1 Lucio Gentilini L’INDIPENDENZA DELLA GEORGIA E IL DESTINO DI UN PAESE DI FRONTIERA Premessa Nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008, mentre a Pechino i Giochi Olimpici venivano aperti da celebrazioni grandiose e spettacolari, il giovane presidente georgiano Saakashvili - nonostante avesse appena chiesto ed ottenuto un cessate il fuoco per gli scontri che da giorni tormentavano l’ Ossezia del sud – affermando di essere ormai minacciato dai russi rompeva unilateralmente gli ultimi indugi e le sue truppe invadevano l’Ossezia del sud la cui capitale, Tskhinvali (una cittadina di 35mila abitanti, essendo gli Osseti solo il 3% della popolazione totale dell’intero Paese), così come tanti altri poveri villaggi, veniva bombardata per tutta la notte subendo pesanti distruzioni: il presidente dell’Ossezia del sud, Eduard Kokoity, denunciava migliaia di morti e operazioni di pulizia etnica. Tuttavia il presidente Saakashvili non aveva tenuto conto della reazione di Mosca (oltretutto, decine di soldati osservatori russi facenti parte delle forze di interposizione erano cadute sotto le sue bombe) e solo poche ore dopo l’attacco georgiano una colonna di carri armati russi entrava nel Paese e riconquistava Tskhinvali dando inizio a un nuovo round di bombardamenti. Fiumi di profughi osseti – ben 100mila! - cercavano rifugio nella confinante Ossezia del nord, al di là del confine con la Russia. Ci sono infatti due Ossezie, una del nord e una del sud, separate dalla dorsale più alta del Caucaso, a sua volta (vicino al valico di Roksk) attraversata da due tunnel, quello di Java e quello di Roki, lunghi parecchi chilometri e che le truppe georgiane non erano riuscite a raggiungere in tempo. Mentre la regione veniva strappata ai georgiani e molti erano i volontari osseti del nord - e più in generale del Caucaso del nord - che accorrevano in aiuto dei loro fratelli meridionali, il presidente Saakashvili con l’appoggio degli U.S.A. di Bush (da sempre sostenitori dell’operazione) proclamava la mobilitazione generale. L’offensiva russa era comunque solo all’inizio e già il 9 era la volta dell’aviazione che compiva raid altamente distruttivi, atti di vera e propria guerra: presa nel fuoco incrociato, la popolazione civile poteva sperare solo nella fuga e le solite colonne dei soliti profughi civili continuavano a pagare il solito conto per tutti. La manovra russa rivelava un piano evidentemente da tempo studiato ed un’azione altrettanto preordinata, ma giustificati ora con l’impellente necessità di fermare quello che veniva ufficialmente definito un ‘genocidio’: naturalmente a nulla valevano la 2 protesta statunitense che riusciva solo a balbettare che si trattava di una ‘reazione spropositata’ né, tantomeno, gli inviti al cessate il fuoco della U.E.. Come se non bastasse, il conflitto si allargava subito anche all’Abkhazia, altra regione secessionista (gli Abkhazi sono l’1,7% della popolazione totale) ed anch’essa pronta ad entrare a far parte della Russia, cosicchè anche da qui truppe russe continuavano la loro praticamente indisturbata invasione della Georgia vera e propria: i suoi confini con le due regioni secessioniste venivano oltrepassati senza problemi rivelando – seppur ce ne fosse stato ancora bisogno – che Mosca stavolta voleva risolvere il problema in modo definitivo. Com’è ovvio, lo scontro era impari e solo patetico fu l’arrivo sul campo di battaglia di mille soldati georgiani dall’Iraq (dei duemila, essendo la Georgia la terza forza, dopo U.S.A. e G.B. (!), a partecipare a quella missione). Solo il 12 agosto, dopo la disfatta georgiana, il trionfo russo e l’ennesimo fallimento di Bush, le armi poterono ormai tacere. Mentre la diplomazia internazionale era al lavoro, il presidente russo Medvedev incontrava i suoi ‘colleghi’ di Abkhazia ed Ossezia del sud – Serghei Bagapsh ed Eduard Kokoity – garantendo appoggio e difesa per la sicurezza ed integrità dei loro territori; e d’altra parte erano due anni che le loro popolazioni ricevevano direttamente il passaporto russo, che la linea ferroviaria abkhaza era stata ristrutturata a fondo dai russi e che truppe russe vi erano state fatte affluire (in violazione del precedente trattato del 1993). Inevitabili le accuse – questa volta georgiane - di pulizia etnica (atrocità e violenze venivano compiute dagli osseti nei villaggi georgiani sul confine quando per questi non c’era più alcuna possibilità di difesa, mentre Kokoity affermava categoricamente che nessun georgiano avrebbe potuto mai più risedere in Ossezia), di smembramento di uno stato sovrano e di imperialismo russo, mentre dall’altra parte piovevano analoghe accuse per atrocità esattamente dello stesso tipo, iniziavano le procedure per l’ apertura di sedi diplomatiche russe Ossezia del sud ed in Abkhazia (nella capitale Soukhoumi) e la presenza stabile di truppe russe aumentava indisturbata (7600 uomini in tutto, mentre prima della guerra erano 2500 in Abkhazia e 1000 in Ossezia del sud). Come sempre, villaggi rasi al suolo, profughi e violenze continuarono a guerra ormai finita. Nonostante il presidente della Polonia Kaczynski, accusando la Russia di imperialismo, si fosse decisamente schierato a fianco della Georgia, e, interpretando lo scontro in atto come l’inizio di una lotta di ben più vaste dimensioni contro di essa, avesse formato un “gruppo dei cinque” con Ucraina, Lettonia, Estonia e Lituania a questo scopo, il presidente di turno della U.E., il francese Nicolas Sarkozy, riuscì invece a far opera di mediazione e a far trovare un accordo provvisorio, ma solo il 15 agosto, quando i giochi erano ormai finiti e le armi russe avevano facilmente fatto ottenere a Mosca ed ai suoi alleati sudosseti ed abkhazi tutto quel che volevano - compresa l’espulsione di 20mila georgiani. Si stabilì così che truppe georgiane non sarebbero tornate nelle due regioni ribelli e che i russi avrebbero dovuto evacuare la Georgia (ma certamente non le due regioni). 3 Il 28 agosto il presidente russo Dmitri Medvedev (seguito dal Nicaragua e da Hamas a Gaza) riconosceva infine Ossezia del sud ed Abkhazia come Stati indipendenti. Ma come si era arrivati a questa conclusione? Quale retroscena c’era alle spalle di questi ultimi violenti avvenimenti? Ebbene, la risposta è che ci troviamo di fronte allo sbocco di almeno due secoli di storia ed agli effetti di tensioni dovute anche ad interessi enormi e ben più grandi dei diretti protagonisti. E non basta ancora: per afferrare davvero e appieno il senso e la dimensione degli eventi della Georgia di oggi è necessario risalire ben più indietro nel tempo per rendersi conto che la storia di questo popolo, così originale, fin dai tempi più remoti è stata caratterizzata da alcune costanti che si possono così riassumere: 1) innanzitutto, il dato fondamentale è che la Georgia si è sempre trovata stretta fra Paesi e popoli ben più forti di lei; 2) in secondo luogo, occorre ricordare che essa è sempre stata in un punto nevralgico fra Asia ed Europa, sulle vie di comunicazione che connettevano i due continenti attraverso il Caucaso; 3) così la Georgia ha sempre dovuto subire pressioni, invasioni e dominii ora dall’uno ora dall’altro dei suoi potenti vicini e a volte da più d’uno nello stesso tempo; 4) a volte ha dovuto scegliere fra di loro, altre cercare l’appoggio dell’uno contro l’altro, altre ancora approfittare della loro rivalità, in un gioco pericoloso e anche disperato dettato da avvenimenti e da circostanze spesso terribili; 4 5) tuttavia – e questo è il dato forse più stupefacente – pur in mezzo a così difficili frangenti, sballottato senza posa dai suoi avidi confinanti, martoriato da lunghissimi periodi di dominazione straniera e subendo ogni volta violenze devastanti, nonostante tutto ciò, questo piccolo grande popolo ha saputo rimanere se stesso, con un suo volto, una sua cultura, una sua lingua, un suo alfabeto, una sua Chiesa, una sua completa identità, che nessuno è riuscito a togliergli così che oggi si presenta al mondo con un suo profilo ed un suo carattere ben definiti. Un popolo fra troppo potenti vicini Il rapporto che i Georgiani (oggi quasi 5 milioni) hanno col loro Paese è ben illustrato dal mito secondo il quale essi arrivarono in ritardo alla distribuzione delle terre ai vari popoli che Dio aveva appena concluso; il motivo era che essi si erano attardati a tavola, ma si scusarono dicendo invece che avevano brindato in onore di Dio stesso e fu così che Dio, compiaciuto per la notizia, assegnò loro le terre che aveva in realtà riservato per sé. Ci troviamo sul Caucaso centro-occidentale, in quasi 70mila kmq. di territorio – repubbliche ribelli comprese – (il 23% dell’Italia, per intenderci), affacciati sul mar Nero a ovest. La Georgia è inoltre divisa longitudinalmente in due parti uguali (orientale ed occidentale) dalla catena dei monti di Surami: geograficamente e climaticamente è poi tutt’altro che omogenea, dato che passa da vette che superano i 5mila metri e da monti dalle nevi perenni a zone pianeggianti, verdeggianti ed irrigate e, sulla costa, ad un ambiente addirittura subtropicale. I Georgiani abitano queste terre dai tempi più antichi, ma sulle loro origini esistono solo ipotesi. I Dopo che i primi regni caucasici erano stati devastati dalle incursioni di popolazioni nomadi provenienti da nord, fra il VII e il VI secolo a.C. sulle coste nordorientali del mar Nero, nell’attuale Georgia nord-occidentale, sorse il forte regno di Egrisi, conosciuto come Colchide dai Greci che dal IV secolo a.C. avevano cominciato a stabilirsi sulle coste settentrionali del mar Nero. Questi furono colpiti dallo sviluppo della zona tanto da ambientarvi i miti di Prometeo e del Vello d’oro e da moltiplicarvi contatti e commerci. II Quando Alessandro Magno decise intraprese la sua favolosa impresa (333 a.C.) in realtà le sue truppe non invasero direttamente la Colchide ma, dopo le sue vittorie e le sue sterminate conquiste, vi inviò un suo generale, Azon, a prenderne possesso; la brutalità di quest’ultimo suscitò la rivolta capeggiata dal valente Farnavaz (o 5 Parnavaz) che, data anche la crisi che seguì alla morte improvvisa di Alessandro (323 a.C.), non solo riuscì liberare il Paese ma anche a riunire ad esso il regno di Kartli (o Iberia) sorto di recente nell’attuale Georgia centro-orientale. Fu questo un regno potente che conobbe il suo apogeo nel III secolo a.C.: con capitale Miskheta, esso era sulle direttrici che andavano da est ad ovest (dal mar Caspio al Nero) e da sud a nord (dall’Europa orientale all’Asia); la sua divinità principale era Armazi, dio guerriero munito di armatura e spada, ed anche dio della Luna - ben rappresentata dalle corna del bue (per questo animale sacro) - alla testa di un nutrito gruppo di divinità pagane. III Il declino del regno tuttavia arrivò abbastanza presto quando nel II secolo a.C. perse le province meridionali a favore dell’Armenia mentre a ovest il secolo seguente Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (sulla costa meridionale del mar Nero), si impadronì della Colchide e poi della stessa Armenia per avere uno scudo fra sé e la Persia. Nè Mitridate si fermò: arrivato nell’ 88 a.C. sulle coste egee dell’Asia minore, portò il suo attacco fino in Grecia entrando per questo in urto con Roma. Nonostante Greci e Georgiani si fossero schierati con lui, alla fine di tre guerre fu Roma ad uscire nettamente vincitrice e nel 66 a.C. Pompeo trasformò l’Asia minore, l’Iberia e la Colchide (incorporata nel Ponto) in vassalli. IV Ma non era così facile sottomettere i Georgiani e così quando Roma si trovò invischiata nelle lunghe ed estenuanti guerre contro il suo nuovo nemico a oriente, i Parti (la Persia), subito l’Iberia ne approfittò riuscendo ad arrivare fino al mar Nero, mentre la Colchide, pur ancora sotto i Romani, continuava a ribellarsi e a rimanere largamente incontrollabile. V Tuttavia questa volta il Paese era stretto fra Roma e la Persia e, dovendo in qualche modo scegliere, si orientò verso Roma e ne chiese direttamente l’aiuto quando all’inizio del IV secolo la pressione della nuova e dinamica dinastia iraniana dei Sasanidi si fece troppo forte: fra l’altro, ciò spinse i Georgiani ad abbracciare ufficialmente il Cristianesimo (nel 337) da tempo penetrato nel Paese al posto del vecchio paganesimo - nella parte orientale del Paese da Armenia e Siria mentre in quella occidentale grazie a Bisanzio ed ai suoi missionari. Nel 317 il re Mirian II aveva comunque già proclamato il Cristianesimo (che aveva favorito l’affermarsi di una cultura comune) religione di stato in Iberia. 6 La conversione dei Georgiani ne rafforzò l’unità mentre nel Paese si era ormai ben radicato il sistema feudale, chiaro sintomo di difesa da parte di un popolo minacciato di invasione. Tuttavia la scelta di puntare su Roma non si rivelò felice data la crisi che ormai l’ attanagliava: la Georgia dovette così affrontare prove terribili, come la conquista persiana dell’Iberia nel 364. In tutti i modi gli invasori tentarono di spezzare il nerbo degli sconfitti ma né le persecuzioni religiose, né l’invio dei suoi uomini migliori su fronti lontani, né le pesantissime tasse, né la corruzione dei feudatari nè le continue violenze subite riuscirono ad annientarli. Il Paese aveva ormai una sua identità, ben rappresentata fin dal IV secolo da un proprio alfabeto e da una propria lingua. VI Come più volte le accadrà nel corso della sua storia, la Georgia riuscirà a rialzare la testa sotto la guida del grande re dell’Iberia Vaktang Gorgasali (449-502) che si mosse con decisione e capacità sia in direzione di un necessario rafforzamento del potere centrale (contro feudatari e Chiesa) sia per la cacciata degli odiati Persiani che, sempre all’attacco, avevano intanto conquistato anche l’Armenia. Deposti i vescovi a lui avversi e favorito l’ascesa di un Catholicòs a lui favorevole a capo della Chiesa Ortodossa Autocefala Kartliana (riconosciuta autonoma nel 483 dal Patriarca di Antiochia, quindi dalla Chiesa Siriana) e combattuti i nobili a lui avversi, Vaktang approfittò delle guerre dei Persiani in Medio Oriente e riuscì così ad espellerli dal Paese: ciò non pose fine alla lotta perché i Persiani poterono tornare in forze, ma il valoroso re li affrontò fino alla morte, avvenuta proprio in battaglia. Chiamato ‘Testa di lupo’, simbolo della fierezza del suo popolo, fondatore della capitale Tbilisi, oggi la sua statua equestre si erge, imponente e maestosa, su un’ansa del fiume Mkhtvari che l’attraversa; la sua salma riposa nel complesso religioso di Svetitskhoveli sotto una smisurata pietra tombale che ne riprodurrebbe l’ altissima statura. VII All’inizio del VII il basileus di Bisanzio Eraclio sconfisse i Persiani e li cacciò dal Paese sostituendosi a loro. Come l’Armenia, anche la Georgia fino ad allora era stata monofisita, ma ora i deliberati del concilio di Calcedonia del 451 sulla presenza in Cristo delle due nature vennero accettati anche qui e la Chiesa georgiana, rompendo con quella armena, si pose a fianco di quella bizantina. Seguì poi l’edificazione di un imponente numero di monasteri (anche ben al di fuori del Paese, come a Gerusalemme, a Betlemme, in Palestina, ad Antiochia) che contribuì notevolmente alla diffusione della cultura georgiana al di là dei suoi confini. Comunque ora Bisanzio aveva preso il posto di Roma così per le popolazioni della Georgia iniziò un periodo di difficile equilibrio fra questa e la Persia e di ricerca di aiuto dell’una contro l’altra. 7 Quando però Bisanzio si accordò con la Persia col ‘Trattato senza fine’ del 532 i Georgiani non poterono più continuare in questo pericoloso e complicato gioco: l’Iberia venne infatti assegnata alla Persia (che seppe attrarre dalla sua parte molti nobili cui lasciò terre e privilegi) mentre la Colchide fu di Bisanzio. In ogni caso nonostante dovesse essere ‘senza fine’ la pace fra Persia e Bisanzio non fu certo duratura e l’Iberia non perse mai l’occasione di ribellarsi durante le alterne vicende dello scontro fra le due potenze che si concluse nel 628 con la vittoria della (comunque stremata) Bisanzio che potè così impadronirsi dell’intera Georgia. VIII Ma non c’era pace per il popolo georgiano: pochi anni trascorsero ed una nuova minaccia si profilò all’orizzonte, quella rappresentata dagli Arabi ormai partiti per la loro fantastica conquista: la Georgia tornava ad essere terreno di scontro, questa volta fra Bisanzio e , appunto, gli Arabi. L’invasione araba arrivò in Georgia a partire dal 645 e nel 697 praticamente tutto il Paese era stato sottomesso. L’iniziale tolleranza araba fra l’VIII e l’inizio del IX secolo venne sempre più sostituita dalla pretesa di imporre l’Islam: la resistenza della popolazione fu decisa come la reazione araba che procedette a distruzioni e massacri inauditi sterminando, fra l’altro, tutta la nobiltà. Tbilisi era divenuta sede dell’Emiro ma rivolte e resistenze resero problematico il controllo del Paese anche se soprattutto negli anni di Murwan il Sordo (alla pietà) alla popolazione non fu risparmiato alcuno strazio. In mezzo a questa autentica catastrofe nazionale l’unica arte e cultura che sopravisse fu quella praticata di nascosto e in clandestinità. Ancora una volta, scontri, lotte sangue e repressioni ebbero l’effetto di frantumare il Paese in regni e principati sempre più chiusi in se stessi, anche se nell’888 nel più forte di questi, quello di Tao-Klarjeti, divenne re ‘dei Georgiani’(per la prima volta con questo nome) Adarnese Bagrationi. Anche Azerbajan e Armenia presero parte agli scontri cogli Arabi che furono continui e si protrassero per secoli con tutte le devastazioni e distruzioni che comportarono; oltretutto, nel gioco sempre più complicato si erano da subito inseriti i Bizantini anche se, quando gli arabi erano ormai in declino (nell’XI secolo), a Bisanzio converrà più favorire le tendenze centrifughe dei feudatari piuttosto che quelle centripete del re. Profittando dell’indebolimento del Califfato (e di Bisanzio), il processo di unificazione politica del Paese era già però potuto iniziare già sotto Ashot I ‘il Grande’ (786 – 824), nonno di Adarnese e vero fondatore della dinastia Bagrationi, e di suo nipote Adarnaze II. IX Il regno di Georgia nacque finalmente nel 978 con Bagrat III (975 – 1014) che riuscì ad unificare larga parte del Paese la cui capitale divenne Kutaisi e, dato che 8 erano i Karti ad occuparne la parte maggiore e più importante, ‘Kartveli’ divenne il nome dei Georgiani e ‘Sakartvelo’ della Georgia. Tbilisi tuttavia, ancora al centro dei possedimenti islamici, rimaneva fuori da tale regno mentre il sud era ancora di dominio bizantino: erano ora questi territori che andavano riconquistati. X Il re Bagrat IV (1027 – 1072) riuscì a conseguire tutta una serie di successi sia contro gli Arabi che contro Bisanzio mentre il potere centrale tornava a rafforzarsi, ma – come sempre – sfumato un nemico ne compariva subito un altro e la Georgia dovette ora fronteggiare i Turchi Selgiucidi che, nettamente vittoriosi su Bisanzio, la trovarono sola davanti a tutta la loro potenza. A partire dal 1064 cominciarono le feroci invasioni, gli spietati saccheggi, le annuali e ricorrenti depredazioni: a poco o nulla servirono i tributi pagati e la sottomissione a Isfahan accettata dal re Giorgio II. I Turchi poi avevano cominciato anche ad insediarsi nel territorio del martoriato Paese – Tbilisi compresa - che ormai rischiava l’estinzione. XI Eppure, ancora una volta, in uno dei momenti più terribili della sua esistenza, la Georgia potè approfittare da una parte dell’anarchia del Impero turco dopo la morte del sultano Melik-Shah (anni ’90 del XI secolo) e , dall’altra, dell’ arrivo dei Crociati che attaccavano l’odiato invasore da ovest. E non solo: come sempre nella sua storia, il popolo georgiano seppe poi trovare al suo interno le energie per risollevarsi. Nel 1089 il re Giorgio II veniva costretto ad abdicare in favore del figlio sedicenne David IV e il giovane sovrano, energico e capace, riuscì a prendere tutta una serie di misure per rimettere in sesto il Paese sia centralizzando amministrazione ed esercito che sottomettendo e riconducendo all’ordine la nobiltà riottosa ed anche la Chiesa (di cui nel concilio di Ruisi-Urbnisi riformò alcuni statuti e le cui cariche più importanti fece diventare di nomina regia). Approfittando delle difficoltà e del declino turco, alle prese per di più coi Crociati, mosse poi decisamente contro l’odiato invasore. Pezzo per pezzo, regione per regione, uno alla volta, i Turchi furono espulsi e i territori riconquistati e ripresi fino alla decisiva battaglia di Didgori (12.08.1121), vinta con forze dieci volte inferiori (!). La Georgia era libera e unificata, bastione orientale antiturco in continua espansione nel nord del Caucaso e in Armenia, mentre tutti i titoli bizantini venivano rigettati. Dopo tanta morte e distruzione per la Georgia iniziava l’apogeo dell’ ‘età dell’oro’. L’opera del grande David IV, ‘il Costruttore’ come venne chiamato, proseguì e si infittì col favorire lo sviluppo economico, urbano, culturale, amministrativo, nè si interruppe con la sua morte (24.01.1125): la lotta contro Turchi e nobili fu continuata 9 infatti dai successori Demetrio I (1125 – 1155) e Giorgi III (1155 – 1184) in un crescendo di vittorie. Il culmine del successo fu toccato dalla regina Tamar (1184-1213) - prima donna a regnare sulla Georgia ma che i Georgiani chiamarono comunque ‘re’ , raffigurarono sempre in abiti maschili e infine definirono ‘Re dei Re’ nelle iscrizioni - sotto cui raggiunse la sua massima espansione territoriale. Il (la) grande re(gina) continuò a lottare contro i Turchi sia respingendoli che inseguendoli fino alla loro disfatta definitiva nella battaglia di Basiani (1202). I Turchi erano espulsi anche dall’Armenia che veniva annessa al regno e la Georgia si dispiegava dal mar Nero al mar Caspio. Questa età aurea della Georgia, promessa di pace e sviluppo, libertà e indipendenza dopo tanti secoli di oppressione e dolore, fu facilitata anche dal fatto che l’altro suo grande vicino, Bisanzio, nel 1204 crollava nella quarta crociata e subiva lo spaventoso sacco ad opera dei Crociati stessi: nonostante avesse appoggiato questa crociata, Tamar favorì però la nascita del confinante Impero greco-georgiano di Trebisonda e si riavvicinò ai bizantini, considerandosi sempre protettrice della cristianità orientale. La Georgia ora poteva affermarsi ora grande potenza, antemurale antiturco della cristianità orientale. Come sempre, questa fu anche un’epoca di sviluppo culturale (grazie anche ai vari influssi bizantini, arabi, iraniani ed occidentali) che trovò in Shota Rustaveli (l’autore del capolavoro “Il cavaliere nella pelle di pantera”) la sua massima espressione. Anche se la cultura (e il destino) della Georgia erano comunque sempre dipesi dalla sua posizione di crocevia fra Europa ed Asia, dal suo confinare con grandi e potenti imperi, in realtà l’influsso che si faceva sentire sul Paese era però soprattutto quello bizantino (notevole soprattutto in campo pittorico), della cui periferia orientale faceva parte insieme a Medio Oriente, Armenia, Cappadocia e perfino Egitto, Nubia ed Etiopia. Nella scultura era evidente invece l’influsso dell’Iran dei Sasanidi. Il regno di Tamar verrà considerato il più glorioso della storia della Georgia e la sua figura venne esaltata sia in vita che dopo la sua scomparsa. Come anche David IV, anche Tamar è stata santificata dalla Chiesa Ortodossa Georgiana. XII Ma per la Georgia questo periodo durerà davvero poco: già sotto il figlio Giorgio IV Lasha essa fu rovinosamente sconfitta per due volte dai Mongoli nel 1221 e dovette subirne l’invasione; particolarmente violenta e distruttiva fu l’infernale devastazione di Tbilisi il 9 marzo 1226, seguita da riscosse e nuove aggressioni in un crescendo di tanta violenza che il nuovo re Resudan preferì darla alle fiamme alla notizia dell’ennesimo arrivo dei Mongoli (!). Nuovamente di fatto disgregata in una serie di piccoli principati dopo sette anni di ripetute invasioni, la Georgia – il cui regno non era stato comunque abolito - divenne pagatrice di pesanti tasse e fornitrice di armati, eppure le rivolte – e le conseguenti 10 repressioni - non cessavano, anzi si ripetevano con terribile frequenza: esse testimoniavano il carattere indomito del popolo georgiano, ma dopo un secolo di questa storia il Paese era tuttavia prostrato e, come se non bastasse, meta delle rinnovate ‘attenzioni’ della Persia e dell’Impero Ottomano. XIII Ancora una volta tuttavia questo incredibile popolo seppe trovare nelle sue fibre l’energia e la determinazione necessarie: sotto la guida di un grande re, Giorgio V ‘il Brillante’ (1314 -1346), esso riuscì ad emergere dal caos e dalla rovina, risollevarsi, riunificare il Paese, ricomporsi e nel 1335 cacciare i Mongoli agitati intanto da lotte intestine. Ancora un successo eclatante, ancora una fuoruscita dall’incubo … ma ancora un sogno di breve durata. XIV A partire dal 1386 ben otto furono infatti le feroci invasioni di Tamerlano e la storia si ripetè ancora una volta con monotona disperazione: rivolte, resistenze estreme, distruzioni e stragi. L’improvvisa ed insperata morte di Tamerlano nel 1405 diede un qualche respiro all’esausto popolo, date anche le gesta del capace re Alessandro I il Grande (1421 – 1442) e del figlio Giorgi VIII (1446 – 1466), ma ormai il nord Caucaso era in mani islamiche e – dopo che nel 1453 Bisanzio cadde nelle mani dei Turchi Ottomani e che nel 1461 fu la volta anche dell’Impero di Trebisonda, la Georgia si trovò completamente circondata, isola cristiana nel mare mussulmano ormai lontana e separata dall’Europa. La Georgia non esisteva quasi più, esausta e divisa fra più o meno estesi territori stretti nel gioco turco-persiano come Kakheti (est), Imereti (nord-ovest), Samtskhe-Atabagate (sud-ovest), Kartli (centro), per citare i ‘maggiori’. Ancora una volta non si contano le invasioni e le incursioni, le lotte e le resistenze, i temporanei miglioramenti e le crudeli ricadute, mentre all’interno regnava inevitabilmente l’anarchia feudale. Per dare un’idea della situazione, solo nel XVI secolo il solo regno di Kartli dovette sostenere 14 guerre contro la Persia, 11 contro la Turchia ma ben 13 contro altri regni georgiani (!). Inutile fu sperare di poter approfittare della rivalità turco-persiana: col trattato di Amasya (1555) le due potenze si divisero la Georgia (est e ovest) e a quest’ultima non rimase che continuare a resistere e a portare avanti una coraggiosa guerriglia. Gli scontri non finivano mai perché, nonostante le due parti della Georgia fossero diventate vassalle dei due troppo potenti vicini, pure non cessava la loro aspirazione all’indipendenza. Non si contano le invasioni, le distruzioni, la partecipazione dei georgiani alle guerre nell’esercito persiano (in Afghanistan), la vendita di tanti 11 georgiani sui mercati degli schiavi … ma anche le guerre interne fra i vari stati georgiani. Le condizioni del Paese erano a dir poco deplorevoli. Nella Russia Sul finire del Seicento una nuova potenza, così come in Europa, si era affacciata anche sul Caucaso, la Russia di Pietro I il Grande e l’espansionismo russo, ormai avviato in tutte le direzioni, era destinato a cambiare la situazione europea e asiatica, Caucaso compreso. Fu così che, iniziata da tempo la spinta russa a travalicare i propri confini, fin dal 1722 operazioni congiunte russo-georgiane vennero condotte contro Persia e Turchia: anche se queste furono complicate ed anche contraddittorie (per es. col repentino abbandono russo delle operazioni) e non sortirono gli effetti desiderati, nondimeno testimoniavano che un nuovo soggetto era comparso sulla scena. I In Georgia l’interminabile serie di invasioni, distruzioni, devastazioni, stragi e quant’altro avevano naturalmente bloccato lo sviluppo cittadino, colpito duramente l’economia, impedito lo sviluppo e parcellizzato il Paese, facendo sì che il feudalesimo si mantenesse ben più a lungo di quanto sarebbe stato normale, tuttavia nel 1744 Teimuraz II divenne re di Kartli e mise suo figlio Erekle II sul trono di Kakheti dando inizio alla ricostruzione dei due regni ora strettamente alleati. Il momento opportuno si presentò nel 1747, quando lo shah Nadir fu assassinato in una cospirazione e scoppiò una lotta interna alla Persia stessa che portò alla sua temporanea disintegrazione: il regno di Kartli e Kakheti non sprecò l’occasione e riuscì ad affrancarsi ed a liberarsi. La Georgia orientale era ora unita e indipendente sotto Erekle II (rimasto solo dopo la morte del padre ne1762). E l’esempio fu contagioso: subito ad ovest, nel regno di Imereti, il re Solomon I (1752 – 1784) iniziò una nuova lotta contro i Turchi e la loro odiosa tratta degli schiavi riuscendo a rendere infruttuosi i tentativi di invasione ottomani. Fu poi giocoforza per Erecle II e Solomon I sostenere la Russia di Caterina II nella sua guerra contro la Turchia (1768 – 1774) ma – e non era la prima volta – vennero traditi dal trattato che le due potenze strinsero fra loro e che riconsegnava la Georgia occidentale ai Turchi. Proprio nel 1774 la Russia poteva però annettersi l’Ossezia e questa annessione fu largamente pacifica e consensuale. Gli Osseti saranno – e sono – sempre dalla parte dei Russi, sia al tempo dello zarismo che del comunismo ed oggi della Federazione Russa. 12 II La storia della Georgia diveniva invece duale con la sua parte orientale indipendente (Kartli-Kakheti) e in ripresa in tutti i settori (grazie anche alla decomposizione dell’antiquato sistema feudale), ma negli anni ’80 del XVIII secolo anch’essa dovette subire nuove invasioni, questa volta ad opera del feroce Daghestan (dal nord-est) che ne svuotò intere regioni. Fu inevitabile che Erekle II cercasse ancora una volta la protezione russa - e la ottenne: in base al trattato di Georgievsk del 24 luglio 1783 la Russia stabiliva il suo protettorato sulla parte centro-orientale del Paese che ne aveva invocato il sostegno; la dinastia Bagrationi veniva mantenuta sul trono e il Paese avrebbe goduto di autonomia interna, ma la sua politica estera sarebbe stata diretta dalla Russia che aveva anche diritto di essere aiutata in caso di necessità. La risposta mussulmana fu la furiosa invasione del 1785 che vide l’ulteriore ritiro russo e l’abbandono dei georgiani a se stessi, mentre, come se non bastasse, la Persia aveva intanto risolto i suoi problemi interni e nel 1795 poteva invadere ancora una volta la Transcaucasia: il 12 settembre Tbilisi veniva occupata (ancora una volta!) e subiva una delle distruzioni più terribili della sua storia. I Georgiani erano stati dalla parte della zarina Caterina II nella sua marcia espansionistica ed avevano combattuto con lei nelle ripetute guerre contro la Turchia ma non poterono mai raccogliere i frutti sperati dalle loro vittorie dato che erano pur sempre una semplice pedina nel gioco russo che prima ed innanzitutto pensava ai propri interessi ed equilibri. Nel complesso e difficile gioco russo-turco-persiano la Georgia non poteva tuttavia che essere dalla parte dei primi mentre il Settecento arrivava anche sul Caucaso col suo sviluppo economico, commerciale ed anche culturale. Nel 1798 Erekle II moriva e il successore Giorgio XII riusciva ad ottenere che i Russi ancora una volta tornassero nel Paese e finalmente lo ‘liberassero’, ma in seguito alla richiesta di rinnovare il trattato di Georgievsk, il 18 gennaio 1801 lo zar Alessandro I abolì ed annesse invece il regno di Kartli-Kakheti. La stessa sorte toccò poi al resto del Paese, la Georgia occidentale, quando - dopo mezzo secolo di penetrazioni ed annessioni - in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, la Russia cercò ed ottenne compensi sul Caucaso (e nei Balcani). Tuttavia, seppur sottomessa, dopo l’ulteriore guerra russa contro la Turchia la Georgia si vide in qualche modo restituire territori persi da secoli. III L’ingresso della Georgia nella compagine dell’Impero russo segnò indubbiamente una svolta importante e decisiva nella storia del Paese e va valutata con attenzione. La Georgia era finalmente unita dopo secoli di divisioni; finalmente cessavano sia le interminabili ed insopportabili invasioni islamiche - turche e persiane - che le lotte tanto disgregatrici sia fra i vari regni sia dei re contro i feudatari; il Paese era 13 finalmente in pace (condizione più unica che rara) e un certo sviluppo tanto economico quanto culturale poteva infine prendere il via. Tuttavia la Georgia era diventata una colonia in più dello strano Impero russo – un Impero che da due secoli aveva iniziato ad espandersi allargando i suoi confini ed inglobando sempre più popoli e paesi - cosìcchè ora anch’essa pagava pace e unità, protezione e sicurezza, con la perdita di libertà e indipendenza. Anche qui l’autocrazia zarista impose la sua consueta politica di russificazione sociale, culturale e (colla sottomissione della Chiesa ortodossa georgiana a quella russa) religiosa, mentre quella economica era in mani prevalentemente armene. Anche in Georgia la lingua russa venne imposta come l’unica ufficiale ed anche qui tutto ciò che non era russo veniva disprezzato e discriminato: ancora oggi in numerose chiese georgiane si può vedere che le pareti interne erano state ricoperte di bianco per cancellarne gli affreschi originali in attesa di sostituirli con altri in stile russo – cosa che, tuttavia, non avvenne mai. Né la Russia cessava la sua avanzata in Transcaucasia e finì coll’occupare anche Azebajan ed Armenia: essa combattè così guerre sia contro la Persia (1804 – 13, 1826- 28) che la Turchia (1806 – 12, 1828 – 29, 1875 – 76) di cui ora anche la Georgia dovette portare il peso economico, fiscale e - dato il coinvolgimento di tanti suoi soldati nell’esercito zarista – anche militare. Comunque, anche grazie alla politica coloniale di insediamento di russi e di altre etnie, la popolazione aumentò, mentre la Russia riusciva ad assicurarsi la fedeltà della nobiltà georgiana inserendola nei suoi propri ranghi ed assicurandone la parità con la propria. Anche in Georgia negli anni ’60 la servitù della gleba venne abolita e l’economia venne modernizzandosi con l’introduzione di nuove produzioni manifatturiere ed industriali. L’Ottocento poi arrivò e si fece sentire anche in Georgia con un deciso risveglio culturale ed artistico mentre il legame con la Russia apriva il Paese alla cultura europea. Anche in Georgia si diffusero infine aspirazioni nazionaliste i cui sostenitori si raccoglievano in organizzazioni di ispirazione anche socialista e via via più radicali. E’ degno di nota che mentre in Europa la formazione delle nazioni aveva coinciso con la loro indipendenza, ad Est invece essa (come per es. in Ucraina) avvenne all’interno dell’Impero russo, nell’ambito di questa originale formazione pur così brutale, oppressiva e sfruttatrice nella sua multietnicità e multiculturalità. In Georgia così la lotta per l’indipendenza si incrociò e fuse sia con quella per la difesa della lingua e della cultura nazionale che con quella per il riscatto sociale contro lo sfruttamento padronale: in questo senso nacque un ‘primo gruppo’, un ‘secondo gruppo’ e un ‘terzo gruppo’ (del quale fece parte anche il giovane Stalin) e i Tergdaleulis di Ilia Chavchavadze, mentre i Meore Dasi di Niko Nikoladze e Giorgi Tsereteli erano piuttosto per l’affermazione della (peraltro debole) borghesia. Anche i Georgiani ebbero i loro Narodniki, quegli idealisti che dopo essere andati ‘verso il popolo’ nella sterminata campagna, essersi stabiliti colà come dottori, insegnanti, agronomi e quant’altro, constatato il fallimento di ogni tentativo di 14 emancipazione e la dura repressione poliziesca, si volsero allora al terrorismo (Narodnaya Volya). Come in tutta la Russia, nel 1905 la rivoluzione scoppiò anche in Georgia ed anche qui ottenne numerosi successi – al movimento rivoluzionario partecipò anche il giovane Stalin - finchè nel 1907 Nicola II riuscì a stroncarla. Va sottolineato che in Georgia fu il partito socialdemocratico (menscevico) a divenire la forza egemone. Infine, provincia dell’Impero russo, anche la Georgia fu trascinata nel gorgo della prima guerra mondiale ed i suoi soldati si trovarono in prima linea e combatterono soprattutto contro la Turchia sul Caucaso. E dalla guerra venne la rivoluzione. Nella rivoluzione La rivoluzione del febbraio 1917 portò al crollo dello zarismo e - mentre dappertutto nell’immenso Paese pieno di fervore ed entusiasmo sorgevano i Soviet – a Pietrogrado nasceva una Repubblica democratica multipartitica retta da un governo provvisorio. Venne così varato, fra altre mille cose, un “Comitato speciale per la Transcaucasia” o “Ozacom”, che dal 18 marzo 1917 assunse la direzione in tutto quel territorio (Georgia, Armenia ed Azerbajan) fino ad allora retto da un governatore nominato dallo zar. Il Governo provvisorio, com’è noto, non avendo valutato correttamente la situazione commise i troppi errori che otto mesi dopo gli saranno fatali: volle continuare la guerra non solo ormai persa, ma addirittura causa della rivoluzione stessa, rimandò la riforma agraria, altra causa della rivoluzione stessa, ed in genere non fu dalla parte dei lavoratori. Nonostante ciò, quando già il 26 ottobre (7 novembre per il nostro calendario) giunse a Tbilisi la notizia dell’assalto al Palazzo d’Inverno, della cacciata di Kerenskij e del suo governo provvisorio, e dell’instaurazione del governo bolscevico di Lenin, la principale forza politica georgiana, i (Social Democratici) Menscevichi denunciarono quanto avvenuto e lo rifiutarono; una settimana dopo fu così formato un Commissariato Transcaucasico che confiscò le terre in favore dei contadini e proclamò il principio dell’autodeterminazione nazionale; e dopo solo altri quattro giorni tutti i partiti, tranne i bolscevichi, parteciparono alla Conferenza Nazionale Georgiana il cui Consiglio Nazionale rinnovò l’accusa di illegittimità del governo Lenin. Ma la situazione era difficilissima se non drammatica: svoltesi le elezioni, il 10 febbraio 1918 fu convocato il Parlamento Transcaucasico la cui di gran lunga principale e maggior forza politica rimanevano sempre i (Social Democratici) Menscevichi. Ancora una volta non solo il governo Lenin non fu riconosciuto, ma il 22 aprile 1918 venne proclamata la separazione della Transcaucasia dal resto della Russia: con capitale Tbilisi il nuovo organismo politico nasceva come repubblica 15 guidata da un Parlamento (Same) di cui divenne presidente il socialdemocratico Chkeidze con due vice, uno armeno ed uno azero. Tuttavia, i veri problemi erano che non si riusciva a terminare la guerra con la Turchia né a portare avanti la riforma agraria, seppure ufficialmente varata: date anche le innumerevoli difficoltà, ristrettezze e i mille problemi di quei mesi convulsi, scioperi e proteste si moltiplicavano in un contesto sempre più destabilizzato. L’isolamento e l’irrilevanza della Transcaucasia risultarono evidenti: essa non solo non venne nemmeno invitata al tavolo di pace di Brest-Litòvsk, ma addirittura il testo finale di tale trattato (firmato il 3 marzo 1918) previde la cessione alla Turchia dei territori sulla costa sud-orientale del mar Nero, Batumi compresa. L’Azerbajan si schierò allora con la Turchia il cui assalto non potè essere fermato. Non si potè far altro che cedere ed accettare il trattato: la Transcaucasia non aveva retto alla sua prima prova e già il 26 maggio 1918 veniva sciolta a favore delle tre repubbliche di Armenia, Azerbajan e Georgia (con Noe Zhordania capo di governo). Ancora oggi il 26 maggio è la festa nazionale dell’indipendenza georgiana. Fatta comunque la pace con la Turchia, la neonata repubblica raggiunse presto un “Temporaneo accordo” anche con la Germania, che in realtà tutta una serie di misure (come lo sfruttamento della ferrovia georgiana e il riconoscimento dell’indipendenza del nuovo Stato) trasformarono ben presto in una vera e propria alleanza. Ai confini della rampante rivoluzione russa, il Paese aveva assoluto bisogno di alleati e protezione, ma il nemico di ieri diveniva l’amico di oggi nel momento più sbagliato, quando ormai la guerra volgeva al termine col crollo degli Imperi Centrali: solo cinque mesi dopo le operazioni belliche si concludevano e i Tedeschi venivano evacuati. Nel dicembre dello stesso anno l’Armenia tentò allora di strappare i territori al suo confine assegnati alla Georgia ma abitati prevalentemente da armeni, tuttavia fu fermata e nella regione contesa venne istituita una ‘Zona neutrale’ ad amministrazione mista. Analogamente, in Abkhazia e nell’Ossezia del sud sorsero movimenti armati che reclamavano a loro volta l’indipendenza, ma anche questi vennero bloccati. I Né la situazione interna era migliore: come se non bastassero le mille difficoltà di una guerra di tanto grandi dimensioni e gli sconvolgimenti delle due rivoluzioni del 1917, le tensioni e le attività dei bolscevichi rendevano ancora più instabile la società né questi perdevano l’occasione per alterarne l’equilibrio, come quando sostennero la richiesta di indipendenza da parte dell’Abkhazia, che la Georgia rifiutò (anche se le concesse l’autonomia). Pur in condizioni così critiche, tuttavia le elezioni per l’Assemblea Costituente (14,15,16 febbraio 1919) ancora una volta costituirono un trionfo per i Menscevichi che ottennero 109 seggi su 135 con Noe Zhordania capo del governo. 16 Solo l’Argentina aveva riconosciuto il nuovo Stato (il 13 novembre 1919), ma i lavori procedevano spediti: il georgiano fu proclamato lingua nazionale ma le minoranze etniche e linguistiche ebbero scuole proprie e riconosciuti i loro diritti. Intanto, anche se alla Conferenza di pace di Versailles sulla Georgia non veniva presa nessuna decisione definitiva e anche se non veniva ancora ammessa alla Società delle Nazioni, tuttavia Germania, Francia, Belgio, Italia, Giappone, Polonia, Austria, Romania, Lussemburgo e Messico la riconobbero, l’Inghilterra (che aveva preso il posto della Germania sconfitta come potenza occupante) si ritirava, ed il 7 maggio 1920 un accordo con l’U.R.S.S. instaurava relazioni non ostili e garantiva che quest’ultima non si sarebbe intromessa negli affari interni dell’altra. Ma non c’era da fidarsi: sconfitti i Bianchi e vinta la guerra civile, ora l’ U.R.S.S. si preparava invece a riprendere quello che era stato degli zar: l’Armenia era già stata rioccupata ed il 16 febbraio 1921 fu la volta della Georgia. Con la scusa di portare aiuto alla regione di Lore che, sul confine con l’Armenia ormai sovietica, era contesa e al centro di uno scontro, l’Armata Rossa (guidata da ‘Sergo’ Ordzhonikidze e da Stalin) invadeva e conquistava il Paese. Né l’U.R.S.S. era sola: anche la Turchia, ora alleata di Mosca, si mosse sul mar Nero e un accordo russo-turco (16 marzo) le assegnò alcuni territori sul suo confine. Nell’ U.R.S.S. La comunistizzazione della Georgia seguì il solito miserabile percorso: scioglimento di tutti i partiti, ad eccezione di quello comunista, e delle forze armate nazionali; abolizione della proprietà privata della terra, statalizzazione di industria, ferrovie, flotta, banche, ecc.; eliminazione degli oppositori e dei sospetti; proclamazione dell’ateismo e distruzione delle chiese. Sempre ad opera del Commissario alle Nazionalità - di colui cioè che nel governo Lenin aveva il compito di regolare le spinose questioni fra le tante etnie e popolazioni dell’ex-Impero -, il georgiano Stalin, il 25 novembre 1921 veniva fondata la Repubblica Socialista Sovietica di Georgia, cui l’Ossezia del sud venne annessa come regione autonoma; nel dicembre 1922 la Georgia formò poi con Azerbajan ed Armenia la Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Transcaucasiche; nel 1931, anche l’ Abkhazia le venne annessa - sempre per volontà di Stalin che nei pressi della sua capitale, Sukhumi, si fece addirittura costruire una dacia. Le motivazioni di queste decisioni non sono difficili da comprendere. L’annessione all’U.R.S.S. non era avvenuta senza resistenza: dal 1921 al 1924 anche in Georgia (come in tante alle regioni dell’ex-Impero) era stata condotta una sfortunata guerra per l’indipendenza (guidata soprattutto dal colonnello Kakutsa Cholokashvili) che era costata al Paese 50mila fra morti e arrestati, e proprio per evitare che si potessero ripetere simili tentativi per l’autonomia e l’indipendenza, Stalin concepì Repubbliche etnicamente piuttosto disomogenee in modo che all’interno di ognuna ci fossero minoranze che ne minassero sul nascere la compattezza. Fu per questo che, fra l’altro, gli Osseti, vicini a Mosca, vennero divisi 17 ed annessi - a sud alla Georgia e a nord alla Cecenia-Inguscezia - sempre allo stesso scopo, impedire, o almeno ostacolare, una eventuale spinta separatista; anche l’Abkhazia manteneva la sua autonomia e così l’Ajara che, situata nell’estremo lembo meridionale sul mar Nero e con capoluogo Batumi, venne annessa alla Georgia il 16 luglio 1921. Tutto ciò servì comunque fino ad un certo punto se in epoca staliniana le tendenze indipendentiste e nazionaliste continuarono e dovettero essere stroncate con almeno 100mila deportazioni operate dalla N.K.V.D., la temibilissima polizia segreta guidata dal georgiano Beria. Infine, sentendo che ormai la situazione era sicura e stabile, la Federazione fu sciolta nel 1936 e la Georgia, come l’Armenia e l’Azerbajan, divenne una delle repubbliche dell’ U.R.S.S.; essa tuttavia continuava a mantenere al suo interno le tre regioni autonome – Ossezia del sud, Abkhazia e Ajara – al chiaro scopo di minarne la compattezza interna. Naturalmente la Georgia, come tutte le altre nazioni all’interno dell’U.R.S.S., dovette seguirne tutte le politiche e tutte le scelte, anche se il Catholicòs Kristepore II nel 1929 riuscì a trovare un accordo col governo che permise alla Chiesa georgiana almeno di sopravvivere. In campo economico anche la Georgia visse l’industrializzazione e lo sviluppo di un’economia basata sulla sua logica con la conseguente trasformazione della società e la diffusione di scuole di ogni ordine e grado: anche qui lo stalinismo fuse in un unico complesso la spinta alla modernizzazione ed il terrore di massa con le sue inesauribili eliminazioni di intellettuali, ‘borghesi’ e contadini. Nulla di nuovo sotto il Sole dello stalinismo. I Eppure la Georgia trasse beneficio dal fatto che Stalin era georgiano: l’urbanizzazione qui non significò russificazione e la lingua georgiana venne preservata mentre ad un più alto tenore di vita e ad una maggior percentuale di giovani che terminavano gli studi si aggiungerà addirittura un rafforzamento della sua coesione etnica grazie all’emigrazione di russi e armeni dal Paese nel secondo dopoguerra. L’invasione tedesca non raggiunse la Georgia e la risparmiò, però questa partecipò massicciamente allo sforzo bellico con 700mila uomini (su una popolazione di complessivi 3.612mila persone!) metà dei quali perì e di cui tanti altri finirono disabili o mutilati. Né il fronte del lavoro fu da meno nel contribuire alla vittoria grazie al tremendo sforzo produttivo portato avanti dalle tante donne che dovettero prendere il posto degli uomini. Tuttavia i tedeschi riuscirono a formare battaglioni con ex-prigionieri di guerra georgiani (‘Tamar I’ e ‘Tamar II’) e con appartenenti ad altri popoli caucasici (‘Bergman’) che, puntando sulla vittoria tedesca, speravano di riacquistare così libertà ed indipendenza. Come tanti altri popoli dell’U.R.S.S., anche i georgiani combatterono insomma in ambedue gli schieramenti ed anche in Georgia il 18 dopoguerra fu poi orribile: la nuova ondata di persecuzioni cessò solo con la morte di Stalin (5 marzo 1953). II Curiosamente, in Georgia la destalinizzazione di Kruscev assunse un carattere del tutto particolare perché si accompagnò ad una campagna di veri e propri insulti al Paese in quanto tale, alla sua gente ed alla sua cultura, e si motivarono le atrocità di Stalin anche colle sue origini georgiane: le proteste contro Kruscev per l’onore e l’identità nazionali offesi furono così accese che in quelle scoppiate il 9 marzo 1956 (pochissimi giorni dopo la lettura del famoso ‘Rapporto segreto’ al XX Congresso del P.C.U.S.) in occasione del terzo anniversario della morte di Stalin si contarono 150 morti e 300 feriti (!) soprattutto fra gli studenti georgiani. Una simile repressione fu tuttavia un errore perché incrinò e minò seriamente nella società georgiana la condivisione dell’ideologia comunista. I fatti del marzo 1956 segnarono poi soprattutto la rinascita del patriottismo e del nazionalismo georgiano i cui leaders furono Zviad Gamsakhurdia e Merab Kostava; questa rinascita, una volta messa in moto, non si potè più fermare e continuò con un crescendo di affermazioni di ritrovata identità. Oltretutto, l’allentamento dei vincoli sotto Kruscev permetteva ai funzionari di partito georgiani di organizzarsi su base regionale e tale (relativa) autonomia era accompagnata da un sensibile risveglio economico fondato su iniziative privatistiche che venivano tollerate in una sorta di ‘zona grigia’ dell’economia: in questo modo si diffuse però anche la corruzione che raggiunse dimensioni che ben presto non poterono più essere tollerate. Dal 1964 al 1972 il nuovo ministro dell’Interno del Paese, Eduard Schevardnadze, lottò vittoriosamente contro il malaffare (con 25mila persone arrestate fra cui 75 ufficiali del K.G.B. e 17mila militanti del partito) e col benestare di Mosca divenne poi primo segretario fino al 1978. La volontà russificatrice poteva però rialzare ancora la testa tanto che tentò un attacco alla lingua georgiana perché non fosse più quella ufficiale, ma il 14 aprile 1978 dimostrazioni di strada fecero recedere il regime da questa strada e ancor oggi si celebra questa data come il ‘giorno della lingua georgiana’ (dimenticando però che anche gli Abkhazi avevano protestato e chiesto il rispetto della loro cultura). III Negli anni ’80 le difficoltà – per non dire altro – del regime sovietico erano evidenti a tutti ed il tentativo di Gorbacev accelerò soltanto la frana rendendola sorprendentemente pacifica. Tuttavia, mentre ormai nascevano movimenti e partiti non-comunisti e addirittura nazionalisti, il regime georgiano ebbe un sussulto e, con un colpo di coda, il 9 aprile 1989 a Tbilisi soppresse una manifestazione pacifica causando 20 morti, soprattutto donne. Nella stessa U.R.S.S. vi furono proteste per un comportamento del genere ed 19 il governo georgiano dovette retrocedere, ma questo fu il suo ultimo ‘errore’, quello che gli fece perdere definitivamente quel po’ di fiducia su cui poteva ancora contare. Mentre Mosca si dissociava apertamente dalla repressione, scioperi, arresti, assalti alle basi sovietiche si moltiplicavano anche in tutto il Caucaso. Il comunismo in Georgia era davvero finito. Indipendenza e libertà Dopo che il 17-18 novembre 1989 il governo georgiano ebbe condannato l’annessione forzata all’U.R.S.S. del 1921, il Congresso Nazionale dal 23 al 25 maggio 1990 raccolse a Tbilisi i rappresentanti di tutti i (150!) gruppi politici georgiani e dichiarò illegali tutti gli atti compiuti dopo il 7 maggio 1920 - cioè a partire dal trattato con l’U.R.S.S.. Alle prime elezioni multipartitiche che si tennero l’anno seguente al crollo del Muro di Berlino, il 28 ottobre 1990, l’indipendentista “Coalizione della Tavola Rotonda” di Zviad Gamsakhurdia (che pure aveva abbandonato il Congresso) trionfò col 62% dei voti. Il 31 marzo 1991 un referendum nazionale col 98,9% dei voti si pronunciò per l’indipendenza del Paese, sancita poi ufficialmente il 9 aprile 1991: il Soviet Supremo (si chiamava ancora così) della Repubblica dichiarò allora ancora validi il relativo Atto del 1918 e la Costituzione del 1921. Nonostante tutto ciò, la Georgia era però ancora profondamente disorganizzata, senza un esercito, con una polizia corrotta e un’amministrazione carente: difficilmente poteva definirsi uno stato, ma, avida di libertà, si rifiutò di entrare nella Confederazione degli Stati Indipendenti che era sorta il 21 dicembre 1991 per cercare di tenere insieme su tutt’altre basi i Paesi dell’ex-U.R.S.S.. Nuovi e gravi problemi si affacciarono immediatamente. La nuova dirigenza si segnalò subito per le sue posizioni intransigenti ed intolleranti che minavano ogni possibilità di dialogo con chiunque: già nel dicembre 1990 abolì l’autonomia dell’Ossezia del sud giudicando tale autonomia un grimaldello russo per infiltrarsi nel Paese (e in effetti l’Ossezia del nord, con cui quella del sud vorrebbe riunirsi, è subito al di là del confine e fa parte della Russia) ma la questione era – ed è – ben più complessa. Ai tempi dell’ U.R.S.S. i confini interni erano stati infatti pure formalità e così, per es., le due Ossezie in realtà erano state unite in tutto e per tutto tranne che dal punto di vista del confine formale. Non c’è allora da stupirsi se nel 1989, al momento dello smembramento dell’ U.R.S.S., gli Osseti chiesero l’unificazione del loro intero popolo in un unico Stato, ma numerosi villaggi dell’Ossezia del sud erano georgiani e la popolazione era dunque mista, per tacere del fatto che il nuovo Stato georgiano non voleva saperne di subire ridimensionamenti territoriali rispetto al periodo sovietico. Anche l’Abkhazia rivendicò la sua separazione dalla Georgia, il 25 agosto 1990 proclamò l’indipendenza e in dicembre elesse presidente Vladislav Ardzimba. 20 Fin dagli anni Trenta la storia ufficiale georgiana aveva presentato gli Abkhazi come sopraggiunti nel XVII secolo dal Caucaso settentrionale (e gli Osseti nel XV e nel XVI) mentre gli Abkhazi considerano invece se stessi gli indigeni che , spinti a nord dai Kartveli (georgiani), nel XVII erano riusciti a riportare il confine sul fiume Inguri (ancor oggi confine fra Georgia e Abkhazia). Tuttavia, al di là di una schermaglia di questo tipo, il trauma del popolo abkhazo è che, dopo la sconfitta nelle guerre caucasiche i Russi l’avevano deportato in massa (insieme ad altre popolazioni) nell’Impero ottomano alterando così profondamente la composizione etnica della regione. Quando poi il 26 maggio 1917 la Georgia aveva proclamato la sua indipendenza, questa non comprendeva l’Abkhazia che il 31 marzo 1921 venne addirittura dichiarata Repubblica Sovietica indipendente. Fu il georgiano Beria che l’annesse alla Georgia dieci anni dopo. I Dopo mesi di tensione ed incertezza la situazione precipitò il 26 maggio 1991 quando la Georgia elesse trionfalmente (coll’86% dei voti) presidente lo stesso Zvjad Gamsakhurdia che si proponeva non solo di riunificare definitivamente allo Stato anche Ossezia del sud (i cui abitanti erano per lui ‘porci indo-europei’ e le altre popolazioni ‘ospiti ingrati’ da ‘geogianizzare’) e Abkhazia, ma anche di abolire l’autonomia di cui avevano goduto nel periodo comunista. E così fece. Nel novembre dello stesso anno gli Osseti meridionali (ovviamente spalleggiati da Mosca) si dichiararono allora indipendenti ed elessero un proprio governo e un proprio presidente, dandosi proprie strutture statuali e addirittura uno stemma militare, un leopardo delle nevi fra i monti del Caucaso. E fu guerra. Il destino degli Osseti non era certamente nelle loro mani: il mese seguente, nel dicembre 1991, i tre presidenti slavi (di Russia, Bielorussia ed Ucraina) dell’ex U.R.S.S. concordarono che i confini delle quindici neonate repubbliche ex-sovietiche sarebbero dovuti rimanere immutati, senza nulla concedere a Cecenia, NgornoKarabakh … e Abkhazia ed Ossezia del sud che perdevano così tutte le autonomie delle quali avevano goduto prima, quando erano come sciolte all’interno della ben più vasta U.R.S.S.. Naturalmente la comunità internazionale, preoccupata e spaventata della diffusa instabilità che una risistemazione dei confini avrebbe potuto comportare, accettò senza fiatare, come accettò che in seguito alla guerra ben 100mila osseti del sud (una percentuale enorme) avessero dovuto emigrare nell’Ossezia del nord e 10mila georgiani avessero dovuto abbandonare a loro volta le loro case. II Il 22 dicembre 1991 a Tbilisi un assalto contro Gamsakhurdia, fallito completamente il suo tentativo autoritario e nazionalista nonostante nel maggio 1991 21 avesse ottenuto l’87% alle elezioni presidenziali, portò alla “Guerra di Tbilisi” che, combattuta nella città anche con l’artiglieria, si concluse con la fuga del presidente il 6 gennaio 1992 e con la proclamazione da parte del Comitato Militare degli Insorti del suo successore, il ben più sperimentato ex-ministro degli esteri di Gorbacev, Eduard Schevardnadze. Ma i problemi ‘interni’ rimanevano acuti: se sull’ Ossezia del sud il presidente russo Eltsin e Schevardnadze il 28 giugno 1992 riuscirono a raggiungere un armistizio che congelava la situazione sotto il controllo di forze miste di interposizione, con l’Abkhazia invece le cose si complicarono e la guerra che seguì fu terribile. In seguito al rapimento da parte abkhaza di personale politico georgiano ed al rifiuto di rilasciarlo, il 14 agosto 1992 la regione venne invasa da 5mila guardie nazionali georgiane che attraversarono l’Inguri e da forze anfibie che sbarcarono sulla costa. Ogni possibilità di dialogo svaniva definitivamente. Il comandante georgiano Giorgi Karkarashvili undici giorni dopo dichiarava infatti: “Siamo pronti a sacrificare 100mila georgiani per annientare 97mila abkhazi. Lasceremo l’intera nazione abkhaza senza discendenti”. Era un’esagerazione, ma un simile discorso (che non fu certo l’unico) venne fatto ad una popolazione che conservava ancora nella sua memoria collettiva il trauma delle deportazioni del 1864 e del 1877 che l’avevano dimezzata e che aveva dovuto assistere all’abolizione dell’ autonomia di cui godeva dal 1930: violenze, brutalità e minacce di genocidio furono comunque molte e molto diffuse, mentre la distruzione della Biblioteca Nazionale e degli Archivi di Stato significarono la precisa volontà di annientamento dell’identità abkhaza. La reazione non si fece comunque attendere: l’Abkhazia seppe reagire con prontezza all’invasione e fu subito difesa da migliaia di volontari provenienti dal Caucaso settentrionale e, soprattutto, dai russi (ancora presenti nella base militare di Gadauta) che, duramente sconfitti gli indisciplinati, mal comandati e disorganizzati invasori (14mila morti!), in mezzo a devastazioni spaventose, vendette e ritorsioni, il 27 settembre 1993 cacciarono le truppe georgiane insieme ai 3/5 della popolazione 300mila fra georgiani, greci e armeni - al di là del fiume Enguri, di fatto ora confine fra stati. Il cessate il fuoco fu poi firmato a Mosca il 14 aprile 1994. Ancora oggi i numerosi campi profughi, con le loro casette prefabbricate, tutte uguali e dai tetti rossi, ospitano i rifugiati e testimoniano la pulizia etnica subita dai georgiani. L’intera situazione è paradossale: in Abkhazia la popolazione abkhaza era il 17% del totale nella regione (!), ma voleva ugualmente l’indipendenza; la totalitaria U.R.S.S., assicurandone l’autonomia, era stata in grado di esercitare un maggiore rispetto per la cultura e civiltà abkhaze rispetto a quanto aveva fatto la democratica Georgia; i georgiani nella regione erano la maggioranza relativa col 46% della popolazione, ma dovettero invaderla con le armi; i Russi erano stati i precedenti sterminatori e deportatori degli Abkhazi, ma ora ne erano gli amati protettori, visto che il ruolo oppressore e genocida era ora esercitato dei Georgiani. Questa guerra ha segnato poi una svolta nella politica georgiana: anche se Schevardnadze per salvare il suo Paese aveva dovuto accettare di entrare nella C.I.S., 22 la rottura con la Russia era ormai irreparabile ed il Paese si volse ad Ovest, verso gli U.S.A., con cui a partire da 1996 i rapporti divennero sempre più stretti finchè nel 2001 gli statunitensi rimpiazzarono i russi nell’addestramento e nella cooperazione militari. Per quel che riguarda l’Abkhazia, poi, anche qui il solco appare incolmabile e la Russia – la cui flotta fra non molto dovrà lasciare l’ucraina Sebastopoli e che ha dunque bisogno di punti d’appoggio sul mar Nero - ha ormai sotto controllo la regione che ne chiede la protezione, ma a sedici anni dalla fine della guerra i segni della devastazione sono ancora numerosi nella loro triste evidenza. III Nella Georgia del sud-ovest, infine, la repubblica autonoma di Ajaria era sotto il dominio di Aslan Abashide – e rimase in tale stato fino al 2004 quando venne riassorbita pacificamente. In Georgia le rivolte osseta ed abkhaza erano (e sono) viste come manovre di Mosca e ciò impedisce di prendere sul serio le loro richieste: ora, se è senz’altro vero che, oltre alla volontà di controllare i propri confini e semmai di allargarli, la Russia, sotto sfratto nella Crimea ucraina, ha bisogno di basi sul mar Nero e in questo senso l’Abkhazia è veramente strategica, rimane però il fatto che essa si inserisce soltanto in conflitti veri che hanno radici autonome nella oggettiva situazione caucasica. IV Schevardnadze venne rieletto nel 1992, nel 1995 e nel 2000, ma fu sempre sospettato di brogli e, più in generale, accusato – giustamente - di corruzione: si avvicinò agli U.S.A. (fino a dichiarare di voler entrare nella N.A.T.O. e nella U.E.) come contrappeso ai cattivi rapporti con la Russia (che, fra l’altro, lo accusava di aiutare i ribelli ceceni) non migliorati nemmeno dopo l’ingresso della Georgia nella C.S.I. nel 1994. Abkhazia e Ossezia del sud non riconoscevano (né riconoscono) la Georgia e nel 1998 e nel 2001 nuovi scontri con l’Abkhazia significarono nuove ondate di rifugiati georgiani (magari di coloro che erano riusciti a tornare). Dopo anni in cui la guerra era congelata ma non risolta, anni di tensioni e di instabilità, nel 2003 con quella che fu chiamata ‘Rivoluzione delle Rose’ Schevardnadze, che pure il 2 novembre aveva appena vinto le elezioni, venne travolto da massicce manifestazioni di protesta e allontanato definitivamente dal potere. Alle elezioni del 4 gennaio 2004 col 96% dei voti venne trionfalmente eletto presidente Mikhail Saakhasvili, un giovane che aveva studiato negli U.S.A. e di cui godeva l’aperto appoggio. Agendo con decisione Saakhasvili lanciò un ultimatum all’Ajaria costringendo alla fuga Abashide, il padre-padrone della regione che venne così reintegrata nella compagine statale, ma – ripresi i progetti ‘unionisti’ – anche con terzo presidente nel 2008 sarà guerra (e per la terza volta) colle regioni separatiste. 23 Questa volta tuttavia le ragioni del conflitto sono state ancora più grandi e complesse. Fin dal 2004 infatti col nuovo presidente la Georgia, decuplicando le spese militari, aveva intrapreso un massiccio programma di riarmo assistita dagli U.S.A. di Bush (che aveva proclamato il Caucaso zona di ‘interesse nazionale’!) in vista di un suo ingresso nella N.A.T.O. (caldeggiato ed appoggiato, ancora una volta, dagli U.S.A. ma provvidamente bloccato dalla U.E.): la Russia, allora, allarmata, aveva bloccato il commercio col Paese e interrotto le forniture di gas e petrolio, e la Georgia aveva risposto esaltando il suo nazionalismo ed elencando la lunga lista dei soprusi subiti. La tensione, insomma, cresceva, riguardava ormai la collocazione complessiva ed il nuovo ruolo internazionale del Paese e non poteva che acuire i problemi coi filorussi Osseti del sud ed Abkhazi che rivendicavano la loro indipendenza dalla Georgia ma non dalla Russia, giudicata amica e protettrice (e che era ancora presente con le sue basi militari ‘contingente di pace’). Essi puntavano alla ricongiunzione con essa (come l’Ossezia del nord che ha continuato a farne parte e che è dall’altra parte di un confine che per gli Osseti del sud è un’assurdità che taglia in due un popolo). Nel 2006 i centomila osseti del sud con un referendum popolare ribadirono la propria scelta per l’ indipendenza. La Russia li proteggeva. E nel 2008 – come abbiamo visto in apertura - sarà ancora guerra. V Ad uno sguardo complessivo la situazione georgiana appare comunque solo un aspetto del più generale e complicato assetto del Caucaso dopo e a causa del crollo dell’U.R.S.S.: il progressivo vuoto di potere creatosi con lo sfaldamento del vasto impero ha infatti fatto sì che le èlites locali, affermatesi sempre più fin dai tempi di Breznev, potessero impadronirsi del potere e sostituissero alla vuota retorica socialista il credo nazionalista. In realtà l’U.R.S.S. aveva avuto le sue responsabilità in questa rinascita nazionalista perché la sua visione ufficiale della storia riconosceva – e si basava! – sul carattere originale e particolare delle sue repubbliche e regioni autonome: le storiografie e le stesse culture nazionali erano state incoraggiate ed anzi a volte perfino create (!) nel tentativo di rafforzare l’U.R.S.S. stessa che voleva presentarsi come protettrice e promotrice di popoli e nazioni. Si arrivò al punto che per legittimare le entità territoriali funzionali all’U.R.S.S. la storia venne riscritta o scritta ex novo. L’ideologia sovietica prevedeva tuttavia che ogni particolarismo – per il momento necessariamente riconosciuto ed incoraggiato per rafforzare la coesione interna - si sarebbe comunque progressivamente affievolito in una crescente integrazione e fusione nel comune stato dei lavoratori. Accadde invece l’esatto contrario perché la rigida struttura sovietica - che sviluppava le nazionalità ma reprimeva il nazionalismo - lungi dall’essere ‘melting pot’divenne invece incubatrice di nuove nazioni. La perestroika e la glasnost di Gorbacev nei secondi anni Ottanta aprirono crepe enormi nella diga sovietica che si sbriciolò fino a crollare completamente, ma la transizione era stata troppo improvvisa ed inaspettata perché il complicato intreccio 24 dei popoli del Caucaso potesse trovare una sua definizione accettabile in un sistema di stati e confini soddisfacenti per tutti (o quasi): le partizioni territoriali all’interno dell’U.R.S.S. non riflettevano (ammesso che ciò sia mai possibile) i confini su base etnica (ammesso pure che esistano) ma l’improvviso vuoto ideologico fu riempito da concetti occidentali (come il nazionalismo, appunto) che agirono senza controllo in realtà molto differenti da quelle europee dove gli assetti territoriali erano il frutto di storie e lotte secolari. Fu così che le precedenti tensioni all’interno di uno stato (l’U.R.S.S.) divennero conflitti insanabili fra stati (Armenia contro Azerbajan per il Ngorno-Karabakh, le due guerre fra Russia e Cecenia, altre minori) con diffuse mobilitazioni su base etnica che ancor oggi (gennaio 2010) sembra siano ben lungi da una loro conclusione e definizione - come del resto l’intera situazione nel Caucaso. Come se non bastasse, sulle spalle dei combattenti pesano ancora eventi terribili e devastanti, veri traumi nella psiche dei popoli, come il genocidio degli Armeni, le deportazioni subite dagli Abkhazi dopo le fallite resistenze antirusse del 1864 e del 1877 (che più che dimezzarono la popolazione), la deportazione dei Ceceni nel 1944: queste ferite non si sono mai veramente cicatrizzate e giacciono sul fondo della coscienza collettiva pronte a riaprirsi e a generare passioni potenti – e violente. VI Comunque, col solito senno del poi, il 14 agosto 2007, quindicesimo anniversario dell’invasione georgiana dell’Abkhazia, Schevardnadze ha riconosciuto apertamente l’errore commesso e se ne è assunta la responsabilità: piuttosto diversa è stata invece la spiegazione di Saakashvili che nel novembre 2008 ha ammesso di aver attaccato per primo l’Ossezia del sud ma di averlo fatto per reagire alla pressione russa sul confine. Mentre poi il vicepresidente statunitense Biden il 23 luglio 2009 si recava a Tbilisi per riconfermare il sostegno (comunque meno convinto di quello della precedente amministrazione Bush) degli U.S.A., la U.E. se la cavava colla (solita) ‘equidistanza’ affermando che aveva sbagliato sia Saakashvili ad attaccare l’Abkhazia sia la Russia a reagire in modo così spropositato. Oleodotti e gasdotti I problemi di nazioni come la Georgia (tutto sommato patria di un popolo poco numeroso), per tacere degli Osseti del sud e degli Abkhazi (che contano una popolazione complessiva pari a quella di una media città italiana), potrebbero sembrare trascurabili una volta collocati nel quadro politico internazionale, ma non è così, perché oggi proprio in quelle terre si sta giocando una partita importantissima e forse decisiva per tutto l’Occidente e per i suoi rapporti con la Russia – partita riassumibile come segue. 25 Un secolo fa Baku produceva la metà del petrolio del globo e per tutto il periodo comunista lo fece all’interno e per l’U.R.S.S. di cui era parte, ma col crollo di quest’ultima e colla conseguente indipendenza dei Paesi del Caucaso e dell’Asia centrale è iniziata una vera e propria competizione internazionale per questo nuovo El Dorado (che comprende anche l’ancor più importante Kazakhstan) e questa nuova ed improvvisa corsa al petrolio ed al gas del Caspio è chiaramente una questione di importanza planetaria: ancora una volta i Grandi si affrontano in questo cruciale e decisivo crocevia fra Asia ed Europa. Si parla ormai apertamente di un ‘nuovo grande gioco’, ancor oggi in pieno svolgimento, fra U.S.A., Europa, Russia, Turchia, Iran e Cina per aprire – in sicurezza! - il Caspio al mondo. Col crollo dell’U.R.S.S. la globalizzazione ha fatto insomma potentemente irruzione sul Caucaso: soprattutto in Azerbajan ed in Georgia è la storia stessa a cambiare, dato che questi Paesi, già piccole e lontane province, diventano ora centrali e strategici negli equilibri mondiali fra le grandi potenze le quali, fra l’altro, trovano ottime occasioni di intervento nelle vicissitudini degli scontri delle minoranze etniche di questi popoli, facendo loro assumere di conseguenza un peso ed un rilievo spropositati. Ancora una volta la Georgia (e non solo lei) è Paese di frontiera – e che frontiera! Mentre per i Paesi consumatori è di primaria importanza diversificare le fonti di approvvigionamento e le loro vie di trasporto; ora che anche Cina ed India (e non solo loro) chiedono sempre più metano e petrolio e che la Russia di Putin ha saputo risollevarsi dalla prostrazione precedente proprio grazie ai prezzi in ascesa di petrolio e gas di cui è anch’essa tanto ricca; si è scatenata una nuova lotta fra Russia e U.S.A. (soprattutto) che, anche se non sembra più affrontata con le armi in pugno, appare nondimeno altrettanto combattuta. I suoi termini sono i seguenti. Gli ex-dirigenti dell’ ex- P.C.U.S. (ora eletti ‘democraticamente’) cercano di riportare Asia centrale e Caucaso nell’orbita russa – ammesso che ne siano mai davvero usciti - e vogliono e devono rafforzare l’influenza della Russia ai suoi confini (ed in questo contesto anche le tremende guerre cecene assumono il loro significato più vero); essi poi vogliono e devono legare a sé l’Europa tramite le forniture energetiche. Dall’altra parte gli U.S.A. vogliono e devono contenere in tutti i modi la Russia e così fanno di tutto per toglierle il controllo dei piccoli Paesi caucasici premendo per integrarli direttamente con l’Europa anche tramite gasdotti e oleodotti che evitino di passare attraverso la Russia (e l’Iran! E’in questo contesto che vanno visti anche gli interventi degli U.S.A. in Iraq ed in Afghanistan - per circondare e bloccare appunto l’Iran!): il sostegno americano alla Georgia è quindi ovvio e scontato. Più precisamente i punti di scontro sono due e strettamente collegati: 1) chi deve estrarre gas e petrolio e 2) chi deve trasportarlo e per che strada. Ora, le vie sulle quali far passare il gas ed il petrolio del Caspio verso occidente sembrerebbero sostanzialmente queste: 26 - la prima e più ovvia è quella di potenziare il sistema (già esistente) ex-sovietico che attraversa la Russia e arriva fino a Novorossiysk sul mar Nero (via ‘settentrionale’); - una seconda può arrivare fino al golfo Persico attraversando l’Iran (via ‘meridionale’); ma ambedue hanno il grave svantaggio di non essere considerate sicure (per l’Occidente) o di mettere i compratori nelle mani di potenze, Russia ed Iran, delle quali l’Occidente stesso teme il potere troppo condizionante. Si è così pensato ad una via ‘occidentale’ che attraversi solo Paesi giudicati amici e fidati e cioè: - oltre l’oleodotto (100mila barili al giorno) che, ultimato nel 2001, da Baku (sulla costa azera sul Caspio) raggiunge Supsa (a sud di Poti, sulla costa georgiana del mar Nero), - nel settembre 1994 la Compagnia Petrolifera di Stato Azera (S.O.C.A.R.) ha firmato il ‘contratto del secolo’ con un consorzio di compagnie petrolifere guidate dalla B.P. dando vita all’A.I.O.C. (Azer International Operating Company) che il 18 settembre 2002 ha dato avvio alla costruzione di un altro oleodotto (per 1 milione di barili al giorno) che, partendo sempre da Baku, via Tbilisi raggiunge dopo 1760 km. Ceyan (sulla costa turca del Mediterraneo) permettendo anche l’invio del petrolio irakeno. Nel 2005 la costruzione di tale oleodotto è stata portata a termine con successo. In ambedue i casi la Georgia è diventata così una delle nuove vie di transito attraverso cui greggio e metano arrivano ed arriveranno sempre più nel Mediterraneo ed in Europa dai lontani e ricchi giacimenti asiatici, azeri, turkmeni e kazakhi: l’importanza sua e di Paesi come questo è dunque evidente, come anche il fatto che il loro destino sfugge sempre più dalle loro stesse mani. Tutte queste nuove vie di transito energetico evitano completamente la Russia ed i suoi giacimenti bypassandone impianti, infrastrutture e territorio, così che il colpo è evidentemente insopportabile per quest’ultima, essa stessa formidabile rifornitrice di gas e petrolio attraverso i quali, oltre ad arricchirsi, mira a legare a sè l’intera Europa: essa ha così reagito con decisione agendo su due direttrici. Innanzitutto tentando - come si diceva - di tenere l’intera area centroasiatica sotto controllo come ai tempi dell’Impero zarista o, ancor più, dell’ U.R.S.S.. Questo gioco è pericoloso e complicato anche perchè, come se non bastasse, oltre a cercare di gestire oleodotti e gasdotti dell’Asia centrale ed i loro terminali, la Russia deve parare anche il colpo dello – strettamente collegato - ingresso di Ucraina e Polonia nella N.A.T.O. ed impedire quello della Georgia (ed ecco come i casi dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia divengono cruciali e si inseriscono in un gioco estremamente più grande e complesso). In secondo luogo avvolgendo l’Europa stessa nella tenaglia dei suoi propri gasdotti ed oleodotti: - perfezionato l’accordo con Serbia e Bulgaria, il ‘South Stream’ (che vede la collaborazione dell’Eni con Gazprom) nel 2015 dovrebbe partire da Dzhubga, 27 sul mar Nero russo, passarci sotto fino alla sponda opposta a Burgas in Bulgaria e da qui proseguire alla volta dell’ Europa occidentale, mentre - il ‘North stream’ (che vede la collaborazione della francese Gdf Suez e della tedesca E.On. con Gazprom) dovrebbe garantire i rifornimenti di gas russo in Germania via Baltico, connettendo con un audace gasdotto sottomarino Vyborg (presso San Pietroburgo) con Greifswald (nel Meclemburgo). In ambedue i casi non si dovranno più attraversare le inquiete e scarsamente affidabili (per la Russia questa volta!) Ucraina, Bielorussia, Polonia e Repubbliche Baltiche, ma, soprattutto, i rifornimenti delle materie prime sarebbero automaticamente garantiti e sicuri dato che chi vende, chi ha costruito i collegamenti e chi trasporta è lo stesso attore, cioè la Russia stessa. Ma ogni mossa ha la sua contromossa : così dagli U.S.A. è stato progettato il ‘Nabucco’ che, partendo dal Caspio, dovrebbe attraversare tutta la Turchia fino al Mediterraneo e, coinvolgendo Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria, raggiungere l’Europa occidentale. Infine, l’italiana Edison sta lavorando al gasdotto sottomarino IGI fra la Grecia e la Puglia per il metano che dovrebbe giungervi dopo aver ugualmente attraversato la Turchia. Come si può facilmente vedere, la partita è più che mai aperta. Conclusione Giunti al momento di trarre le fila di questo lungo ed articolato processo, sembra che alcuni punti emergano con sufficiente chiarezza: 1) innanzitutto va riconosciuto al popolo georgiano la capacità, la forza e la tenacia di rimanere se stesso e di saper preservare i suoi spirito, lingua, cultura, religione, insomma, la sua identità nazionale, attraverso prove estremamente dure e nonostante i suoi innegabili errori; 2) in secondo luogo la comprensione della sua storia non può mai prescindere dalla sua collocazione di cerniera-frontiera fra potenze molto più grandi di lui; 3) dopo due secoli sotto la Russia-U.R.S.S. oggi esso è di nuovo alle prese con questo suo destino di paese di frontiera; 4) i problemi con le sue minoranze etniche sono però di carattere endogeno anche se amplificati nel gioco delle grandi potenze (la Russia soprattutto). Auguriamogli dunque di poter trovare pace ed indipendenza perché finora molto raramente nella sua storia ha potuto godere di due beni così importanti insieme, dovendo invece spesso lottare per uno dei due a scapito dell’altro. Sottomarina estate 2009 28 Bibliografia Giuseppe Boffa: “Storia dell’Unione Sovietica” ed. A. Mondadori, Milano 1976. Fritjof Meyer: “Il tramonto dell’Unione Sovietica” ed. Longanesi & C., Milano 1984. Wojciech Gòrecki: “Pianeta Caucaso” ed. B. Mondadori, Milano 2003. Simon Sebag Montefiore: “Young Stalin” ed. Weidenfeld & Nicolson, London 2007. Valery Silogava – Kakha Shengelia: “History of Georgia” ed. Caucasus University Publishing House, Tbilisi 2007. George Anchabadze: “History of Georgia – Short sketch” ed. Caucasian House, Tbilisi 2005. Vicken Cheterian: “War and Peace in the Caucasus” ed. Hurst & Company, London 2008. Numerosi articoli e saggi scaricati da Intenet.