1 Lucio Gentilini L`INDIPENDENZA DELLA GEORGIA E IL DESTINO

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Lucio Gentilini
L’INDIPENDENZA DELLA GEORGIA E
IL DESTINO DI UN PAESE DI FRONTIERA
Premessa
Nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008, mentre a Pechino i Giochi Olimpici venivano
aperti da celebrazioni grandiose e spettacolari, il giovane presidente georgiano
Saakashvili - nonostante avesse appena chiesto ed ottenuto un cessate il fuoco per gli
scontri che da giorni tormentavano l’ Ossezia del sud – affermando di essere ormai
minacciato dai russi rompeva unilateralmente gli ultimi indugi e le sue truppe
invadevano l’Ossezia del sud la cui capitale, Tskhinvali (una cittadina di 35mila
abitanti, essendo gli Osseti solo il 3% della popolazione totale dell’intero Paese), così
come tanti altri poveri villaggi, veniva bombardata per tutta la notte subendo pesanti
distruzioni: il presidente dell’Ossezia del sud, Eduard Kokoity, denunciava migliaia
di morti e operazioni di pulizia etnica.
Tuttavia il presidente Saakashvili non aveva tenuto conto della reazione di Mosca
(oltretutto, decine di soldati osservatori russi facenti parte delle forze di
interposizione erano cadute sotto le sue bombe) e solo poche ore dopo l’attacco
georgiano una colonna di carri armati russi entrava nel Paese e riconquistava
Tskhinvali dando inizio a un nuovo round di bombardamenti.
Fiumi di profughi osseti – ben 100mila! - cercavano rifugio nella confinante Ossezia
del nord, al di là del confine con la Russia.
Ci sono infatti due Ossezie, una del nord e una del sud, separate dalla dorsale più alta
del Caucaso, a sua volta (vicino al valico di Roksk) attraversata da due tunnel, quello
di Java e quello di Roki, lunghi parecchi chilometri e che le truppe georgiane non
erano riuscite a raggiungere in tempo.
Mentre la regione veniva strappata ai georgiani e molti erano i volontari osseti del
nord - e più in generale del Caucaso del nord - che accorrevano in aiuto dei loro
fratelli meridionali, il presidente Saakashvili con l’appoggio degli U.S.A. di Bush (da
sempre sostenitori dell’operazione) proclamava la mobilitazione generale.
L’offensiva russa era comunque solo all’inizio e già il 9 era la volta dell’aviazione
che compiva raid altamente distruttivi, atti di vera e propria guerra: presa nel fuoco
incrociato, la popolazione civile poteva sperare solo nella fuga e le solite colonne dei
soliti profughi civili continuavano a pagare il solito conto per tutti.
La manovra russa rivelava un piano evidentemente da tempo studiato ed un’azione
altrettanto preordinata, ma giustificati ora con l’impellente necessità di fermare quello
che veniva ufficialmente definito un ‘genocidio’: naturalmente a nulla valevano la
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protesta statunitense che riusciva solo a balbettare che si trattava di una ‘reazione
spropositata’ né, tantomeno, gli inviti al cessate il fuoco della U.E..
Come se non bastasse, il conflitto si allargava subito anche all’Abkhazia, altra
regione secessionista (gli Abkhazi sono l’1,7% della popolazione totale) ed anch’essa
pronta ad entrare a far parte della Russia, cosicchè anche da qui truppe russe
continuavano la loro praticamente indisturbata invasione della Georgia vera e
propria: i suoi confini con le due regioni secessioniste venivano oltrepassati senza
problemi rivelando – seppur ce ne fosse stato ancora bisogno – che Mosca stavolta
voleva risolvere il problema in modo definitivo.
Com’è ovvio, lo scontro era impari e solo patetico fu l’arrivo sul campo di battaglia
di mille soldati georgiani dall’Iraq (dei duemila, essendo la Georgia la terza forza,
dopo U.S.A. e G.B. (!), a partecipare a quella missione).
Solo il 12 agosto, dopo la disfatta georgiana, il trionfo russo e l’ennesimo fallimento
di Bush, le armi poterono ormai tacere.
Mentre la diplomazia internazionale era al lavoro, il presidente russo Medvedev
incontrava i suoi ‘colleghi’ di Abkhazia ed Ossezia del sud – Serghei Bagapsh ed
Eduard Kokoity – garantendo appoggio e difesa per la sicurezza ed integrità dei loro
territori; e d’altra parte erano due anni che le loro popolazioni ricevevano
direttamente il passaporto russo, che la linea ferroviaria abkhaza era stata ristrutturata
a fondo dai russi e che truppe russe vi erano state fatte affluire (in violazione del
precedente trattato del 1993).
Inevitabili le accuse – questa volta georgiane - di pulizia etnica (atrocità e violenze
venivano compiute dagli osseti nei villaggi georgiani sul confine quando per questi
non c’era più alcuna possibilità di difesa, mentre Kokoity affermava categoricamente
che nessun georgiano avrebbe potuto mai più risedere in Ossezia), di smembramento
di uno stato sovrano e di imperialismo russo, mentre dall’altra parte piovevano
analoghe accuse per atrocità esattamente dello stesso tipo, iniziavano le procedure
per l’ apertura di sedi diplomatiche russe Ossezia del sud ed in Abkhazia (nella
capitale Soukhoumi) e la presenza stabile di truppe russe aumentava indisturbata
(7600 uomini in tutto, mentre prima della guerra erano 2500 in Abkhazia e 1000 in
Ossezia del sud).
Come sempre, villaggi rasi al suolo, profughi e violenze continuarono a guerra ormai
finita.
Nonostante il presidente della Polonia Kaczynski, accusando la Russia di
imperialismo, si fosse decisamente schierato a fianco della Georgia, e, interpretando
lo scontro in atto come l’inizio di una lotta di ben più vaste dimensioni contro di
essa, avesse formato un “gruppo dei cinque” con Ucraina, Lettonia, Estonia e
Lituania a questo scopo, il presidente di turno della U.E., il francese Nicolas
Sarkozy, riuscì invece a far opera di mediazione e a far trovare un accordo
provvisorio, ma solo il 15 agosto, quando i giochi erano ormai finiti e le armi russe
avevano facilmente fatto ottenere a Mosca ed ai suoi alleati sudosseti ed abkhazi tutto
quel che volevano - compresa l’espulsione di 20mila georgiani.
Si stabilì così che truppe georgiane non sarebbero tornate nelle due regioni ribelli e
che i russi avrebbero dovuto evacuare la Georgia (ma certamente non le due regioni).
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Il 28 agosto il presidente russo Dmitri Medvedev (seguito dal Nicaragua e da Hamas
a Gaza) riconosceva infine Ossezia del sud ed Abkhazia come Stati indipendenti.
Ma come si era arrivati a questa conclusione? Quale retroscena c’era alle spalle di
questi ultimi violenti avvenimenti?
Ebbene, la risposta è che ci troviamo di fronte allo sbocco di almeno due secoli di
storia ed agli effetti di tensioni dovute anche ad interessi enormi e ben più grandi dei
diretti protagonisti.
E non basta ancora: per afferrare davvero e appieno il senso e la dimensione degli
eventi della Georgia di oggi è necessario risalire ben più indietro nel tempo per
rendersi conto che la storia di questo popolo, così originale, fin dai tempi più remoti è
stata caratterizzata da alcune costanti che si possono così riassumere:
1) innanzitutto, il dato fondamentale è che la Georgia si è sempre trovata stretta
fra Paesi e popoli ben più forti di lei;
2) in secondo luogo, occorre ricordare che essa è sempre stata in un punto
nevralgico fra Asia ed Europa, sulle vie di comunicazione che connettevano i
due continenti attraverso il Caucaso;
3) così la Georgia ha sempre dovuto subire pressioni, invasioni e dominii ora
dall’uno ora dall’altro dei suoi potenti vicini e a volte da più d’uno nello stesso
tempo;
4) a volte ha dovuto scegliere fra di loro, altre cercare l’appoggio dell’uno contro
l’altro, altre ancora approfittare della loro rivalità, in un gioco pericoloso e
anche disperato dettato da avvenimenti e da circostanze spesso terribili;
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5) tuttavia – e questo è il dato forse più stupefacente – pur in mezzo a così difficili
frangenti, sballottato senza posa dai suoi avidi confinanti, martoriato da
lunghissimi periodi di dominazione straniera e subendo ogni volta violenze
devastanti, nonostante tutto ciò, questo piccolo grande popolo ha saputo
rimanere se stesso, con un suo volto, una sua cultura, una sua lingua, un suo
alfabeto, una sua Chiesa, una sua completa identità, che nessuno è riuscito a
togliergli così che oggi si presenta al mondo con un suo profilo ed un suo
carattere ben definiti.
Un popolo fra troppo potenti vicini
Il rapporto che i Georgiani (oggi quasi 5 milioni) hanno col loro Paese è ben illustrato
dal mito secondo il quale essi arrivarono in ritardo alla distribuzione delle terre ai vari
popoli che Dio aveva appena concluso; il motivo era che essi si erano attardati a
tavola, ma si scusarono dicendo invece che avevano brindato in onore di Dio stesso e
fu così che Dio, compiaciuto per la notizia, assegnò loro le terre che aveva in realtà
riservato per sé.
Ci troviamo sul Caucaso centro-occidentale, in quasi 70mila kmq. di territorio –
repubbliche ribelli comprese – (il 23% dell’Italia, per intenderci), affacciati sul mar
Nero a ovest. La Georgia è inoltre divisa longitudinalmente in due parti uguali
(orientale ed occidentale) dalla catena dei monti di Surami: geograficamente e
climaticamente è poi tutt’altro che omogenea, dato che passa da vette che superano
i 5mila metri e da monti dalle nevi perenni a zone pianeggianti, verdeggianti ed
irrigate e, sulla costa, ad un ambiente addirittura subtropicale.
I Georgiani abitano queste terre dai tempi più antichi, ma sulle loro origini esistono
solo ipotesi.
I
Dopo che i primi regni caucasici erano stati devastati dalle incursioni di popolazioni
nomadi provenienti da nord, fra il VII e il VI secolo a.C. sulle coste nordorientali del
mar Nero, nell’attuale Georgia nord-occidentale, sorse il forte regno di Egrisi,
conosciuto come Colchide dai Greci che dal IV secolo a.C. avevano cominciato a
stabilirsi sulle coste settentrionali del mar Nero. Questi furono colpiti dallo sviluppo
della zona tanto da ambientarvi i miti di Prometeo e del Vello d’oro e da moltiplicarvi
contatti e commerci.
II
Quando Alessandro Magno decise intraprese la sua favolosa impresa (333 a.C.)
in realtà le sue truppe non invasero direttamente la Colchide ma, dopo le sue vittorie
e le sue sterminate conquiste, vi inviò un suo generale, Azon, a prenderne possesso;
la brutalità di quest’ultimo suscitò la rivolta capeggiata dal valente Farnavaz (o
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Parnavaz) che, data anche la crisi che seguì alla morte improvvisa di Alessandro (323
a.C.), non solo riuscì liberare il Paese ma anche a riunire ad esso il regno di Kartli (o
Iberia) sorto di recente nell’attuale Georgia centro-orientale.
Fu questo un regno potente che conobbe il suo apogeo nel III secolo a.C.: con
capitale Miskheta, esso era sulle direttrici che andavano da est ad ovest (dal mar
Caspio al Nero) e da sud a nord (dall’Europa orientale all’Asia); la sua divinità
principale era Armazi, dio guerriero munito di armatura e spada, ed anche dio della
Luna - ben rappresentata dalle corna del bue (per questo animale sacro) - alla testa di
un nutrito gruppo di divinità pagane.
III
Il declino del regno tuttavia arrivò abbastanza presto quando nel II secolo a.C. perse
le province meridionali a favore dell’Armenia mentre a ovest il secolo seguente
Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (sulla costa meridionale del mar Nero), si
impadronì della Colchide e poi della stessa Armenia per avere uno scudo fra sé e la
Persia.
Nè Mitridate si fermò: arrivato nell’ 88 a.C. sulle coste egee dell’Asia minore, portò
il suo attacco fino in Grecia entrando per questo in urto con Roma.
Nonostante Greci e Georgiani si fossero schierati con lui, alla fine di tre guerre fu
Roma ad uscire nettamente vincitrice e nel 66 a.C. Pompeo trasformò l’Asia minore,
l’Iberia e la Colchide (incorporata nel Ponto) in vassalli.
IV
Ma non era così facile sottomettere i Georgiani e così quando Roma si trovò
invischiata nelle lunghe ed estenuanti guerre contro il suo nuovo nemico a oriente, i
Parti (la Persia), subito l’Iberia ne approfittò riuscendo ad arrivare fino al mar Nero,
mentre la Colchide, pur ancora sotto i Romani, continuava a ribellarsi e a rimanere
largamente incontrollabile.
V
Tuttavia questa volta il Paese era stretto fra Roma e la Persia e, dovendo in
qualche modo scegliere, si orientò verso Roma e ne chiese direttamente l’aiuto
quando all’inizio del IV secolo la pressione della nuova e dinamica dinastia iraniana
dei Sasanidi si fece troppo forte: fra l’altro, ciò spinse i Georgiani ad abbracciare
ufficialmente il Cristianesimo (nel 337) da tempo penetrato nel Paese al posto del
vecchio paganesimo - nella parte orientale del Paese da Armenia e Siria mentre in
quella occidentale grazie a Bisanzio ed ai suoi missionari. Nel 317 il re Mirian II
aveva comunque già proclamato il Cristianesimo (che aveva favorito l’affermarsi di
una cultura comune) religione di stato in Iberia.
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La conversione dei Georgiani ne rafforzò l’unità mentre nel Paese si era ormai ben
radicato il sistema feudale, chiaro sintomo di difesa da parte di un popolo minacciato
di invasione.
Tuttavia la scelta di puntare su Roma non si rivelò felice data la crisi che ormai l’
attanagliava: la Georgia dovette così affrontare prove terribili, come la conquista
persiana dell’Iberia nel 364. In tutti i modi gli invasori tentarono di spezzare il nerbo
degli sconfitti ma né le persecuzioni religiose, né l’invio dei suoi uomini migliori su
fronti lontani, né le pesantissime tasse, né la corruzione dei feudatari nè le continue
violenze subite riuscirono ad annientarli. Il Paese aveva ormai una sua identità, ben
rappresentata fin dal IV secolo da un proprio alfabeto e da una propria lingua.
VI
Come più volte le accadrà nel corso della sua storia, la Georgia riuscirà a rialzare la
testa sotto la guida del grande re dell’Iberia Vaktang Gorgasali (449-502) che si
mosse con decisione e capacità sia in direzione di un necessario rafforzamento del
potere centrale (contro feudatari e Chiesa) sia per la cacciata degli odiati Persiani che,
sempre all’attacco, avevano intanto conquistato anche l’Armenia. Deposti i vescovi a
lui avversi e favorito l’ascesa di un Catholicòs a lui favorevole a capo della Chiesa
Ortodossa Autocefala Kartliana (riconosciuta autonoma nel 483 dal Patriarca di
Antiochia, quindi dalla Chiesa Siriana) e combattuti i nobili a lui avversi, Vaktang
approfittò delle guerre dei Persiani in Medio Oriente e riuscì così ad espellerli dal
Paese: ciò non pose fine alla lotta perché i Persiani poterono tornare in forze, ma il
valoroso re li affrontò fino alla morte, avvenuta proprio in battaglia.
Chiamato ‘Testa di lupo’, simbolo della fierezza del suo popolo, fondatore della
capitale Tbilisi, oggi la sua statua equestre si erge, imponente e maestosa, su un’ansa
del fiume Mkhtvari che l’attraversa; la sua salma riposa nel complesso religioso di
Svetitskhoveli sotto una smisurata pietra tombale che ne riprodurrebbe l’ altissima
statura.
VII
All’inizio del VII il basileus di Bisanzio Eraclio sconfisse i Persiani e li cacciò dal
Paese sostituendosi a loro. Come l’Armenia, anche la Georgia fino ad allora era stata
monofisita, ma ora i deliberati del concilio di Calcedonia del 451 sulla presenza in
Cristo delle due nature vennero accettati anche qui e la Chiesa georgiana, rompendo
con quella armena, si pose a fianco di quella bizantina. Seguì poi l’edificazione di un
imponente numero di monasteri (anche ben al di fuori del Paese, come a
Gerusalemme, a Betlemme, in Palestina, ad Antiochia) che contribuì notevolmente
alla diffusione della cultura georgiana al di là dei suoi confini.
Comunque ora Bisanzio aveva preso il posto di Roma così per le popolazioni della
Georgia iniziò un periodo di difficile equilibrio fra questa e la Persia e di ricerca di
aiuto dell’una contro l’altra.
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Quando però Bisanzio si accordò con la Persia col ‘Trattato senza fine’ del 532 i
Georgiani non poterono più continuare in questo pericoloso e complicato gioco:
l’Iberia venne infatti assegnata alla Persia (che seppe attrarre dalla sua parte molti
nobili cui lasciò terre e privilegi) mentre la Colchide fu di Bisanzio. In ogni caso
nonostante dovesse essere ‘senza fine’ la pace fra Persia e Bisanzio non fu certo
duratura e l’Iberia non perse mai l’occasione di ribellarsi durante le alterne vicende
dello scontro fra le due potenze che si concluse nel 628 con la vittoria della
(comunque stremata) Bisanzio che potè così impadronirsi dell’intera Georgia.
VIII
Ma non c’era pace per il popolo georgiano: pochi anni trascorsero ed una nuova
minaccia si profilò all’orizzonte, quella rappresentata dagli Arabi ormai partiti per la
loro fantastica conquista: la Georgia tornava ad essere terreno di scontro, questa volta
fra Bisanzio e , appunto, gli Arabi.
L’invasione araba arrivò in Georgia a partire dal 645 e nel 697 praticamente tutto il
Paese era stato sottomesso. L’iniziale tolleranza araba fra l’VIII e l’inizio del IX
secolo venne sempre più sostituita dalla pretesa di imporre l’Islam: la resistenza della
popolazione fu decisa come la reazione araba che procedette a distruzioni e massacri
inauditi sterminando, fra l’altro, tutta la nobiltà. Tbilisi era divenuta sede dell’Emiro
ma rivolte e resistenze resero problematico il controllo del Paese anche se soprattutto
negli anni di Murwan il Sordo (alla pietà) alla popolazione non fu risparmiato alcuno
strazio.
In mezzo a questa autentica catastrofe nazionale l’unica arte e cultura che sopravisse
fu quella praticata di nascosto e in clandestinità.
Ancora una volta, scontri, lotte sangue e repressioni ebbero l’effetto di frantumare il
Paese in regni e principati sempre più chiusi in se stessi, anche se nell’888 nel più
forte di questi, quello di Tao-Klarjeti, divenne re ‘dei Georgiani’(per la prima volta
con questo nome) Adarnese Bagrationi.
Anche Azerbajan e Armenia presero parte agli scontri cogli Arabi che furono
continui e si protrassero per secoli con tutte le devastazioni e distruzioni che
comportarono; oltretutto, nel gioco sempre più complicato si erano da subito inseriti
i Bizantini anche se, quando gli arabi erano ormai in declino (nell’XI secolo), a
Bisanzio converrà più favorire le tendenze centrifughe dei feudatari piuttosto che
quelle centripete del re.
Profittando dell’indebolimento del Califfato (e di Bisanzio), il processo di
unificazione politica del Paese era già però potuto iniziare già sotto Ashot I ‘il
Grande’ (786 – 824), nonno di Adarnese e vero fondatore della dinastia Bagrationi, e
di suo nipote Adarnaze II.
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Il regno di Georgia nacque finalmente nel 978 con Bagrat III (975 – 1014) che
riuscì ad unificare larga parte del Paese la cui capitale divenne Kutaisi e, dato che
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erano i Karti ad occuparne la parte maggiore e più importante, ‘Kartveli’ divenne il
nome dei Georgiani e ‘Sakartvelo’ della Georgia.
Tbilisi tuttavia, ancora al centro dei possedimenti islamici, rimaneva fuori da tale
regno mentre il sud era ancora di dominio bizantino: erano ora questi territori che
andavano riconquistati.
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Il re Bagrat IV (1027 – 1072) riuscì a conseguire tutta una serie di successi sia contro
gli Arabi che contro Bisanzio mentre il potere centrale tornava a rafforzarsi, ma –
come sempre – sfumato un nemico ne compariva subito un altro e la Georgia dovette
ora fronteggiare i Turchi Selgiucidi che, nettamente vittoriosi su Bisanzio, la
trovarono sola davanti a tutta la loro potenza.
A partire dal 1064 cominciarono le feroci invasioni, gli spietati saccheggi, le annuali
e ricorrenti depredazioni: a poco o nulla servirono i tributi pagati e la sottomissione a
Isfahan accettata dal re Giorgio II. I Turchi poi avevano cominciato anche ad
insediarsi nel territorio del martoriato Paese – Tbilisi compresa - che ormai rischiava
l’estinzione.
XI
Eppure, ancora una volta, in uno dei momenti più terribili della sua esistenza, la
Georgia potè approfittare da una parte dell’anarchia del Impero turco dopo la morte
del sultano Melik-Shah (anni ’90 del XI secolo) e , dall’altra, dell’ arrivo dei
Crociati che attaccavano l’odiato invasore da ovest. E non solo: come sempre nella
sua storia, il popolo georgiano seppe poi trovare al suo interno le energie per
risollevarsi.
Nel 1089 il re Giorgio II veniva costretto ad abdicare in favore del figlio sedicenne
David IV e il giovane sovrano, energico e capace, riuscì a prendere tutta una serie di
misure per rimettere in sesto il Paese sia centralizzando amministrazione ed esercito
che sottomettendo e riconducendo all’ordine la nobiltà riottosa ed anche la Chiesa (di
cui nel concilio di Ruisi-Urbnisi riformò alcuni statuti e le cui cariche più importanti
fece diventare di nomina regia).
Approfittando delle difficoltà e del declino turco, alle prese per di più coi Crociati,
mosse poi decisamente contro l’odiato invasore.
Pezzo per pezzo, regione per regione, uno alla volta, i Turchi furono espulsi e i
territori riconquistati e ripresi fino alla decisiva battaglia di Didgori (12.08.1121),
vinta con forze dieci volte inferiori (!).
La Georgia era libera e unificata, bastione orientale antiturco in continua espansione
nel nord del Caucaso e in Armenia, mentre tutti i titoli bizantini venivano rigettati.
Dopo tanta morte e distruzione per la Georgia iniziava l’apogeo dell’ ‘età dell’oro’.
L’opera del grande David IV, ‘il Costruttore’ come venne chiamato, proseguì e si
infittì col favorire lo sviluppo economico, urbano, culturale, amministrativo, nè si
interruppe con la sua morte (24.01.1125): la lotta contro Turchi e nobili fu continuata
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infatti dai successori Demetrio I (1125 – 1155) e Giorgi III (1155 – 1184) in un
crescendo di vittorie.
Il culmine del successo fu toccato dalla regina Tamar (1184-1213) - prima donna a
regnare sulla Georgia ma che i Georgiani chiamarono comunque ‘re’ , raffigurarono
sempre in abiti maschili e infine definirono ‘Re dei Re’ nelle iscrizioni - sotto cui
raggiunse la sua massima espansione territoriale. Il (la) grande re(gina) continuò a
lottare contro i Turchi sia respingendoli che inseguendoli fino alla loro disfatta
definitiva nella battaglia di Basiani (1202).
I Turchi erano espulsi anche dall’Armenia che veniva annessa al regno e la Georgia si
dispiegava dal mar Nero al mar Caspio.
Questa età aurea della Georgia, promessa di pace e sviluppo, libertà e indipendenza
dopo tanti secoli di oppressione e dolore, fu facilitata anche dal fatto che l’altro suo
grande vicino, Bisanzio, nel 1204 crollava nella quarta crociata e subiva lo
spaventoso sacco ad opera dei Crociati stessi: nonostante avesse appoggiato questa
crociata, Tamar favorì però la nascita del confinante Impero greco-georgiano di
Trebisonda e si riavvicinò ai bizantini, considerandosi sempre protettrice della
cristianità orientale.
La Georgia ora poteva affermarsi ora grande potenza, antemurale antiturco della
cristianità orientale.
Come sempre, questa fu anche un’epoca di sviluppo culturale (grazie anche ai vari
influssi bizantini, arabi, iraniani ed occidentali) che trovò in Shota Rustaveli (l’autore
del capolavoro “Il cavaliere nella pelle di pantera”) la sua massima espressione.
Anche se la cultura (e il destino) della Georgia erano comunque sempre dipesi dalla
sua posizione di crocevia fra Europa ed Asia, dal suo confinare con grandi e potenti
imperi, in realtà l’influsso che si faceva sentire sul Paese era però soprattutto quello
bizantino (notevole soprattutto in campo pittorico), della cui periferia orientale faceva
parte insieme a Medio Oriente, Armenia, Cappadocia e perfino Egitto, Nubia ed
Etiopia. Nella scultura era evidente invece l’influsso dell’Iran dei Sasanidi.
Il regno di Tamar verrà considerato il più glorioso della storia della Georgia e la sua
figura venne esaltata sia in vita che dopo la sua scomparsa.
Come anche David IV, anche Tamar è stata santificata dalla Chiesa Ortodossa
Georgiana.
XII
Ma per la Georgia questo periodo durerà davvero poco: già sotto il figlio Giorgio IV
Lasha essa fu rovinosamente sconfitta per due volte dai Mongoli nel 1221 e dovette
subirne l’invasione; particolarmente violenta e distruttiva fu l’infernale devastazione
di Tbilisi il 9 marzo 1226, seguita da riscosse e nuove aggressioni in un crescendo di
tanta violenza che il nuovo re Resudan preferì darla alle fiamme alla notizia
dell’ennesimo arrivo dei Mongoli (!).
Nuovamente di fatto disgregata in una serie di piccoli principati dopo sette anni di
ripetute invasioni, la Georgia – il cui regno non era stato comunque abolito - divenne
pagatrice di pesanti tasse e fornitrice di armati, eppure le rivolte – e le conseguenti
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repressioni - non cessavano, anzi si ripetevano con terribile frequenza: esse
testimoniavano il carattere indomito del popolo georgiano, ma dopo un secolo di
questa storia il Paese era tuttavia prostrato e, come se non bastasse, meta delle
rinnovate ‘attenzioni’ della Persia e dell’Impero Ottomano.
XIII
Ancora una volta tuttavia questo incredibile popolo seppe trovare nelle sue fibre
l’energia e la determinazione necessarie: sotto la guida di un grande re, Giorgio V ‘il
Brillante’ (1314 -1346), esso riuscì ad emergere dal caos e dalla rovina, risollevarsi,
riunificare il Paese, ricomporsi e nel 1335 cacciare i Mongoli agitati intanto da lotte
intestine.
Ancora un successo eclatante, ancora una fuoruscita dall’incubo … ma ancora un
sogno di breve durata.
XIV
A partire dal 1386 ben otto furono infatti le feroci invasioni di Tamerlano e la storia
si ripetè ancora una volta con monotona disperazione: rivolte, resistenze estreme,
distruzioni e stragi.
L’improvvisa ed insperata morte di Tamerlano nel 1405 diede un qualche respiro
all’esausto popolo, date anche le gesta del capace re Alessandro I il Grande (1421 –
1442) e del figlio Giorgi VIII (1446 – 1466), ma ormai il nord Caucaso era in mani
islamiche e – dopo che nel 1453 Bisanzio cadde nelle mani dei Turchi Ottomani e
che nel 1461 fu la volta anche dell’Impero di Trebisonda, la Georgia si trovò
completamente circondata, isola cristiana nel mare mussulmano ormai lontana e
separata dall’Europa.
La Georgia non esisteva quasi più, esausta e divisa fra più o meno estesi territori
stretti nel gioco turco-persiano come Kakheti (est), Imereti (nord-ovest),
Samtskhe-Atabagate (sud-ovest), Kartli (centro), per citare i ‘maggiori’.
Ancora una volta non si contano le invasioni e le incursioni, le lotte e le resistenze, i
temporanei miglioramenti e le crudeli ricadute, mentre all’interno regnava
inevitabilmente l’anarchia feudale.
Per dare un’idea della situazione, solo nel XVI secolo il solo regno di Kartli dovette
sostenere 14 guerre contro la Persia, 11 contro la Turchia ma ben 13 contro altri regni
georgiani (!).
Inutile fu sperare di poter approfittare della rivalità turco-persiana: col trattato di
Amasya (1555) le due potenze si divisero la Georgia (est e ovest) e a quest’ultima
non rimase che continuare a resistere e a portare avanti una coraggiosa guerriglia.
Gli scontri non finivano mai perché, nonostante le due parti della Georgia fossero
diventate vassalle dei due troppo potenti vicini, pure non cessava la loro aspirazione
all’indipendenza. Non si contano le invasioni, le distruzioni, la partecipazione dei
georgiani alle guerre nell’esercito persiano (in Afghanistan), la vendita di tanti
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georgiani sui mercati degli schiavi … ma anche le guerre interne fra i vari stati
georgiani.
Le condizioni del Paese erano a dir poco deplorevoli.
Nella Russia
Sul finire del Seicento una nuova potenza, così come in Europa, si era affacciata
anche sul Caucaso, la Russia di Pietro I il Grande e l’espansionismo russo, ormai
avviato in tutte le direzioni, era destinato a cambiare la situazione europea e asiatica,
Caucaso compreso.
Fu così che, iniziata da tempo la spinta russa a travalicare i propri confini, fin dal
1722 operazioni congiunte russo-georgiane vennero condotte contro Persia e Turchia:
anche se queste furono complicate ed anche contraddittorie (per es. col repentino
abbandono russo delle operazioni) e non sortirono gli effetti desiderati, nondimeno
testimoniavano che un nuovo soggetto era comparso sulla scena.
I
In Georgia l’interminabile serie di invasioni, distruzioni, devastazioni, stragi e
quant’altro avevano naturalmente bloccato lo sviluppo cittadino, colpito duramente
l’economia, impedito lo sviluppo e parcellizzato il Paese, facendo sì che il
feudalesimo si mantenesse ben più a lungo di quanto sarebbe stato normale, tuttavia
nel 1744 Teimuraz II divenne re di Kartli e mise suo figlio Erekle II sul trono di
Kakheti dando inizio alla ricostruzione dei due regni ora strettamente alleati.
Il momento opportuno si presentò nel 1747, quando lo shah Nadir fu assassinato in
una cospirazione e scoppiò una lotta interna alla Persia stessa che portò alla sua
temporanea disintegrazione: il regno di Kartli e Kakheti non sprecò l’occasione e
riuscì ad affrancarsi ed a liberarsi.
La Georgia orientale era ora unita e indipendente sotto Erekle II (rimasto solo
dopo la morte del padre ne1762).
E l’esempio fu contagioso: subito ad ovest, nel regno di Imereti, il re Solomon I
(1752 – 1784) iniziò una nuova lotta contro i Turchi e la loro odiosa tratta degli
schiavi riuscendo a rendere infruttuosi i tentativi di invasione ottomani.
Fu poi giocoforza per Erecle II e Solomon I sostenere la Russia di Caterina II nella
sua guerra contro la Turchia (1768 – 1774) ma – e non era la prima volta – vennero
traditi dal trattato che le due potenze strinsero fra loro e che riconsegnava la Georgia
occidentale ai Turchi.
Proprio nel 1774 la Russia poteva però annettersi l’Ossezia e questa annessione fu
largamente pacifica e consensuale. Gli Osseti saranno – e sono – sempre dalla parte
dei Russi, sia al tempo dello zarismo che del comunismo ed oggi della Federazione
Russa.
12
II
La storia della Georgia diveniva invece duale con la sua parte orientale indipendente
(Kartli-Kakheti) e in ripresa in tutti i settori (grazie anche alla decomposizione
dell’antiquato sistema feudale), ma negli anni ’80 del XVIII secolo anch’essa dovette
subire nuove invasioni, questa volta ad opera del feroce Daghestan (dal nord-est)
che ne svuotò intere regioni.
Fu inevitabile che Erekle II cercasse ancora una volta la protezione russa - e la
ottenne: in base al trattato di Georgievsk del 24 luglio 1783 la Russia stabiliva il
suo protettorato sulla parte centro-orientale del Paese che ne aveva invocato il
sostegno; la dinastia Bagrationi veniva mantenuta sul trono e il Paese avrebbe goduto
di autonomia interna, ma la sua politica estera sarebbe stata diretta dalla Russia che
aveva anche diritto di essere aiutata in caso di necessità.
La risposta mussulmana fu la furiosa invasione del 1785 che vide l’ulteriore ritiro
russo e l’abbandono dei georgiani a se stessi, mentre, come se non bastasse, la Persia
aveva intanto risolto i suoi problemi interni e nel 1795 poteva invadere ancora una
volta la Transcaucasia: il 12 settembre Tbilisi veniva occupata (ancora una volta!) e
subiva una delle distruzioni più terribili della sua storia.
I Georgiani erano stati dalla parte della zarina Caterina II nella sua marcia
espansionistica ed avevano combattuto con lei nelle ripetute guerre contro la Turchia
ma non poterono mai raccogliere i frutti sperati dalle loro vittorie dato che erano pur
sempre una semplice pedina nel gioco russo che prima ed innanzitutto pensava ai
propri interessi ed equilibri.
Nel complesso e difficile gioco russo-turco-persiano la Georgia non poteva tuttavia
che essere dalla parte dei primi mentre il Settecento arrivava anche sul Caucaso col
suo sviluppo economico, commerciale ed anche culturale.
Nel 1798 Erekle II moriva e il successore Giorgio XII riusciva ad ottenere che i Russi
ancora una volta tornassero nel Paese e finalmente lo ‘liberassero’, ma in seguito
alla richiesta di rinnovare il trattato di Georgievsk, il 18 gennaio 1801 lo zar
Alessandro I abolì ed annesse invece il regno di Kartli-Kakheti.
La stessa sorte toccò poi al resto del Paese, la Georgia occidentale, quando - dopo
mezzo secolo di penetrazioni ed annessioni - in seguito alla sconfitta nella guerra di
Crimea, la Russia cercò ed ottenne compensi sul Caucaso (e nei Balcani).
Tuttavia, seppur sottomessa, dopo l’ulteriore guerra russa contro la Turchia la
Georgia si vide in qualche modo restituire territori persi da secoli.
III
L’ingresso della Georgia nella compagine dell’Impero russo segnò indubbiamente
una svolta importante e decisiva nella storia del Paese e va valutata con attenzione.
La Georgia era finalmente unita dopo secoli di divisioni; finalmente cessavano sia le
interminabili ed insopportabili invasioni islamiche - turche e persiane - che le lotte
tanto disgregatrici sia fra i vari regni sia dei re contro i feudatari; il Paese era
13
finalmente in pace (condizione più unica che rara) e un certo sviluppo tanto
economico quanto culturale poteva infine prendere il via.
Tuttavia la Georgia era diventata una colonia in più dello strano Impero russo – un
Impero che da due secoli aveva iniziato ad espandersi allargando i suoi confini ed
inglobando sempre più popoli e paesi - cosìcchè ora anch’essa pagava pace e unità,
protezione e sicurezza, con la perdita di libertà e indipendenza.
Anche qui l’autocrazia zarista impose la sua consueta politica di russificazione
sociale, culturale e (colla sottomissione della Chiesa ortodossa georgiana a quella
russa) religiosa, mentre quella economica era in mani prevalentemente armene.
Anche in Georgia la lingua russa venne imposta come l’unica ufficiale ed anche qui
tutto ciò che non era russo veniva disprezzato e discriminato: ancora oggi in
numerose chiese georgiane si può vedere che le pareti interne erano state ricoperte di
bianco per cancellarne gli affreschi originali in attesa di sostituirli con altri in stile
russo – cosa che, tuttavia, non avvenne mai.
Né la Russia cessava la sua avanzata in Transcaucasia e finì coll’occupare anche
Azebajan ed Armenia: essa combattè così guerre sia contro la Persia (1804 – 13,
1826- 28) che la Turchia (1806 – 12, 1828 – 29, 1875 – 76) di cui ora anche la
Georgia dovette portare il peso economico, fiscale e - dato il coinvolgimento di tanti
suoi soldati nell’esercito zarista – anche militare.
Comunque, anche grazie alla politica coloniale di insediamento di russi e di altre
etnie, la popolazione aumentò, mentre la Russia riusciva ad assicurarsi la fedeltà della
nobiltà georgiana inserendola nei suoi propri ranghi ed assicurandone la parità con la
propria.
Anche in Georgia negli anni ’60 la servitù della gleba venne abolita e l’economia
venne modernizzandosi con l’introduzione di nuove produzioni manifatturiere ed
industriali.
L’Ottocento poi arrivò e si fece sentire anche in Georgia con un deciso risveglio
culturale ed artistico mentre il legame con la Russia apriva il Paese alla cultura
europea.
Anche in Georgia si diffusero infine aspirazioni nazionaliste i cui sostenitori si
raccoglievano in organizzazioni di ispirazione anche socialista e via via più radicali.
E’ degno di nota che mentre in Europa la formazione delle nazioni aveva coinciso
con la loro indipendenza, ad Est invece essa (come per es. in Ucraina) avvenne
all’interno dell’Impero russo, nell’ambito di questa originale formazione pur così
brutale, oppressiva e sfruttatrice nella sua multietnicità e multiculturalità.
In Georgia così la lotta per l’indipendenza si incrociò e fuse sia con quella per la
difesa della lingua e della cultura nazionale che con quella per il riscatto sociale
contro lo sfruttamento padronale: in questo senso nacque un ‘primo gruppo’, un
‘secondo gruppo’ e un ‘terzo gruppo’ (del quale fece parte anche il giovane Stalin) e i
Tergdaleulis di Ilia Chavchavadze, mentre i Meore Dasi di Niko Nikoladze e Giorgi
Tsereteli erano piuttosto per l’affermazione della (peraltro debole) borghesia.
Anche i Georgiani ebbero i loro Narodniki, quegli idealisti che dopo essere andati
‘verso il popolo’ nella sterminata campagna, essersi stabiliti colà come dottori,
insegnanti, agronomi e quant’altro, constatato il fallimento di ogni tentativo di
14
emancipazione e la dura repressione poliziesca, si volsero allora al terrorismo
(Narodnaya Volya).
Come in tutta la Russia, nel 1905 la rivoluzione scoppiò anche in Georgia ed anche
qui ottenne numerosi successi – al movimento rivoluzionario partecipò anche il
giovane Stalin - finchè nel 1907 Nicola II riuscì a stroncarla.
Va sottolineato che in Georgia fu il partito socialdemocratico (menscevico) a
divenire la forza egemone.
Infine, provincia dell’Impero russo, anche la Georgia fu trascinata nel gorgo della
prima guerra mondiale ed i suoi soldati si trovarono in prima linea e combatterono
soprattutto contro la Turchia sul Caucaso.
E dalla guerra venne la rivoluzione.
Nella rivoluzione
La rivoluzione del febbraio 1917 portò al crollo dello zarismo e - mentre dappertutto
nell’immenso Paese pieno di fervore ed entusiasmo sorgevano i Soviet – a
Pietrogrado nasceva una Repubblica democratica multipartitica retta da un governo
provvisorio.
Venne così varato, fra altre mille cose, un “Comitato speciale per la Transcaucasia” o
“Ozacom”, che dal 18 marzo 1917 assunse la direzione in tutto quel territorio
(Georgia, Armenia ed Azerbajan) fino ad allora retto da un governatore nominato
dallo zar.
Il Governo provvisorio, com’è noto, non avendo valutato correttamente la situazione
commise i troppi errori che otto mesi dopo gli saranno fatali: volle continuare la
guerra non solo ormai persa, ma addirittura causa della rivoluzione stessa, rimandò la
riforma agraria, altra causa della rivoluzione stessa, ed in genere non fu dalla parte
dei lavoratori.
Nonostante ciò, quando già il 26 ottobre (7 novembre per il nostro calendario) giunse
a Tbilisi la notizia dell’assalto al Palazzo d’Inverno, della cacciata di Kerenskij e del
suo governo provvisorio, e dell’instaurazione del governo bolscevico di Lenin, la
principale forza politica georgiana, i (Social Democratici) Menscevichi denunciarono
quanto avvenuto e lo rifiutarono; una settimana dopo fu così formato un
Commissariato Transcaucasico che confiscò le terre in favore dei contadini e
proclamò il principio dell’autodeterminazione nazionale; e dopo solo altri quattro
giorni tutti i partiti, tranne i bolscevichi, parteciparono alla Conferenza Nazionale
Georgiana il cui Consiglio Nazionale rinnovò l’accusa di illegittimità del governo
Lenin.
Ma la situazione era difficilissima se non drammatica: svoltesi le elezioni, il 10
febbraio 1918 fu convocato il Parlamento Transcaucasico la cui di gran lunga
principale e maggior forza politica rimanevano sempre i (Social Democratici)
Menscevichi. Ancora una volta non solo il governo Lenin non fu riconosciuto, ma il
22 aprile 1918 venne proclamata la separazione della Transcaucasia dal resto della
Russia: con capitale Tbilisi il nuovo organismo politico nasceva come repubblica
15
guidata da un Parlamento (Same) di cui divenne presidente il socialdemocratico
Chkeidze con due vice, uno armeno ed uno azero.
Tuttavia, i veri problemi erano che non si riusciva a terminare la guerra con la
Turchia né a portare avanti la riforma agraria, seppure ufficialmente varata: date
anche le innumerevoli difficoltà, ristrettezze e i mille problemi di quei mesi convulsi,
scioperi e proteste si moltiplicavano in un contesto sempre più destabilizzato.
L’isolamento e l’irrilevanza della Transcaucasia risultarono evidenti: essa non solo
non venne nemmeno invitata al tavolo di pace di Brest-Litòvsk, ma addirittura il testo
finale di tale trattato (firmato il 3 marzo 1918) previde la cessione alla Turchia dei
territori sulla costa sud-orientale del mar Nero, Batumi compresa.
L’Azerbajan si schierò allora con la Turchia il cui assalto non potè essere fermato.
Non si potè far altro che cedere ed accettare il trattato: la Transcaucasia non aveva
retto alla sua prima prova e già il 26 maggio 1918 veniva sciolta a favore delle tre
repubbliche di Armenia, Azerbajan e Georgia (con Noe Zhordania capo di governo).
Ancora oggi il 26 maggio è la festa nazionale dell’indipendenza georgiana.
Fatta comunque la pace con la Turchia, la neonata repubblica raggiunse presto un
“Temporaneo accordo” anche con la Germania, che in realtà tutta una serie di misure
(come lo sfruttamento della ferrovia georgiana e il riconoscimento dell’indipendenza
del nuovo Stato) trasformarono ben presto in una vera e propria alleanza.
Ai confini della rampante rivoluzione russa, il Paese aveva assoluto bisogno di alleati
e protezione, ma il nemico di ieri diveniva l’amico di oggi nel momento più
sbagliato, quando ormai la guerra volgeva al termine col crollo degli Imperi Centrali:
solo cinque mesi dopo le operazioni belliche si concludevano e i Tedeschi venivano
evacuati.
Nel dicembre dello stesso anno l’Armenia tentò allora di strappare i territori al suo
confine assegnati alla Georgia ma abitati prevalentemente da armeni, tuttavia fu
fermata e nella regione contesa venne istituita una ‘Zona neutrale’ ad
amministrazione mista.
Analogamente, in Abkhazia e nell’Ossezia del sud sorsero movimenti armati che
reclamavano a loro volta l’indipendenza, ma anche questi vennero bloccati.
I
Né la situazione interna era migliore: come se non bastassero le mille difficoltà di una
guerra di tanto grandi dimensioni e gli sconvolgimenti delle due rivoluzioni del 1917,
le tensioni e le attività dei bolscevichi rendevano ancora più instabile la società né
questi perdevano l’occasione per alterarne l’equilibrio, come quando sostennero la
richiesta di indipendenza da parte dell’Abkhazia, che la Georgia rifiutò (anche se le
concesse l’autonomia).
Pur in condizioni così critiche, tuttavia le elezioni per l’Assemblea Costituente
(14,15,16 febbraio 1919) ancora una volta costituirono un trionfo per i Menscevichi
che ottennero 109 seggi su 135 con Noe Zhordania capo del governo.
16
Solo l’Argentina aveva riconosciuto il nuovo Stato (il 13 novembre 1919), ma i lavori
procedevano spediti: il georgiano fu proclamato lingua nazionale ma le minoranze
etniche e linguistiche ebbero scuole proprie e riconosciuti i loro diritti.
Intanto, anche se alla Conferenza di pace di Versailles sulla Georgia non veniva presa
nessuna decisione definitiva e anche se non veniva ancora ammessa alla Società delle
Nazioni, tuttavia Germania, Francia, Belgio, Italia, Giappone, Polonia, Austria,
Romania, Lussemburgo e Messico la riconobbero, l’Inghilterra (che aveva preso il
posto della Germania sconfitta come potenza occupante) si ritirava, ed il 7 maggio
1920 un accordo con l’U.R.S.S. instaurava relazioni non ostili e garantiva che
quest’ultima non si sarebbe intromessa negli affari interni dell’altra.
Ma non c’era da fidarsi: sconfitti i Bianchi e vinta la guerra civile, ora l’ U.R.S.S. si
preparava invece a riprendere quello che era stato degli zar: l’Armenia era già stata
rioccupata ed il 16 febbraio 1921 fu la volta della Georgia.
Con la scusa di portare aiuto alla regione di Lore che, sul confine con l’Armenia
ormai sovietica, era contesa e al centro di uno scontro, l’Armata Rossa (guidata da
‘Sergo’ Ordzhonikidze e da Stalin) invadeva e conquistava il Paese.
Né l’U.R.S.S. era sola: anche la Turchia, ora alleata di Mosca, si mosse sul mar Nero
e un accordo russo-turco (16 marzo) le assegnò alcuni territori sul suo confine.
Nell’ U.R.S.S.
La comunistizzazione della Georgia seguì il solito miserabile percorso: scioglimento
di tutti i partiti, ad eccezione di quello comunista, e delle forze armate nazionali;
abolizione della proprietà privata della terra, statalizzazione di industria, ferrovie,
flotta, banche, ecc.; eliminazione degli oppositori e dei sospetti; proclamazione
dell’ateismo e distruzione delle chiese.
Sempre ad opera del Commissario alle Nazionalità - di colui cioè che nel governo
Lenin aveva il compito di regolare le spinose questioni fra le tante etnie e popolazioni
dell’ex-Impero -, il georgiano Stalin, il 25 novembre 1921 veniva fondata la
Repubblica Socialista Sovietica di Georgia, cui l’Ossezia del sud venne annessa come
regione autonoma; nel dicembre 1922 la Georgia formò poi con Azerbajan ed
Armenia la Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Transcaucasiche; nel
1931, anche l’ Abkhazia le venne annessa - sempre per volontà di Stalin che nei
pressi della sua capitale, Sukhumi, si fece addirittura costruire una dacia.
Le motivazioni di queste decisioni non sono difficili da comprendere.
L’annessione all’U.R.S.S. non era avvenuta senza resistenza: dal 1921 al 1924 anche
in Georgia (come in tante alle regioni dell’ex-Impero) era stata condotta una
sfortunata guerra per l’indipendenza (guidata soprattutto dal colonnello Kakutsa
Cholokashvili) che era costata al Paese 50mila fra morti e arrestati, e proprio per
evitare che si potessero ripetere simili tentativi per l’autonomia e l’indipendenza,
Stalin concepì Repubbliche etnicamente piuttosto disomogenee in modo che
all’interno di ognuna ci fossero minoranze che ne minassero sul nascere la
compattezza. Fu per questo che, fra l’altro, gli Osseti, vicini a Mosca, vennero divisi
17
ed annessi - a sud alla Georgia e a nord alla Cecenia-Inguscezia - sempre allo stesso
scopo, impedire, o almeno ostacolare, una eventuale spinta separatista; anche
l’Abkhazia manteneva la sua autonomia e così l’Ajara che, situata nell’estremo
lembo meridionale sul mar Nero e con capoluogo Batumi, venne annessa alla Georgia
il 16 luglio 1921.
Tutto ciò servì comunque fino ad un certo punto se in epoca staliniana le tendenze
indipendentiste e nazionaliste continuarono e dovettero essere stroncate con almeno
100mila deportazioni operate dalla N.K.V.D., la temibilissima polizia segreta guidata
dal georgiano Beria.
Infine, sentendo che ormai la situazione era sicura e stabile, la Federazione fu sciolta
nel 1936 e la Georgia, come l’Armenia e l’Azerbajan, divenne una delle repubbliche
dell’ U.R.S.S.; essa tuttavia continuava a mantenere al suo interno le tre regioni
autonome – Ossezia del sud, Abkhazia e Ajara – al chiaro scopo di minarne la
compattezza interna.
Naturalmente la Georgia, come tutte le altre nazioni all’interno dell’U.R.S.S., dovette
seguirne tutte le politiche e tutte le scelte, anche se il Catholicòs Kristepore II nel
1929 riuscì a trovare un accordo col governo che permise alla Chiesa georgiana
almeno di sopravvivere.
In campo economico anche la Georgia visse l’industrializzazione e lo sviluppo di
un’economia basata sulla sua logica con la conseguente trasformazione della società e
la diffusione di scuole di ogni ordine e grado: anche qui lo stalinismo fuse in un unico
complesso la spinta alla modernizzazione ed il terrore di massa con le sue inesauribili
eliminazioni di intellettuali, ‘borghesi’ e contadini.
Nulla di nuovo sotto il Sole dello stalinismo.
I
Eppure la Georgia trasse beneficio dal fatto che Stalin era georgiano:
l’urbanizzazione qui non significò russificazione e la lingua georgiana venne
preservata mentre ad un più alto tenore di vita e ad una maggior percentuale di
giovani che terminavano gli studi si aggiungerà addirittura un rafforzamento della sua
coesione etnica grazie all’emigrazione di russi e armeni dal Paese nel secondo
dopoguerra.
L’invasione tedesca non raggiunse la Georgia e la risparmiò, però questa partecipò
massicciamente allo sforzo bellico con 700mila uomini (su una popolazione di
complessivi 3.612mila persone!) metà dei quali perì e di cui tanti altri finirono
disabili o mutilati. Né il fronte del lavoro fu da meno nel contribuire alla vittoria
grazie al tremendo sforzo produttivo portato avanti dalle tante donne che dovettero
prendere il posto degli uomini.
Tuttavia i tedeschi riuscirono a formare battaglioni con ex-prigionieri di guerra
georgiani (‘Tamar I’ e ‘Tamar II’) e con appartenenti ad altri popoli caucasici
(‘Bergman’) che, puntando sulla vittoria tedesca, speravano di riacquistare così
libertà ed indipendenza. Come tanti altri popoli dell’U.R.S.S., anche i georgiani
combatterono insomma in ambedue gli schieramenti ed anche in Georgia il
18
dopoguerra fu poi orribile: la nuova ondata di persecuzioni cessò solo con la morte di
Stalin (5 marzo 1953).
II
Curiosamente, in Georgia la destalinizzazione di Kruscev assunse un carattere del
tutto particolare perché si accompagnò ad una campagna di veri e propri insulti al
Paese in quanto tale, alla sua gente ed alla sua cultura, e si motivarono le atrocità di
Stalin anche colle sue origini georgiane: le proteste contro Kruscev per l’onore e
l’identità nazionali offesi furono così accese che in quelle scoppiate il 9 marzo 1956
(pochissimi giorni dopo la lettura del famoso ‘Rapporto segreto’ al XX Congresso
del P.C.U.S.) in occasione del terzo anniversario della morte di Stalin si contarono
150 morti e 300 feriti (!) soprattutto fra gli studenti georgiani.
Una simile repressione fu tuttavia un errore perché incrinò e minò seriamente nella
società georgiana la condivisione dell’ideologia comunista.
I fatti del marzo 1956 segnarono poi soprattutto la rinascita del patriottismo e del
nazionalismo georgiano i cui leaders furono Zviad Gamsakhurdia e Merab Kostava;
questa rinascita, una volta messa in moto, non si potè più fermare e continuò con un
crescendo di affermazioni di ritrovata identità.
Oltretutto, l’allentamento dei vincoli sotto Kruscev permetteva ai funzionari di partito
georgiani di organizzarsi su base regionale e tale (relativa) autonomia era
accompagnata da un sensibile risveglio economico fondato su iniziative privatistiche
che venivano tollerate in una sorta di ‘zona grigia’ dell’economia: in questo modo si
diffuse però anche la corruzione che raggiunse dimensioni che ben presto non
poterono più essere tollerate.
Dal 1964 al 1972 il nuovo ministro dell’Interno del Paese, Eduard Schevardnadze,
lottò vittoriosamente contro il malaffare (con 25mila persone arrestate fra cui 75
ufficiali del K.G.B. e 17mila militanti del partito) e col benestare di Mosca divenne
poi primo segretario fino al 1978.
La volontà russificatrice poteva però rialzare ancora la testa tanto che tentò un attacco
alla lingua georgiana perché non fosse più quella ufficiale, ma il 14 aprile 1978
dimostrazioni di strada fecero recedere il regime da questa strada e ancor oggi si
celebra questa data come il ‘giorno della lingua georgiana’ (dimenticando però che
anche gli Abkhazi avevano protestato e chiesto il rispetto della loro cultura).
III
Negli anni ’80 le difficoltà – per non dire altro – del regime sovietico erano evidenti a
tutti ed il tentativo di Gorbacev accelerò soltanto la frana rendendola
sorprendentemente pacifica.
Tuttavia, mentre ormai nascevano movimenti e partiti non-comunisti e addirittura
nazionalisti, il regime georgiano ebbe un sussulto e, con un colpo di coda, il 9 aprile
1989 a Tbilisi soppresse una manifestazione pacifica causando 20 morti, soprattutto
donne. Nella stessa U.R.S.S. vi furono proteste per un comportamento del genere ed
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il governo georgiano dovette retrocedere, ma questo fu il suo ultimo ‘errore’, quello
che gli fece perdere definitivamente quel po’ di fiducia su cui poteva ancora contare.
Mentre Mosca si dissociava apertamente dalla repressione, scioperi, arresti, assalti
alle basi sovietiche si moltiplicavano anche in tutto il Caucaso.
Il comunismo in Georgia era davvero finito.
Indipendenza e libertà
Dopo che il 17-18 novembre 1989 il governo georgiano ebbe condannato
l’annessione forzata all’U.R.S.S. del 1921, il Congresso Nazionale dal 23 al 25
maggio 1990 raccolse a Tbilisi i rappresentanti di tutti i (150!) gruppi politici
georgiani e dichiarò illegali tutti gli atti compiuti dopo il 7 maggio 1920 - cioè a
partire dal trattato con l’U.R.S.S..
Alle prime elezioni multipartitiche che si tennero l’anno seguente al crollo del Muro
di Berlino, il 28 ottobre 1990, l’indipendentista “Coalizione della Tavola Rotonda” di
Zviad Gamsakhurdia (che pure aveva abbandonato il Congresso) trionfò col 62% dei
voti.
Il 31 marzo 1991 un referendum nazionale col 98,9% dei voti si pronunciò per
l’indipendenza del Paese, sancita poi ufficialmente il 9 aprile 1991: il Soviet
Supremo (si chiamava ancora così) della Repubblica dichiarò allora ancora validi il
relativo Atto del 1918 e la Costituzione del 1921.
Nonostante tutto ciò, la Georgia era però ancora profondamente disorganizzata, senza
un esercito, con una polizia corrotta e un’amministrazione carente: difficilmente
poteva definirsi uno stato, ma, avida di libertà, si rifiutò di entrare nella
Confederazione degli Stati Indipendenti che era sorta il 21 dicembre 1991 per
cercare di tenere insieme su tutt’altre basi i Paesi dell’ex-U.R.S.S..
Nuovi e gravi problemi si affacciarono immediatamente.
La nuova dirigenza si segnalò subito per le sue posizioni intransigenti ed intolleranti
che minavano ogni possibilità di dialogo con chiunque: già nel dicembre 1990 abolì
l’autonomia dell’Ossezia del sud giudicando tale autonomia un grimaldello russo per
infiltrarsi nel Paese (e in effetti l’Ossezia del nord, con cui quella del sud vorrebbe
riunirsi, è subito al di là del confine e fa parte della Russia) ma la questione era – ed è
– ben più complessa.
Ai tempi dell’ U.R.S.S. i confini interni erano stati infatti pure formalità e così, per
es., le due Ossezie in realtà erano state unite in tutto e per tutto tranne che dal punto
di vista del confine formale. Non c’è allora da stupirsi se nel 1989, al momento dello
smembramento dell’ U.R.S.S., gli Osseti chiesero l’unificazione del loro intero
popolo in un unico Stato, ma numerosi villaggi dell’Ossezia del sud erano georgiani
e la popolazione era dunque mista, per tacere del fatto che il nuovo Stato georgiano
non voleva saperne di subire ridimensionamenti territoriali rispetto al periodo
sovietico.
Anche l’Abkhazia rivendicò la sua separazione dalla Georgia, il 25 agosto 1990
proclamò l’indipendenza e in dicembre elesse presidente Vladislav Ardzimba.
20
Fin dagli anni Trenta la storia ufficiale georgiana aveva presentato gli Abkhazi come
sopraggiunti nel XVII secolo dal Caucaso settentrionale (e gli Osseti nel XV e nel
XVI) mentre gli Abkhazi considerano invece se stessi gli indigeni che , spinti a nord
dai Kartveli (georgiani), nel XVII erano riusciti a riportare il confine sul fiume Inguri
(ancor oggi confine fra Georgia e Abkhazia). Tuttavia, al di là di una schermaglia di
questo tipo, il trauma del popolo abkhazo è che, dopo la sconfitta nelle guerre
caucasiche i Russi l’avevano deportato in massa (insieme ad altre popolazioni)
nell’Impero ottomano alterando così profondamente la composizione etnica della
regione. Quando poi il 26 maggio 1917 la Georgia aveva proclamato la sua
indipendenza, questa non comprendeva l’Abkhazia che il 31 marzo 1921 venne
addirittura dichiarata Repubblica Sovietica indipendente.
Fu il georgiano Beria che l’annesse alla Georgia dieci anni dopo.
I
Dopo mesi di tensione ed incertezza la situazione precipitò il 26 maggio 1991 quando
la Georgia elesse trionfalmente (coll’86% dei voti) presidente lo stesso Zvjad
Gamsakhurdia che si proponeva non solo di riunificare definitivamente allo Stato
anche Ossezia del sud (i cui abitanti erano per lui ‘porci indo-europei’ e le altre
popolazioni ‘ospiti ingrati’ da ‘geogianizzare’) e Abkhazia, ma anche di abolire
l’autonomia di cui avevano goduto nel periodo comunista.
E così fece.
Nel novembre dello stesso anno gli Osseti meridionali (ovviamente spalleggiati da
Mosca) si dichiararono allora indipendenti ed elessero un proprio governo e un
proprio presidente, dandosi proprie strutture statuali e addirittura uno stemma
militare, un leopardo delle nevi fra i monti del Caucaso.
E fu guerra.
Il destino degli Osseti non era certamente nelle loro mani: il mese seguente, nel
dicembre 1991, i tre presidenti slavi (di Russia, Bielorussia ed Ucraina) dell’ex
U.R.S.S. concordarono che i confini delle quindici neonate repubbliche ex-sovietiche
sarebbero dovuti rimanere immutati, senza nulla concedere a Cecenia, NgornoKarabakh … e Abkhazia ed Ossezia del sud che perdevano così tutte le autonomie
delle quali avevano goduto prima, quando erano come sciolte all’interno della ben più
vasta U.R.S.S..
Naturalmente la comunità internazionale, preoccupata e spaventata della diffusa
instabilità che una risistemazione dei confini avrebbe potuto comportare, accettò
senza fiatare, come accettò che in seguito alla guerra ben 100mila osseti del sud (una
percentuale enorme) avessero dovuto emigrare nell’Ossezia del nord e 10mila
georgiani avessero dovuto abbandonare a loro volta le loro case.
II
Il 22 dicembre 1991 a Tbilisi
un assalto contro Gamsakhurdia,
fallito
completamente il suo tentativo autoritario e nazionalista nonostante nel maggio 1991
21
avesse ottenuto l’87% alle elezioni presidenziali, portò alla “Guerra di Tbilisi” che,
combattuta nella città anche con l’artiglieria, si concluse con la fuga del presidente il
6 gennaio 1992 e con la proclamazione da parte del Comitato Militare degli Insorti
del suo successore, il ben più sperimentato ex-ministro degli esteri di Gorbacev,
Eduard Schevardnadze.
Ma i problemi ‘interni’ rimanevano acuti: se sull’ Ossezia del sud il presidente russo
Eltsin e Schevardnadze il 28 giugno 1992 riuscirono a raggiungere un armistizio che
congelava la situazione sotto il controllo di forze miste di interposizione, con
l’Abkhazia invece le cose si complicarono e la guerra che seguì fu terribile.
In seguito al rapimento da parte abkhaza di personale politico georgiano ed al rifiuto
di rilasciarlo, il 14 agosto 1992 la regione venne invasa da 5mila guardie nazionali
georgiane che attraversarono l’Inguri e da forze anfibie che sbarcarono sulla costa.
Ogni possibilità di dialogo svaniva definitivamente. Il comandante georgiano Giorgi
Karkarashvili undici giorni dopo dichiarava infatti:
“Siamo pronti a sacrificare 100mila georgiani per annientare 97mila abkhazi.
Lasceremo l’intera nazione abkhaza senza discendenti”.
Era un’esagerazione, ma un simile discorso (che non fu certo l’unico) venne fatto ad
una popolazione che conservava ancora nella sua memoria collettiva il trauma delle
deportazioni del 1864 e del 1877 che l’avevano dimezzata e che aveva dovuto
assistere all’abolizione dell’ autonomia di cui godeva dal 1930: violenze, brutalità e
minacce di genocidio furono comunque molte e molto diffuse, mentre la distruzione
della Biblioteca Nazionale e degli Archivi di Stato significarono la precisa volontà di
annientamento dell’identità abkhaza.
La reazione non si fece comunque attendere: l’Abkhazia seppe reagire con prontezza
all’invasione e fu subito difesa da migliaia di volontari provenienti dal Caucaso
settentrionale e, soprattutto, dai russi (ancora presenti nella base militare di Gadauta)
che, duramente sconfitti gli indisciplinati, mal comandati e disorganizzati invasori
(14mila morti!), in mezzo a devastazioni spaventose, vendette e ritorsioni, il 27
settembre 1993 cacciarono le truppe georgiane insieme ai 3/5 della popolazione 300mila fra georgiani, greci e armeni - al di là del fiume Enguri, di fatto ora confine
fra stati. Il cessate il fuoco fu poi firmato a Mosca il 14 aprile 1994.
Ancora oggi i numerosi campi profughi, con le loro casette prefabbricate, tutte
uguali e dai tetti rossi, ospitano i rifugiati e testimoniano la pulizia etnica subita dai
georgiani.
L’intera situazione è paradossale: in Abkhazia la popolazione abkhaza era il 17% del
totale nella regione (!), ma voleva ugualmente l’indipendenza; la totalitaria U.R.S.S.,
assicurandone l’autonomia, era stata in grado di esercitare un maggiore rispetto per la
cultura e civiltà abkhaze rispetto a quanto aveva fatto la democratica Georgia; i
georgiani nella regione erano la maggioranza relativa col 46% della popolazione, ma
dovettero invaderla con le armi; i Russi erano stati i precedenti sterminatori e
deportatori degli Abkhazi, ma ora ne erano gli amati protettori, visto che il ruolo
oppressore e genocida era ora esercitato dei Georgiani.
Questa guerra ha segnato poi una svolta nella politica georgiana: anche se
Schevardnadze per salvare il suo Paese aveva dovuto accettare di entrare nella C.I.S.,
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la rottura con la Russia era ormai irreparabile ed il Paese si volse ad Ovest, verso gli
U.S.A., con cui a partire da 1996 i rapporti divennero sempre più stretti finchè nel
2001 gli statunitensi rimpiazzarono i russi nell’addestramento e nella cooperazione
militari.
Per quel che riguarda l’Abkhazia, poi, anche qui il solco appare incolmabile e la
Russia – la cui flotta fra non molto dovrà lasciare l’ucraina Sebastopoli e che ha
dunque bisogno di punti d’appoggio sul mar Nero - ha ormai sotto controllo la
regione che ne chiede la protezione, ma a sedici anni dalla fine della guerra i segni
della devastazione sono ancora numerosi nella loro triste evidenza.
III
Nella Georgia del sud-ovest, infine, la repubblica autonoma di Ajaria era sotto il
dominio di Aslan Abashide – e rimase in tale stato fino al 2004 quando venne
riassorbita pacificamente.
In Georgia le rivolte osseta ed abkhaza erano (e sono) viste come manovre di Mosca
e ciò impedisce di prendere sul serio le loro richieste: ora, se è senz’altro vero che,
oltre alla volontà di controllare i propri confini e semmai di allargarli, la Russia,
sotto sfratto nella Crimea ucraina, ha bisogno di basi sul mar Nero e in questo senso
l’Abkhazia è veramente strategica, rimane però il fatto che essa si inserisce soltanto
in conflitti veri che hanno radici autonome nella oggettiva situazione caucasica.
IV
Schevardnadze venne rieletto nel 1992, nel 1995 e nel 2000, ma fu sempre sospettato
di brogli e, più in generale, accusato – giustamente - di corruzione: si avvicinò agli
U.S.A. (fino a dichiarare di voler entrare nella N.A.T.O. e nella U.E.) come
contrappeso ai cattivi rapporti con la Russia (che, fra l’altro, lo accusava di aiutare i
ribelli ceceni) non migliorati nemmeno dopo l’ingresso della Georgia nella C.S.I. nel
1994.
Abkhazia e Ossezia del sud non riconoscevano (né riconoscono) la Georgia e nel
1998 e nel 2001 nuovi scontri con l’Abkhazia significarono nuove ondate di
rifugiati georgiani (magari di coloro che erano riusciti a tornare).
Dopo anni in cui la guerra era congelata ma non risolta, anni di tensioni e di
instabilità, nel 2003 con quella che fu chiamata ‘Rivoluzione delle Rose’
Schevardnadze, che pure il 2 novembre aveva appena vinto le elezioni, venne travolto
da massicce manifestazioni di protesta e allontanato definitivamente dal potere.
Alle elezioni del 4 gennaio 2004 col 96% dei voti venne trionfalmente eletto
presidente Mikhail Saakhasvili, un giovane che aveva studiato negli U.S.A. e di cui
godeva l’aperto appoggio.
Agendo con decisione Saakhasvili lanciò un ultimatum all’Ajaria costringendo alla
fuga Abashide, il padre-padrone della regione che venne così reintegrata nella
compagine statale, ma – ripresi i progetti ‘unionisti’ – anche con terzo presidente nel
2008 sarà guerra (e per la terza volta) colle regioni separatiste.
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Questa volta tuttavia le ragioni del conflitto sono state ancora più grandi e complesse.
Fin dal 2004 infatti col nuovo presidente la Georgia, decuplicando le spese militari,
aveva intrapreso un massiccio programma di riarmo assistita dagli U.S.A. di Bush
(che aveva proclamato il Caucaso zona di ‘interesse nazionale’!) in vista di un suo
ingresso nella N.A.T.O. (caldeggiato ed appoggiato, ancora una volta, dagli U.S.A.
ma provvidamente bloccato dalla U.E.): la Russia, allora, allarmata, aveva bloccato il
commercio col Paese e interrotto le forniture di gas e petrolio, e la Georgia aveva
risposto esaltando il suo nazionalismo ed elencando la lunga lista dei soprusi subiti.
La tensione, insomma, cresceva, riguardava ormai la collocazione complessiva ed il
nuovo ruolo internazionale del Paese e non poteva che acuire i problemi coi filorussi
Osseti del sud ed Abkhazi che rivendicavano la loro indipendenza dalla Georgia ma
non dalla Russia, giudicata amica e protettrice (e che era ancora presente con le sue
basi militari ‘contingente di pace’). Essi puntavano alla ricongiunzione con essa
(come l’Ossezia del nord che ha continuato a farne parte e che è dall’altra parte di
un confine che per gli Osseti del sud è un’assurdità che taglia in due un popolo).
Nel 2006 i centomila osseti del sud con un referendum popolare ribadirono la propria
scelta per l’ indipendenza. La Russia li proteggeva.
E nel 2008 – come abbiamo visto in apertura - sarà ancora guerra.
V
Ad uno sguardo complessivo la situazione georgiana appare comunque solo un
aspetto del più generale e complicato assetto del Caucaso dopo e a causa del crollo
dell’U.R.S.S.: il progressivo vuoto di potere creatosi con lo sfaldamento del vasto
impero ha infatti fatto sì che le èlites locali, affermatesi sempre più fin dai tempi di
Breznev, potessero impadronirsi del potere e sostituissero alla vuota retorica
socialista il credo nazionalista.
In realtà l’U.R.S.S. aveva avuto le sue responsabilità in questa rinascita nazionalista
perché la sua visione ufficiale della storia riconosceva – e si basava! – sul carattere
originale e particolare delle sue repubbliche e regioni autonome: le storiografie e le
stesse culture nazionali erano state incoraggiate ed anzi a volte perfino create (!) nel
tentativo di rafforzare l’U.R.S.S. stessa che voleva presentarsi come protettrice e
promotrice di popoli e nazioni. Si arrivò al punto che per legittimare le entità
territoriali funzionali all’U.R.S.S. la storia venne riscritta o scritta ex novo.
L’ideologia sovietica prevedeva tuttavia che ogni particolarismo – per il momento
necessariamente riconosciuto ed incoraggiato per rafforzare la coesione interna - si
sarebbe comunque progressivamente affievolito in una crescente integrazione e
fusione nel comune stato dei lavoratori.
Accadde invece l’esatto contrario perché la rigida struttura sovietica - che sviluppava
le nazionalità ma reprimeva il nazionalismo - lungi dall’essere ‘melting pot’divenne
invece incubatrice di nuove nazioni.
La perestroika e la glasnost di Gorbacev nei secondi anni Ottanta aprirono crepe
enormi nella diga sovietica che si sbriciolò fino a crollare completamente, ma la
transizione era stata troppo improvvisa ed inaspettata perché il complicato intreccio
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dei popoli del Caucaso potesse trovare una sua definizione accettabile in un sistema
di stati e confini soddisfacenti per tutti (o quasi): le partizioni territoriali all’interno
dell’U.R.S.S. non riflettevano (ammesso che ciò sia mai possibile) i confini su base
etnica (ammesso pure che esistano) ma l’improvviso vuoto ideologico fu riempito da
concetti occidentali (come il nazionalismo, appunto) che agirono senza controllo in
realtà molto differenti da quelle europee dove gli assetti territoriali erano il frutto di
storie e lotte secolari. Fu così che le precedenti tensioni all’interno di uno stato
(l’U.R.S.S.) divennero conflitti insanabili fra stati (Armenia contro Azerbajan per
il Ngorno-Karabakh, le due guerre fra Russia e Cecenia, altre minori) con diffuse
mobilitazioni su base etnica che ancor oggi (gennaio 2010) sembra siano ben lungi
da una loro conclusione e definizione - come del resto l’intera situazione nel
Caucaso.
Come se non bastasse, sulle spalle dei combattenti pesano ancora eventi terribili e
devastanti, veri traumi nella psiche dei popoli, come il genocidio degli Armeni, le
deportazioni subite dagli Abkhazi dopo le fallite resistenze antirusse del 1864 e del
1877 (che più che dimezzarono la popolazione), la deportazione dei Ceceni nel 1944:
queste ferite non si sono mai veramente cicatrizzate e giacciono sul fondo della
coscienza collettiva pronte a riaprirsi e a generare passioni potenti – e violente.
VI
Comunque, col solito senno del poi, il 14 agosto 2007, quindicesimo anniversario
dell’invasione georgiana dell’Abkhazia, Schevardnadze ha riconosciuto apertamente
l’errore commesso e se ne è assunta la responsabilità: piuttosto diversa è stata invece
la spiegazione di Saakashvili che nel novembre 2008 ha ammesso di aver attaccato
per primo l’Ossezia del sud ma di averlo fatto per reagire alla pressione russa sul
confine. Mentre poi il vicepresidente statunitense Biden il 23 luglio 2009 si recava a
Tbilisi per riconfermare il sostegno (comunque meno convinto di quello della
precedente amministrazione Bush) degli U.S.A., la U.E. se la cavava colla (solita)
‘equidistanza’ affermando che aveva sbagliato sia Saakashvili ad attaccare
l’Abkhazia sia la Russia a reagire in modo così spropositato.
Oleodotti e gasdotti
I problemi di nazioni come la Georgia (tutto sommato patria di un popolo poco
numeroso), per tacere degli Osseti del sud e degli Abkhazi (che contano una
popolazione complessiva pari a quella di una media città italiana), potrebbero
sembrare trascurabili una volta collocati nel quadro politico internazionale, ma non è
così, perché oggi proprio in quelle terre si sta giocando una partita
importantissima e forse decisiva per tutto l’Occidente e per i suoi rapporti con la
Russia – partita riassumibile come segue.
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Un secolo fa Baku produceva la metà del petrolio del globo e per tutto il periodo
comunista lo fece all’interno e per l’U.R.S.S. di cui era parte, ma col crollo di
quest’ultima e colla conseguente indipendenza dei Paesi del Caucaso e dell’Asia
centrale è iniziata una vera e propria competizione internazionale per questo nuovo
El Dorado (che comprende anche l’ancor più importante Kazakhstan) e questa nuova
ed improvvisa corsa al petrolio ed al gas del Caspio è chiaramente una questione di
importanza planetaria: ancora una volta i Grandi si affrontano in questo cruciale e
decisivo crocevia fra Asia ed Europa.
Si parla ormai apertamente di un ‘nuovo grande gioco’, ancor oggi in pieno
svolgimento, fra U.S.A., Europa, Russia, Turchia, Iran e Cina per aprire – in
sicurezza! - il Caspio al mondo.
Col crollo dell’U.R.S.S. la globalizzazione ha fatto insomma potentemente irruzione
sul Caucaso: soprattutto in Azerbajan ed in Georgia è la storia stessa a cambiare,
dato che questi Paesi, già piccole e lontane province, diventano ora centrali e
strategici negli equilibri mondiali fra le grandi potenze le quali, fra l’altro, trovano
ottime occasioni di intervento nelle vicissitudini degli scontri delle minoranze
etniche di questi popoli, facendo loro assumere di conseguenza un peso ed un rilievo
spropositati.
Ancora una volta la Georgia (e non solo lei) è Paese di frontiera – e che frontiera!
Mentre per i Paesi consumatori è di primaria importanza diversificare le fonti di
approvvigionamento e le loro vie di trasporto; ora che anche Cina ed India (e non
solo loro) chiedono sempre più metano e petrolio e che la Russia di Putin ha saputo
risollevarsi dalla prostrazione precedente proprio grazie ai prezzi in ascesa di petrolio
e gas di cui è anch’essa tanto ricca; si è scatenata una nuova lotta fra Russia e
U.S.A. (soprattutto) che, anche se non sembra più affrontata con le armi in pugno,
appare nondimeno altrettanto combattuta.
I suoi termini sono i seguenti.
Gli ex-dirigenti dell’ ex- P.C.U.S. (ora eletti ‘democraticamente’) cercano di riportare
Asia centrale e Caucaso nell’orbita russa – ammesso che ne siano mai davvero usciti
- e vogliono e devono rafforzare l’influenza della Russia ai suoi confini (ed in questo
contesto anche le tremende guerre cecene assumono il loro significato più vero); essi
poi vogliono e devono legare a sé l’Europa tramite le forniture energetiche.
Dall’altra parte gli U.S.A. vogliono e devono contenere in tutti i modi la Russia e così
fanno di tutto per toglierle il controllo dei piccoli Paesi caucasici premendo per
integrarli direttamente con l’Europa anche tramite gasdotti e oleodotti che evitino di
passare attraverso la Russia (e l’Iran! E’in questo contesto che vanno visti anche gli
interventi degli U.S.A. in Iraq ed in Afghanistan - per circondare e bloccare
appunto l’Iran!): il sostegno americano alla Georgia è quindi ovvio e scontato.
Più precisamente i punti di scontro sono due e strettamente collegati:
1) chi deve estrarre gas e petrolio e 2) chi deve trasportarlo e per che strada.
Ora, le vie sulle quali far passare il gas ed il petrolio del Caspio verso occidente
sembrerebbero sostanzialmente queste:
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- la prima e più ovvia è quella di potenziare il sistema (già esistente) ex-sovietico
che attraversa la Russia e arriva fino a Novorossiysk sul mar Nero (via
‘settentrionale’);
- una seconda può arrivare fino al golfo Persico attraversando l’Iran (via
‘meridionale’);
ma ambedue hanno il grave svantaggio di non essere considerate sicure (per
l’Occidente) o di mettere i compratori nelle mani di potenze, Russia ed Iran, delle
quali l’Occidente stesso teme il potere troppo condizionante.
Si è così pensato ad una via ‘occidentale’ che attraversi solo Paesi giudicati amici e
fidati e cioè:
- oltre l’oleodotto (100mila barili al giorno) che, ultimato nel 2001, da Baku
(sulla costa azera sul Caspio) raggiunge Supsa (a sud di Poti, sulla costa
georgiana del mar Nero),
- nel settembre 1994 la Compagnia Petrolifera di Stato Azera (S.O.C.A.R.) ha
firmato il ‘contratto del secolo’ con un consorzio di compagnie petrolifere
guidate dalla B.P. dando vita all’A.I.O.C. (Azer International Operating
Company) che il 18 settembre 2002 ha dato avvio alla costruzione di un altro
oleodotto (per 1 milione di barili al giorno) che, partendo sempre da Baku, via
Tbilisi raggiunge dopo 1760 km. Ceyan (sulla costa turca del Mediterraneo)
permettendo anche l’invio del petrolio irakeno. Nel 2005 la costruzione di tale
oleodotto è stata portata a termine con successo.
In ambedue i casi la Georgia è diventata così una delle nuove vie di transito
attraverso cui greggio e metano arrivano ed arriveranno sempre più nel Mediterraneo
ed in Europa dai lontani e ricchi giacimenti asiatici, azeri, turkmeni e kazakhi:
l’importanza sua e di Paesi come questo è dunque evidente, come anche il fatto che il
loro destino sfugge sempre più dalle loro stesse mani.
Tutte queste nuove vie di transito energetico evitano completamente la Russia ed i
suoi giacimenti bypassandone impianti, infrastrutture e territorio, così che il colpo è
evidentemente insopportabile per quest’ultima, essa stessa formidabile rifornitrice di
gas e petrolio attraverso i quali, oltre ad arricchirsi, mira a legare a sè l’intera Europa:
essa ha così reagito con decisione agendo su due direttrici.
Innanzitutto tentando - come si diceva - di tenere l’intera area centroasiatica sotto
controllo come ai tempi dell’Impero zarista o, ancor più, dell’ U.R.S.S..
Questo gioco è pericoloso e complicato anche perchè, come se non bastasse, oltre a
cercare di gestire oleodotti e gasdotti dell’Asia centrale ed i loro terminali, la Russia
deve parare anche il colpo dello – strettamente collegato - ingresso di Ucraina e
Polonia nella N.A.T.O. ed impedire quello della Georgia (ed ecco come i casi
dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia divengono cruciali e si inseriscono in un
gioco estremamente più grande e complesso).
In secondo luogo avvolgendo l’Europa stessa nella tenaglia dei suoi propri gasdotti
ed oleodotti:
- perfezionato l’accordo con Serbia e Bulgaria, il ‘South Stream’ (che vede la
collaborazione dell’Eni con Gazprom) nel 2015 dovrebbe partire da Dzhubga,
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sul mar Nero russo, passarci sotto fino alla sponda opposta a Burgas in
Bulgaria e da qui proseguire alla volta dell’ Europa occidentale, mentre
- il ‘North stream’ (che vede la collaborazione della francese Gdf Suez e della
tedesca E.On. con Gazprom) dovrebbe garantire i rifornimenti di gas russo in
Germania via Baltico, connettendo con un audace gasdotto sottomarino
Vyborg (presso San Pietroburgo) con Greifswald (nel Meclemburgo).
In ambedue i casi non si dovranno più attraversare le inquiete e scarsamente affidabili
(per la Russia questa volta!) Ucraina, Bielorussia, Polonia e Repubbliche Baltiche,
ma, soprattutto, i rifornimenti delle materie prime sarebbero automaticamente
garantiti e sicuri dato che chi vende, chi ha costruito i collegamenti e chi trasporta è
lo stesso attore, cioè la Russia stessa.
Ma ogni mossa ha la sua contromossa : così dagli U.S.A. è stato progettato il
‘Nabucco’ che, partendo dal Caspio, dovrebbe attraversare tutta la Turchia fino al
Mediterraneo e, coinvolgendo Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria, raggiungere
l’Europa occidentale.
Infine, l’italiana Edison sta lavorando al gasdotto sottomarino IGI fra la Grecia e la
Puglia per il metano che dovrebbe giungervi dopo aver ugualmente attraversato la
Turchia.
Come si può facilmente vedere, la partita è più che mai aperta.
Conclusione
Giunti al momento di trarre le fila di questo lungo ed articolato processo, sembra che
alcuni punti emergano con sufficiente chiarezza:
1) innanzitutto va riconosciuto al popolo georgiano la capacità, la forza e la
tenacia di rimanere se stesso e di saper preservare i suoi spirito, lingua, cultura,
religione, insomma, la sua identità nazionale, attraverso prove estremamente
dure e nonostante i suoi innegabili errori;
2) in secondo luogo la comprensione della sua storia non può mai prescindere
dalla sua collocazione di cerniera-frontiera fra potenze molto più grandi di lui;
3) dopo due secoli sotto la Russia-U.R.S.S. oggi esso è di nuovo alle prese con
questo suo destino di paese di frontiera;
4) i problemi con le sue minoranze etniche sono però di carattere endogeno anche
se amplificati nel gioco delle grandi potenze (la Russia soprattutto).
Auguriamogli dunque di poter trovare pace ed indipendenza perché finora molto
raramente nella sua storia ha potuto godere di due beni così importanti insieme,
dovendo invece spesso lottare per uno dei due a scapito dell’altro.
Sottomarina estate 2009
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Bibliografia
Giuseppe Boffa: “Storia dell’Unione Sovietica” ed. A. Mondadori, Milano 1976.
Fritjof Meyer: “Il tramonto dell’Unione Sovietica” ed. Longanesi & C., Milano 1984.
Wojciech Gòrecki: “Pianeta Caucaso” ed. B. Mondadori, Milano 2003.
Simon Sebag Montefiore: “Young Stalin” ed. Weidenfeld & Nicolson, London 2007.
Valery Silogava – Kakha Shengelia: “History of Georgia” ed. Caucasus University
Publishing House, Tbilisi 2007.
George Anchabadze: “History of Georgia – Short sketch” ed. Caucasian House,
Tbilisi 2005.
Vicken Cheterian: “War and Peace in the Caucasus” ed. Hurst & Company, London
2008.
Numerosi articoli e saggi scaricati da Intenet.