Alcuni aspetti della storia italiana post-unitaria sotto

Alcuni aspetti della storia italiana post-unitaria sotto il
profilo della spesa pubblica*
Enrico Castrovilli† e Roberto Fini‡
I processi di divergenza e convergenza nello sviluppo economico ........................................................... 2
Le politiche post-unitarie di spesa pubblica ......................................................................................................... 3
I processi di convergenza/divergenza nello sviluppo italiano .................................................................... 5
La spesa pubblica dell’Italia repubblicana ............................................................................................................. 6
Gli anni dell’emergenza (e della divergenza) ....................................................................................................... 8
Materiale preparato in occasione della conferenza del 18 aprile 2012 al Liceo Scientifico C.
Cattaneo di Torino sul debito sovrano. Il presente lavoro è liberamente disponibile per i
Docenti e gli Studenti del Liceo stesso.
† Presidente dell’Associazione Europea per l’Educazione Economica (AEEE-Italia)
‡ Docente di Economia presso l’Università di Verona
*
I processi di divergenza e convergenza nello sviluppo economico
La storia unitaria italiana è una storia di successo o di insuccesso? Si tratta di categorie
cariche di contenuto valoriale e non è detto che contengano elementi apprezzabili di
significatività storica. È forse più utile utilizzare il concetto, caro agli economisti, di
convergenza/divergenza1 per analizzare, sia pure a grandi linee e con particolare riferimento
ad alcuni periodi considerati cruciali, la storia italiana dall’Unità ad oggi e il ruolo che in essa
ebbe la politica economica e la spesa pubblica.
L’Italia del 1861 era un paese relativamente povero. I dati relativi al PIL pro-capite e gli altri
indici sulla qualità della vita lo confermano in modo drammatico2. Ora: gli economisti dello
sviluppo in genere si aspettano che i paesi economicamente arretrati crescano più
rapidamente di quelli avanzati perché importano da essi tecnologia e know-how, tendono a
trasferire risorse dall’agricoltura alla manifattura e ad esportare i beni prodotti a basso costo
verso mercati a reddito elevato.
È un processo noto agli economisti come convergenza. Peraltro non è, non può essere, un
processo meccanico: esso si presenta secondo le condizioni sintetizzate da Abramovitz con la
locuzione di “capacità sociale di crescita”.
Quello dei processi di divergenza/convergenza è un importante dibattito storiografico che
assume particolare importanza nell’economia dello sviluppo di lungo periodo. In sostanza
viene sostenuto che nei processi di sviluppo che hanno caratterizzato la storia mondiale si è
assistito ad una sostanziale convergenza fra nazioni ed aree fino al cinquecento, poi, a partire
da allora, il processo si è invertito e, in particolar modo fra asia ed Europa si è avuta una
divergenza in termini di crescita di PIL e di altri indicatori della condizione economica.
L’autore che più in profondità ha studiato la divergenza fra Europa e Cina è stato K. Pomeranz
in La grande divergenza, Il Mulino, 2010. Di recente, il concetto è stato ripreso, rovesciato e
trasformato in grande convergenza, dallo storico inglese N. Ferguson che sostiene come la
divergenza sia sta originata da alcune killer application che hanno avvantaggiato l’occidente,
ma tali innovazioni oggi si sono trasferite alla Cina e agli altri paesi emergenti, riducendo (fino
in prospettiva ad azzerare) il vantaggio goduto dall’Europa. Anche il concetto di killer
application è particolarmente interessante: si tratta di innovazioni in grado di “uccidere” i
prodotti e le procedure precedentemente adottate. Secondo Ferguson anche l’impostazione di
un sistema politico democratico ha avvantaggiato Europa e USA, insieme ad alcune
innovazioni decisive in campo medico e tecnologico. Sul concetto di killer application si veda
Downes L. e Mui C., Killer App, Etas Libri 1999.
2 Si vedano a questo proposito i grafici 1, 2, 3. In occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, la
Banca d’Italia ha promosso un interessante convegno cui hanno partecipato storici ed
economisti. Il convegno è stato l’occasione per rivisitare la storia del paese secondo un’ottica
prevalentemente economica. La relazioni ed altro materiale relativo al convegno sono
reperibili sul sito della Banca d’Italia
(http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/pubsto/quastoeco). Inoltre, Istat ha reso
disponibili sul suo sito, in una sezione specifica (Serie Storiche), una buona quantità di
statistiche relative all’Italia dall’Unità ad oggi. Il materiale, liberamente scaricabile è
raggiungibile all’URL: http://seriestoriche.istat.it/. Allo stesso indirizzo si raccomanda anche
la parte dedicata ai grafici interattivi che permettono una visione dinamica dei più rilevanti
aggregati economico-sociali che riguardano il paese.
1
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I identify social capability in part with the technical competence of a country's people
and suggest that, at least among Western countries, this may be indicated by levels of
general education and by the share of the population with training in technical
subjects. Complicated and delicate machinery cannot be used to good advantage if
managers lack technical knowledge or if workers lack some acquaintance with
rudimentary mathematics 3.
Nel corso della storia unitaria italiana il paese ha sostanzialmente colmato il gap di reddito
pro-capite che la divideva dai paesi europei che avevano attuato la rivoluzione industriale
cinquanta e più anni prima e anche nei confronti degli USA il divario si è ridotto.
Ma i centocinquanta anni di storia unitaria non hanno avuto un andamento costante per
quanto riguarda lo sviluppo economico-sociale: la convergenza rispetto alle altre economie
europee e, in misura minore, rispetto a quella USA si è realizzata sostanzialmente nel corso di
un secolo, dal 1896 al 1992 (con l’eccezione degli anni trenta del novecento). In effetti, i primi
trenta anni di storia unitaria e l’ultimo ventennio rappresentano due “code” negative in cui
l’economia italiana ha proceduto secondo binari divergenti rispetto a quella degli altri paesi.
Dunque la storia economica d’Italia presenta aspetti non omogenei, come del resto accade,
forse in misura minore, per gli altri paesi4. In tutto questo, sia nei processi di convergenza che
in quelli di divergenza dell’economia italiana rispetto alle altre, il ruolo della politica
economica è stato significativo e, più in particolare, appaiono di indubbio interesse le
dinamiche della spesa e del debito pubblico5.
Le politiche post-unitarie di spesa pubblica
Non sembra potersi dubitare che l’unificazione italiana, come del resto succede spesso per
tutti i grandi disegni politici, non sia stata ben pianificata. Anzi forse non era stata per nulla
pianificata. Quando nel 1859 Napoleone III e Vittorio Emanuele II scatenano la guerra contro
l’Austria, l’obiettivo è la creazione di uno stato italiano del Nord, grosso modo coincidente con
l’area del Regno d’Italia di concezione napoleonica. Niente di meno, ma neanche niente di più.
Le cose andarono diversamente rispetto a quanto pianificato dalla leadership sabauda (e
francese): i plebisciti degli stati dell’Italia centrale e le mosse avventurose di Garibaldi
crearono, quasi inaspettatamente, e forse contro, i progetti politici della dinastia sabauda, uno
Abramovitz M., Thinking about Growth, Cambridge University Press, 1969, p. 45. Sugli stretti
rapporti fra sviluppo economico e tecnologie può leggersi un’opera classica importantissima e
densa di riflessioni: Rosenberg N., Dentro la scatola nera, Il Mulino 2001.
4 Una ricostruzione approfondita e di godibile lettura della storia d’Italia dal punto di vista
economico, da prima dell’Unità fino ai giorni nostri è contenuta in Ciocca P.L., Ricchi per
sempre?, Bollati Boringhieri, 2009
5 Sul debito pubblico la bibliografia è comprensibilmente sterminata: si tratta di un
argomento molto importante nell’ambito delle politiche economiche, ovviamente non soltanto
di quella italiana. Qui ci limitiamo a segnalare un libro elementare, ma ben scritto da uno dei
massimi economisti italiani contemporanei: Musu I., Il debito pubblico, Il Mulino 2006. Chi
volesse approfondire il tema del debito pubblico dal punto di vista teorico dovrà tenere conto
della svolta compiuta a seguito dell’opera di J. M. Keynes nel corso degli anni trenta del
novecento a seguito delle riflessioni provocate dalla crisi del ‘29. Un’analisi keynesiana, di
poco precedente alla crisi del ’29 e di facile lettura è contenuta in J.M. Keynes, La fine del
laissez faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, 1996. In questa come in altre opere di Keynes si
sostiene che il liberismo economico (laissez faire) può provocare gravi conseguenze negative.
Da qui la convinzione per Keynes che è utile, e in molte occasioni indispensabile, un
intervento dello stato nell’economia, anche se questo provoca un debito pubblico elevato.
L’intervento pubblico attuato in deficit permette all’economia inceppata di ripartire.
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stato di grandi dimensioni sia dal punto di vista territoriale che demografico. L’Italia divenne,
immediatamente ed improvvisamente, una fra le prime economie mondiali per quanto
riguarda la dimensione del Prodotto Interno Lordo (PIL), sovvertendo così molti degli
equilibri in campo internazionale.
Subito dopo la sua costituzione, l’Italia dovette affrontare due guerre6 e la lunga e costosa
repressione del fenomeno del brigantaggio meridionale 7. Quasi contemporaneamente, e
molto saggiamente, si impegnò alla unificazione del mercato interno 8 e ad altri importanti
lavori pubblici9. Anche il sistema di creazione di capitale umano attraverso le riforme del
sistema scolastico, benché in misura molto minore, rappresentò una priorità del nuovo stato
unitario.
La conseguenza di questi impegni fu, e non poteva essere diversamente, un aumento
considerevole della spesa pubblica non compensato da un corrispondente aumento delle
entrate tributarie. E dunque, per di più in presenza di una crescita costante ma modesta del
PIL, il debito pubblico aumentò in modo considerevole 10. Come sempre in questi casi,
all’aumento del debito corrisponde un maggiore onere per il servizio del debito stesso, sia
perché l’ammontare assoluto del debito rende di conseguenza maggiori gli interessi da
pagare, sia perché il tasso tende ad aumentare per rendere appetibili i titoli di un paese che
non è in grado di garantire appieno la solvibilità11. Gran parte della maggiore spesa pubblica
italiana rispetto a quella di altri paesi si giustifica proprio per il maggior peso del servizio del
debito a carico dello stato italiano.
Va peraltro osservato che un alto rapporto debito/PIL non era inusuale nell’ottocento: alla
fine delle costosissime guerre napoleoniche il rapporto debito/PIL del Regno Unito aveva
raggiunto il 250% e, ancora alla metà del secolo, superava il 100%. Anche il rapporto francese
si mantenne a lungo sopra il 100% senza che questo pesasse in modo rilevante sul
rendimento dei titoli emessi dai governi inglese o francese.
Dunque, il debito italiano non era particolarmente anomalo in quanto a dimensione. Ma sui
titoli emessi dallo stato italiano pesava, in un primo momento l’incertezza sulla sopravvivenza
stessa del nuovo stato e, successivamente, il dubbio sulla capacità di far fronte ad un così
elevato servizio del debito. In genere, sebbene come extrema ratio, in simili casi un paese
La terza guerra di indipendenza (1866) e le operazioni che culminarono con la presa di
Roma (1870)
7 La repressione di quello che è stato definito fenomeno del brigantaggio, e che in realtà fu una
vera e propria guerra civile, ebbe costi umani rilevanti, ma anche notevoli costi economici:
basti pensare che il neonato Regno d’Italia dovette schierare sul campo un esercito di 140.000
uomini.
8 Uno degli elementi spesso, e a ragione, citati dagli storici è la rapidissima costruzione di linee
ferroviarie nazionali sulle principali direttrici.
9 In particolare acquedotti e sistemi fognari moderni
10 Si veda a questo proposito il grafico 4
11 Si parla in questi casi di “premio di rischio”: per poter piazzare sul mercato i titoli,
superando la diffidenza da parte degli investitori, il giovane stato deve promettere rendimenti
elevati. In questo modo i titoli vengono in genere sottoscritti ma il servizio del debito
aumenta.
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troppo indebitato procede ad una ristrutturazione del debito 12. L’Italia per ragioni di ordine
politico non prese mai una simile misura, ad eccezione di un caso13.
Dunque la situazione appare in chiaroscuro: un alto debito pubblico in valore assoluto, e un
corrispondentemente alto servizi del debito, ma non in misura maggiore di altri paesi; al
tempo stesso tassi di interesse elevati a causa del rischio sovrano. A fronte di questi aspetti
occorre chiedersi: la spesa pubblica attuata in disavanzo dai governi post-risorgimentali fu
una scelta sciagurata, o quanto meno imprudente?
Qui soccorre la teoria economica, oltreché la storia politica del paese: per avviare uno
sviluppo economico in senso moderno un paese deve affrontare alcuni processi che possono
essere considerati ineludibili, quali l’unificazione del mercato interno e la formazione di un
adeguato capitale umano. Risolte le questioni militari, anch’esse molto costose, l’Italia
procedette a tali compiti.
Molte riforme sociali potevano considerarsi “a costo zero”: l’introduzione di un codice civile
moderno, la legislazione amministrativa, la regolazione dei mercati monetario e finanziario.
Altre costavano relativamente poco, come l’unificazione monetaria. Ma alcuni interventi
infrastrutturali indispensabili alla creazione di un mercato unico erano estremamente costosi:
ferrovie, telegrafo, porti, strade. Si spese relativamente poco per l’istruzione, anche se le
riforme dello stato unitario furono molto importanti per il futuro assetto scolastico del paese.
Occorre osservare che se questi interventi potevano considerarsi come l’unica soluzione per
far incamminare l’Italia in senso moderno, la stessa cosa non può dirsi per la decisione di far
crescere in modo notevole il numero dei dipendenti pubblici, presa prevalentemente per
ragioni di ordine clientelare.
Comunque, nel complesso, la spesa pubblica italiana fu tutt’altro che improduttiva, anche se,
come del resto spesso accade per questo tipo di interventi, i risultati in termini di rendimento
furono differiti nel tempo.
I processi di convergenza/divergenza nello sviluppo italiano
Volendo tentare una ricostruzione dei processi di divergenza/convergenza dello sviluppo
italiano rispetto agli altri paesi, occorre osservare in primo luogo che il reddito pro-capite
italiano nel primo trentennio post-unitario crebbe relativamente poco, in ogni caso in misura
non sufficiente ad avviare la convergenza. Al tempo stesso migliorarono molte dimensioni non
monetarie del benessere degli italiani: crebbero l’altezza media, la speranza di vita alla
nascita, le calorie pro-capite, diminuirono mortalità infantile, lavoro minorile, analfabetismo.
Soltanto a partire dalla seconda metà degli anni novanta del novecento la tendenza negativa si
invertì e l’Italia si avviò su un sentiero di convergenza con i paesi più avanzati. Si può dire che
tale inversione fosse il risultato delle scelte del trentennio precedente e dell’ aumento nella
dotazione di capitale umano.
Che l’Italia godesse, finalmente, dei risultati delle scelte operate nel primo trentennio postunitario è dimostrato dal fatto che ai primi del novecento la spesa pubblica era relativamente
contenuta in termini assoluti 14 e si ridusse in rapporto al PIL.
La ristrutturazione del debito pubblico è una procedura una variazione delle condizioni
debitorie, in genere riguardanti i tassi di interesse, che vengono ridotti, e/o la scadenza del
debito stesso, che viene posticipata rispetto a quanto precedentemente concordato fra le
parti.
13 Nel 1926 venne deciso il processo di conversione dei debiti a breve, una misura peraltro
concordata a livello internazionale.
14 Per esempio, nel 1905 era all’incirca pari a quella del 1888, malgrado fosse nel frattempo
aumentata la popolazione.
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Nel complesso, tenuto conto sia delle circostanze che dei risultati ottenuti, non è possibile
dare un giudizio negativo della politica fiscale nei primi cinquanta anni del Regno d’Italia.
Nel 1945 la spesa pubblica italiana aveva un ammontare modesto: a prezzi 2009 era di
appena 20 miliardi di euro. Per contro, debito e disavanzo erano elevati. Gli storici non hanno
ancora chiarito del tutto se Einaudi abbia accettato con entusiasmo o riluttanza la forte
inflazione del 1946, prima di stroncarla, Menichella Governatore della Banca d’Italia, l’anno
successivo15.
La spesa pubblica dell’Italia repubblicana
In ogni caso il risultato complessivo fu che la repubblica ebbe inizio con un debito pubblico
pressoché azzerato. In rapporto al PIL esso si ridusse leggermente fino alla metà degli anni
sessanta, quando cominciò a crescere fino alla metà del decennio successivo, per poi
stabilizzarsi intorno al 60%, grazie soprattutto all’inflazione a due cifre e ai tassi di interesse
negativi che ne conseguirono, fino alla fine del decennio settanta.
Gli anni ottanta sono invece gli anni dell’esplosione della spesa pubblica e del rapporto
debito/PIL, il quale raggiunse la soglia che alcuni economisti ritengono critica del 90% nel
1990. Nel decennio successivo continuò a crescere, poi cominciò una lenta e indecisa discesa,
per poi aumentare nuovamente a partire dal 2007.
C’è una relazione significativa fra l’andamento della spesa pubblica e del debito con la storia
macroeconomica italiana? Certamente, la circostanza che la storia repubblicana sia iniziata
con un indebitamento molto basso aiutò la crescita che caratterizzò il “miracolo economico” e
la “grande convergenza”, quando il tasso di crescita ebbe un aumento che gli stessi osservatori
non si aspettavano. Ma probabilmente tale circostanza non rappresentò uno dei fattori
determinanti dello sviluppo. È probabile che la pressione fiscale ancora relativamente
modesta ebbe un impatto maggiore sulla crescita.
Quanto alla spesa pubblica, nel 1960 era intorno al 30% del PIL, sostanzialmente allineata alla
media europea (29,5%). Peraltro, fino alla fine degli anni ottanta, la spesa pubblica italiana si
mantenne allineata, se non inferiore, rispetto a quella dei principali paesi europei. E sino ad
allora, l’Italia crebbe più rapidamente della media dei paesi europei.
Non è dunque vero che la spesa pubblica italiana sia stata elevata rispetto al contesto
europeo. Ed anche nei confronti degli USA, sino almeno alla metà degli anni settanta, il gap era
in sostanza trascurabile (33% circa gli USA, 35% circa l’Italia). Dunque cosa ha caratterizzato
l’Italia, tanto da fare arrivare il paese ad essere annoverato fra i PIGS e comunque a destare
tanto allarme nell’opinione pubblica interna ed internazionale?
Se si ragiona a partire dal periodo, cruciale anche ai fini della storia più recente, della seconda
metà degli anni settanta è possibile individuare tre problemi specificatamente italiani:
a. l’inefficienza del settore pubblico e il fatto che fosse inutilmente pletorico, con la
conseguente dilatazione, ingiustificata dai risultati, della spesa pubblica corrente;
Fu una fiammata inflazionistica di breve durata ma molto intensa, basti pensare che l’indice
dei prezzi all’ingrosso salì nel 1946 a quasi l’80% e quello del costo della vita superò il 60%.
Quando il peso del debito e degli interessi diventa a parere del governo insostenibile, una
delle strade che possono essere usate per risolvere il problema è chiedere alla banca centrale
di emettere moneta. Se la banca centrale accetta, l’emissione monetaria provoca inflazione e,
poiché gli interessi sul debito e il debito stesso giunto a scadenza si pagano in genere ai tassi
stabiliti all’atto della sottoscrizione del titolo, il risultato è che lo stato paga con moneta di
minor valore perché inflazionata. In effetti, e in linea generale (ad eccezione per i titoli di
debito/credito indicizzati al tasso di inflazione), i periodi di inflazione sono favorevoli ai
debitori e sfavorevoli ai creditori.
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b. la crescita del sistema di welfare, in particolare la generosità differita del modello
pensionistico, con un insieme di interventi che dimostrano una gravissima miopia di
lungo periodo;
c. il finanziamento della spesa in disavanzo.
Durante gli anni settanta, il finanziamento della spesa pubblica in disavanzo era reso
relativamente facile, se non addirittura conveniente, dai tassi di interesse reali negativi,
complice la forte inflazione che seguì alla prima crisi petrolifera. Ma l’inflazione a due cifre,
inusuale per l’Italia, almeno fino ad allora, presentava almeno due esiti perversi:
a. il già citato basso costo dell’indebitamento, che “drogava” le politiche pubbliche
illudendo i policy makers di aver trovato l’uovo di Colombo in grado di conciliare un
welfare generoso con una crescita non particolarmente esaltante;
b. il fiscal drag che, in presenza di un sistema di imposta progressivo, aveva l’effetto di far
aumentare il gettito per il solo fatto che i redditi nominali venivano colpiti
dall’inflazione.
La situazione sociale del periodo era molto tesa: il terrorismo falcidiava vittime innocenti e
l’antagonismo sociale era ai massimi livelli. Governi relativamente deboli trovano così il modo
di “oliare” le tensioni sociali con abbondanti elargizioni di denaro pubblico alle lobbies
industriali più forti, ai dipendenti pubblici e ai pensionati baby (anche questi provenienti dal
settore pubblico).
La facilità con cui lo stato poteva indebitarsi sembrava rendere, e nel breve periodo in effetti
poteva sembrare così, questa politica quasi un free lunch16. Tra il 1970 e il 1980, la spesa
pubblica italiana crebbe ad una media superiore all’11% annuo, con il risultato di una sua
triplicazione nel corso del decennio, con un PIL che presentava una crescita non bassa (3,7%
annuo), ma certamente non paragonabile alla crescita della spesa pubblica 17. L’aspetto più
rilevante è però legato al fatto che i tassi di interesse reale negativi e l’effetto del fiscal drag,
entrambi legati agli alti tassi di inflazione, permisero al rapporto debito/PIL di mantenersi a
livelli decisamente governabili (nel 1980 tale rapporto era pari al 56%).
Gli anni ottanta segnano la rottura degli equilibri di finanza pubblica nel paese. La fine della
grande inflazione e il “divorzio” Banca d’Italia-Tesoro fecero salire in modo cospicuo i tassi di
interesse reali ai quali il governo poteva indebitarsi. Ciampi ed Andreatta, il primo
governatore della Banca d’Italia il secondo ministro del Tesoro, avevano la speranza che la
fine dell’indebitamento facile avrebbe indotto il governo ad una maggiore disciplina di
bilancio18.
Letteralmente “pasto gratis”. L’espressione si deve all’economista americano M. Friedman,
secondo il quale “non esistono pasti gratuiti”: si può decidere, per esempio, di fornire
assistenza ai poveri attraverso l’istituzione di mense a loro riservate. Per ciascun povero che
usufruisce del servizio il pasto è effettivamente gratuito, ma esso è a carico della comunità.
Finanziare un welfare particolarmente generoso può essere una scelta legittima di un paese,
peraltro presa nei paesi democratici secondo meccanismi di consenso generale, ma occorre
aver chiaro che i costi di tale welfare vengono sostenuti dalla collettività.
17 In sostanza, durante il decennio in questione, per ogni lira di aumento del PIL, la spesa
pubblica cresceva di oltre tre lire
18 La vicenda del “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro rappresenta una tappa importante
nella storia finanziaria recente del paese. In realtà si trattò di una separazione consensuale
legata alla visione dei due protagonisti, Andreatta e Ciampi. Ai primi anni ottanta l’inflazione
italiana superava il 20% annuo e questo rendeva la lira una moneta fragile ed instabile. Nel
corso del tempo si era instaurata la prassi secondo la quale i titoli di debito pubblico emessi e
non acquistati dal mercato venivano comperati dalla Banca d’Italia. In questo modo il governo
poteva emettere titoli per qualsiasi ammontare con la sicurezza che il mercato o la banca
16
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Nella prima metà del decennio ottanta la crescita del PIL segnò un rallentamento, intorno al
2,3% annuo, ma dopo il 1985 si riavvicinò al 3%. Quindi un andamento ancora robusto, che
avrebbe consentito di contenere l’incidenza della spesa pubblica sul reddito prodotto senza
imporre tagli drastici al welfare. Ma la scelta dei governi fu diversa ed opposta: la spesa
crebbe molto più rapidamente del PIL. Nel 1990 aveva già superato la soglia del 90%, senza
peraltro accennare ad un rallentamento nel suo tasso di crescita. La spesa per interessi
raggiunse nel 1992 l’11,3%, contro una media europea al di sotto della metà.
Gli anni dell’emergenza (e della divergenza)
La rilevante convergenza dello sviluppo italiano rispetto alle economie più avanzate si
trasforma nuovamente in divergenza a partire dagli anni novanta. Per la verità, il tasso di
crescita del PIL pro-capite presentava un valore dell’1,7%, non altissimo ma comunque
superiore a quello di Giappone e Germania, quelle che allora apparivano le locomotive
economiche del pianeta.
Ma in linea generale il divario di reddito fra Italia e il complesso dei paesi avanzati si allargò: a
partire dalla seconda metà degli anni novanta il problema economico italiano si identifica con
la bassa, e in costante diminuzione, della produttività, cioè dell’indicatore in grado di misurare
la capacità di innovazione e di organizzazione che determinano l’efficienza complessiva di un
sistema produttivo: tra il 1995 e il 2000, l’aumento del prodotto per ora lavorata fu dello 0,9%
annuo, la metà di quello dell’area euro, già di per se non particolarmente brillante. Nella
prima metà degli anni duemila il valore della produttività per abitante è sceso intorno allo
0,5% e nella seconda metà è diventato negativo.
Quali sono state le dinamiche della spesa pubblica durante gli anni più recenti? Nel decennio
novanta essa crebbe in termini reali leggermente di meno del PIL, mentre il rapporto
debito/PIL arrivò a superare il 120%, per poi ridursi gradualmente, grazie soprattutto alla
minore spesa per interessi, fino al 104%.
È da rilevare che tra il 2000 e il 2007 la crescita della spesa pubblica si ridusse per
raggiungere un livello di poco superiore all’1% per anno. Quello che incise maggiormente nel
rapporto spesa pubblica/PIL furono le modeste perfomances di quest’ultimo, che riportarono
il rapporto dal 46,3% al 47,8% contro una media europea del 44,3% nel 2007.
È difficile stabilire se e in che misura la finanza pubblica possa costituire un freno alla crescita.
Come già accennato, molti economisti ritengono che un eccessivo indebitamento, superiore al
90%, produce effetti negativi sulla crescita ed è in grado di frenare in modo determinante lo
sviluppo. La soglia del 90% non è ovviamente altro che un valore convenzionale, il suo
impatto sulla crescita dipendendo da molte variabili: la composizione qualitativa della spesa
pubblica che il debito serve a finanziare, le caratteristiche interne del debito (a breve, medio,
lungo termine), la struttura sociale del paese e la sua capacità di reagire agli stimoli, ecc.
È però sicuramente vero che un debito pubblico elevato spinge inevitabilmente verso l’alto
tassi di interesse e pressione fiscale, obbliga spesso a ridurre il volume degli investimenti
centrale li avrebbero acquistati. D’altra parte la Banca d’Italia non è una banca come le altre:
non può attingere ai propri depositi per acquistare i titoli, per cui è costretta ad emettere
moneta, alimentando l’inflazione. Nel 1981, dopo un lungo carteggio in parte istituzionale in
parte riservato, Andreatta e Ciampi si misero d’accordo: la Banca d’Italia non avrebbe più
acquistato in modo indiscriminato i titoli emessi dal Tesoro. Questo ovviamente restrinse di
molto i margini di manovra del governo sulla gestione del debito, ma consentì al tempo stesso
di imboccare la strada del risanamento finanziario. Sulla vicenda del divorzio, con il carteggio
dei due protagonisti, nonché interventi di riflessione a distanza, si veda AA.VV., L’autonomia
della politica monetaria: il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo, Il Mulino, 2011.
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pubblici in ricerca ed infrastrutture e, a lungo andare, minaccia il welfare state con potenziali
effetti negativi sulla coesione sociale.
Inoltre l’esperienza insegna che un elevato debito pubblico può generare una fragilità
finanziaria non limitata al settore pubblico. E le conseguenze di una simile fragilità
complessiva del sistema finanziario (pubblico e privato) può avere conseguenze devastanti…
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