75 1. Modi di considerare l`individualismo Quando ci riferiamo al

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FERRUCCIO ANDOLFI
L’INDIVIDUALISMO SOLIDALE.
TRATTI STORICI E FONDAMENTI TEORICI
1. Modi di considerare l’individualismo
Quando ci riferiamo al fenomeno dell’individualismo abbiamo in mente un insieme di comportamenti autoaffermativi e di credenze relative al valore dell’individuo che
accompagnano i processi di modernizzazione. Tali processi
hanno provocato la dissoluzione dei legami di appartenenza
propri delle società tradizionali. Il passaggio dai gruppi sociali circoscritti dell’epoca premoderna a una cerchia sociale
progressivamente sempre più ampia e il costituirsi, all’interno della cerchia allargata, di una pluralità di mondi vitali
a cui i suoi membri contemporaneamente appartengono
hanno costretto gli individui a spostarsi con grande rapidità
dall’uno all’altro di questi mondi, favorendo così la formazione in ciascuno di un più forte senso di sé. Questa spiegazione è diventata un topos della sociologia. I sociologi hanno
rivendicato spesso a se stessi il diritto esclusivo di occuparsi
dell’individualismo. Le affermazioni di valore dell’individuo,
osservano, sono sempre riportabili, nella loro varietà, a determinate condizioni sociali di cui sono espressione. In realtà
la storia del fenomeno mostra che esso ha molte valenze e
che molti sono gli approcci possibili per comprenderlo. Se
ne sono occupati filosofi, antropologi, letterati, psicologi,
oltre che naturalmente sociologi. La descrizione sociologica
sembra avere il vantaggio di essere avalutativa e di sottrarre
così il fenomeno a troppo facili giudizi di riprovazione. Tuttavia comprendere i vari strati di significato dell’individualismo è cosa ben diversa dal proclamare che esso è riducibile
alle condizioni che lo generano.
Gli interrogativi naturalmente sono diversi a seconda della
prospettiva adottata. Per i sociologi si tratta di capire come le
opzioni individualistiche dei moderni, ai vari livelli in cui ven75
gono fatte valere, si originano entro determinati contesti e
consentono, in forme nuove, il mantenimento della coesione
sociale. Un filosofo morale si interroga invece circa la possibilità di pensare norme che non contrastino ma si accordino
con i piani di vita degli individui. Un filosofo politico si
chiede se certi modi tradizionali di pensare la trasformazione
sociale attraverso soggetti collettivi non possano persuasivamente cedere il passo a un modello di azione centrato sulle
iniziative degli individui o sulle loro interazioni. L’antropologo confronta i presupposti olistici delle società tradizionali
con quelli individualistici delle società moderne. Lo psicologo indica nuove modalità, non ascrittive, ma progettuali, di
formazione dell’identità personale. Il pensatore religioso
esplora la possibilità di coniugare la pluralità dei vissuti e
delle ipotesi religiose con un fondamentale sentimento di appartenenza o di dipendenza. Ma la distinzione fondamentale,
in tutti questi campi, è quella tra la concezione che considera
l’individualismo un portato necessario del processo sociale e
una concezione che vede in esso una reazione inventiva degli
individui ai processi di differenziazione che stanno subendo.
2. Simmel: le due forme di individualismo e il loro superamento
A fine Ottocento Georg Simmel descriveva il fenomeno
nei termini ricordati, connettendolo ai processi di differenziazione delle società moderne1. Le nuove condizioni sperimentate dai moderni offrivano a suo giudizio sia opportunità di
realizzazione che rischi di dispersione. Per giovarsi di quelle
opportunità gli individui coinvolti avrebbero dovuto sviluppare però atteggiamenti e teorie etiche adeguate, che Simmel
stesso illustrò in varie occasioni, ma nella maniera più incisiva
nel saggio La legge individuale (1913)2.
1
Cfr. G. Simmel, La differenziazione sociale, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1982.
2
G. Simmel, La legge individuale, trad. it., Roma, Armando, 2001.
76
Nei due primi decenni del Novecento egli mise a punto
un modello di spiegazione storica dell’origine dell’individualismo, e della sua differenziazione nei secoli XVIII e XIX,
che resta per certi versi insuperata. Su vari terreni (economico, politico, filosofico, religioso, artistico) si manifesta nel
periodo illuministico una volontà autoaffermativa degli individui, che mira dapprima all’eguaglianza e all’eliminazione
dei privilegi. La lotta di liberazione è condotta in questa fase
in nome dell’«uomo», ovvero dell’individuo considerato
eguale a ogni altro. Il liberismo con il principio della concorrenza, la proclamazione dei diritti dell’uomo, la filosofia di
Kant col suo riferimento a un io trascendentale genericamente umano costituiscono aspetti complementari di questa
prima forma di individualismo che Simmel denomina «individualismo dell’eguaglianza». Ma il movimento emancipativo
degli individui procede oltre, nell’epoca romantica, portando
a segnare più marcatamente la differenza che oppone gli uni
agli altri o la reciproca incomparabilità individuale. Simmel
vede esprimersi questa seconda forma di individualismo (dell’unicità) non solo nei «caratteri» del Wilhelm Meister di
Goethe e nella filosofia di Schleiermacher, che pone al centro
della religione come dell’etica individui assolutamente singolari, ma anche nel principio economico della divisione del lavoro, che fa dipendere la coesione sociale dall’intreccio di
funzioni lavorative nettamente differenziate. Anche altre posizioni, come l’unicismo di Stirner3 o il «personalismo» di
Nietzsche, sono riportate da Simmel a questa medesima costellazione di idee4.
Simmel si pone al culmine di questo processo con l’intento mediatorio di temperare la coscienza ormai raggiunta e
non più revocabile della diversità con quella dei tratti comuni
che appartengono comunque ai diversi e che la tradizione
dell’individualismo romantico ha con troppa facilità trascu-
3
Cfr. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, trad. it., Milano, Adelphi,
1979.
4
Cfr. G. Simmel, Le due forme dell’individualismo, in Id., Forme dell’individualismo, trad. it., Roma, Armando, 2001.
77
rato. Nel confrontarsi con Stirner egli osserva che un individuo non è costituito solo dai tratti che lo differenziano dagli
altri ma con eguale diritto dai tratti che condivide con gli
altri. E a proposito di Nietzsche osserva che in lui non manca,
come spesso si sostiene, un apprezzamento dell’umanità, la
quale trova anzi un supporto o un mezzo di realizzazione ed
evoluzione negli individui eccellenti, ma è tragicamente assente il senso dell’appartenenza alla «società». L’individuo
invece – è questa la soluzione che Simmel accenna sul piano
ontologico e insieme etico – è sempre in pari tempo autocentrato ed eterocentrato. In lui scorre una vita che lo oltrepassa,
ma si tratta di una vita che, specialmente nei suoi gradi più
alti, si manifesta attraverso entità discontinue e dotate di
grandi capacità di relazionarsi a se stesse. La «legge individuale» da cui ciascun organismo vivente è retto, sul piano
della vita e insieme del suo «dover essere», non è affatto in
contraddizione con la sua appartenenza al tutto. Riemerge
così, con una curvatura evoluzionistica, il tema che Schleiermacher aveva sviluppato nei suoi scritti religiosi ed etici all’inizio dell’Ottocento: ogni individuo risulta da una particolare combinazione di elementi dell’universo e della comune umanità che lo rendono incomparabile; queste entità
singolari si connettono d’altra parte armoniosamente in un
universo di fedi e di modi di comportamento molteplici ma
compatibili.
Schleiermacher e Simmel si trovano agli estremi del secolo
in cui l’individualismo ha trovato le sue espressioni più forti
e caratteristiche. Essi esprimono una medesima tradizione di
pensiero che intendo privilegiare: da un punto di vista formale è forse impossibile trovare una sintesi più perfetta tra
l’istanza dell’affermazione di sé e quella di relazionarsi all’altro. Il presupposto metafisico di questa concezione della vita
è stato chiarito da Simmel che, riferendosi al suo predecessore, presenta la sua posizione come un rovesciamento di
quella «filosofia dell’essere» che con Spinoza aveva rappresentato ogni determinatezza individuale come pura «negazione» dell’essere inteso come totalità di tutte le cose. Per
Schleiermacher l’universale ha viceversa la sua vita solo nella
forma del particolare: «Ogni reale» – questo è l’insegnamento
78
che si può trarre da lui – « è individuale; eppure esso non si
stacca egoisticamente dagli altri, rimanendo in fondo senza
sostegno; ogni singolo aspetto è piuttosto solo una realizzazione particolare della forza totale dell’universo»5.
3. L’individualismo religioso di Schleiermacher
Nell’inventario delle forme dell’individualismo notiamo
con una certa sorpresa che una delle sue prime incisive formulazioni è dovuta a un pastore luterano. Per Schleiermacher
è il rapporto che gli individui stabiliscono con Dio, attraverso
l’intuizione e il sentimento, a costituire per essi la prima fonte
di individualizzazione. Sul piano etico si ripete la stessa vicenda: ciascuno deve esprimere a suo modo l’umanità che è
in lui. Ma sotto entrambi i profili, etico e religioso, l’individualità si definisce all’interno di una relazione sociale. Nel
primo discorso sulla religione (1799) Schleiermacher afferma
che ogni vita (e anima) umana è il prodotto di due tendenze
opposte. La prima tendenza lo porta ad «attrarre a sé tutto
ciò che la circonda, intrecciandolo alla propria vita, assorbendolo completamente per quanto possibile, nella sua realtà
interiore». L’altra aspirazione mira a «espandere sempre più
il proprio io interiore, dall’interno all’esterno, in modo che
tutto sia compenetrato da esso, e tutto sia partecipato». La
prima è rivolta al godimento, la seconda invece lo disprezza
e mira solo a un’attività sempre più intensa ed elevata: «tutto
vuol penetrare, tutto riempire di ragione e libertà, e così
tende direttamente all’Infinito»6. Le costruzioni storiche
(«forza e legge, diritto e utilità») sono originate da questa seconda tendenza. Ogni anima partecipa di entrambe le tendenze, anche se in essa può essere prevalente e quasi esclusiva
una di esse. La perfezione del mondo intellettuale non risiede
5
G. Simmel, I problemi fondamentali della filosofia, trad. it., RomaBari, Laterza, 1996, p. 44..
6
F.D.E. Schleiermacher, Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali
che la disprezzano, trad. it., Brescia, Queriniana, 1989, pp. 44-45.
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nell’uniformità delle nature, ma proprio nel fatto che in esso
si esprimono tutte le possibili combinazioni delle due forze.
E se pure per ogni singolo essere non è possibile essere diverso da ciò che deve essere, nella coscienza è in grado di
comprendere e di accogliere tutte le diverse particolari
espressioni di umanità.
Ai due estremi si situano i caratteri forti, ripiegati su se stessi
e isolati. Le nature «sensuali» sono spinte a impossessarsi di
una massa sempre più grande di cose terrene. Esse le sottraggono alla connessione con il tutto incorporandole a sé. Nel loro
egoismo non riescono a cogliere la realtà del resto dell’umanità.
All’altro capo della serie si situano quelle nature «entusiaste»
che si aggirano per il mondo mosse da vuoti ideali e ritornano
esaurite al punto di partenza senza aver raggiunto alcun risultato. Il giusto equilibrio tra queste polarità è una «magia della
natura» assai più che il risultato di uno sforzo cosciente. Ma,
nella concezione teologica di Schleiermacher, se tutte le nature
si situassero in questo punto di perfetto equilibrio non verrebbe raggiunta la finalità della natura, che prevede piuttosto
la rarità di queste figure singolari e, per il resto, una «mediazione» degli estremi con il punto intermedio. L’unione feconda
dei due estremi si compie in modo mirabile in quelle figure di
mediatori (eroi, legislatori, inventori…) che la divinità manda
di tanto in tanto sulla terra. Essi sono capaci di attrarre a sé le
cose terrene circostanti ma insieme di lasciare, in uno slancio
verso l’Infinito, la loro impronta sul mondo.
In questa rappresentazione religiosa dell’individualità troviamo operante paradossalmente, forse per la prima volta,
una grande saggezza mondana che è capace di interpretare le
tendenze alla differenziazione proprie della modernità e di
dare riconoscimento a un’estrema varietà di combinazioni individuali. Un punto fermo che viene stabilito è che ciascuna
individualità comporta sempre un bilanciamento tra due momenti opposti: quello centripeto o autoaffermativo, per cui le
cose vengono ricondotte (attratte, incorporate) nell’ego che
ne gode e si valorizza, e quello centrifugo, orientato verso l’altro da sé, in un movimento infinito, per cui le cose ricevono
forma a opera di un ego produttore. Le combinazioni migliori sono considerate casi fortunati o provvidenziali, tutta80
via è possibile considerare ciò che Schleiermacher dice al riguardo come una rappresentazione ideale di un’identità ben
riuscita: in essa l’impulso a tener fermo il proprio sé come
centro dell’esperienza si trova in perfetto equilibrio con
quello opposto a esprimere il proprio sé all’esterno, imprimendo una forma al mondo.
Nella concezione che ne fornisce il teologo berlinese l’individualismo corrisponde ben poco all’immagine a cui esso è
stato comunemente associato nelle polemiche successive, originate dalla sua figura competitiva e capitalistica. Non ha i
tratti dell’individualismo atomistico che ritroviamo nelle teorie liberali: la condizione perché l’individuo apprezzi la propria «peculiarità» è infatti una «sensibilità universale» che gli
permette di situarla nel contesto dell’infinita varietà possibile
delle espressioni di umanità. Né ha quelli dell’individualismo
possessivo: in assenza di un atteggiamento di apertura e di
donazione l’animo sarebbe distrutto da un eccesso di passività nel ricevere – e comunque un’individualizzazione attraverso il puro ricevere viene giudicata una «volgarità» (Gemeinheit). Quanto a sé Schleiermacher riconosce la propria
vocazione in una particolare attenzione per la formazione di
sé (Bildung) nello spazio dell’otium, che si oppone a quella
del produttore di opere. Ma subito precisa che l’efficacia di
questa esplorazione interiore è subordinata a una ricca frequentazione sociale e che anzi la meditazione stessa ha una
destinazione sociale, quanto meno nel circuito dell’amicizia
o della «socievolezza» (Geselligkeit)7.
4. Simmel: l’etica risolve la tragedia dell’organismo
Alla svolta del secolo Georg Simmel riformula in un nuovo
linguaggio il tema schleiermacheriano della duplicità dell’individuo. La prospettiva non è più religiosa bensì evoluzioni-
7
Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Monologhi, trad. it., Reggio Emilia, Diabasis, 2010.
81
stica. Il processo di secolarizzazione compiutosi nel corso
dell’Ottocento non rende possibile a Simmel l’appello a un
Dio provvidente che garantisca la compatibilità e l’integrazione
delle diverse manifestazioni vitali né tanto meno la realizzazione di equilibri perfetti tra le due opposte forze che attraversano gli individui. L’ideale tuttavia permane sul piano normativo. All’etica viene affidato il compito di risolvere la duplicità
“tragica” dell’organismo. La vita, afferma Simmel ne La legge
individuale, ha la forma di uno scorrere continuo, è una corrente di cui gli esseri sono le gocce. Tra tutti i fenomeni solo gli
esseri viventi sono propriamente individui, cioè circuiti relativamente chiusi in sé, nonostante la loro interazione con l’ambiente, unità che si conservano come tali tra mutevoli trasformazioni. L’unità della vita si esprime in discontinuità, cioè attraverso esseri che esistono attorno a propri centri – e questa
concentrazione della vita in individualità discontinue si accentua quanto più elevato è il grado della vita raggiunto.
È a partire da questa circostanza che si pone il problema
pratico di come si possa conciliare l’indipendenza dell’individuo, inteso come un tutto, con la sua posizione di semplice
membro della vita sociale. L’individuo organico è parte di una
connessione che lo supera. «Questa duplicità dell’essere rivolti
verso l’interno e verso l’esterno, della figura della vita individuale e della vita complessiva sovraindividuale, a cui essa appartiene, si può definire come la tipica tragedia dell’organismo». Qui interviene il compito paradossale dell’etica di conciliare la tragedia dell’organismo, facendo sì che «il soggetto
sia unitario, senza rinunciare alla connessione, che si sacrifichi
a ciò che è più di lui e insieme rimanga se stesso»8. La preoccupazione di bilanciare i due momenti dell’appartenenza, o
dell’uguaglianza con gli altri, e della differenza non esclude
però una certa priorità di quest’ultimo momento. Le responsabilità verso gli altri sono comunque riconosciute all’interno
di una visione che concerne in primo luogo la propria posizione nel mondo, dalla quale si ricava una legge individuale di
8
82
G. Simmel, La legge individuale, cit., p. 83.
condotta. Se dal punto di vista oggettivo la considerazione di
ciò che unisce e di ciò che distingue si equivalgono, nella prospettiva (inevitabile) del soggetto la differenza dagli altri presenta un interesse ben maggiore dell’eguaglianza. L’interesse
pratico del singolo è diretto a ciò che gli procura vantaggio e
non a ciò che condivide con loro. Se non l’inconscio, quanto
meno la coscienza mette l’accento su questo elemento9. Del
resto forse le esigenze di eguagliamento e di differenziazione
hanno la stessa radice: che è comunque un bisogno di autoaffermazione. Se in alcune circostanze questo bisogno può esprimersi in una richiesta di eguaglianza, come è accaduto agli
albori della modernità con la lotta contro i privilegi dell’Ancien
Régime, la continuazione di questo stesso processo registra un
più diretto e acuto bisogno di differenziazione. Se anche il divario delle condizioni dovesse essere colmato, come auspicano
i socialisti, un’accresciuta sensibilità alle differenze residue renderebbe vano ogni tentativo di livellamento.
A questa sottolineatura del momento dell’appartenenza
sociale egli giunge attraverso un confronto critico con Nietzsche che, risolvendo interamente l’umano nei valori incarnati
nei migliori esemplari dell’umanità (gli individui eccellenti),
ha operato a suo giudizio una «tragica separazione» tra
l’umano-individuale e il sociale10. Anche l’unicità stirneriana
viene ricompresa nell’ideale prospettato da Simmel. Ma essa
non contraddice il legame sociale in quanto, osserva il sociologo, abbraccia sia gli elementi che il singolo ha in comune
con gli altri come quelli che gli sono propri. Il decisivo passo
in avanti sta nel renderci conto che gli elementi in comune
non cessano di essere tali (e quindi forze di legame) per il
fatto di essere espressi, in modo singolare, nella configurazione unica della personalità11.
9
Cfr. G. Simmel, Forme e giochi di società, trad. it., Milano, Feltrinelli,
1983.
10
Cfr. G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche (cap. V: I valori umani e la
decadenza), in Id., Nietzsche filosofo morale, trad. it., Reggio Emilia, Diabasis, 2008.
11
Cfr. G. Simmel, Le due forme dell’individualismo, cit.
83
5. Esponenti dell’individualismo solidale nell’Ottocento
L’esigenza di un bilanciamento dei due opposti tratti dell’individuo – di essere centrato in se stesso e insieme situato
in un contesto e “debitore” verso di esso – si incontra ovviamente anche in tradizioni diverse da quella fin qui presa in
esame. Il profilo di un individualismo «solidale», capace di
superare l’unilateralità delle due forme tipiche dei secoli
XVIII e XIX, non è solo una chance per il futuro, secondo
l’auspicio di Simmel, ma si può rintracciare già in alcuni esponenti del pensiero morale e politico dell’Ottocento. Con l’aggettivo «solidale» intendo sottolineare la circostanza che le
singole entità non si trovano isolate o in un rapporto di concorrenza e ostilità l’una con l’altra, ma anzi guadagnano e rafforzano, nel rapporto reciproco, la loro stessa consistenza.
Le testimonianze di una simile coincidenza di forza individuale ed espansione sociale non sono rare.
Una prima tradizione interessante sotto questo rispetto è
rappresentata da autori che conferiscono al socialismo una particolare tonalità «liberale», enfatizzando le possibilità che esso
è in grado di offrire agli individui. Uno dei primi socialisti ad avvertire questa esigenza fu Pierre Leroux, transfuga del sansimonismo, a cui si deve un saggio, L’individualismo e il socialismo
(1834), che tenta di superare la rigidità della contrapposizione
tra i due termini. Introducendo la traduzione italiana del saggio,
Bruno Viard riassume il pensiero di Leroux sottolineando come
esso si dispieghi intorno all’opposizione tra il principio di libertà
e il principio di associazione12. L’opposizione deve essere superata per mezzo di una sintesi che egli battezza “socialismo” e definisce come «la Dottrina che non sacrificherà alcuno dei
termini della formula Libertà, Fraternità, Eguaglianza, Unità,
ma li concilierà tutti»13. Se l’individualismo finisce per consegnare le classi inferiori allo sfruttamento più brutale, all’opposto
12
Cfr. B. Viard, Cultura della fraternità e socialismo in P. Leroux, Individualismo e socialismo, trad. it. Reggio Emilia, Diabasis, 2008.
13
P. Leroux, L’individualismo e il socialismo in Id., Individualismo e socialismo, cit., p. 47.
84
le politiche organiche di un socialismo dispotico sacrificano l’individuo alla società, dimenticando che lo scopo dell’umanità risiede nella vita di ciascun uomo.
Un’altra tradizione, definita di «individualismo democratico», è stata inaugurata in America da Ralph Waldo Emerson
con il saggio Society and Solitude (1859). Questi stabilisce un
delicato equilibrio tra istanze sociali e fiducia in se stessi. Lo
spirito moderno sta dal lato dell’individuo, che riassume in sé
il mondo. L’uomo di «carattere» mira all’autosufficienza, eppure su questo fondamento si apre la possibilità di una gioiosa interazione con le persone e di autentici rapporti amicali.
Ciò che si dona è qui il proprio stesso essere, l’unico dono
che non umilia il beneficato. Le personalità geniali avvertono
un bisogno di isolamento ma questo, da solo, può attestare
una certa incapacità di vivere rapporti di vicinanza. Per non
perdere la simpatia, un uomo deve quindi essere «avvolto
dalla società», pur dovendosi guardare dalla volgarità di conversazioni inconsistenti in cui non metta in gioco se stesso.
Lo sfondo metafisico di questi precetti di saggezza è l’idea
neoplatonica di una «superanima» in cui l’essere particolare
di ogni uomo è contenuto e reso tutt’uno con gli altri14.
Un compromesso tra individualismo e socialismo viene
tentato verso la fine del secolo da Oscar Wilde, che nelle realizzazioni del socialismo vede la premessa per la costruzione
di un sé fortemente individualizzato. L’individualismo acquista in lui un’intonazione estetica. Gli anni in cui appare il suo
The Soul of Man under Socialism (1889)15 sono quelli di un socialismo in ascesa, che provoca in alcuni spiriti solitari e raffinati il timore di un possibile appiattimento egualitario delle
qualità umane. Una via d’uscita per salvare la ricchezza delle
personalità individuali senza rinunciare all’abolizione delle diseguaglianze sociali fu cercata da alcuni socialisti libertari in
una formulazione degli ideali socialisti che tenesse conto delle
14
Cfr. R.W. Emerson, Società e solitudine, trad. it., Reggio Emilia, Diabasis, 2008.
15
O. Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, trad. it., Milano, Tea,
1989.
85
ragioni dell’individualismo. La critica dell’individualismo borghese, dell’economia liberale e della filosofia dell’egoismo che
vi corrisponde rimane ferma, tuttavia si fa strada l’idea che
possa darsi una maniera alternativa di pensare l’individualismo (e preliminarmente l’individuo) che permetta d’integrarlo
al socialismo e persino di considerarlo il fine a cui esso mira.
Con le sue realizzazioni il socialismo, afferma Wilde, ci solleva
dalla necessità di vivere per gli altri, cioè da quell’altruismo a
cui costringe la vista della povertà e della fame, da un atteggiamento caritatevole che, se insano ed esagerato, provoca un
impoverimento della vita e impedisce di portare avanti il programma di abolizione della proprietà privata.
Nell’arte Wilde trova anticipata la piena espressione della
personalità. L’artista realizza l’uomo completo in se stesso, autocentrato, non dipendente dalla pubblica opinione. Il mondo
odia il suo individualismo come una forza disturbante che
rompe la monotonia del tipo. Chi vuol essere perfettamente se
stesso non si adegua a un solo tipo esemplare d’uomo, come
vorrebbe l’attuale società, «corrotta dal principio di autorità».
Né si troverebbe d’altronde a suo agio in quel sistema di tirannia economica e di regolazione coatta del lavoro, predicato dal
«socialismo autoritario», che non permetterebbe neppure la
quota di libertà possibile ora. L’affermazione individualistica di
sé sottrae l’uomo alla dimensione imperativa del dovere e dell’autosacrificio. Proviene naturalmente e inevitabilmente dall’uomo senza porgli richieste, non è altro che un aspetto della
«differenziazione» verso cui tende la stessa evoluzione. Tale atteggiamento etico viene accuratamente distinto dall’egoismo
(selfishness), che non consiste semplicemente nel vivere come
uno desidera vivere o nel «pensare con la propria testa», bensì
nel pretendere che gli altri vivano come noi esigiamo, secondo
un modello. L’individualismo è viceversa in grado di accettare
e di godere di un’infinita varietà di tipi, è compatibile cioè con
la «simpatia» (la quale d’altronde non si riferisce solo, inefficacemente, alla altrui sofferenza, ma abbraccia ogni bellezza e
gioia di vivere). Se al socialismo e alla scienza spetta il compito
di eliminare la povertà e la sofferenza, ciò a cui il mondo moderno mira, al di là di queste mete, è un individualismo che si
esprima appunto attraverso la gioia e l’intensità della vita.
86
Altre dottrine si sviluppano, come quella di Wilde, su un
piano prevalentemente morale, o intermedio tra etica ed estetica, anche se contengono importanti implicazioni sociali e
politiche. Il loro tratto comune è di nascere sul terreno di filosofie della vita che fanno tesoro dell’insegnamento dell’evoluzionismo, svolgendolo nella direzione di un’espansione
sociale, anarchica o libertaria, delle individualità. L’idea spenceriana di una conciliazione finale di egoismo e altruismo o
dell’affermazione finale dell’«istinto altruistico» fornisce non
di rado il punto di partenza per queste speculazioni16. È il
caso di quella formulata dal filosofo francese Jean-Marie
Guyau nel suo Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione (1885). La sua dottrina può essere detta in un certo
senso individualistica, perché mira all’intensificazione della
vita dei singoli uomini e «non deve preoccuparsi dei destini
della società se non in quanto essi racchiudono più o meno
quelli dell’individuo»17. Per altro lato però è dottrina essenzialmente sociale, in quanto vede nella vita la tendenza a
espandersi e a donarsi senza aspettative di ricompensa ma
per sovrabbondanza di energia. Nel tema dell’espansione
della vita Nietzsche riconobbe qualche analogia con la propria volontà di potenza, ma diversamente da lui Guyau è convinto che ogni atteggiamento di dominio e di prevaricazione
determini un disseccamento delle fonti stesse della vita pregiudicando la disciplina e l’armonia interiore. Nell’etica sans
obligation ni sanction che egli propone, il rapporto tra dovere
e potere è capovolto: l’esperienza del dovere non è primaria,
come in Kant, ma dipende dalla coscienza che ciascuno ha
del proprio potere o delle proprie risorse. Un’etica così concepita è non solo autonoma ma «anomica»: l’uniformità di
una legge universale eguale per tutti cede il posto a un infinita
varietà di regole.
Le potenzialità anarchiche della morale di Guyau sono
state apprezzate da Kropotkin ne La morale anarchica (1890)
16
Cfr. H. Spencer, Data of Ethics, London, Williams and Norgate, 1879.
J.-M. Guyau, Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione, trad.
it., Torino, Paravia, 1999, p. 99.
17
87
e nell’Etica (pubblicata postuma)18. Per l’anarchico russo mediante le azioni altruistiche l’uomo soddisfa meglio che con
un meschino attaccamento a se stesso il bisogno individuale
di vita intensa e feconda. La ragione della superiorità degli
impulsi altruistici non sta nella loro corrispondenza a un interesse collettivo, all’interesse complessivo della civiltà o a un
ordine ideale, ma proprio nella capacità che hanno di rendere
la vita individuale più intensa e ricca19. La specificità della
dottrina di Kropotkin risiede nel suo fondamento naturalistico ed etologico: essa fa valere, in opposizione all’idea del
valore evolutivo della struggle for life, l’evidenza del vantaggio
che il comportamento altruistico presenta per la sopravvivenza nelle popolazioni animali e umane20. Assai più tardi la
sociobiologia avrebbe convalidato queste intuizioni.
In un’area di pensiero non troppo lontano si situa Tolstoj.
Come Nietzsche, egli cerca la vera essenza dell’uomo nella
coscienza individuale, ma non nella volontà di potenza bensì
nella volontà del bene universale, nell’Amore. «Il vero io
dell’uomo (...) è il desiderio del bene stesso, vale a dire il desiderio del bene per tutte le cose esistenti»21. Nell’«allargarsi
continuo dei confini dell’amore risiede (...) l’essenza della
vera vita dell’uomo in questo mondo»22. La dottrina, osserva
un commentatore, rimane individualistica perché Tolstoj non
trova la soluzione del problema morale in una volontà divina
rivelata, in un ordine metafisico, in un’esigenza storica o in
una volontà sociale, ma unicamente in un desiderio dell’anima individuale, la quale trova però il proprio oggetto in
un amore universale23.
18
P. Kropotkin, La morale anarchica, trad. it., Viterbo, Stampa alternativa, 1997; Id., Etica, Ragusa, La Fiaccola, 1990.
19
Cfr. G. Vidari, L’individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX,
Milano, Hoepli, 1909.
20
Cfr. P. Kropotkin, Il mutuo appoggio fattore dell’evoluzione, trad. it.,
Bologna, Libreria Internazionale di Avanguardia, 1950.
21
L. Tolstoj, La vera vita, in Id., La vera vita; Il denaro; Come leggere il
vangelo, trad. it., Genova, Manca, 1991, p. 16.
22
L. Tolstoj, La vera vita, cit., p. 22.
23
Cfr. G. Vidari, L’individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX, cit.
88
Diversi altri esponenti del pensiero anarchico, per esempio
Gustav Landauer e Martin Buber24, sviluppano nel primo Novecento un’idea utopica di comunità che fa leva comunque su
individui che si sono emancipati dai vincoli delle società tradizionali e riconoscono in se stessi una struttura comunitaria,
ovvero un vincolo con la catena delle generazioni.
6. Il pensiero sociale dell’Ottocento e l’individualismo
Il pensiero sociale ottocentesco, nella sua linea maestra,
non è stato però certo benevolo verso le posizioni individualistiche. Le ha riportate al mondo borghese dell’interesse privato e all’«egoismo» che lo contraddistingue. Merita di esser
ricordato al riguardo un episodio che riguarda i padri del materialismo storico e la comparsa del manifesto dell’individualismo estremo che è L’unico e la sua proprietà di Stirner25. Alla
fine del 1844 Engels scrisse una lettera a Marx manifestando
un grande interesse per la proposta di Stirner e arrivando a
suggerire che il comunismo nascente attorno all’idea (feuerbachiana) di un recupero dell’«essenza umana», potesse e dovesse rendersi conto che la lotta in nome dell’uomo sarebbe
stata più persuasiva ed efficace se intrapresa «per egoismo».
Due mesi più tardi egli doveva però ravvedersi, forse per effetto della risposta di Marx, che non ci è pervenuta, e riconoscere che no, il libro di Stirner rappresentava una posizione
pericolosa e incompatibile con il socialismo, contro la quale
urgeva combattere – cosa che effettivamente avvenne nell’Ideologia tedesca26. Nel frattempo anche un altro socialista
“umanistico”, Moses Hess, recensiva L’unico, sostenendo che
l’egoismo predicato da Stirner non era altro che un’espres-
24
Cfr. G. Landauer, Attraverso la separazione verso la comunità, in «La
società degli individui», n. 30, 2007, pp. 123-140; M. Buber, Comunità, in
«La società degli individui», n. 30, 2007, pp. 141-154.
25
Cfr. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit.
26
Cfr. K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, trad. it. in Id., Opere,
Roma, Editori Riuniti, 1972, vol. V.
89
sione teorica dello stato di isolamento degli individui nella
società borghese e dell’interesse che li guida nel loro comportamento pratico concorrenziale. A poco servirono le rimostranze di Stirner che, nella replica ai suoi critici, operava
distinzioni tra un concetto limitato di «interesse» e l’orientamento dell’unico verso ciò che è «interessante» per lui arrivando a dimostrare che il suo «egoismo consapevole» è il
risultato di un processo formativo ed è persino compatibile,
nelle sue versioni più «ricche», con momenti di «oblio di se
stessi». I due fronti del pensiero sociale e di quello individualistico si irrigidirono, con reciproco danno. L’eventualità di
un individualismo solidale non fu contemplata dagli autori
dell’Ideologia tedesca, se non nell’auspicio che con la trasformazione rivoluzionaria delle condizioni sociali venisse meno
la stessa opposizione di «egoismo» e «abnegazione».
In occasione di questa polemica, a dire il vero, Marx oppone all’unico di Stirner una figura di «individuo personale»
che sembrerebbe avere i tratti dell’individuo sociale. Egli non
può negare che il futuro sia o debba essere dalla parte di individui emancipati, capaci di rappresentare se stessi piuttosto
che la loro classe di appartenenza. Non solo l’analisi dell’evoluzione delle forme sociali lo spinge in questa direzione, cioè
a riconoscere il tramonto delle comunità naturali, ma la stessa
liberazione da lui prospettata ha senso se è diretta a consentire agli individui di esprimere la loro originalità piuttosto
che i valori medi di un collettivo che preme su di loro ed è
fonte della loro alienazione. Ciò che egli contesta a Stirner è
che l’unicità possa essere intesa come già fruibile fin da ora
da individui in un regime di alienazione anziché come semplice meta desiderabile di una lotta. Intesa in questo modo
l’unicità funge da schermo che impedisce a soggetti subalterni di riconoscere la loro condizione e di unirsi ai membri
della stessa classe in vista di una liberazione comune. In ogni
caso l’io, anche quando sarà liberato, resterà un io situato
entro un sistema di legami sociali. Un vincolo di solidarietà lo
unirà agli altri anche al termine del cammino. Questo individuo che si muove in armonia con le condizioni della propria
esistenza storica non è un fatto storicamente del tutto inedito.
Ci sono state fasi dello sviluppo storico in cui una relativa ar90
monizzazione tra esigenze individuali e condizioni sociali si è
già realizzata, sia pure in modo precario: per denominare
questo equilibrio Marx usa appunto la locuzione «individuo
personale». Il socialismo è concepito come la stabilizzazione
di una simile condizione.
Sembrerebbero esserci i requisiti per annoverare Marx tra
i rappresentanti della tradizione di cui ci stiamo occupando.
Tuttavia dobbiamo guardare più approfonditamente al senso
della sua proposta. Essa si inscrive ancora entro una filosofia
della storia di segno hegeliano, in cui gli individui appaiono,
almeno per una certa fase storica (e per questa precisazione
Marx differisce da Hegel), come «mezzi della realizzazione»
di fini che li trascendono. Gli individui, e la loro felicità, non
appartengono di pieno diritto alla storia dello sviluppo
umano. Agli economisti umanisti (Sismondi, Buret), che proponevano di rifondare l’economia politica includendo tra i
suoi fini «la felicità degli individui», Marx oppone l’approccio più realistico e finanche «cinico» degli economisti inglesi,
Smith e specialmente Ricardo, i quali avevano riconosciuto
come fine dell’economia «la produzione per la produzione».
Il perseguimento di questo fine, ammette Marx, può aver
avuto esiti disastrosi dal punto di vista della felicità degli individui esclusi ma, almeno per una certa fase storica, ha consentito di realizzare imponenti progressi a favore del genere
homo. Forse è giunto un momento in cui la divaricazione tra
le finalità storiche generali dell’arricchimento della specie e il
soddisfacimento dei singoli non è più necessaria: in fondo la
coscienza della bontà e della possibilità della rivoluzione si
radica proprio nella presa d’atto della ricongiunzione possibile tra fini dell’umanità e fini degli individui. Ma un simile
approccio resta esposto alla possibilità che sulla base di una
diversa valutazione dello stato di avanzamento dell’umanità
il riconoscimento dei diritti degli individui alla soddisfazione
dei loro bisogni sia sempre rinviato (come d’altronde attesta
la storia dei paesi a «socialismo realizzato»). Questa è la ragione per cui, malgrado tutto, non è utile far rientrare Marx
nella tradizione dell’individualismo solidale. Per poter parlare
di individualismo, in qualsivoglia delle sue accezioni, le finalità degli individui non possono essere accantonate, neppure
91
provvisoriamente. Naturalmente non rientra in questa tradizione neppure Stirner, il quale ha una forte coscienza dell’inevitabile centralità dell’individuo al proprio mondo e del
ruolo che la ribellione allo stato di cose esistente gioca in ogni
trasformazione sociale, ma sembra dimenticare, come ha osservato Simmel, che gli elementi in comune, ch’egli condivide
con altri, non cessano di essere tali per il fatto di essere
espressi, in modo singolare, nella configurazione unica della
personalità. A questo modo le forze di legame restano fuori
del suo campo visivo.
Alcune delle cose qui dette a proposito di Marx potrebbero essere ripetute a proposito di altri indirizzi del pensiero
sociale ottocentesco. Già Kant, che lo precorre, appartiene
sì alla tradizione dell’individualismo (dell’eguaglianza, per
usare il linguaggio di Simmel) per la sua enfasi sul soggetto
conoscitivo e pratico, che costituisce il mondo dell’esperienza
e diventa criterio dell’azione morale, ma in modo ambiguo, in
quanto il suo soggetto soggiace in pari tempo alla legge universale della ragione e della convivenza sociale possibile. Analogamente in Hegel la soggettività, inevitabile portato della
modernità, viene piegata a un nuovo ethos, che ripristina in
modo mediato quella «felicità della sostanza» che il mondo
antico aveva già sperimentato nella forma della polis greca (è
solo con la rottura della sintesi hegeliana, con Feuerbach, che
l’emergenza degli individui, nel contesto delle loro relazioni,
viene tematizzata). La sociologia di Durkheim27 declina lo
stesso tema del passaggio attraverso l’individualismo, teso
però a garantire, attraverso la divisione del lavoro e la stessa
fede nell’individuo, una nuova forma organica di solidarietà.
Di tutti questi modelli, non privi di relazioni tra loro, si può
dire che rappresentino tentativi di dar conto dei fenomeni
moderni dell’individualizzazione, ma in modo tale da disconoscere le istanze più radicali che si esprimono in essi. L’utilità sociale, le esigenze della convivenza sociale o quelle del
progresso storico assumono in essi, di volta in volta, il ruolo
27
Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, trad. it., Milano,
Edizioni di Comunità, 1962.
92
di riferimenti decisivi per valutare la pertinenza delle azioni
individuali. Anche quando viene sottolineata la valenza etica
dell’individualismo, l’azione etica richiesta si configura come
una forma di adattamento a spinte o interessi sociali prevalenti. Si viene a perdere cioè il significato di innovazione che
l’azione morale dovrebbe avere perché l’individuo vi trovi
alimento alla propria crescita e non una semplice risorsa per
il mantenimento del tutto sociale. Per verificare se una teoria
rientra nel quadro dell’«individualismo solidale», assunto in
un significato sufficientemente determinato, occorre infatti
accertare che una professione di fede individualistica non
esprima un semplice adattamento a processi sociali in corso.
In questo caso saremmo in presenza di un individualismo che
ha una caratteristica “sociale” solo nel senso debole di fornire
un sostegno al funzionamento di un certo ordine sociale, ma
non in quello di giovare alla formazione di personalità mature
e responsabili, attente alla propria realizzazione.
7. Lo svolgimento dell’individualismo nel Novecento
Se per ricostruire la storia dell’individualismo e delle sue
forme nel corso dell’Ottocento è possibile rifarsi a studi assai
accreditati, più difficile è tracciare un quadro della sua evoluzione nel secolo scorso. Qui dobbiamo contentarci di identificare qualche episodio e autore saliente, mettendolo in
relazione, se possibile, con l’evoluzione del costume. Prenderò come base un saggio recente di due sociologi anglosassoni: Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione di Anthony Elliott e Charles Lemert28. I due autori
distinguono tre momenti nello sviluppo del fenomeno: quello
delle teorie della Scuola di Francoforte, che si confrontano
con la situazione dell’individuo nella stagione del totalitarismo e della società di massa, insistendo sul carattere «mani-
28
A. Elliott e C. Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali
della globalizzazione, trad. it., Torino, Einaudi, 2007.
93
polato» dell’individualismo; quello delle teorie, elaborate più
da critici della cultura che da sociologi, soprattutto in ambito
statunitense tra gli anni Cinquanta e Ottanta (Daniel Bell,
Allan Bloom, Richard Sennett, Cristopher Lasch, Robert Bellah, Robert Putnam), che lamentano l’emergenza di un «privatismo isolato»; infine, nelle due ultime decadi del secolo,
quello dei teorici dell’«individualizzazione riflessiva» (di
nuovo sociologi, tra cui Ulrich Beck e Zygmunt Bauman),
che rappresentano il sé dei nostri tempi come uno «specialista della sopravvivenza “fai da te”», assolutamente «contingente», ma spinto a seguire questa strategia di composizione
della propria biografia, o del proprio curriculum, dalle forze
stesse della «globalizzazione». Non escludo però che sia necessario servirsi di schemi più articolati per pensare la varietà
di costumi e di teorie del Novecento, allargando lo sguardo
in direzione della letteratura e della saggistica – La peste e
L’uomo in rivolta di Camus contengono per esempio insegnamenti decisivi intorno al rapporto tra ribellione degli individui e solidarietà29 – ma in prima approssimazione lo schema
può risultare utile per comprendere se e come sopravviva in
questa fase del processo di individualizzazione a noi più prossima una richiesta di «solidarietà».
Per quanto riguarda i francofortesi, vorrei soffermarmi qui
sul carattere «dialettico» della loro concezione dell’individuo.
La figura imprenditoriale di un individuo forte e autoaffermativo, a cui Weber si era riferito nella sua Etica protestante e lo
spirito del capitalismo30, sembra agli esponenti di questa scuola
sul punto di eclissarsi e gli individui appaiono sempre più esposti alla pressione di istituzioni globali (lo Stato, specie nella sua
versione totalitaria, le grandi organizzazioni, la cultura di
massa), che provoca la «sostituibilità dell’uno tramite l’altro»
e un’interiorizzazione del ruolo strumentale assolto da ciascuno; e tuttavia l’unica risorsa disponibile sembra risiedere
29
Cfr. A. Camus, La peste, trad. it., Milano, Bompiani, 1986; Id.,
L’uomo in rivolta, trad. it., Milano, Bompiani, 1987.
30
Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad.
it., Firenze, Sansoni, 1965.
94
paradossalmente nella coscienza che l’individuo assume della
propria impotenza, ripristinando una sorta di nuova padronanza di sé. Lo scopo della critica dell’ideologia umanistica,
svolta per esempio da Adorno in Individuo e organizzazione31,
è, come già avveniva in Marx, quello di affermare un certo primato del soggettivo-storico e di assicurare così la possibilità di
una trasformazione. Ma per fronteggiare le minacce provenienti dalle «organizzazioni» non è sufficiente reclamare la propria «libertà interiore»; occorre una realizzazione della libertà
operata da «soggetti solidali» che non si concepiscano come
oggetti passivi di una assistenza sociale (social security). Già nel
1947, nell’Eclisse della ragione di Horkheimer, si può osservare
la medesima dialettica. Dell’individualismo si dice, nello spirito
del marxismo, che esso «è l’essenza stessa della teoria e della
pratica del liberalismo borghese, per il quale il progresso della
società avviene attraverso l’interazione automatica degli interessi contrastanti su un mercato libero», ma a questa forma
passiva di accettazione della frammentazione sociale si oppone
quell’«individualità genuina» che sta alla base della «resistenza
all’irrazionalità», rendendo omaggio ai martiri che passando
attraverso inferni di sofferenza e di degradazione possono essere detti «i veri individui del nostro tempo»32.
Il fenomeno che Elliott e Lemert denominano «privatismo
isolato», e per il quale altri preferiscono ricorrere alla categoria
di «narcisismo», è caratterizzato da un ulteriore spostamento
dalla sfera della produzione e del lavoro a quella del consumo.
L’individuo riveste in misura crescente il ruolo di «consumatore». Diminuisce la rilevanza del lavoro nella costituzione
dell’identità personale. Parallelamente si assiste a un disinvestimento emotivo rispetto alla partecipazione politica: un fenomeno che solo pochi interpreti (tra cui Gilles Lipovetski33)
31
Cfr. Th. Adorno, Individuo e organizzazione, in Id., La crisi dell’individuo, trad. it., Reggio Emilia, Diabasis, 2010.
32
Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, trad. it., Torino, Einaudi,
1969, pp. 121 e 139.
33
Cfr. G. Lipovetski, Le crépuscule du devoir. L’éthique indolore des
nouveaux temps démocratiques, Paris, Gallimard, 1992.
95
si azzardano a considerare positivo, in quanto alleggerirebbe
la coscienza da doveri e responsabilità troppo gravosi e creerebbe persino un clima propizio alla democrazia, mentre altri
(tra i quali Sennett e Lasch) denunciano la «tirannia dell’intimità» e una «cultura del narcisismo» che tende a sopprimere la differenza di soggetto e oggetto e a raccomandare
regressivamente una sorta di simbiosi con la natura o con limitate comunità naturali. In questo modo l’individuo disconosce il suo stato di relativa separazione dall’altro: l’identificazione dell’individualismo con quella sua parodia che è
l’individualismo acquisitivo del capitalismo porta ad abbandonare, secondo Lasch34, l’insegnamento fondamentale della
tradizione individualistica occidentale (e giudaico-cristiana)
relativo alla condizione divisa e conflittuale dell’uomo, inserito nella natura eppure separato da essa, e quindi inevitabilmente affetto da un senso di colpa con cui deve imparare a
convivere. Per Sennett35 una concentrazione esclusiva sulla
personalità e la riduzione della comunicazione all’ambito
della vita personale ha segnato il declino dell’uomo pubblico
e prodotto l’incapacità di unirsi agli altri per perseguire interessi comuni. La solidarietà richiesta per queste azioni differisce da ogni spirito comunitario che si regga su una supposta
affinità tra i membri di una Gemeinschaft. Il sociologo mette
in guardia dalle «personalità» che si esauriscono nell’introspezione e nella comunicazione psicologica e intimista e contrappone a esse la figura di uomini che si realizzano attraverso
le loro azioni nella sfera pubblica. Se le prime si situano all’interno di un individualismo che nel linguaggio di Lasch potrebbe chiamarsi «narcisistico», l’uscita (raccomandata) da
questo sé puramente espressivo per un «agire impersonale»
non può essere interpretata tuttavia come un puro e semplice
abbandono dell’istanza individualistica dei moderni, ma
come una sua rimodulazione che connette l’individualità alla
34
Cfr. C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in
un’epoca di turbamenti, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1985.
35
Cfr. R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista,
trad. it., Milano, Bompiani, 1982.
96
serie variopinta delle sue manifestazioni pubbliche (nel lavoro e nell’arena politica).
Per finire, un breve cenno alle figure del cosiddetto individualismo della seconda modernità a cui si riferiscono le
analisi di Ulrich Beck e Zygmunt Bauman36. Questi studi riflettono uno stadio della vita sociale caratterizzato da una
perdita di quei saldi punti di riferimento che in una stagione
precedente erano stati la stabilità del lavoro e l’appartenenza
di classe. Ora l’iniziativa di fronteggiare i rischi viene rimessa
totalmente agli individui nella loro «solitudine». L’individualizzazione diventa in questa prospettiva una sorta di condanna e l’autodeterminazione un atteggiamento «compulsivo
e obbligatorio». Un’illusione o una vana speranza. Loredana
Sciolla, che ha di recente fatto il punto sugli individualismi
sorti in questi tempi di degrado della sfera pubblica, trova
«irrealistiche» le conseguenze estreme che questi autori traggono da analisi che pure hanno qualche fondamento. «La realtà sociale – osserva – è molto più complessa di quanto
queste interpretazioni lascino trasparire. Essa mostra spazi in
cui lo sviluppo dell’individuale genera processi di ricomposizione del sociale». L’autoaffermazione richiesta dalla situazione può correlarsi positivamente con «forme non convenzionali di partecipazione politica e di impegno pubblico»37.
Se, ammette Sciolla, l’individualismo eterodiretto degli anni
Cinquanta, analizzato da Riesman in La folla solitaria38, o
quello narcisistico manifestano una qualità sociale “debole”
nella ricerca ansiosa di un’approvazione da parte degli altri,
si registrano anche, già negli anni Sessanta e Settanta, forme
di individualismo legate alla cultura dei diritti e a una ricerca
di emancipazione, presenti anche in questi ultimi decenni di
individualismo «cosmopolitico», orientato alla costruzione
di identità più ampie che superano i confini dello Stato-na-
36
Cfr. Z. Bauman, Individualmente insieme, trad. it., Reggio Emilia,
Diabasis, 2009.
37
L. Sciolla, Individualizzazione, individualismi e ricomposizione sociale,
in «La società degli individui», n. 37, 2010, p. 44.
38
D. Riesman, La folla solitaria, trad. it., Bologna, il Mulino, 2009.
97
zione. In queste ultime figure la componente identitaria va
di pari passo con una solidarietà verso gli altri, tendenzialmente universalistica. Questi fenomeni trovano un fondamento morale in quelle etiche dell’autenticità e della cura
che, in continuità con la critica dell’idea di un dovere universale razionalmente dedotto che abbiamo visto già operante
nel corso dell’Ottocento, riconoscono che la cura di sé è strettamente complementare alla cura degli altri e che solo individui solleciti della propria felicità sono in grado di prendersi
a cuore il benessere e i diritti altrui.
Le aporie dell’individuo «manipolato», di quello «narcisistico» e di quello che appare costretto ad adottare strategie
di sopravvivenza nella società del rischio sono da collegare a
situazioni storiche e a climi sociali diversi. Eppure la forma di
queste aporie è la medesima. Si tratta in ogni caso di una presunta divaricazione tra l’essere costretti da una situazione incombente e il determinarsi da sé, tra l’individualismo come
condizione sociologica obbligata e la scelta etica di essere se
stessi. Le difficoltà in cui le teorie esaminate si dibattono dipendono dal fatto che si fatica ad accettare un’idea generale
che i maggiori filosofi dell’età moderna (da Spinoza a Kant a
Schopenhauer e Nietzsche) hanno elaborato: che la libertà
non si ritrova fuori dei condizionamenti ma al loro interno e
che non è quindi affatto impossibile una scelta dotata di valore da parte di un soggetto “forzato” a essere libero.
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