’uomo e
come base di definizione e giustificazione del valore della conoscenza e della scienza.
Si tratta di “scuole” (che tendono ad assumere la forma di circoli, comunità) che identificano nella
dimensione individuale il primo e diretto contesto di lavoro filosofico. Il saggio è artefice della
propria felicità e libertà e, quindi, «ciò che distingue la filosofia antica da quelle che seguiranno è la
proposizione di esercizi spirituali aventi lo scopo di produrre una trasformazione della natura del
soggetto che li pratica.» (Onfray Michel Cinismo, Principi per un’etica ludica, Rizzoli, Milano
1992 p.10). L’obiettivo è la felicità e la felicità è intesa come liberazione dal turbamento fonte di
schiavitù. Liberazione affidata, contemporaneamente, ad un complesso percorso: dall’esterno
all’interno; dall’osservazione scientifica della realtà, condotta con metodo, all’ascolto e indagine
prioritaria dei modi con cui l’uomo osserva, ricorda e, in generale, vive quella realtà in cui si trova
immerso. L’osservazione scientifica serve alla tranquillità interiore e alla sintonia con la natura,
l’esplorazione di sé e delle proprie capacità apre il soggetto ad una attenta e non pregiudiziale
sensibilità nei confronti degli stimoli e dei segni che la realtà invia all’uomo.
2.1. il primo impegno: la mappatura del disagio. Occorre esplorare ed evidenziare l’universo
delle schiavitù cui l’uomo è sottoposto o a cui, spesso inconsapevolmente ma con pazienza e quasi
attaccamento si rassegna. La sfida è quella di individuale e vincere le resistenze che l’abitudine
oppone al riconoscimento di ciò che effettivamente opprime. È proprio l’universo delle schiavitù, la
dinamica del suo estendersi e del suo automatico riprodursi in una costrizione vissuta come normale
libertà, a costituire il campo di applicazione e presenza della filosofia ellenistica.
2.2. le indicazioni di uscita coinvolgono teoria e prassi in una sorta di terapia integrata, consegnata
ad un grappolo di strategie e di esercizi.
2.2.1. la retta conoscenza ci libera dalle paure. Risalta con evidenza qui la finalità e la funzione
etica della scienza; anch’essa è saggezza o non può prescinderne, perché trova la propria spinta
nell’obiettivo di realizzare la funzione terapeutica della filosofia attraverso la conoscenza
scientifica. La constatazione della diversità dei luoghi della cultura tra la filosofia (con sede nelle
scuole e nei circoli) e la scienza, ha fatto sorgere tesi su di una separazione tra scienza e filosofia o
di una loro non comunicazione; la tesi che è in grado di registrare il processo culturale in atto è più
complesso. È proprio nel periodo ellenistico che prendono il via e trovano espressione le ricerche
scientifiche settoriali nelle forme di autonomia che ancora oggi caratterizza la produzione
scientifica, così come trova espressione specifica la definizione delle coordinate formali del sapere
scientifico, come accade negli Elementi di Euclide; ma, contemporaneamente si riflette sul destino e
sulla finalità etica della produzione scientifica. Una articolata riflessione sulle procedure che
garantiscono un esito scientifico trova la sua esposizione proprio nelle opere degli epicurei e degli
stoici (come degli scettici, dei cinici e dei neoplatonici) la cui finalità prima è quella di garantire per
l’individuo le condizioni per la felicità; a tale scopo allo specialismo occorre affiancare una visione
d’insieme della realtà e della vicenda cosmica.
2.2.2. con un prefisso, l’alpha privativo, è indicata la tecnica della liberazione e si definisce l’intero
progetto etico e scientifico delle filosofie ellenistiche: la tecnica del togliere, il modus tollens, la
cancellazione del superfluo. La libertà è libertà da (non libertà di), il sapere e il piacere non stanno
nell’accumulo ma nella saggia e serena eliminazione del superfluo, il giusto giudizio è quello che si
accompagna anche alla sua sospensione ... e così vengono ridefiniti tutti i termini dell’etica secondo
una tecnica e una concezione che mira a dare all’uomo la piena autonomia del proprio sguardo e
delle proprie scelte sia nel campo dell’agire sociale sia nel campo della ricerca e costruzione della
scienza.
3.3. le tecniche: laboratori di etica filosofica per educare alla retta conoscenza, al piacere e alla
felicità come atteggiamento preliminare per ogni tipo di competenza, affinchè questa non si
consegni a ossessivi specialismi unilaterali: meditazione, colloqui, scambi, confronti,
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corrispondenza, esercizi “spirituali” che educano allo sguardo d’insieme e all’ascolto (filosofico e
scientifico) rivolti all’intera realtà: a se stessi, alle proprie sensazioni, agli stimoli e ai segni che ci
colpiscono dall’esterno, alle nostre reazioni … «abbiamo infatti bisogno di una visione di insieme e
non di conoscenze specialistiche. Bisogna dunque risalire spesso a quei principi e, imprimendoseli
nella memoria, far sì che da essi derivi innanzitutto una visione generale delle cose» (Epicuro,
Lettera a Erodoto)
esploro riconosco e catalogo riconducendo a
forme l’universo delle paure e delle schiavitù
gli ambiti
le forme
biologico
bisogni
passioni
sofferenze
morte
corpo
cosmico
catastrofi naturali
eventi fatali
leggi inesorabili
sociale
obblighi sociali
consuetudini
differenze sociali
potere politico
legami …
fonti di turbamento
nella scuola-circolo attivo una terapia filosofica
teorica e pratica che attua la liberazione
liberazione teorica
liberazione pratica
la ricerca (sképsis) e i
un laboratorio “ascetico”
suoi fini etici: una retta attuato con la tecnica del
nozione, una
“togliere” (del ridurre al
spiegazione scientifica, minimo, eliminare il
un giusto giudizio
superfluo, il lusso
riguardante i settori da [regola etica e logica])
cui provengono timori
 a-tarassia
paure preoccupazioni:
 a-diaforia
 dio e il cielo
 a-prassia
 destino
 a-ponia
 mondo
 a-fasia
 vita e morte
e: senza opinione
 verità e errore
senza inclinazione
 virtù
senza agitazione
 piacere e dolore
senza coinvolgimento
 desideri
“epoché” = sospensione
 sensazioni
(di giudizio e di azione)
assenza di turbamento = felicità “eudaimonia”
3.3.1. «Tuttavia, sotto questa apparente diversità, c’è un’unità profonda, nei mezzi impiegati, e nel
fine cercato. I mezzi impiegati sono le tecniche dialettiche e retoriche di persuasione, le prove di
padroneggiamento del linguaggio interiore, la concentrazione mentale. Il fine cercato in tali esercizi
da tutte le scuole filosofiche è il miglioramento, la realizzazione di sé. Tutte le scuole concordano
nell’ammettere che l’uomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine
infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive
veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l’uomo possa
essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi,
raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa
educazione di sé, a questa paidéia che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e
alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma
conforme alla natura dell’uomo, che non è altro che la ragione. Tutte le scuole, ciascuna a suo
modo, credono dunque nella libertà della volontà, grazie a cui l’uomo ha la possibilità di modificare
se stesso, di migliorare, di realizzarsi. Alla base di questo c’è un parallelismo tra esercizio fisico ed
esercizio spirituale: come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza
nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua
atmosfera interiore, cambia la sua visione del mondo e infine l’intero suo essere. L’analogia poteva
parere tanto più evidente in quanto proprio nel ghimnasion, ossia nel luogo dove si praticavano gli
esercizi fisici, si tenevano anche le lezioni di filosofia, ossia si praticava l’allenamento alla
ginnastica spirituale. … La vera filosofia è dunque esercizio spirituale, nell’antichità. Le teorie
filosofiche sono messe esplicitamente al servizio della pratica spirituale, come accade nello
stoicismo e nell’epicureismo, o sono fatte oggetto di esercizi spirituali, ossia di una pratica della
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vita contemplativa che a sua volta non è null’altro che un esercizio spirituale.» Hadot Pierre
Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, p.58-63 passim)
3.3.2. L’alpha privativo, la “libertà da”, il modus tollens … non sono espressioni che si limitano ad
indicare una massima ascetica di comportamento che ha sede e valore solo in campo etico, si tratta
di un indirizzo metodologico che fonda e sorregge l’intero atteggiamento conoscitivo e, nello
specifico, quello scientifico. È un indirizzo per gestire le proprie facoltà riducendo al minimo
interferenze e ostacoli (pregiudizi, opinioni fallaci, consuetudini unidirezionali…); per affrontare
l’esperienza sapendo mirare all’essenza, cogliere la natura, dare il giusto nome a ciò che ci accade;
per definire percorsi di scoperta riconoscendo ed eliminando false piste, anche quando queste ci
vengono imposte da autorevoli pensatori e lunghe consuetudini di pensiero; costruire teorie legando
la loro efficacia e verità alla semplicità dei principi e delle procedure, alla bellezza dell’insieme.
Gli autori, le scuole e le strade proposte
1. Epicuro (341 – 271)
1.1 felicità e piacere nella logica del togliere
«Ti invito invece ad assidui piaceri non a vacue e stolte virtù ch’abbiano inquiete speranze di buoni
frutti.» (ad Anassarco) «Quanto a me, non so farmi un concetto del bene, se ne detraggo i piaceri
del gusto, ne detraggo quelli di Venere, o quelli dell’udito ed i soavi moti che dalle forme riceve la
vista» (Frammenti, Del fine)… «In base al calcolo e alla considerazione degli utili e dei danni
bisogna giudicare tutte queste cose. Talora infatti esperimentiamo che il bene è per noi un male, e
di converso il male è un bene. Consideriamo un gran bene l’indipendenza dai desideri, non perché
sempre dobbiamo avere solo il poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo accontentarci
del poco; profondamente convinti che con maggior dolcezza gode dell’abbondanza chi meno di
essa ha bisogno, e che tutto ciò che natura richiede è facilmente procacciabile, ciò che è vano
difficile a ottenersi. I cibi frugali inoltre danno ugual piacere a un vitto sontuoso, una volta che sia
tolto del tutto il dolore del bisogno, e pane ed acqua danno il piacere più pieno quando se ne cibi
chi ne ha bisogno. L’avvezzarsi a un vitto semplice e frugale mentre da un lato dà la salute,
dall’altro rende l’uomo sollecito verso i bisogni della vita, e quando, di tanto in tanto, ci
accostiamo a vita sontuosa ci rende meglio disposti nei confronti di essa e intrepidi nei confronti
della fortuna.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene, non intendiamo i piaceri dei dissoluti o quelli
delle crapule, come credono alcuni che ignorano o non condividono o male interpretano la nostra
dottrina, ma il non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima. Poiché non banchetti e feste
continue, né il godersi fanciulli e donne, né pesci e tutto quanto offre una lauta mensa dà vita felice,
ma saggio calcolo che indaga le cause di ogni atto di scelta e di rifiuto, che scacci le false opinioni
dalle quali nasce quel grande turbamento che prende le anime.» Epicuro, Lettera a Meneceo.
1.1.1. Il piacere (edoné) consiste nella semplice assenza di dolore, la felicità nella completa
liberazione da ogni fonte di turbamento e sofferenza; non è edonismo ma saggezza (edonismo come
risultato di saggezza). Sobria voluttà; il vero piacere è sobrio; tesi che va sia contro il mito e la
tradizione dello sfrenato e dell’orgiastico, sia contro “l’orgia rovesciata” presente nel rigore
ostentato dell’asceta e nella violenza dell’ordine [vedi Nietzsche, Aurora, Hesse, Siddharta,
Yourcenar, Memorie di Adriano].
1.1.2. la retta nozione di felicità e piacere. L’uomo trova dunque in se stesso, nella inclinazione al
piacere, il solo fondamento di eticità [vi è uno stretto legame tra la teoria gnoseologica di Epicuro
interamente basata sulle sensazioni come unica fonte materiale di conoscenza e la sua teoria etica
che pone il piacere a principio e fine dell’etica stessa]: «quando diciamo che il piacere è il bene —
specifica però Epicuro, consapevole degli equivoci cui si presta la sua tesi, — non intendiamo i
piaceri dei dissoluti o quelli delle crapule, come credono alcuni che ignorano, o non condividono, o
male interpretano la nostra dottrina»; il piacere che dà «l’indipendenza dai desideri» (definito
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catastematico, in quanto si realizza nella quiete) differisce da quello che nasce dallo sforzo per la
loro soddisfazione (cinematico, cioè ricercato nel movimento e nell’azione): il primo proviene dalla
limitazione dei bisogni; il secondo avvia un processo di continua autoalimentazione dei desideri,
accende bisogni sempre maggiori (di cibi raffinati, oggetti preziosi, divertimenti smodati) e non
porta alla completa liberazione dai desideri ma al loro accumulo (base per una vita sociale che
consegna economia e civiltà alla complicazione, irrispettosa delle dimensioni personali individuali).
La ricerca del piacere è esercizio di ascesi e, viceversa, l’ascesi non assume un volto di sofferenza
ma è contesto di piacere. Un ruolo determinante nel raggiungimento di questa condizione di felicità,
che consiste «nel non soffrire nel corpo (aponìa) e nel non essere turbati nell’anima (ataraxia)».
1.1.3. Il piacere è l’arte di gestire il desiderio, ad impedire che si estingua. Né coincide con il
desiderio, né lo esclude; non può prescindere dal desiderio (non sarebbe piacere o si nega nella
propria dinamica realizzazione) non può esaudirlo (non può esaurirlo, sarebbe estinguerlo); in
questa dinamica si colloca il tormento e la melanconia del piacere e in tale contesto si colloca la
tecnica della sottrazione proposta da Epicuro. L’esercizio di riflessione filosofica più efficace
consiste in un analitico lavoro di sottrazione che deve essere compiuto, ora per separare quanto la
natura impone all’uomo (come la soddisfazione del bisogno di cibo, bevande e riparo) da quanto è
superfluo (come sono, ad esempio, gli eccessi e le raffinatezze), ora per liberare dalla loro
ingombrante presenza fantasmi come l’oltretomba, la sofferenza, le punizioni divine, la morte: di
ciascuna di queste temute presenze Epicuro dimostra l’infondatezza con un rigoroso procedimento
di sottrazione che sposta il fenomeno indagato (le punizioni divine, l’aldilà, il dolore, la morte) sul
piano del non essere o di una lontana trascendenza, neutralizzandone così la temibilità.
Riconducendo il dolore, la morte, l’aldilà al non essere, e opponendo a esso l’essere del piacere,
della vita, dell’aldiqua, Epicuro dà così un preciso fondamento ontologico e di metodo scientifico
alla sua etica.
1.2. liberi da paure e bisogni: il nuovo statuto della scienza, una scienza etica
1.2.1. il fine della scienza e della filosofia
Il carattere strumentale della conoscenza scientifica, costantemente subordinata al supremo fine
etico, l’imperturbabilità, è efficacemente riassunto nella lapidaria prosa dell’undicesima massima
capitale di Epicuro: «Se non ci turbassero per nulla i sospetti delle cose celesti e quelli sulla morte,
che essa non abbia a essere qualcosa per noi, e ancora il non conoscere i confini dei dolori e dei
desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura».
La conoscenza dell’universo fisico trova dunque la sua legittimazione non nella meraviglia, cui
Aristotele fa esplicito riferimento nelle sue opere, o in se stessa, ma nella sua capacità di liberare
l’uomo dalle paure infondate, dai fantasmi prodotti dall’immaginazione popolare o dai sistemi
metafisici della tradizione.
«È compito della scienza della natura darci preciso conto della causa dei fenomeni più importanti,
... in questo risiede la felicità, e nel conoscere la natura dei corpi che contempliamo nei cieli, ed in
tutte le conoscenze congeneri rispetto al raggiungimento della perfetta scienza che renda la vita
felice.» (ad Erodoto)
«Bisogna esser persuasi che dalla conoscenza dei fenomeni celesti in qualsiasi modo se ne tratti, o
unitamente ad altre dottrine o separatamente, non può derivare altro scopo se non la tranquillità e
la sicurezza dell’anima, ciò che del resto è pure lo scopo d’ogni altra ricerca.» (a Pitocle)
«Non scioglie il terrore di ciò che all’uomo più importa, chi non sa quale sia la natura
dell’universo e sta in ansia e sospetto per le favole dei miti. Senza studio della natura non è dunque
possibile godere schietti piaceri.» (Massime capitali XII)
«Non vi è tranquillità d’animo se non nell’essere sgombri da tutti questi errori e nel ricordarci
assiduamente delle dottrine generali e fondamentali… Quelli poi che non possono del tutto
considerarsi fra i perfettamente edotti della mia dottrina, possono da questi precetti, per quanto è
concesso senza insegnamento orale, compiere mentalmente l’esame complessivo delle dottrine più
importanti per il conseguimento di una vita serena.» (ad Erodoto)
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spunti di lettura:
—la scienza, il sapere, tende ed ha il suo movente nella felicità (rapporto scienza —felicità come
criterio di validità della scienza)
—felicità: non definita in positivo, come conseguimento di precisi obiettivi o stati, ma come libertà
dalla paura o da turbamenti
—ci libera dalla paura la scienza
—questo è il massimo piacere: il non essere turbati da...; il piacere è la stato in cui ci colloca il
sapere, piacere inteso come vita serena, come quiete, tranquillità frutto di saggezza
—premesse per un’etica fondata sul piacere
1.2.2. il metodo della scienza e della filosofia
«Per prima cosa occorre convincersi che nello studio dei fenomeni celesti, sia considerati nella
loro relazione reciproca sia indipendentemente gli uni dagli altri, non vi è altro scopo da
conseguire se non la imperturbabilità dell’anima e la sicura fiducia, così come nelle altre ricerche;
e non si deve far forza alle cose per ottenere l’impossibile, né usare lo stesso metodo riguardo a
tutti gli oggetti, sia che si tratti della ricerca sui modi di vita o della ricerca volta alla soluzione dei
problemi che pone la scienza della natura, come per esempio «il tutto consta di corpi e della natura
in tattile [il vuoto]», o «gli elementi ultimi della realtà naturale sono indivisibili», o altre
proposizioni che, come queste, comportano una sola soluzione in accordo con gli oggetti
dell’esperienza. Per ciò che riguarda i fenomeni celesti, le cose vanno diversamente: essi
ammettono più spiegazioni causali della loro origine e la possibilità di più determinazioni della
loro essenza, purché sempre in accordo con le sensazioni. Quando si studia la scienza della natura,
non bisogna procedere per enunciati vani e posizioni arbitrarie, ma così come richiedono gli stessi
oggetti dell’esperienza sensibile.» (Lettera a Pitocle)
1.2.2.1. diversità dei metodi. Quindi, quanto al metodo, Epicuro, nella Lettera a Pitocle, ricorda che
lo studioso «non deve far forza alle cose per ottenere l’impossibile né usare lo stesso metodo
riguardo a tutti gli oggetti»: vi sono ambiti della ricerca nei quali è possibile e doveroso pervenire a
una spiegazione unica e certa, altri in cui invece ci si trova dinanzi a più spiegazioni che si
presentano come ugualmente valide in quanto nessuna di esse è smentita dall’esperienza
Lo studioso deve avere ben chiara la distinzione tra gli ambiti in cui è necessario applicare il
metodo della spiegazione unica e quello in cui deve aprirsi ad accogliere «spiegazioni multiple»:
nelle scienze della natura in cui si tratta di ammettere l’esistenza di qualche cosa che c’è o non c’è
— come ad esempio gli atomi e il vuoto — si deve pervenire a una sola spiegazione che affermi in
modo rigoroso e necessario se tale ente esiste o non esiste; quando invece si indagano fenomeni,
come quelli celesti, per i quali si possono inferire diverse spiegazioni «plausibili», si devono
ammettere tutte le spiegazioni possibili che non sono smentite dall’esperienza; preferire una
spiegazione alle altre, senza la sicurezza che questa sia vera e le altre false, significa cadere nel
mito.
Il principio ispiratore è ancora una volta etico: le caratteristiche ed il metodo del sapere saranno tali
da consentire il fine etico del piacere e della felicità [sempre rettamente intesi].
1.2.2.2. metodologia applicata da seguire nella spiegazione dei fenomeni fisici, ai fine di arrivare
all’animo sereno e felice e nel rispetto del metodo che la realtà richiede:
a) il procedere per analogie.
«...l’ordinata successione dei fenomeni celesti deve spiegarsi con l’analogia di consueti fenomeni
che accadono sulla terra. Non si assuma invece mai come causa di essi la natura divina, ma la si
conservi libera da ogni ministerio e in illibata beatitudine. Se così non si farà ogni nostra indagine
sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana.» (a Pitocle) (i fenomeni celesti sarebbe altrimenti
arbitrio divino)
b) la spiegazione meccanica, non intenzionale-personalistica, dei fenomeni fisici.
«Senza dubbio poi i moti celesti e le rivoluzioni e l’eclissarsi ed il sorgere ed il tramontare degli
astri, e tutti i simili fenomeni, non si deve credere siano prodotti per apposito ministerio di alcuno
che dia loro o debba dare regola o misura, o pur tuttavia possegga l’assoluta beatitudine o
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l’immortalità. Infatti occupazioni o cure od ire e benevolenze, non s’accordano con lo stato di
perfetta beatitudine, ma vengono da debolezza e timore e necessità di assistenza da parte dei vicini.
Ed altresì non è dubbio che l’universo fu sempre quale è ora, e tale sarà sempre; perchè non vi è
nulla in cui possa mutarsi; infatti oltre il tutto non vi è nulla, che possa penetrandovi produrvi
mutazione.» (segue la teoria dei corpi: atomi o vuoto, e del loro movimento eterno). «Ed ancora, i
mondi sono infiniti, sia quelli simili ai nostri sia quelli dissimili dal nostro. Perchè gli atomi, che
abbiamo testé dimostrato essere infiniti, percorrono anche i più lontani spazi.» (ad Erodoto)
c) le diverse spiegazioni possibili
«Senza dubbio si ottiene l’assoluta tranquillità spirituale su tutti quei problemi che si risolvono
secondo il metodo delle spiegazioni molteplici, in accordo con i fenomeni, quando rispetto ad essi
si mantengono, secondo è giusto, quelle spiegazioni che sono probabili. …Coloro invece che
accettano un solo modo di spiegazione, non solamente si pongono in contrasto con i fenomeni, ma
anche perdono di vista il limite imposto alla possibilità della umana conoscenza [cioè le sensazioni
come unica fonte di conoscenza] ... Del resto l’esperienza dei fenomeni terrestri indica che diverse
possono essere le cause anche di questi fenomeni dei quali qui ci occupiamo. In più modi si
originano i lampi ...» (tale metodo viene applicato ai vari fenomeni studiati: tuoni, lampi, nubi,
cicloni, terremoti, venti ecc. e viene ribadito che il non attenersi a questo metodo è cadere nel mito)
(a Erodoto, a Pitocle)
(riassumendo: pretendere di avere una spiegazione unica (una causa unica) è: non rispetto del limite
sensitivo, cadere nel mito (prestar fede a favole mitologiche e non aver più alcun strumento di
difesa dalla paura e impedirci la serenità—tranquillità—felicità), stoltezza = non conoscenza e
ancora non serenità; la filosofia di Epicuro è “esame complessivo delle dottrine più importanti per il
conseguimento di una vita serena”)
d) l’accordo con i sensi
«E nel Canone appunto dice Epicuro, essere criteri del vero: le sensazioni, lo prenozioni, i sensi
interni. Infatti gli dice che ogni sensazione è irrazionale e non partecipa di memoria, e certamente
non ha attività di per se stessa, né mossa da oggetto può nulla aggiungervi e togliergli. E neppure
v’è nulla che possa confutarla... né d’altra parte può la ragione, perchè ogni ragionamento dipende
dai sensi: e neppure una sensazione può confutarne un’altra, perchè a tutte ci atteniamo… E certo
anche ogni nozione intellettiva procede dalle sensazioni, secondo l’incidenza, l’analogia, la
somiglianza. o la composizione, contribuendovi in qualche misura anche il raziocinio.» (Diogene
Laerzio, Vita di Epicuro)
Il “metodo delle diverso spiegazioni possibili” è tratto dalla natura della sensazione: «Infatti tutte
queste possibilità (di spiegazione) e quelle affini ad esse, non contrastano a nulla che sia attestato
dalla evidenza effettiva dei fenomeni; purchè a tali argomenti, badando sempre al criterio della
possibilità, si sappia ricondurre ciascuna di queste spiegazioni all’accordo con i fenomeni, senza
paura degli artifizi degli astronomi, degni solamente di gente servile.» (a Pitocle) (Ciò rafforza e
indebolisce il criterio di verità basato sulla sensazione sia perchè la sensazione è suscettibile di
spiegazioni-letture diverse, sia per il concetto di prenozione).
e) le prenozioni (precedenza delle nozioni —prolessi— per l’indagine)
«La prenozione (prolessi) essi (epicurei) designano come apprendimento o retta opinione, o
concetto o nozione universale insita in noi, cioè memoria di ciò che spesso ci è apparso dall’esterno:
come, per esempio, l’essere l’uomo ciò che ha certe determinate qualità: infatti appena
pronunziamo la parola uomo, subito, per prenozione, si pensa la sua forma e carattere proprio,
secondo i dati precedenti dei sensi… E non potremmo compiere le nostre indagini se questo prima
non conoscessimo; per esempio, data la domanda: Quello che è laggiù è cavallo o bue? per
rispondervi conviene, per mezzo della prenozione, conoscere già la forma del bue e quella del
cavallo.» (Diogene Laerzio ivi)
f) vanno escluse altre pratiche di spiegazione, quali:
—1) la divinità come causa; ciò è in contrasto con la natura della divinità: «Il supremo
perturbamento sorge negli uomini, primieramente ove si creda che tali nature siano beate ed
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immortali, e che pur abbiano volontà ed opere e cause che contraddicano a questi attributi loro…
Non è irreligioso chi gli dei del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei.» (a
Erodoto, a Meneceo)
—2) il destino (il fato, la fortuna ecc.): «Meglio era infatti tenersi ai miti sugli dei, che essere
schiavi al destino dei fisici, perchè quelli almeno ammettono speranza di placare i numi
onorandoli, questo invece ha implacabile necessità. E la fortuna, il saggio non la stima una
divinità...» (a Meneceo)
—3) la spiegazione unica (cfr. sopra)
—4) la spiegazione mitologica. Epicuro suggerisce l’equazione: spiegazione unica = spiegazione
mitica; e l’equazione: spiegazione unica = paura (e altre eguaglianze possibili: spiegazione unica =
spiegazione mitica = desiderio di immortalità = paura della morte = paura della realtà nella sua
complessità = non scienza = non felicità)
—5) nella spiegazione scientifica che si traduce nella ricerca di una spiegazione eterna unica
immutabile ecc. (e quindi mitica) è presente il desiderio e l’atteggiamento mentale dell’immortalità;
alla spiegazione unica, quindi mitica, Epicuro oppone il metodo delle molte spiegazioni possibili,
unico modo per restare fedeli alle sensazioni e restare in sintonia con la realtà e quindi felici nella
condizione di mortalità propria dell’uomo.
1.3. felicità nella dimensione materiale finita, in una visione cosmologica complessiva: atomi e
vuoto.
1.3.1. i principi universali. Muovendo dall’esperienza sensibile, ma superandone i limiti oggettivi
con il rigore della dimostrazione razionale, Epicuro individua negli atomi e nel vuoto i principi con
i quali è possibile spiegare l’intera realtà, pervenendo così a una organica «visione generale delle
cose». Non percepibile con i sensi (gli atomi sono infatti minuscoli e il vuoto è per natura
«intattile») l’esistenza degli atomi e del vuoto è dimostrata razionalmente: i corpi devono infatti
essere idealmente divisibili in elementi minimi (gli atomi) oltre i quali non è possibile andare nella
scomposizione, se non si vuole dissolverli nel nulla; il movimento di tali atomi è inoltre possibile
solo se si ammette l’esistenza di uno spazio vuoto nel quale esso possa avvenire. Negare l’esistenza
di atomi e vuoto equivale a contraddire i sensi (che ci attestano l’esistenza dei corpi, la loro
divisibilità e il loro movimento) e il rigore della ragione (che, appunto, dimostra
inequivocabilmente tale esistenza).
1.3.2. corpo anima si riconducono ad atomi e vuoto: un idealismo materiale senza dualismi
1.3.2.1. non c’è dualismo di sostanze tra anima e corpo ma differenza di composizione materiale
1.3.2.2. non c’è materialismo in Epicuro (anche se molta vulgata nel tempo lo affermerà, Marx
compreso) e non c’è determinismo. Atomi e vuoto sono ad un tempo realtà attestate dalla sensibilità
e fondate sulla ragione o risultato della lettura che la ragione, applicata all’esperienza, ci permette di
raggiungere. Epicuro parla di “atomos ìdea” e lega strettamente realtà e mente: fa distaccare dagli
oggetti simulacri sottilissimi che penetrano poi negli organi di senso (Hans Blumenberg, La
leggibilità del mondo, il Mulino, Bologna 1981, p.17). Gli atomi sono infiniti, il vuoto è il loro
contesto, una inclinazione del loro movimento rende infinite e casuali (casuali nell’esito,
comprensibili nella dinamica) le possibilità aggregative; tutto ciò contro i limiti posti dalle
numerose teorie fisiche circolanti: fato, superstizione, causalità necessitante immanente o
trascendente, finalismi. Occorre aprirsi all’imprevedibile divenire del mondo come contesto di
libertà e scelta.
1.3.3. la liberazione della paura della morte su base metafisica, su base scientifica, su base
sociologica e psicologica e la serenità della dimensione mortale
1.3.3.1. la morte o il non essere: Anche la morte, tanto temuta dagli uomini, appartiene al regno del
non essere: «quando ci siamo noi, non è presente la morte, e quando sia presente la morte, allora
noi non siamo». La morte esiste per gli altri, per coloro che sopravvivono e constatano la nostra
fine, ma per noi essa non c’è, non è esperibile in prima persona: tanto vale dunque non affliggerci
con il pensiero del suo incombere («giacché quel che essendo presente non affligge, vanamente
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addolora anticipato nel pensiero»), ma anzi vivere intensamente il presente, nella consapevolezza
che «nasciamo una volta sola, due volte non è possibile nascere».
1.3.3.2. la morte o atomi in diversa disposizione (ma non rinascita, che è sempre desiderio di
immortalità).
1.3.3.3. la morte o il desiderio dell’immortalità; la morte è resa evento dal desiderio della
immortalità.
«Abituati o pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, mentre la
morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile
la mortalità della vita.... Il supremo turbamento sorge negli uomini … anche per la paura di quella
stessa insensibilità che è nella morte, come fosse per noi un male» (a Meneceo, a Erodoto). Cioè
non la morte è una male per l’uomo, essa è cessazione di mali, ma lo è la paura della morte e il
desiderio della immortalità. La direzione del pensiero sulla morte fonte di paura muove al contrario:
il desiderio di immortalità genera la paura della morte e, di converso, la paura della morte rivela e
nutre un desiderio di immortalità, quel desiderio che non accetta la morte come fatto naturale.
—All’idea che il mondo non abbia valore di per sé ma in un fine che lo trascende, in realtà ‘ideali’
che gli sono essenzialmente eterogenee, Epicuro oppone il suo ideale di felicità tutta mondana,
l’insussistenza del problema della morte, la convinzione che la soluzione di tutte le nostre difficoltà
non sta nell’aggiungere ‘infinito tempo alla vita mortale’ ma nel togliere il desiderio
dell’immortalità, cioè, nel conciliare l’uomo con la vita; alla concezione della scienza come
contemplazione di verità eterne, Epicuro oppone quella della scienza come progressivo strumento di
liberazione dai timori e dalla superstizione religiosa (G.Giannantoni).
—L’immortalità non è prolungamento della vita ma la sua distruzione, contestualmente con
l’annullamento del ricordo. È la morte (la sua naturale certezza) che genera il ricordo, la sua
urgenza e il suo piacere; l’immortalità rende il tempo irrilevante, annulla attese, progetti e
“prenozioni”; annulla l’etica.
2. stoici
La scuola stoica fu fondata in Atene negli ultimi anni del IV secolo da Zenone di Cizio (333-263
a.C.); successivi caposcuola furono Cleante (331-232 a.C.) e Crisippo (281-208 a.C.). Della
copiosissima produzione filosofica di questa prima fase della scuola ci resta pochissimo.
Dell’ampia e originale riflessione filosofica e scientifica elaborata dalla scuola stoica grecoellenistica non ci sono pervenute che testimonianze frammentarie o indirette. Tutt’altro che scarsa e
lacunosa è invece la documentazione relativa allo stoicismo latino, la cui influenza sulla cultura e
sulla società romana fu ampia e rilevante, soprattutto in età imperiale; opere di ispirazione stoica
come le Lettere e i Dialoghi di Seneca (4 a.C. - 65 d.C.), il Manuale di Epitteto (55-135 d.C.), la
raccolta A se stesso di Marco Aurelio (121-180 d.C.) segnarono infatti profondamente la
formazione filosofica e morale del cittadino romano e in particolare degli aristocratici.
L’invito, proprio, dello stoicismo, a vedere negli eventi, spesso incomprensibili all’uomo, il
manifestarsi di un ordine superiore, di una razionalità divina (lógos) che dà un significato logico e
un senso etico al mondo, alla storia e all’uomo, fornì ai ceti intellettuali e aristocratici romani una
concezione della realtà e uno stile di comportamento ordinati e rassicuranti. In essi il cittadino
romano, alla ricerca di risposte alle sue domande sul senso delle avversità e il fluire del tempo, sul
mutare della sorte e la benevolenza degli dei, desideroso di trovare un equilibrio tra funzioni
pubbliche e quiete privata, tra attività e ozio, tra legge dell’imperatore e libertà interiore, tra piacere
e virtù, tra egoismo e solidarietà, trovò un'organica e completa riflessione sul mondo, precise regole
di vita e norme di comportamento cui cercò di aderire, desideroso di trovare quella serenità, quella
tranquillità e quell'armonico rapporto con il mondo che gli scritti dei filosofi stoici gli
promettevano.
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2.1. Progetti ambiziosi e dubbi radicali. La filosofia greca ha coltivato sin dal suo nascere un
grande e ambizioso progetto: costruire un sapere saldo nei suoi contenuti, che non potesse essere
negato in nessuna circostanza. Questo progetto si fondava sulla fiducia nella capacità del filosofo di
fornire, relativamente a ogni aspetto del reale, spiegazioni capaci di imporsi con la forza di una
verità assoluta, definitiva. Ma contemporaneamente prende forma un’altra direzione con altre
convinzioni. I primi dubbi sulla realizzabilità di questo progetto erano stati espressi, tra il V e il IV
secolo a.C., da alcuni allievi di Socrate come Antistene (capo della scuola cinica) ed Euclide di
Megara (capo della scuola megarica). Spingendo alle estreme conseguenze le implicazioni teoriche
dell’ironia socratica, essi erano giunti infatti a mostrare che all’uomo è impossibile distinguere con
certezza il vero dal falso e formulare pertanto giudizi definitivi. Critiche ancora più stringenti e
radicali contro la possibilità di cogliere, al di là dell’apparenza sensibile, l’essenza delle cose
(convinzione che era stata il presupposto delle filosofie platonica, aristotelica, stoica ed epicurea)
avanzarono, in età ellenistica, i filosofi Pirrone e Timone (IV-III sec. a.C.), che la tradizione ha
denominato «scettici», derivando il termine dal verbo greco sképtesthai, che significa «indagare»,
«osservare». Costoro rivolsero la loro indagine critica non più e non solo agli oggetti della
conoscenza, ma al soggetto conoscente e alle sue capacità di pervenire a una verità sicura,
indubitabile. Mirando a colpire la sicurezza con cui i filosofi, che essi chiamavano «dogmatici», si
attribuivano la capacità di svelare e dimostrare la verità, gli scettici avviarono così un ripensamento
critico dei fondamenti su cui sino ad allora si erano costruiti i saperi, a cominciare da quello
filosofico, e insistettero sulla necessità di operare un'accurata indagine critica intorno alle possibilità
della conoscenza umana. Ma si tratta di un dubitare che non è fine a se stesso; ha lo scopo di
rendere libera la ricerca e adottarla come condizione base del fare scienza. Lo “scetticismo”, nel
periodo ellenistico, non è perciò (solo) una scuola filosofica ma è un atteggiamento della
produzione culturale di un’epoca. Per comprenderne il ruolo, occorre ricordare e intendere in senso
corretto il termine “scetticismo”: osservazione, indagine, ricerca.
Del resto non sono estranee allo scetticismo, come a tutte le filosofie ellenistiche, forti
preoccupazioni etiche; lo scettico infatti vuole sfuggire alla confusione e al turbamento che lo
assalgono quando si vede impotente a scegliere, tra più proposizioni che «si combattono», quella
vera: per garantirsi quell’imperturbabilità (ataraxía) cui aspira, egli propone, una volta riconosciuti
i limiti delle sue capacità conoscitive, l’epoché, la sospensione del giudizio.
Se ci atteniamo alla etimologia originaria, il filosofo scettico è pertanto un indagatore e lo è ogni
filosofo che voglia dirsi tale e ogni scienziato. La direzione e i risultati della sua ricerca lo
conducono però a conclusioni che non si traducono immediatamente in un esito positivo definitivo
dei suoi studi; lo inducono invece all’epoché, la sospensione del giudizio; in realtà non si tratta di
sospensione del giudizio in assoluto, come una incapacità di prendere posizione o giungere a
conclusioni, ma di una sospensione di un giudizio assoluto considerato cioè definitivo. Questa
situazione non implica perciò, come necessaria conseguenza, l’arresto dell'indagine, anzi è la base
per la sua prosecuzione; lo scettico, infatti, con l’epoché non interrompe la sua ricerca, ma sospende
quell’atteggiamento dogmatico che rende del tutto superflua l’attenzione alla realtà e la volontà di
ricerca.
Lo scetticismo è dunque un tratto della filosofia ellenistica in generale, stoicismo compreso,
proprio come lo è la nascita di una attenzione scientifica globale e settoriale ai diversi ambiti della
realtà e dello scibile. Con lo scetticismo, non siamo di fronte alla crisi della filosofia e della scienza,
non si è di fronte ad un attacco alla verità, alla sua utilità e raggiungibilità, ma di fronte ad una
critica al dogmatismo e alla teorie che si presentano come definitive, negando così, nella
conclusione, la funzione e l’esistenza stessa della scienza: l’osservazione, la ricerca, la spiegazione,
la teoria. L’attacco e la distruzione (dissacrante) delle convenzioni diventa la pulsione originaria
della filosofia e della scienza che pongono a tema l’umanità intendendo curarla nelle sue paure,
valorizzarla con completezza e dunque nelle direzioni che superano modelli prefissati, irrigiditi,
ripetitivi. Nello scetticismo, dunque e non paradossalmente, prende urgenza la costruzione della
logica di cui sono artefici i filosofi della scuola stoica.
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2.2. questioni di logica: un settore preliminare di mente, di metodo, di discorso.
L’introduzione e l’uso del termine “logica” inteso nella accezione attuale e capace di indicare un
settore della ricerca scientifica preliminare ad ogni altra ricerca settoriale è attribuito alla filosofia
degli stoici. La riflessione filosofica ha dato vita, già in precedenza, a più di un modello di
razionalità riportata per tradizione sotto il termine “logica”. Ad esempio, le opere di Aristotele,
inglobate da Andronico da Rodi, sotto il titolo complessivo “Organon”, costituiscono la più
completa e articolata proposta logica dell'antichità. Ma non si deve dimenticare che in lunghi
periodi, come quello ellenistico greco-latino (in cui le opere di Aristotele erano note solo
parzialmente), fu un altro modello di logica a dominare la cultura: quella della scuola stoica (III sec.
a.C. — II sec. d.C.). Di tale scuola possediamo soltanto testimonianze indirette e a essa ostili,
cronologicamente molto posteriori, tanto che, nel lavoro di ricostruzione del pensiero stoico, non
possiamo distinguere i diversi contributi dei vari capiscuola, Zenone, Cleante e Crisippo
(succedutisi alla direzione della Stoà poikíle, il portico dipinto, sede della scuola, a partire dal 300
a.C.); le fonti di cui disponiamo espongono il pensiero stoico nelle principali articolazioni interne
(logica, fisica, etica) prescindendo dai contributi dei singoli autori. I temi della filosofia stoica
devono pertanto essere recuperati da testimonianze tardive (come quelle di Apuleio, Galeno, Sesto
Empirico, Diogene Laerzio, che risalgono ai secoli II e III d.C.), contenute in manuali e trattati
scritti con l’intento di dimostrare l’incapacità delle teorie stoiche di darsi fondamenti attendibili.
Questa stessa intenzione polemica è evidente anche negli scritti, ampi e documentati, in cui lo
scettico Sesto Empirico presenta la logica stoica, sottolineandone i limiti. Sulle sue pagine, che
costituiscono comunque la fonte più ricca e più completa in materia, è necessario condurre,
pertanto, un paziente lavoro volto a identificare e a neutralizzare gli interventi polemici dell’autore:
infatti, tali intrusioni confondono il rigore dell’esposizione e, probabilmente, alterano gli equilibri
concettuali su cui la logica stoica si basava.
2.3. un principio razionale unico totale e immanente: il Logos
Se “logica” è un termine coniato dagli stoici, il suo significato è più vasto di quanto oggi si è
abituati a pensare e introduce fin da subito al contesto metafisico, teologico, logico, fisico della
filosofia e della scienza espresse dalla scuola stoica. “Logica”, prima di indicare una disciplina che
studia i fatti mentali e linguistici, esprime la visione di un mondo retto da un principio unico e
totale, il Lógos, fonte di un ordine razionale e necessario, principio cosmico e fisico, criterio etico
che il saggio elegge a propria norma di vita armonizzandosi cosi con il mondo e con se stesso. In
quanto legge che governa l’intero universo, il Lógos è anche fondamento e regola di correttezza e di
verità dei pensieri e dei discorsi; in un significato più ristretto il termine logica può indicare infatti
anche la forma che il Lógos stesso assume nei pensieri e nei discorsi, designando la disciplina che
indaga questa forma. Secondo un luogo comune della tarda antichità (trasmesso da Alessandro di
Afrodisia, forse il maggior commentatore di Aristotele), gli aristotelici consideravano la logica uno
strumento (órganon) preliminare alla filosofia, gli stoici invece la consideravano parte interna ed
espressione della filosofia in quanto forma di manifestazione storica del Lógos. La logica, nei loro
intendimenti, esprime infatti il manifestarsi nel pensiero e nel linguaggio dell’uomo di uno stesso e
unico Lógos, legge e anima del cosmo. La filosofia è dunque logica, fisica ed etica: studio del
Lógos che regge i pensieri, il mondo, le azioni. Tutto ciò in quanto il principio e l’essenza unica del
mondo è il Lógos, ragione universale, legge della realtà, fonte di un ordine razionale e necessario,
principio cosmico e fisico; è anche criterio del pensiero e del discorso scientifico sulla realtà e,
infine, convinzione e principio etico che il saggio elegge a propria norma di vita ponendosi in
sintonia razionalità cosmica, armonizzandosi così con il mondo e con se stesso.
2.4. un principio di metodo etico - scientifico vivere nell’ascolto. Compito della filosofia stoica è
guidare a cogliere il Logos universale, a porsi in ascolto della sua universale presenza. «L’asse
portante della fisica stoica può […] essere posto nella concezione della corporeità come un
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continuum, che garantisce dell’integrazione completa di qualsiasi punto, e di qualsiasi individuo,
nella dinamica del tutto. Così la dimensione di senso del mondo è ritrovata, istituendo un nesso
diretto tra individuo e totalità, che salta preliminarmente tutte le mediazioni del sapere e della
politica (anche se in linea di principio le ricomprende). Il fattore di coesione immanente nel tutto è
chiamato con molti nomi dagli Stoici, a seconda delle prospettive da cui viene considerato: sotto il
profilo della razionalità e del valore è logos, destino, provvidenza; sotto il profilo fisicocosmologico è ora fuoco, ora soffio animato, che guida la dinamica complessiva; nell’ottica della
rappresentazione religiosa è dio e Zeus. La cosmologia stoica è costruita incorporando molto
materiale della scienza precedente (in particolare la dottrina dei quattro elementi), ma sempre
inserendolo in una dinamica globale, che comporta il rigetto della separazione platonico-aristotelica
tra cielo e Terra.» (Repellini Ferruccio Franco, Cosmologie greche, ed. Loescher, Torino 1980, 210211).
2.4.1. gli ambiti: gli stoici raccolgono, formulano e mettono a disposizione dottrine guida riportabili
a tre ambiti fondamentali: al campo del pensiero e della parola (la grammatica e la logica); al campo
dei fenomeni naturali (la fisica), al campo dell’agire umano (l’etica). Su tutte prevale l’etica come
atteggiamento indispensabile di apertura e di ascolto che permette di cogliere e leggere con
attenzione tutti i segni della presenza della razionalità del Logos nell’universo.
2.4.2. la strategia (il metodo). Il mondo è immenso serbatoio di segni che attestano la presenza del
Logos universale, essenza razionale della realtà; si deve dunque disporre di un’arte di
interpretazione dei segni, una semiotica, che li cataloghi secondo la loro specifica funzione e
fornisca adeguate tecniche interpretative.
«Dei segni, dunque, secondo costoro, alcuni sono rammemorativi, altri indicativi. Chiamano segno
rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena si
presenta, se questa è avvolta nell’oscurità, conduce a ricordare la cosa ch’è stata osservata
insieme con esso segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il
fuoco. E, invece, dicono, indicativo il segno, che, non osservato insieme con la cosa designata in
maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno, così, p.e., i
movimenti del corpo sono segni dell’anima. [Onde, anche, definiscono questo segno così: è segno
indicativo un enunciato, che in sana connessione precedendo, è discopritore di ciò che consegue].»
Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, pp. 80-82, tr. di O. Tescari, Laterza, Bari 1988
La logica stoica si caratterizza in forma specifica quando diventa studio del segno e della sua
funzione logica (noi diremmo semiotica o semiologia); in questo contesto di ricerca essa invita in
particolare a compiere una distinzione tra «segni rammemorativi» e «segni indicativi» e mette in
luce un metodo di costruzione del significato non riconducibile alla semplice definizione, come
accade nella logica aristotelica. Esistono infatti dei segni che ci richiamano alla mente, con
pienezza, realtà già conosciute e solo momentaneamente non presenti (ad esempio il fumo ci
richiama alla mente il fuoco, il nome Dione ci ricorda l’amico assente); in tal caso tra segno e realtà
possiamo costruire un rapporto di equivalenza logica; questi sono «segni rammemorativi».
Di tutt’altra natura sono i «segni indicativi», quelli attraverso i quali tentiamo di conoscere le «cose
oscure per natura». Essi non richiamano alla nostra mente, con piena chiarezza, l’oggetto, che
resterà per sempre oscuro, tuttavia segnalano, «per la propria natura e costituzione», ciò di cui sono
segno (come i movimenti del corpo sono segni dell’anima: un gesto particolare, un sorriso, il
pallore del volto …).
2.4.3. il segno “indicativo” e la sua centralità. Nell’esposizione che della dottrina stoica fornisce
Sesto Empirico, il «segno indicativo» viene proposto come il segno in senso vero e proprio; esso
riguarda infatti le realtà che nella vita dell’uomo risultano essere più diffuse ed hanno maggior
valore. Sono loro che ci dovrebbero guidare a cogliere il senso (se c’è) degli eventi naturali, del
succedersi delle vicende storiche, dei comportamenti individuali ecc. La sua funzione significativa
non è stabilita attraverso un rapporto di equivalenza o di definizione tra due aspetti della realtà o tra
nome e cosa (come fumo – fuoco, cicatrice – ferita), ma da un rapporto più globale, aperto e
complesso di implicazione (l’uno include l’altro); il segno, in tal caso, è significativo in quanto
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indica o pone le condizioni per avviare la ricerca del significato, indicarne la sicura, anche se
oscura, presenza. Si tratta di una vera e propria arte della scoperta sostenuta, nella sua apertura e
costanza, dalla consapevolezza che siamo di fronte a realtà che per natura non saranno mai
definitivamente evidenti e per la conoscenza delle quali occorre attivare procedimenti di inferenza e
sillogismi ipotetici. Arte dunque di cogliere i segni indicativi conservandoli nella loro capacità di
rimandare ad un significato non concettualmente definitivo. È questa la situazione e la sfida, oltre
che il travaglio, in cui si trova inserita la scienza del periodo ellenistico, in contesto stoico,
impegnata nei suoi diversi campi di indagine, soprattutto quello della fisica. Occorre sempre
ricordare, a tale scopo, le diverse tipologie di realtà che si presentano all’osservatore, diverse dal
punto di vista dei segni che esse possono inviare o mettere a disposizione di chi indaga.
Una visione di insieme (e un quadro di sintesi)
tipologie di realtà da punto di vista della loro
conoscibilità (mappa semeiotica del mondo)
realtà di per sé evidenti
(presenti con evidenza sensibile, es. è giorno)
realtà non
del tutto non evidenti
evidenti (non (granelli di sabbia del deserto,
presenti
gocce d’acqua dell’oceano …)
all’evidenza
per il momento non evidenti
sensibile)
(Atene da cui sono lontano
l’amico che ho lasciato ieri…)
per natura non evidenti
 la natura e le scelte degli dei
 lo stato di salute del corpo
 l’animo dell’uomo
 il corso della storia
 le esigenze di una società
 il grado di responsabilità …
segni inviati dalla realtà
(semiologia)
non segni, ma presenza
diretta
nessun segno
segni rammemorativi
(tekmérion)
(parola, disegno…)
segni indicativi
(semèion)
arte e logica della
conoscenza
evidenza delle
sensazioni e assenso
nessuna conoscenza (e
nessuna utilità per
questa conoscenza)
logica della
definizione e della
relazione causale
(sillogismo ternario)
logica della
implicazione e tecnica
indiziaria
 ascolto e diagnosi
dei segni
 sillogismo ipotetico
(binario)
2.5. Un principio immanente, religioso naturale, di razionalità e di scopo, il Lógos, e una
scienza su base semiotica: ascolto dei segni e etica della cura.
Proclami e testimonianze.
L’Inno al Lógos – Zeus, scritto da Cleante (304-233 a.C.)
«O glorïoso più d’ogni altro, o somma
Potenza eterna, Dio dai molti nomi
Zeus, guida e signor della Natura,
Tu che con Legge l’universo reggi,
Salve! poiché a Te porgere il saluto
È diritto in ciascun di noi mortali:
Di tua stirpe noi siamo, e la parola
Come riflesso di tua mente abbiamo,
Soli fra tutti gli esseri animati
Che sulla nostra Terra han vita e moto.
A Te dal labbro mio, dunque, si levi
L’inno, e ch’io sempre canti il tuo potere!
A Te tutto il mirabile universo
Che ruota intorno a questa Terra ognora,
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Obbedisce, da Te guidar si lascia
E del comando Tuo fa il suo volere
[…]
Il tutto, insieme, in armonia, Signore,
Hai Tu raccolto, il bene, il mal, per modo
Che una Ragione, unica di tutti,
Si svolge e vive per l’eternità.»
(Cleante, Inno a Zeus, vv. 1…21 = SVF, I, 537 da Repellini, 225-6)
«[v. 1] Da Zeus incominciamo! Lui che noi, uomini, mai lasciamo innominato; ma di Zeus sono
piene tutte le vie e tutti i luoghi dove si raduna gente, e pieno ne è il mare e i porti; e in ogni
circostanza a Zeus tutti ricorriamo. [v. 5] Giacché siamo anche sua discendenza. Ed Egli benigno
invia agli uomini segni infallibili, e sveglia la gente al lavoro richiamando il pensiero ai mezzi onde
si sostenta la vita. E dice quando la gleba è più buona a essere dissodata con i buoi e con le vanghe;
e dice quando sono le stagioni opportune per scavare attorno agli alberi e gettare alla terra i semi di
ogni specie. [v. 10] Giacché Egli stesso fissò i segni nella volta celeste, distinguendovi le
costellazioni, e concepì per il corso intero dell’anno stelle che segnalassero invariabilmente agli
uomini i limiti delle stagioni, onde ogni cosa potesse crescere costantemente. Per questo gli uomini
sempre e ultimo lo invocano.» (Arato, Fenomeni e Pronostici, vv. 1 ss. da Repellini, 227)
La testimonianza di Diogene Laerzio. «“Mondo” ha per gli Stoici un triplice significato: primo, dio
stesso la cui singola qualità è identica a quella di tutta la sostanza dell’universo; egli è perciò
incorruttibile ed ingenerato, creatore dell’ordine universale, che in determinati periodi di tempo
assorbe in sé tutt’intera la sostanza dell’universo e a sua volta la genera da sé. Secondo, l’ordine
cosmico delle stelle; terzo, l’insieme che risulta da entrambe queste parti. Il mondo nella sua
individualità possiede la qualità della sostanza universale, oppure, come lo definisce Posidonio nei
suoi Elementi di meteorologia, è un sistema di cielo e di Terra e delle loro intrinseche nature,
ovvero è un sistema di dèi e uomini e di tutto ciò che è creato per opera loro. Cielo è l’estrema
circonferenza in cui ha sede fissa tutto ciò che è divino. Il mondo è ordinato e diretto da mente e
provvidenza, come dice Crisippo nel quinto libro Della provvidenza e Posidonio nel terzo libro
Degli dèi, in quanto la mente penetra in ogni parte del mondo, come l’anima in noi. Ma in alcune
parti penetra di più, in altre di meno. In alcune parti infatti penetra come capacità o facoltà, come le
ossa e i nervi; in altre come vera e propria mente, come la parte principale e guida dell’anima. Così
l’intero mondo, in quanto vivente e animato e razionale ha il suo principio-guida nell’etere (secondo
Antipatro di Tiro nell’ottavo libro Del mondo), nel cielo (secondo Crisippo nel primo libro Della
provvidenza e Posidonio nell’opera Degli dèi), nel Sole (secondo Cleante). [...]» (Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, VII, 137 ss; da Repellini 221-222)
Lo stesso termine phýsis, solitamente tradotto con natura, non indica genericamente una realtà
esterna al soggetto in cui l’uomo è collocato e un suo oggetto e dato di indagine, ma, sia nel campo
medico (Ippocrate e Galeno), sia nel campo filosofico-scientifico della tradizione stoica indica una
mente o anima dell’universo dotata di ammirevole forza e che tutto pervade. A lei infatti si deve
generazione e conservazione di ogni essere: «Galenus… scribens per Naturam intelligi vim
quandam corporibus insitam et inhabitantem, per quam ea reguntur. […] Itaque Natura est quae ab
initio conformat, auget, nutrit, et omnia in corpore munia exercet.» (Kittel, TWNT, voce phýsis)
In parallelo al termine phýsis si colloca il termine dýnamis : «Gli stoici considerano la dýnamis
come la causa efficiente dei fenomeni… presentandola come l’energia primordiale e invisibile che
muove se stessa e il mondo. Questa linea di pensiero doveva necessariamente sfociare nella
concezione della dýnamis come vero ed autentico principio cosmico.» (Kittel, TWNT, voce
dýnamis).
Gli aspetti costituenti la visione del mondo (indistintamente filosofica, religiosa, scientifica ed etica)
espressa dalla cultura dello stoicismo e del mondo ellenistico in cui lo stoicismo diventa
atteggiamento di pensiero diffuso e dominante sono all’insegna di un eclettismo della conciliazione
razionale, logica e metafisica. «Lo stoicismo, poiché si sforza di diventare la coscienza intellettuale,
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morale e religiosa di una nuova civilizzazione, è essenzialmente un’opera di sintesi, di adattamento
e di conciliazione. […] La sua originalità non consiste nell’invenzione di temi filosofici nuovi, ma
nell’utilizzo di temi antichi allo scopo di mettere a disposizione dell’uomo una vita spirituale.» (E.
Bréhier, Les stoïciens, Bibl. De la Pléiade, ed. Gallimard 1962, LXII)
2.5.1. conciliazioni di insostenibili, antichi, tristi e inquietanti, dualismi. «Lo stoicismo fu la
filosofia culturalmente egemone nell’epoca ellenistica; ciò è dovuto in gran parte alla sua
dimensione religiosa. L’Inno a Zeus di Cleante e i Fenomeni e pronostici di Arato (di poco più
giovane di Cleante) furono tra i poemi più letti dal cittadino degli imperi. Leggendone in sequenza
gli inizi, si vede come la provvidenzialità di Zeus trapassi direttamente nel cielo: le costellazioni, i
moti celesti sono segni del divino per noi. Così lo stoicismo integra in se stesso la religione celeste
tradizionale — e lo fa con ben maggiore efficacia del platonismo: il cielo non ha cura soltanto della
nostra intelligenza donandole il numero, ma invia segni benefici per la dimensione privata,
individuale, quotidiana della vita.» (Repellini, 212)
Se emerge in primo piano, per i termini personalistici usati, la dimensione religiosa, questa, in
realtà, svolge una funzione di ordine naturale, fisico-cosmico. La natura divina e immanente del
logos (Lógos – Zeus) pone in stretta coincidenza e indistinzione la fisica e la teologia; la scoperta
scientifica dell’ordine del mondo rappresenta, nella cultura stoica, l’apertura del saggio al mondo e
al divino; le leggi del mondo sono manifestazione e sede fisica della ragione divina; non esistono le
condizioni per un conflitto tra scienza e religione. «Si uniscono così l’antica concezione religiosa di
un soffio che penetra l’universo e la concezione scientifica che fa del mondo un ordine regolare;
questo ordine ha come causa la forza divina che agisce all’interno degli esseri, e che è “principio
unico di tutte le cause attive nel mondo”. La fisica è la conoscenza di questo ordine, che non è una
formula astratta, ma il legame che unisce la sequenza degli eventi della nostra vita individuale
all’economia generale dell’universo.» (E. Bréhier, Les stoïciens, XXI)
L’armonia raggiunta nell’apertura / ascolto del Logos è dunque luogo di composizione di contrasti
tradizionali irrisolti. Il vivere secondo natura è realizzare la propria natura. Lo stare nella legge del
logos è la massima libertà (vedere realizzata la propria natura e quindi la propria libertà). In quanto
espressione di un ordine razionale il fato è oggetto di amore e non di avversione (amor fati).
L’individuo e la sua interiorità diventano sede di ragione universale e cosmica. La difficoltà a
comporre le molte virtù è risolta nella scoperta dell’unica virtù etica indicata dal Logos. Lo studio
della natura, della parola, della società è teologia, lettura dei segni continua del Lógos immanente;
«E da altre cose altresì ti sarà certamente possibile fissare altri segni, sia per il giorno che per la
notte.» (Arato).
2.5.2. Forme sferiche, compatta unità di cielo e terra, moti circolari, ciclicità e visione del mondo e
della storia degli astri e degli uomini in una stessa vicenda ciclica.
«Tutte insieme le stelle, così numerose e così disperse, [v. 20] sono trascinate dalla volta celeste
ogni giorno, continuamente, sempre; ma senza muoversi neppur di poco, sempre ben fissato nello
stesso luogo, l’asse [celeste] con perfetto equilibrio tiene la Terra nel suo mezzo e volge il cielo
stesso intorno a sé. Lo limitano inoltre da una parte e dall’altra due poli, [v. 25] uno dei quali è
peraltro invisibile; ma quello invece che gli sta di contro dalla parte di Borea sta alto sull’Oceano. E
due Orse, circoscrivendolo, gli ruotano intorno; onde dunque si chiamano Carri. […][v. 45] In
mezzo poi ad ambedue, come un braccio staccato di fiume, si contorce, meraviglia grande, il Drago,
tutto in giro spezzato in innumerevoli spire; e da un canto e dall’altro del suo serpeggiamento gli
camminano le Orse, guardandosi caute dal cupo Oceano. E il Drago dal canto suo verso una si
snoda con l’estremità della coda; [v. 50] e l’altra invece intercetta nella sua spira. […] Altre cose
invece ti dirà senza fallo la Luna, o quando per avventura spezzata a metà sta colmandosi da una
parte e dall’altra, o quando è appena appena piena; [v. 775] e altre il Sole, sorgendo, o talvolta
invece impartendo ordini alla Notte profonda. E da altre cose altresì ti sarà certamente possibile
fissare altri segni, sia per il giorno che per la notte.» (Arato, Fenomeni e Pronostici, da Repellini,
227-230) E dai segni e disegni del cielo, in una osservazione fortemente interpretativa, il moto dei
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corpi celesti e il destino degli uomini in un misto indistinto di teologia, teofania, astrologia,
astronomia, fisica celeste e terrestre, filosofia della storia. Alcuni aspetti in forma analitica.
2.5.2.1. Il mondo è una compatta unità sferica. Afferma ancora Diogene Laerzio: «Il mondo è uno
solo e finito ed è di forma sferica, perché una tal forma è la più adatta al movimento, come afferma
Posidonio nel quinto libro della Fisica e Antipatro e i suoi seguaci nell’opera Del mondo.
All’esterno del mondo è diffuso il vuoto infinito che è incorporeo. Incorporeo è ciò che può essere
contenuto da corpi, ma tuttavia non ne è contenuto. Nel mondo non esiste il vuoto, il mondo
piuttosto è una compatta unità. Quest’unità è il necessario risultato della cospirazione e della
sintonia vigenti tra le cose celesti e terrestri.» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 137 ss; da
Repellini 222)
2.5.2.2. La razionalità fisica (della natura) e quindi la visione scientifica generale del cosmo
espressa dagli stoici si basa a sua volta su strategiche unioni (come di fronte ad antiche antinomie in
rapporto e conciliazione):
- di materia e forza (lógos): un elemento passivo e inerte animato da un principio ordinatore (forza,
ragione, fuoco, luce, spirito – pnéuma, principio o lógos seminale [lógos spermatikòs], legge
comune [koinón nómon]);
- di necessità e provvidenza: una razionalità necessaria e universale che rende certi i moti del cielo e
della natura nella loro inesorabile ciclicità e nel lor identico ripetersi, moto che viene spesso definito
come fato e destino, ma si tratta di una necessità provvidenziale in quanto risponde ad un disegno di
razionalità, è garanzia di successo per chi indaga la natura. Il mondo viene così sottratto all’ipotesi
di un principio esterno, arbitrio trascendente non vincolato dalla necessità, che lo espone alla
precarietà e condanna l’uomo e ogni vivente al timore nei confronti della propria sorte e degli eventi
futuri rendendolo suddito, pio, spaventato e supplice, di una divinità imprevedibile e lontana.
- di destino/provvidenza e amor fati: l’imperturbabilità (apàtheia) come serenità è esito di
conciliazioni e, tra queste, la principale è quella della riscrittura in termini di provvidenza (prònoia,
intelligenza ordinatrice secondo leggi e fini) di ciò che comunemente si indica con la parola destino,
fortuna. Lo stoicismo, avendo individuato nelle lacerazioni che attraversano l’animo umano la fonte
delle paure, delle passioni non gestite e della sofferenza, cerca di eliminarle alla radice fornendo
una visione cosmica unitaria e armonica. Si conciliano fato e fine, destino e libertà, passione e
ragione, interesse e apàtheia (non insensibilità o indifferenza, ma gestione della passione sulla base
della consapevolezza nei confronti dell’odine cosmico provvidenziale), individualismo e
cosmopolitismo, ciò che è comune (esterno e uniforme) e ciò che è proprio (interno e singolare),
fisica e teologia, vivere e morire («è la stessa l’arte del ben vivere e del ben morire» Seneca)
«Crisippo nel libro primo Del fine afferma inoltre che […] il fine è costituito dal vivere secondo
natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole
proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è
identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo. Ed in ciò consiste la virtù dell’uomo felice e il
facile corso della vita, quando tutte le azioni compiute mostrino il perfetto accordo del demone che
è in ciascuno di noi col volere del signore dell’universo.» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro
VII, Laterza. Bari 1987) La filosofia, e in essa la logica e la fisica, cioè la conoscenza e la scienza,
va intesa come medicina dell’animo praticata per un obiettivo specifico: «cerchiamo come si possa
raggiungere la tranquillità». Maestro indiscusso di questa arte e tradizione è Lucio Anneo Seneca;
le sue opere attestano la ampia diffusione temporale e sociale della filosofia stoica. Seneca racconta,
ad esempio, il consiglio che un suo discepolo, Sereno, gli chiede e i turbamenti che il discepolo gli
espone come ad un amico, una guida, un medico, dicendogli: «Esaminandomi nell’intimo, Seneca,
alcuni difetti mi si presentano di solito allo scoperto, sì che posso toccarli con mano, altri più
nascosti e celati nel profondo, altri infine, non persistenti ma ritornanti a periodi … Ti dirò quel
che mi accade e tu troverai il nome alla malattia.» (L.A. Seneca, Sulla tranquillità dell’animo, I
Dialoghi, Laterza, Bari 1978, p.323).
2.5.2.3. Il tempo ciclico del cosmo nella cosmologia stoica: le stesse e identiche “ragioni seminali”
si compongono nella vicenda cosmica secondo un disegno razionale di “provvidenza” in un
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processo ciclico di formazione e distruzione della durata in un arco di tempo di 30.000 anni; a
segnare il momento di fine e inizio è una generale ekpýrosis, conflagrazione (e momento
dell’universale oblio storico [oblio che forse evita il tedio della immortalità]). Dunque una serie di
rivoluzioni senza evoluzione.
2.5.2.3.1. Le ragioni del tempo ciclico e delle rivoluzioni per l’identico o senza sviluppo. L’idea
stoica del tempo ciclico, ripetitivo, è coerente con l’incontro tra religione e fisica. Aristotele
attribuiva il tempo ripetitivo circolare e quindi perfetto agli astri, enti celesti e divini; ora, per gli
stoici, tutto il cosmo ha le caratteristiche di quella perfezione e circolarità che un tempo era
riservata al divino e si poneva alla radice di un dualismo cosmico che rendeva difficile il discorso
della possibile relazione tra i due mondi. Se Zeus, la divinità, è Provvidenza e Ragione universale
cosmica, allora si identifica con l’ordine del mondo e quest’ultimo è segnato da una dinamica di
perfezione propria del divino. Vi è un’altra, conseguente, ragione dell’infinito ripetersi della
vicenda cosmica in modo identico per la dinamica e senza evoluzione: se il mondo è governato
dalla provvidenza e ne è espressione universale e necessaria non è lecito pensare che passati o futuri
stadi del mondo risultino peggiori o migliori; questa opinione infatti introdurrebbe nella cosmologia
coordinate di valore a discapito o come giudizio espresso sulla intelligenza divina. Togliere questa
convinzione è mettere a repentaglio l’arte della scienza e della divinazione: è possibile cogliere
necessità e predire il futuro in quanto il cosmo è retto da un sistema di cause e di leggi sempre in
opera e garantite secondo necessità. Il futuro si può leggere in quanto è scritto nel presente ed è un
sistema di segni che occorre saper leggere; l’uomo è un animale “segnico”, è “macchina animale”
capace di interpretare i segni in un processo indiziario deduttivo e perciò interpretativo.
2.5.2.3.2. La radice fisico-astronomica della ciclicità. Una singolare coincidenza tra la convinzione
stoica di cicli cosmici della durata di 30.000 anni e un dato della fisica terrestre. «Fra i movimenti di
cui il moto della terra si compone vi è un moto di oscillazione periodica dell’asse attorno al quale il
pianeta ruota su se stesso. Proprio perché il moto è periodico, il ciclo si chiude: 25.920 anni,
l’orientamento dell’asse terrestre torna ad essere uguale a quello iniziale. Uno degli esiti più
interessanti e più evidenti di questa graduale e ciclica trasformazione dell’orientamento dell’asse
terrestre è la costante mutazione delle relazioni tra la superficie terrestre e i corpi celesti: le
posizioni relative dei pianeti, delle stelle e delle costellazioni si trasformano seguendo le indicazioni
di questo grande orologio cosmico. La stella polare, per esempio, non è rimasta la medesima stella
nel corso di tutta la storia. Oggi è una stella della costellazione dell’Orsa minore. Ma cinquemila
anni fa il nord era indicato da una stella della costellazione del Drago e fra dodicimila anni la stella
polare sarà Vega.» (Ceruti Mauro 1985 Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Bari-Roma, 72) Si
tratta della processione degli equinozi, fenomeno ben noto agli antichi.
2.5.3. in conclusione: la scienza tra studio e divinazione dei segni indicativi, in un cammino aperto
(da questo punto di vista segnato da una perenne ricerca [sképsis- scetticismo in senso autentico]).
L’arte di vivere, conoscere e agire, poggia sulla coscienza dell’ordine universale e del nostro
inserimento in esso; fare scienza è scoprire l’ordine universale e porsi in sintonia con esso; è vivere
nel Logos cogliendone con i sensi i segni indicativi e rammemorativi di presenza, con la mente e i
suoi cammini di inferenza la natura e il senso, e con la volontà le direzioni per vivere secondo
natura, quella propria a ciascuno, individuale, quella comune, cioè quella che ci accomuna nella
universale animalità e umanità.
La scienza è attenzione, ascolto e raccolta di segni, interpretazione costante e plurima; ermeneutica
o divinazione ma condotta con strumenti logici e, contemporaneamente, poiché si tratta per lo più di
segni indicativi quelli di cui si occupa, abitudine a conservare le tracce indiziarie nella loro costante
capacità di rimandare ad un significato altro e mai concettualmente definito, finché i significati non
si compongono nel sistema razionale del cosmo. Nella scienza e nella filosofia stoica, come logica
semiotica, fondata cioè su segni indicativi indiziari e non semplicemente rammemorativi o basati
semplicemente sull’evidenza sensibile del momento, è in atto, infatti, una logica dell’implicazione
costruita attraverso un processo deduttivo messo a disposizione dal sillogismo binario ipotetico. Il
fare scienza è qui dunque attesa di una definizione della realtà, esterna e interna, comune e
21
singolare, che ci restituisca l’esperienza come sede e manifestazione continua del lógos; una realtà
che si compone secondo logica e diventa per l’uomo unica fonte e sede di senso.
[2.5.3.1. una semiotica di razionalità contro la persistente moda di maghi, indovini, santoni e
presaghi di tutto (in rete e fuori rete) cfr Presagi destini e fatalità la logica delle interpretazioni
“popolari” Rep 24.04.2014 Marino Niola]
3. Euclide (secolo IV-III a.C.)
3.1. il luogo, il tempo, le opere e la diffusione.
3.1.1. il luogo, il tempo e le opere. «Alessandria di Egitto fu fondata da Alessandro nel 332 a.C. e
diventò poi capitale del regno dei Tolomei. Tolomeo I Soter, divenuto re nel 305 a.C., chiamò alla
sua corte celebri intellettuali e, su consiglio dell’aristotelico Demetrio Falereo, fondò una sede degli
studi detta Museo, in onore delle Muse, ove convennero a svolgere ricerche moltissimi studiosi e,
tra i primi, l’aristotelico Stratone di Lampsaco, che in seguito successe a Teofrasto nella direzione
del Liceo ad Atene (dal 287 al 269). Nel Museo, oltre ad alloggi per i suoi membri, esisteva una
ricchissima attrezzatura scientifica: una delle biblioteche più ingenti del mondo allora conosciuto,
osservatori per astronomi, sale di sezionamento per i medici, un giardino zoologico e un orto
botanico. Il compito principale degli scienziati del Museo era la ricerca più che l’insegnamento. La
massima fioritura di tale istituzione dura per l’intero secolo III fino alla metà del secolo II a.C.,
quando fu danneggiata durante una guerra civile.
Verso il 300 a.C., sotto il regno di Tolomeo I, fiorì Euclide, autore di vari scritti a noi conservati
(Ottica, Dati ecc.), i più celebri dei quali sono i tredici libri degli Elementi, nei quali egli sistemò
rigorosamente le conoscenze matematiche secondo un rigoroso ordine assiomatico.» (Cambiano
Giuseppe, Filosofia e scienza nel mondo antico, 253)
3.1.2. alla ricerca di un metodo per la scienza. A partire dal III secolo a.C., nella cultura ellenistica,
svariate tradizioni di ricerca (astronomica, matematica, medica, storiografica) cominciano ad
affermare in modo sempre più deciso e consapevole la propria autonomia di metodo e la specificità
del proprio ambito di indagine. È difficile pensare che quella pluralità di forme di sapere si sia
legittimata in riferimento a un unico modello di razionalità. Esse avevano, certo, elementi in
comune: si presentavano nella forma del trattato, che meglio si presta a delimitare l’ambito della
ricerca ed esporre in modo scientifico; si riferivano, per luogo culturale di composizione o per
esigenze di confronto, a un unico centro di organizzazione della cultura, il Museo di Alessandria; si
rivolgevano, infine, a uno stesso tipo di lettore, il nuovo aristocratico ellenistico che, escluso dalla
politica, coltiva specifici interessi scientifici. Tuttavia le direzioni che le diverse discipline avevano
preso, soprattutto sul piano metodologico, erano assai diversificate. L’eterogeneità di tali direzioni
di ricerca cominciò però a essere corretta e uniformata a partire dal 300 a.C. circa, quando si diffuse
la tendenza ad assumere l’opera Elementi di Euclide come espressione delle forme e delle regole
secondo cui procede la ragione scientifica. La fama di cui godono gli Elementi di Euclide fin
dall’antichità è in singolare contrasto con la figura dell’autore, di cui non si sa quasi nulla; l'opera
stessa è databile solo approssimativamente. Questo vuoto di informazione è però una conferma
dell’importanza del testo: l’autore, nel senso moderno del termine, passa infatti in secondo piano; è
l’opera a rappresentare il progetto di razionalità cui si ispirano, come a un modello, matematici,
astronomi, fisici, biologi, medici e storici ellenistici.
3.1.3. tradizione e rigore: le ragioni di un successo dell’opera.
«La trattazione di Euclide è il punto di arrivo di un millenario processo storico, le cui tappe salienti
sono state lo sviluppo egizio della geometria quale agrimensura (da gê, «terra», e metreín,
«misurare») a partire almeno dal 2300 a.C., l’invenzione greca della dimostrazione da parte di
Talete e Pitagora nel VI secolo a.C. e la prima sistematizzazione dei fondamenti negli Elementi di
Ippocrate di Chios nel V secolo a.C. Ma la trattazione di Euclide è anche il punto di partenza di
successivi e altrettanto millenari sviluppi, ai quali ora rivolgiamo la nostra attenzione, e che
riguardano tutti gli aspetti logici della dimostrazione del teorema di Pitagora: cioè, le definizioni
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delle nozioni, la necessità e la sufficienza degli assiomi, e la correttezza delle dimostrazioni delle
proposizioni ausiliarie.» (Odifreddi Piergiorgio, Variazioni pitagoriche, in Odifreddi P., 2012,
Pitagora, Euclide e la nascita del pensiero scientifico, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma, 47)
Gli Elementi di Euclide si presentano come una raccolta e un'esposizione sistematica delle
tradizioni matematiche sviluppatesi nei tre secoli precedenti, che vengono rilette criticamente e
organizzate secondo una nuova prospettiva e proposte come fondamento indispensabile di ogni
sviluppo, sia teorico sia applicativo, della ragione matematica. La geometria di Euclide non
introduce, infatti, rilevanti innovazioni nella tradizione matematica dal punto di vista dei contenuti;
l'aspetto innovativo è costituito dalla ricostruzione unitaria del ricco materiale elaborato nei secoli
precedenti secondo un nuovo e rigoroso impianto. L’edificio della geometria euclidea poggia infatti
sulla individuazione di una serie di principi e di enunciati (definizioni, postulati e assiomi) che
forniscono il fondamento e l’impalcatura al ragionamento geometrico. Sostenitore della natura
ideale degli enti matematici, Euclide fonda così un sistema: l’universo matematico appare come un
ambito teorico autonomo e totalmente controllato, costruito dall'intreccio di principi universalmente
validi non per dimostrazione, ma per l’evidenza intuitiva della loro enunciazione (le definizioni, i
postulati, gli assiomi) e di proposizioni (le dimostrazioni o teoremi) che fondano ed esplicitano i
contenuti dei principi mediante nuove espressioni. L'assiomatizzazione della scienza (cioè l’opera
di riconduzione di ogni enunciato a verità iniziali immediatamente vere) si accompagna alla
convinzione che esistano regole formali o logiche (di costruzione, di descrizione) le quali, se
rispettate, garantiscono il corretto procedere del discorso e contemporaneamente permettono di
cogliere e di descrivere l’estrema variabilità dei dati sensibili e le forme necessarie che spiegano la
continuità e l’ordine del mondo.
3.1.4. la diffusione. A partire dal 300 a.C. circa, si diffonde la tendenza ad assumere l’opera
Elementi di Euclide come espressione delle forme e delle regole secondo cui procede e deve
procedere la ragione scientifica. La struttura euclidea diventa subito il modello (pressoché
indiscusso) universale del metodo scientifico, lo seguono i matematici Aristarco di Samo (310-230
a.C.), Archimede (287-212, che pure sembrava preferire il metodo di esaustione), lo rispettano i
medici e gli astronomi alessandrini, che impostano le proprie esposizioni «attenendosi al metodo
ipotetico-deduttivo fissatosi per tutte le branche della matematica (compresa quindi l’astronomia)
tra Platone ed Euclide.» (Repellini, 233)
3.1.4.1. Un settore in difficoltà. Gli astronomi, in particolare, si trovano tuttavia in una situazione
non facile. «Ciò che va sottolineato è che alla cura per il rigore e l’eleganza formale non è associato
un corrispondente sforzo di precisione nella rilevazione dei dati celesti: i valori numerici dati nelle
ipotesi iniziali sono sensibilmente approssimati. Si può congetturare che ciò fosse dovuto in parte
anche all’imbarazzo in cui si trovavano i matematici greci di fronte a valori numerici scomodi, dato
che il loro sistema di notazione era assai intricato e pesantissimo nel calcolo.» (Repellini, 233)
Opera in questa incertezza, probabilmente, anche un altro fattore: la teoria geocentrica rende
estremamente complicata la lettura e trascrizione geometrica delle osservazioni empiriche; «cioè la
riduzione dei moti irregolari degli astri erranti a moti circolari uniformi.» (Repellini, 233). Entrano
in contrasto l’esigenza di semplicità estetica della geometria e del concetto filosofico di cielo
segnata dalla perfezione del moto circolare e le osservazioni che, quando accurate, mostravano un
grado di complessità poco compatibile con la presupposta perfezione del cielo.
3.2. il modello. La razionalità della geometria
«Definizioni (termini), postulati, nozioni comuni, proposizioni (teoremi)»
Il primo dei tredici libri di cui si compongono gli Elementi di Euclide fornisce tutti gli elementi
portanti della nuova disciplina e del nuovo modello di razionalità: definizioni, postulati, assiomi,
teoremi. Seguendone l’articolazione è possibile ricostruire lo stile della razionalità geometrica e
deduttiva di Euclide che ha influito per secoli sull'organizzazione del sapere matematico.
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DEFINIZIONI
(Termini [hóroi, confini, limiti])
I. Punto è ciò che non ha parti.
II. Linea è lunghezza senza larghezza.
III. Estremi di una linea sono punti.
IV. Linea retta è quella che giace ugualmente rispetto ai punti su essa (cioè, ai suoi punti).
V. Superficie è ciò che ha soltanto lunghezza e larghezza.
VI. Estremi di una superficie sono linee.
VII. Superficie piana è quella che giace ugualmente rispetto alle rette su essa (cioè, alle sue rette).
VIII. Angolo piano è l’inclinazione reciproca di due linee su un piano, le quali si incontrino fra loro
e non giacciano in linea retta.
IX. Quando le linee che comprendono l’angolo sono rette, l’angolo si chiama rettilineo.
X. Quando una retta innalzata su una [altra] retta forma gli angoli adiacenti uguali fra loro, ciascuno
dei due angoli uguali è retto, e la retta innalzata si chiama perpendicolare a quella su cui è innalzata.
XI. Angolo ottuso è quello maggiore di un retto.
XII. Angolo acuto è quello minore di un retto.
XIII. Termine è ciò che è estremo di qualche cosa.
XIV. Figura è ciò che è compreso da uno o più termini.
XV. Cerchio è una figura piana compresa da un’unica linea [che si chiama circonferenza] tale che
tutte le rette, le quali cadano sulla [stessa] linea, [cioè sulla circonferenza del cerchio], a partire da
un punto fra quelli che giacciono internamente alla figura, sono uguali tra loro.
XVI. Quel punto si chiama centro del cerchio.
XVII. Diametro del cerchio è una retta condotta per il centro e terminata da ambedue le parti dalla
circonferenza del cerchio, la quale retta taglia anche il cerchio per metà.
XVIII. Semicerchio è la figura compresa dal diametro e dalla circonferenza da esso tagliata. E
centro del semicerchio è quello stesso che è anche centro del cerchio.
XIX. Figure rettilinee sono quelle comprese da rette, vale a dire: figure trilatere quelle comprese da
tre rette, quadrilatere quelle comprese da quattro, e multilatere quelle comprese da più di quattro
rette. […]
POSTULATI
I. Risulti postulato: che si possa condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto.
II. E che una retta terminata (= finita) si possa prolungare continuamente in linea retta.
III. E che si possa descrivere un cerchio con qualsiasi centro ed ogni distanza (= raggio).
IV. E che tutti gli angoli retti siano uguali fra loro. […]
V. E che, se una retta venendo a cadere su due rette forma gli angoli interni e dalla stessa parte
minori di due retti (= tali che la loro somma sia minore di due retti), le due rette prolungate
illimitatamente verranno a incontrarsi da quella parte in cui sono gli angoli minori di due retti (= la
cui somma è minore di due retti).
NOZIONI COMUNI
I. Cose che sono uguali ad una stessa sono uguali anche fra loro.
II. E se cose uguali sono addizionate a cose uguali, le totalità sono uguali.
III. E se da cose uguali sono sottratte cose uguali, i resti sono uguali.
IV. E cose che coincidono fra loro sono fra loro uguali.
V. Ed il tutto è maggiore della parte. […]
PROPOSIZIONI
Proposizione 1.
Su una retta terminata data costruire un triangolo equilatero.
Sia AB la retta terminata data.
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Si deve dunque costruire sulla retta AB un triangolo equilatero. Con centro A e raggio AB risulti
descritto il cerchio BCD (post. III), di nuovo risulti descritto, con centro B e raggio BA, il cerchio
ACE (id.), e dal punto C, in cui i cerchi si tagliano fra loro, risultino tracciate ai punti A,B le rette
congiungenti CA, CB (post. I). Ora, poiché […]
Dunque, il triangolo ABC è equilatero. Ed è stato costruito sulla retta terminata data AB.—C.D.F.
3.3. Un sistema razionale della geometria: gli elementi messi a disposizione e le direzioni rese
possibili.
Il metodo – geometria si affida a più direzioni intrecciate: la razionalità geometrica diventa scienza
nella forma di un sapere ipotetico deduttivo; le definizioni di partenza presiedono a sviluppi
sistematici diversi; il procedimento dimostrativo non è solo di deduzione ma di costruzione delle
forme ideali dello spazio.
3.3.1. direzione prima: un sistema ipotetico deduttivo.
Gli Elementi di Euclide non si presentano soltanto come un particolare ambito di studio, quello
dedicato allo spazio, ma diventano il modello scientifico formale universalmente condiviso, quasi la
definizione di scienza. Una teoria scientifica sistematica si struttura secondo gli “elementi” mostrati
nella geometria euclidea, è “scientia more geometrico demonstrata”. Si compone cioè di Termini
(definizioni), Assiomi (postulati e nozioni comuni), Teoremi (dimostrazioni). La definizione
formale univoca degli enti geometrici e matematici raggiunge storicamente lo scopo di costruire un
sistema logico formale di carattere ipotetico deduttivo capace di sistematicità teorica e capace di
autocontrollo, modello per la scienza. Infatti le definizioni dei termini (horoi – confini), in
particolare indicano un limite, sono un segno di confine che vincola il termine a un significato
univoco e adeguatamente fissato, «definito». L’univocità è una delle principali condizioni per la
correttezza dimostrativa e per il controllo dell’intero processo. Anche se la volontà di Euclide di
definire ogni termine si scontra con l’impossibilità, per un sistema, di fornire la definizione di tutti i
suoi termini. Euclide tende a chiarirne il significato ricorrendo a nozioni di senso comune o
comunque a espressioni esterne al sistema da costruire (ad es.: parti, giace, inclinazione).
3.3.2. direzione seconda: un sistema che esprime, nel proprio rigore formale, il valore delle
tradizioni culturali storiche che nel settore sono state prodotte. Il testo di Euclide mette di fronte ad
un altro dato. Varcato il rigore formale della ragione geometrica, quale si ricava dell’impostazione
secondo definizioni, dimostrazioni e teoremi, si presentano e sorprendono non poche ambiguità. Le
definizioni sono spesso ottenute con il ricorso a espressioni del linguaggio comune, si servono di
termini non definiti e quindi incerti quanto al significato; si presentano definizioni doppie. Vi sono
infatti doppie definizioni come: il punto è ciò che non ha parti, ma è anche l’estremo di una linea; la
linea è lunghezza senza larghezza, ma è anche estremo della superficie che ha lunghezza e
larghezza ecc. Alcune definizioni costruiscono l’oggetto, altre si ottengono per descrizione, altre per
implicazione. Non si tratta di incoerenze ma di aspetti che guidano a cogliere la natura del testo, la
concezione di geometria, il metodo che viene messo a disposizione. Euclide fa riferimento alla
varietà delle tradizioni matematiche esistenti; l’intento di ordinarle in sistema teorico non ne
sopprime la varietà delle proposte e delle possibili direzioni di sviluppo, considerate contesto del
sapere e del fare geometria. Ambiguità e incertezze che, a prima vista, mettono a rischio il
controllo razionale e la sistematicità della dimostrazione e, dilatando la preoccupazione,
l’autonomia e l’efficacia della ragione nel suo intento dimostrativo con pretesa di sistematicità
totale. La preoccupazione logica si traduce in scoperta di opportunità se si adotta, nei confronti del
testo di Euclide, un’altra prospettiva di lettura: lette storicamente, come lascito di una lunga
tradizione geometrica, queste ambiguità diventano aperture e indicazione di sistematicità e di
metodi possibili. Nonostante l’obiettivo di fornire termini, óroi, cioè definizioni univoche e non
soggette a fraintendimenti, il testo di Euclide permette dunque anche di recuperare le produzioni
scientifiche già avvenute in precedenza in molti campi e che si sono mostrate capaci di invenzione
(scoperta) e produzione (costruzione) anche in forza di una propria e specifica definizione degli enti
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matematici di riferimento; qui la definizione è funzionale alla produzione ottenuta e da quella
giustificata; non è giustificata in assoluto, ma relativamente a ciò che essa permette di costruire.
3.3.2.1. in contesto ancora più ampio (e qui fedele alla tradizione filosofica di Socrate, Platone e
Aristotele), in un testo di geometria si attua il confronto, l’analisi, il riporto e l’utilizzo di una lunga
tradizione storica cui è opportuno attingere. Recupero della produzione storica in campo geometrico
che è anche consapevolezza della natura storica della stessa costruzione che Euclide sta compiendo
per metterla a disposizione di chi si impegna nel fare scienza: è mettere a disposizione un modello
di organizzazione razionale della relazione sui risultati della propria ricerca.
Osserva Wallerstein (Wallerstein Immanuel 2006 La retorica del potere. Critica dell’universalismo
europeo, Fazi editore, Roma 2007, 108) «La storicizzazione non è l’opposto della
sistematizzazione. Non è possibile sistematizzare senza intendere i parametri storici dell’insieme,
dell'unità di analisi. E dunque non è possibile storicizzare nel vuoto, come se ogni cosa non facesse
parte di un insieme sistemico più ampio. Tutti i sistemi sono storici e tutta la storia è sistemica.»
3.3.3. direzione terza: «Gli Elementi di Euclide comprendono sostanzialmente costruzioni e
dimostrazioni: costruzioni di oggetti geometrici e dimostrazioni di teoremi geometrici. Per le
costruzioni sono usati… solo la riga e il compasso, mediante i quali vengono realizzate figure via
via più complicate.» (Odifreddi 2012, 34) Il sistema costruito negli Elementi di Euclide è dunque
un sistema ad un tempo dimostrativo e costituente; in termini kantiani: analitico (per il rigore
formale) e sintetico (per la capacità di produrre contenuti e costruire il proprio ambito scientifico;
va cioè sottolineata la funzione costruttiva e tecnica della geometria all’interno stesso della sua
costruzione teorica; fa testo la chiusura delle dimostrazioni o dei teoremi e ciò che ne consegue
affidata alla formula “come dovevasi fare [C.D.F.]” e non alla formula, poi più nota, “come
dovevasi dimostrare [C.D.D.]”; quest’ultima avanza le pretese di una razionalità dimostrativa che si
presenta come unica, universale e definitiva, quella segnala la natura funzionale, ma tutt’altro che
arbitraria, della ragione geometrica. Anzi solo in questa accezione la geometria è suscettibile e in
grado di controllare la propria validità, in caso invece della pretesa di verità assoluta, la geometria
prodotta si chiama fuori da ogni possibile controllo.
3.3.3.1. Un ruolo particolare svolge qui il quinto postulato del primo libero degli Elementi di
Euclide. La teoria del parallelismo, introdotta mediante il quinto postulato, può essere interpretata
come volta a stabilire la condizione di costruibilità, cioè di esistenza, di un punto come intersezione
di due rette e della conseguente trattazione della figura prima (e generante) della geometria: il
triangolo. Com’è noto, il quinto postulato, equivalente all’affermazione che per un punto assegnato
esiste una e una sola retta parallela a una retta data e che la somma degli angoli interni di un
triangolo è eguale a due retti, sarebbe poi stato al centro della discussione delle geometrie noneuclidee, tutte volte in qualche modo a rifiutarlo, prima a dimostrarlo, rifiutandolo come postulato e
trasformandolo in teorema, poi a prescinderne [poi: quarta direzione].
3.3.4. direzione quarta: un sistema formale che, in base ai postulati di cui si avvale, può dar vita al
proprio oggetto in sistemi determinati diversi: come se immaginasse geometrie plurime. Si tratta di
aspetti che guidano a cogliere, forse con il senno di poi, una specie di paradosso: la prima geometria
non-euclidea è quella di Euclide. Il tempo ha finito per prendere in considerazione la geometria di
Euclide come “la geometria”, convinzione questa che regge la riflessione filosofica e la ricerca
scientifica di tutta l’età moderna; lo stesso Kant ha contribuito a mantenere questa convinzione
rendendo “a priori” la geometria euclidea (collocando nell’a priori formale della mente un prodotto
culturale storico). Quando nell’Ottocento (e timidamente prima) incominciano a prendere forma
altre geometrie, queste si definiscono, genericamente, non-euclidee; rappresentano un’alternativa
(non negazione) alla geometria euclidea. Ma che vi fosse una alternativa alla propria geometria è
convinzione che traspare con una certa evidenza dagli stessi Elementi di Euclide; ciò sulla scorta di
una osservazione generale, riguardante l’impianto complessivo dell’opera, e di una osservazione
specifica, riguardante il quinto postulato del primo libro degli Elementi.
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3.3.4.1. L’impianto complessivo mostra l’intenzione di Euclide di richiamare e mettere a
disposizione diverse definizioni degli stessi termini di partenza e conseguentemente diversi possibili
sviluppi ipotetico-deduttivi di geometria.
3.3.4.2. Il quinto postulato di Euclide, detto “delle parallele” è quello da cui storicamente è partito il
percorso che ha permesso la costruzione di geometrie diverse da quelle euclidee. L’introduzione di
un postulato si lega a più condizioni: si postula ciò che non si riesce a dimostrare; si postula ciò che
risulta indispensabile per la dimostrazione; si costruisce a partire dai postulati e sono questi a porre
le condizioni della possibilità di dimostrare e a definire la fisionomia complessiva della teoria; si
deve tendere a dimostrare il più possibile, riducendo al minino l’indimostrabile, cioè riducendo al
minimo il numero dei postulati, allo scopo di dare stabilità teoretica al sistema. Ebbene, Euclide
costruisce il proprio sistema introducendo, a quanto sembra, il più tardi possibile il quinto postulato
(il suo utilizzo compare per la prima volta nella proposizione 29 del libro I), costruisce cioè una
geometria che prescinde dal postulato delle parallele. Allo stesso modo storicamente partono le
geometria non euclidee che, nel tentativo di dimostrare il quinto postulato, cioè nel tentativo di
negarlo come postulato e quindi di prescinderne, si accorgono che nel loro percorso non si va
incontro all’assurdo (come continuava a pensare Girolamo Saccheri, 1667-1733, che aveva dato
impulso notevole a questi tentativi), ma sta prendendo forma una geometria assolutamente nuova i
cui concetti e le cui forme sono ben diverse da quella euclidea ma che, tuttavia, si presenta come un
sistema coerente e che, poi, manifesterà enormi potenzialità scientifiche e applicative nel campo
della fisica e delle tecniche.
3.3.4.2.1. Un ultimo rilievo. Il postulato delle parallele resta dunque un postulato. Proprio per
questa sua situazione logica esso rende possibili geometrie non euclidee. «Se il problema delle
parallele si potesse risolvere, si sarebbe dimostrato che il quinto postulato è un teorema della
geometria assoluta.» (Thóth Imre, La geometria non euclidea prima di Euclide, in Odifreddi 2012,
74) In questa situazione nessuna geometria non euclidea sarebbe possibile ma esisterebbe (in questo
ambito) solo una geometria assoluta, coincidente con quella euclidea.
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