Genere e consumi Roberta Sassatelli [In E. Scarpellini and S. Cavazza (a cura di), Il secolo dei consumi, Carocci, Roma, pp. 172200.] Le pratiche di utilizzo delle merci e i discorsi che circondano tali pratiche sono un terreno conteso di relazione tra le persone, un ambito di azione dove spesso gli opposti della nostra cultura - il pubblico e il privato, l’ignoto e il famigliare, il maschile e il femminile – si incontrano, stabilendo via via punti di contatto e reciproci confini. Se è vero che nelle società occidentali contemporanee siamo tutti consumatori, è anche vero che tutti consumiamo in modo diverso, e che diversi modi di consumare contribuiscono a fissare per noi diverse identità sociali. Sebbene una certa visione economicistica descriva i consumatori come attori impegnati in un puro ed astratto calcolo strumentale, quando acquistiamo ed usiamo le merci conserviamo gli atteggiamenti pratici e gli schemi normativi che abbiamo elaborato nel corso della vita a partire dalla particolare collocazione che occupiamo nella struttura sociale. Come ha mostrato Pierre Bourdieu, i nostri gusti, standardizzati in base alla nostra posizione sociale, si connotano come un continuo, ancorché dinamico, congegno di selezione del mondo che non solo sottolinea, ma anche riproduce, le differenze sociali rendendole sempre più nostre.1 Anche se nel suo lavoro sul gusto Bourdieu ha preferito concentrarsi sul ruolo delle differenze di classe e di educazione, numerosi studi testimoniano quanto più nitide siano le mappe della distinzione che genere e sessualità ritagliano dalla cultura materiale2. Le differenze di genere3 - e cioè quelle differenze sociali e culturali che sono organizzate secondo una logica binaria di appartenenza all’una o all’altra delle due classi sessuali “maschio” e “femmina” - hanno importanti effetti sulle nostre preferenze di consumo e sulla cultura materiale. Non solo uomini e donne consumano cose diverse in modo diverso, ma esistono anche oggetti “maschili” e oggetti “femminili”, merci e pratiche di consumo appropriati per l’uno o per l’altro sesso in quanto capaci di conferire maschilità o femminilità4. Sappiamo per esempio molto bene che i giocattoli sono importanti strumenti di socializzazione ai ruoli maschili e femminili, e che già dall’infanzia i bambini e le bambine tendono a negoziare la propria identità di genere utilizzando giocattoli che spesso incorporano visioni dominanti della femminilità, della maschilità e dei rapporti tra i sessi 5. Genere e consumi si intrecciano strettamente nell’intero arco della vita. Per esempio, alcuni studi sulle preferenze alimentari hanno documentato che nella società occidentale, oggi e nel passato, la carne si configura come un cibo maschile (associato alla caccia, alla forza, alla violenza) e, allo stesso tempo, viene attivamente prescelto, rifiutato o centellinato all’interno delle famiglie per segnare i confini di genere6. Altri studi hanno documentato che uomini e donne partecipano in modo diverso allo sport, derivando da tale differenziale un profondo senso della propria identità di genere7. Se consideriamo che lo sport si è consolidato a partire dall’Inghilterra ottocentesca innanzi tutto in quanto arena per la produzione e riproduzione delle élites maschili diviene più facile comprendere perché, ancora oggi, le donne sono in generale assai meno disposte degli uomini a spendere tempo e denaro per praticare un’attività sportiva e, qualora lo facciano, tendono a preferire specialità non competitive che possano essere svolte con altri membri della famiglia anziché attività competitive o sport di contatto che potrebbero mettere in pericolo la dimostrazione della loro femminilità8. Nel complesso, dunque, numerosi studi sul consumo insistono oggi con forza sul fatto che maschilità e femminilità vengono prodotte e riprodotte, e non solo espresse, tramite il consumo. In effetti, anche i gusti che ci sembrano così intimi da essere solo nostri sono riportabili a mappe sociali strettamente connesse al consolidarsi storico delle distinzioni di genere. Se prendiamo oggetti che sembrano puramente funzionali e sono certamente presentati e vissuti come intimi e privati, quali gli apparecchi acustici, vediamo chiaramente che esiste una storia sociale del loro uso e della loro rappresentazione che è segnata, tra l’altro, da profonde differenze di genere9. Durante l’ottocento le trombette acustiche erano riservate agli uomini, anche se la sordità era diffusa anche tra le donne; durante il novecento invece gli ausili acustici, divenuti molto meno visibili, vengono utilizzati sia dagli uomini che dalle donne, ma le virtù che vengono riconosciute loro e i difetti che sono chiamati a correggere cambiano a seconda del genere. Mediante tali ausili le donne possono essere di nuovo delle “buone ascoltatrici”, gli uomini invece riescono ad essere “più capaci di interagire”; le donne hanno la speranza di recuperare “vicinanza con la famiglia e il marito”, gli uomini quella di far fronte ad una “mancanza di autorevolezza” o agli impegni di “lavoro”. E’ questa circolarità – che vede genere e consumo come due pratiche storicamente e istituzionalmente situate che si costituiscono vicendevolmente – ad essere divenuta un importante oggetto di ricerca storica e sociologica. Come vedremo in questo capitolo, essa va configurandosi sia come un aspetto cruciale della cultura di consumo contemporanea sia come una sua importante dinamica generativa. Edonismo, disciplina e genesi della cultura di consumo Molti dei fenomeni che sono connessi alla nascita della cultura di consumo – dallo sviluppo dei mezzi di distribuzione moderni alla democratizzazione dei lussi, dalla diffusione di merci coloniali alla specializzazione degli ambienti domestici, dalla divaricazione tra sfera del consumo e sfera della produzione all’emersione e codificazione di patologie legate ai consumi come la cleptomania o la coazione all’acquisto - sono fortemente connotati in base al genere10. Uomini e donne hanno partecipato e partecipano in modo diverso ai fenomeni della moda e dello shopping, contribuiscono in modo diverso alla gestione degli spazi domestici, e vengono associati a forme di devianza economica differenti11. Il genere non solo disegna dei confini e delle differenze nella cultura materiale e di consumo di diverse epoche storiche, ma ha anche contribuito a definirne la genesi dalla prima modernità ad oggi. In particolare, il modificarsi dell’ordine di genere e dei rapporti tra i sessi si è realizzato anche attraverso le pratiche e gli atteggiamenti di consumo e, circolarmente, ha così contribuito a costruire nuovi stili di vita e nuovi orientamenti di consumo. La crescente consapevolezza che la genesi della cultura del consumo moderna è connessa non solo alla rivoluzione industriale che raggiunge il suo apogeo nel secondo ottocento o alla mentalità ascetica e calcolatrice dei piccoli borghesi del sei-settecento, ma anche direttamente al modificarsi delle pratiche e della cultura di consumo già a partire dagli ultimi scorci del tardo medioevo12, è andata di pari passo con una progressiva messa in luce del ruolo delle donne. Anche le trasformazioni della sfera dell’intimità e dei rapporti tra i sessi hanno segnato la genesi della cultura di consumo e l’espandersi dei consumi voluttuari. Per esempio, in un noto lavoro sul lusso e la genesi del capitalismo, Werner Sombart ha analizzando arte e letteratura dell'Europa medioevale e del rinascimento italiano suggerendo che a partire già dalla fine del trecento si instaura un legame tra la "secolarizzazione dell'amore" – ovvero il suo lento ma progressivo emanciparsi da finalità, istituzioni o regole religiose - e quelle forme di utilizzo dei beni e della ricchezza che prevedono il lusso e in generale un orientamento edonistico/estetico alle cose13. L’amore diviene gradualmente più giustificabile in se stesso, e di conseguenza si sviluppa, in una società che è ancora chiaramente segnata da uno squilibrio di potere a favore degli uomini, una nuova concezione edonistico-estetica della donna e dell'amore e si aprono le porte al raffinamento dei piaceri. Lo sviluppo della società dei consumi avrebbe così ricevuto impulso non solo dagli uomini che rischiavano capitali sempre più ingenti per armare le grandi navi del commercio interoceanico con le colonie, ma anche, scrive provocatoriamente Sombart, da una specifica categoria di donne: le "cortigiane". Queste donne incarnarono e diffusero una nuova femminilità tutta centrata sulla gestione dei piaceri raffinati che finì per suscitare nell’intera società un'aspirazione per l'intrattenimento elegante e la magnificenza: il progressivo affermarsi sociale della cortigiana insomma "contribuisce alla formazione del gusto della donna onesta" così che, già nel settecento, le spose borghesi, seguendo i gusti e lo stile della corte, portano nell'intero tessuto sociale nuovi desideri di consumo14. Come vedremo meglio più oltre, saranno proprio le donne della borghesia, su cui pesava più fortemente l’ideologia che le voleva rinchiuse nella sfera domestica, ad animare le città per procurarsi, grazie anche alla nascita dei negozi moderni e dei grandi magazzini, le merci necessarie per i nuovi rituali della domesticità raffinata e della femminilità esteticizzata15. La diffusione di una cultura di consumo propriamente moderna si ebbe anche ad opera di un’etica edonistica della raffinatezza che passò soprattutto attraverso alcuni consumi culturali e che è marcatamente connotata in base al genere. In effetti, in un noto lavoro sulle affinità tra etica romantica e consumismo moderno, Colin Campbell ci ricorda che furono soprattutto le donne delle classi medie a consumare quei romanzi rosa che permisero la diffusione di una nuova, particolare forma di edonismo legata ai piaceri dell’immaginazione. Cercando di cogliere quanto vi sia di propriamente moderno nella così detta cultura di consumo, Campbell16 ha sostenuto che il consumatore moderno è un “edonista della mente” che “sogna ad occhi aperti” sfruttando lo spettacolo delle meri, e “si allontana dalla realtà non appena la incontra, spostando i suoi sogni sempre più avanti nel tempo, attaccandoli ad oggetti del desiderio e poi, successivamente, staccandoli da essi non appena ne ha fatto esperienza”. Ed è dagli insegnamenti romantici che si può far discendere un’etica edonistica che orienta i soggetti a realizzarsi come singoli in opposizione alla società: anziché migliorare se stessi mediante il lavoro, la disciplina e il sacrificio, i soggetti avrebbero dovuto impegnarsi nell’esprimere se stessi ricercando una varietà di esperienze differenti e significative. Essenzialmente definito dai piaceri dell’immaginazione, l’edonismo romantico e risulta pertanto legato alla capacità di gestire emozioni, quali per esempio la capacità di vivere vicariamente situazioni di rischio e paura come avviene nella lettura dei romanzi. Proprio il romanzo (dai feulletons ai racconti gotici) fu allo stesso tempo una delle prime merci standardizzate di massa, uno dei primi esempi di democratizzazione della cultura, un importante veicolo di tematizzazione del rapporto tra genere e consumi 17 . In particolare una vasta produzione letteraria, rivolta spesso ad un pubblico femminile che si voleva in qualche modo moralizzare, ha così messo sotto la lente di ingrandimento i desideri di consumo delle donne. E se rimangono celebri soprattutto alcuni romanzi di fine ottocento - da Au bonheur de dames di Zola a Sister Carrie di Dreiser 18 - già nel settecento il consumo si intreccia alle visioni di genere negli scritti di Defoe, Richardson, Fielding e Sterne19. Se l’edonismo esteticizzante di ascendenza romantica trova importanti incarnazioni anche al maschile – pensiamo alla figura del dandy, che divenne oggetto di acceso dibattito pubblico tra otto e novecento, era infatti connessa proprio ad una particolare accezione del piacere, intesa come un’esperienza orientata al nuovo e al diverso e non un godimento di questo o quel particolare oggetto20 - almeno ancora per tutto l’ottocento e i primi del novecento, la negazione di sé tipica del protestantesimo può realizzarsi nella gratificazione di sé tipica del romanticismo anche e soprattutto perché produzione e consumo diventano sempre più chiaramente due sfere distinte, associate a diversi principi culturali, organizzate secondo tempi e in luoghi diversi, e legittimamente abitate da soggetti di genere diverso. Nella società borghese, sono le donne di classe media che possono e anzi devono divenire le consumatrici per eccellenza, sono soprattutto loro che devono “sognare ad occhi aperti”. Già nel settecento peraltro, diviene chiaro che la capacità delle donne di consumare andava non solo assecondata ma anche addomesticata, in un laborioso affinamento del gusto che potesse consentire loro di apparire naturalmente e virtuosamente raffinate21. Il disciplinamento dei consumi procede di pari passo alla loro diffusione grazie ai mille cerimoniali del nascente salotto borghese (il te, le porcellane), alla buona conversazione che richiede letture e nuove competenze culturali (musica, canto, pittura), alla raffinatezza dei nuovi spazi commerciali, ai codici del vestire, al diritto di famiglia e di successione. Proprio quest’ultimo ci mostra come questa stessa capacità fosse legata a dinamiche di potere all’interno della famiglia e dovesse essere in qualche modo funzionale alla produzione di reddito che spettava agli uomini: la capacità di consumare femminile infatti non riposa vieppiù su forme di proprietà personale, visto che ancora per gran parte dell’ottocento cedevano persino la propria dote in amministrazione al marito, ricevendone in cambio il diritto al mantenimento e a spendere soldi per la casa22. Sono soprattutto i discorsi che accompagnano le nuove merci e i nuovi modelli di consumo a fornirci indicazioni su quanto i compromessi morali necessari per integrare i valori dell'ascetismo intra-mondano e razionale con il consumo di lusso avessero ricadute diseguali sulla vita di uomini e donne. Certo ogni volta che la crescita economica ha aperto la disponibilità dei beni di consumo a nuovi gruppi sociali sono emersi sentimenti di forte ostilità verso la ricchezza materiale: il consumo è stato spesso visto come l’espressione negativa del trionfo del mercato moderno in grado di distruggere le tradizioni, l’autorità e la famiglia e di rendere gli uomini deboli e incapaci di difendere la propria patria23. E’ chiaro che l’ ostilità che accompagna il consolidarsi dei modelli di consumo contemporanei è profondamente connotata in base al genere. Non a caso, una delle retoriche critiche utilizzate per stigmatizzare la società dei consumi soprattutto ai suoi albori e ancora per tutto l’ottocento associava il consumo e i beni di lusso alla femminilità, intesa come leggerezza ed effeminatezza, utilizzando tale catena associativa per denunciare i rischi corsi dalle tradizionali virtù civiche maschili24. Le stesse donne scrittrici si sono fatte interpreti di questa retorica. Prendiamo per esempio la prima rivista femminile curata da una donna, ovvero The Female Spectator che Eliza Haywood pubblicò tra il 1744 e il 1746 con grande successo. Haywood, una scrittrice di romanzi piuttosto popolare, si proponeva di fare i conti con l’enorme disponibilità di beni voluttuari per le donne della crescente classe media25. Sebbene la sua rivista non adottasse un atteggiamento di puritana negazione del consumo, è chiaro che nelle sue pagine le nuove possibilità di consumo introdotte in Inghilterra dall’ormai fiorente commercio coloniale figurano come un potenziale pericolo per una buona gestione degli affari e dell’economia domestica. Un esempio curioso ci mostra chiaramente i vincoli cui erano sottoposte le donne come consumatrici: in un numero di The Female Spectator, Haywood prende le spoglie di un marito che lamenta “l’immoderato consumo del tè” della sua signora. Il tè e il suo cerimoniale sono una “indulgenza” che implica una “perdita di tempo che viene sottratto all’azienda di famiglia”, una fonte di “ozio” che ruba alle mogli quelle ore che dovrebbero piuttosto essere onestamente impiegate per la “buona economia domestica”. Anche un consumo innocente come quello del te può arrivare dunque ad opporsi, in quanto pratica edonista e vana, al lavoro: consumare non è solo costoso, sottrae anche capitale e tempo alla produzione che è l’unico legittimo obiettivo di una sana famiglia borghese. Haywood mostra di sapere molto bene che l’ascetismo può essere affettato, non nega totalmente il valore del consumo, ma piuttosto avverte che il consumo può seguire logiche svincolate da quelle della produzione e arrivare a prenderne il posto, mettendo così a repentaglio le forme tradizionali dell’identità di genere e di classe. Anche gli uomini possono diventare oggetto di critica per i loro consumi: proprio Haywood biasima gli uomini che si prendono una eccessiva cura di sé (profumi, vestiti, belletto, ecc.) dipingendoli come “eleganti damerini”, capaci di bruciare di desiderio solo per le merci più esotiche, preda di una femminilizzazione che contrasta con i doveri del cittadino maschio, inclusa la guerra patriottica. Ma gli uomini hanno anche la possibilità incarnare in virtuosa armonia quelle contraddizioni cui la crescente separazione tra produzione e consumo ha dato vita. Sempre nell’Inghilterra di primo settecento sulle pagine della rivista The Female Tatler Bernard Mandeville celebra lo stile dell’alto borghese dedito alla finanza che vive nello splendore, combina razionalità imprenditoriale ed edonismo raffinato, ammassando ricchezza la maggior parte del giorno e dedicandosi per il resto ai suoi piaceri. Questo stile di vita, che richiede una sapiente capacità di dosare atteggiamenti, emozioni e condotte diverse non è tuttavia disponibile alle donne della borghesia, escluse nella stragrande maggioranza dalla sfera lavorativa exta-domestica26. E’ quindi attraverso forme di consumo produttivo (ricamare, leggere, cucire), addomesticato (si fa avanti una ideologica della gestione razionale della sfera domestica) e vicario (come membri di una famiglia e in nome di tale famiglia) che le donne possono esprimersi come consumatrici in modo adeguato e corretto. Così imbrigliato, il sognare ad occhi aperti ben si addice al tipo di femminilità che dovevano incarnare le spose borghesi, impegnate a consumare anche e soprattutto per dare splendore al proprio marito. Come ha suggerito Thorstein Veblen nel suo classico saggio sulla classe agiata, nell’ordine patriarcale “le donne devono consumare solo a beneficio dei padroni” di casa ed anche le “ovvie eccezioni” a questa regola (vestiti e ornamenti per la casa) si configurano vieppiù come “consumi vicari” 27. Nell’analisi vebleniana della società statunitense a cavallo tra otto e novecento, la divaricazione produzione/consumo che caratterizza lo sviluppo dell’economia moderna viene a corrispondere alla complementarietà dei sessi nella famiglia borghese: la sfera di consumo, i negozi, i beni voluttuari, i gusti raffinati, lo sfoggio e lo sfarzo sono riservati alle donne, confinate nella dimensione consumatrice della famiglia e sempre soggette a fungere da simbolo di status per il proprio marito; la sfera della produzione, con la sua sobrietà, è invece la provincia privilegiata del capo-famiglia. Nelle società urbane industrializzate quell’esibizione di ricchezza che precedentemente passava attraverso l’impiego di una vasta quantità di servi si tramuta quindi in una divisione dei compiti nella famiglia: con il consolidarsi della famiglia borghese, i doveri del “consumo vicario” vengono assolti dalle mogli, mentre ai mariti spetta il compito di portare a casa quanto più denaro possibile. E se nelle élites statunitensi di fine secolo pesano ancora quelle restrizioni sui consumi femminili che hanno il proprio retaggio nella tradizione patriarcale, con il lento ma progressivo affermarsi di quella visione nuova, più paritaria e allo stesso tempo più erotica dei rapporti di genere all’interno della famiglia (cfr. Sombart più sopra), le donne possono consumare sempre di più per se. In questo sono aiutate dal progressivo consolidarsi di industrie – della distribuzione, del design, della moda – che spesso fanno delle donne le loro principali interlocutrici. Lo shopping, la casa e la moda Gli studi sulla genesi della cultura di consumo hanno messo in evidenza la complessità e l’ambivalenza dell’intreccio tra produzione, consumi e ordine di genere. La sfera dei consumi, in particolare, ha offerto alle donne uno spazio legittimo di azione, ma, per lungo tempo, le ha anche confinate in questo ambito di azione che è stato spesso costruito, anche per rafforzare la complementarietà tra i sessi, in modo speculare alla sfera della produzione, come uno spazio non solo femminile anziché maschile ma anche privato anziché pubblico, leggero anziché serio, emotivo anziché razionale, ecc. Una simile ambivalenza si palesa anche nella storia dello shopping. Numerosi studi hanno sottolineato che soprattutto a partire dal settecento, e a partire dalle grandi città commerciali inglesi in particolare, si sviluppa un orientamento edonistico-estetico all’andar per compere. I negozi, soprattutto quelli che vendono beni di lusso, si configurano sempre più come luoghi di divertimento elegante, raggiungendo dimensioni ragguardevoli, differenziandosi funzionalmente a seconda del bisogno complesso cui vogliono rispondere e che vogliono sollecitare (toilette femminile, arredamento domestico, ecc.) promuovendo una progressiva spettacolarizzazione delle merci mediante l’allestimento di vetrine sempre più elaborate28. I negozi eleganti prima e le gallerie commerciali e i grandi magazzini poi si configurano come luoghi importanti per lo sviluppo di una cultura di consumo moderna, non solo perché segnano la trasformazione degli spazi pubblici in senso prettamente commerciale e la diffusione di un nuovo orientamento edonistico-estetico nei confronti dell’andare per compere, ma anche perché sono tra i pochissimi luoghi pubblici nel cuore delle grandi città in cui le donne sono ben accette ed anzi, in qualche modo, “sovrane”. Le gallerie commerciali e i grandi magazzini in effetti si configurano come spazi femminili in una scena pubblica ottocentesca altrimenti decisamente maschile 29. Diversi studi recenti, tra i quali il brillante studio di Erika Rappaport, tendono a sottolineare il ruolo di questi spazi commerciali sempre più eleganti e raffinati nel favorire la crescita dell’autonomia e della visibilità pubblica delle donne, soprattutto di classe media, per altri versi confinate al ruolo di mogli e di madri nel privato della sfera domestica30. In quest’ottica l’andar per compere o shopping diventò una nuova forma di sociabilità che costituì il nucleo di una sfera pubblica femminile. Come accennato, la legittimazione dello shopping come attività adatta alle donne della buona società passò anche attraverso una forte centralità della cultura materiale e degli acquisti nelle riviste e nella letteratura femminile che vi ambientava romanzi carichi certo di ansie e restrizioni, ma anche portatori di nuove visioni di rispettabilità31. Le stesse scrittrici vittoriane poi si resero ben presto conto di quanto cruciale fosse soprattutto la femminilizzazione del personale addetto alle vendite per la diffusione di una cultura femminile dello shopping: come scrive Lady Jeune a proposito delle commesse in The Modern Marriage Market, una raccolta di scritti curata da Marie Corelli, “le donne sono così più rapide degli uomini, e capiscono tanto più in fretta cosa vogliono altre donne. Possono immedesimarsi con l’agonia della disperazione per l’accostamento dei colori, le diverse finiture, la durata di una moda, e la profondità del portamonete di una signora”32. Se per le donne l’andar per negozi è divenuta un’attività del tempo libero legittima ancorché contesa, è forse anche perché essa è stata organizzata come espressione femminilizzata di quelle forme cortesi di controllo incrociato che corrispondono, come voleva già Adam Smith, all’ideale del libero mercato e che finiscono per avere importanti funzioni disciplinari. Lo shopping promuove e richiede insospettate dosi di disciplina: sfruttare lo spettacolo delle merci senza acquistarle immediatamente è una vera e propria competenza, come testimonia l’ubiquità del ricorso alla frase “sto solo guardando” per giustificare la propria presenza nei negozi33. Si tratta ovviamente di un guardare codificato che, per esempio, non può esprimersi nel tatto (“guardare ma non toccare”) e deve comunque essere contenuto, almeno manifestamente, da forme di rispetto per gli altri. Insomma un vero e proprio “balletto” di cortesia, apprezzamento e disprezzo in cui si gioca spesso il ruolo dell’apprendista nascosto: si devono imparare nuovi gusti e stili senza farlo capire troppo apertamente. Anche per questa surrettizia possibilità di socializzazione ai consumi e di rincorsa sociale, in tarda età vittoriana il desiderio delle giovani donne per le merci eleganti è un ricorrente oggetto di riflessione pubblica e genera ansie non solo come possibile indicatore di immoralità sessuale ma anche come opportunità di innalzarsi al disopra delle proprie possibilità34. Come ha notato Elaine Abelson35, il controllo e la sanzione dei furti nei negozi e grandi magazzini da parte delle donne di classe media avviene attraverso la codificazione di una nuova malattia, la cleptomania, un espediente che consente di continuare a punire le donne del popolo che rubano dai negozi generi di prima necessità e di non rompere l’incanto del grande magazzino per le classi medie salvaguardandone principi e rispettabilità commerciali. Classe e genere si intrecciano così nella storia dello shopping: le ansie generate dall’espansione della presenza femminile sulla scena pubblica sono spesso affini a quelle generate dalla paura delle “folle” tanto che lo stesso Zola descrive i grandi magazzini come regni femminili “invasi da orde di donne” che agiscono come una massa aggressiva e sessualmente vorace36. Alla sfarzosa fantasmagoria del grande magazzino si contrappone il confort ordinato della casa borghese, un luogo che viene a costituirsi come spazio privato, dove non si lavora ma si consuma - e questo anche perché, soprattutto a partire dall’ottocento, per gli uomini della borghesia la casa doveva essere un confortevole rifugio proprio dalle pressioni del lavoro, il luogo dove finalmente potevano esprimere il proprio sé, confortati da una moglie che aveva anche e soprattutto funzioni decorative e di cura. Anche se le donne hanno sempre svolto mansioni lavorative non retribuite, le loro fatiche dovevano ora più che mai essere occultate: nella casa non dovevano essere presenti segni del lavoro, tanto meno della meccanizzazione e della burocratizzazione che lo caratterizzavano sempre di più37. La casa venne ad essere concepita come un luogo di non-lavoro anche grazie alle caratteristiche estetiche dei beni che venivano a far parte dell’ambiente domestico. Nel design di oggetti per la casa ogni riferimento al lavoro e alla cruda funzionalità doveva essere abolito, anche qualora l’oggetto avesse uno scopo funzionale38. E’ questo il caso delle macchine da cucire domestiche che si diffusero ampiamente tra otto e novecento e che portavano letteralmente il lavoro in casa. Eppure, per essere accettate di buon grado, esse dovevano essere disegnate in modo da rimuovere la loro connotazione industriale. Solo così potevano risultare in tono con l’atmosfera casalinga: ecco dunque che la Singer, una delle marche più note allora come oggi, produceva macchine domestiche leggere, piccole ed estremamente curate, decorandole con particolari “artistici”, in modo da renderle “un bell’ornamento” per il boudoir39. Anche più avanti, quando soprattutto nel secondo dopoguerra, si diffondono la radio prima, gli elettrodomestici e le suppellettili di plastica poi, il design domestico e le forme della sua commercializzazione si intrecciano a particolari definizioni dei rapporti all’interno della famiglia. Ciò nonostante, la sfera domestica è in effetti per le donne non solo un luogo da rendere accogliente per i propri mariti e per i propri figli, ma è anche spesso l’unico luogo che consente loro di consumare legittimamente partecipando, con le merci acquistate, a vari rituali di socievolezza. Attraverso i consumi domestici o per la casa le donne potevano fare proprio uno spazio e accumulare proprietà, anche se gli immobili erano vieppiù di proprietà dei loro mariti e padri. Non stupisce quindi rilevare che fin dai primi studi sulla genesi dei modelli di consumo moderni, gli storici si sono accorti che la propensione delle donne ad accumulare suppellettili domestiche nuove ed esotiche (le porcellane, i tessuti preziosi, i mobili) era superiore a quella degli uomini40. Per gran parte del sette e ottocento la ricchezza delle donne era infatti ricchezza mobile: suppellettili per la casa, ma anche vestiti e gioielli. Vestiti e gioielli in particolare arrivano a connotarsi, soprattutto man mano che si consolida l’era borghese, come beni prettamente femminili, grazie tra l’altro a quella “grande rinuncia” allo sfarzo e alla sofisticazione delle apparenze da parte degli uomini della borghesia protestante e cittadina che David Kutcha ha descritto così bene 41. Ancora sul finire dell’ottocento, mentre per le donne dell’alta borghesia persino il trucco comincia ad assumere i connotati di una forma di seduzione da protocollo, codificata e addomesticata da una serie di discorsi esperti veicolati dalle riviste femminili42, la moda appare, ad un attento osservatore della cultura urbana come Georg Simmel, un fenomeno prettamente femminile. L’associazione tra donne e moda ha chiare e innegabili radici storico-sociali che in parte abbiamo già menzionato ricordando la nozione di consumo vicario proposta da Veblen. Anche Simmel nel suo celebre saggio sulla moda nota che è anche la debolezza storica della loro posizione sociale ad orientare le donne verso “ciò che si conviene”: la moda consentirebbe infatti alle donne di esprimersi in un linguaggio condiviso, diventando “la valvola attraverso la quale il bisogno delle donne di una certa quantità di distinzione e di rilievo personale trova uno sfogo quando il suo appagamento è maggiormente negato loro in altri campi” 43 . Una parte del pensiero femminista degli anni della contestazione esaspererà simili osservazioni arrivando a considerare ogni forma di cura di sé mediata dal mercato e dalle merci come epifenomeno dell’intersecarsi di patriarcato e capitalismo: anche il reggiseno per esempio non sarebbe altro che un tardo epigono di quel corsetto vittoriano che ha costretto e deformato il corpo femminile a beneficio dello sguardo maschile e di una industria anch’essa controllata da uomini44. Tuttavia, soprattutto a partire da fine ottocento, la moda ha anche offerto alle donne importanti spazi di emancipazione, come peraltro ha notato lo stesso Simmel sottolineando che con la sua apparente “lievità”, la moda offre spazi di sovversione dove anche ciò che appare come “innaturale” può trovare spazio. Il fondamentale studio sulla moda condotto da Elizabeth Wilson mostra per esempio che storicamente gli stili di abbigliamento di uomini e donne non si sono limitati a riprodurre simbolicamente la differenza di genere, ma hanno anche costituito un campo di battaglia su ciò che è permesso fare rispettivamente agli uni e alle altre45. I vestiti possono essere fonti di fantasie ribelli e catalizzatori di gruppi riformisti, inclusi quelli di liberazione femminile. I famosi bloomers – i calzoni alla turca, che prendono il nome da Amelia Bloomer che ne lanciò la moda sul finire dell’ottocento - erano legati alla lotta per allargare i diritti delle donne, e per un breve tempo vennero indossati non solo dalle donne che andavano in bicicletta ma anche dalle suffragette46. Derisi dai conservatori come simbolo della donna emancipata per quanto evitassero di suggerire immagini di femminilità sessualmente troppo aggressive e libere, i bloomers concessero alle donne una nuova libertà fisica e di movimento e simboleggiarono la loro rivolta contro le restrizioni sociali, e la loro rivendicazioni di controllo sul proprio corpo e sui propri movimenti. Allo stesso modo, negli anni Sessanta, la minigonna è divenuta l’oggetto di una vasta denuncia moralistica proprio perché si è associata alla rivendicazione della libertà sessuale da parte delle giovani donne. Anche il confinamento delle donne borghesi nel ruolo di casalinghe ha esiti ambigui poiché le ha spinte ad impadronirsi di capacità di gestione e di scelta delle nuove merci che hanno finito per dare loro una nuova consapevolezza di sé e per metterle in nuova luce agli occhi degli uomini.47 Il consumo non è stato quindi solo una gabbia più o meno dorata per le donne, ma ha anche offerto loro la possibilità di diventare visibili come attori economici e politici, al di là della sfera di consumo stessa. Già sul finire del settecento è attraverso una riflessione sulle scelte di acquisto che alcuni gruppi di donne inglesi cominciano ad opporsi allo schiavismo; agli inizi del novecento in Francia le donne ebbero un ruolo determinante nel dare vita alla League Sociale d’Acheteurs che, proprio come la coeva National Consumer’s League americana fondata da Florence Kelley, tentava di spingere i consumatori ad acquistare solo i prodotti di quelle aziende che mettevano in atto adeguate politiche di salario e protezione dei propri lavoratori; durante la prima guerra mondiale furono invece le casalinghe newyorkesi ad organizzare la protesta contro l’alto costo dei generi alimentari usando tra l’altro boicottaggi di consumo48. Ancora negli anni cinquanta, per quanto si assista ad una certa neutralizzazione di genere del termine “consumatore” man mano che esso viene iscritto nei valori di una classe professionale maschile, le donne hanno un ruolo importante, per quanto sempre conteso, nel definire il profilo dei movimenti di difesa del consumatore in Gran Bretagna, Francia e negli Stati Uniti49. . Maschile, femminile, ibrido: il genere dei consumi oggi Anche se molte delle differenze di genere che hanno segnato lo sviluppo dei consumi moderni si sono affievolite e trasformate, il genere rimane oggi una dimensione importante della cultura di consumo. All’innestarsi dello shopping nel cuore pulsante delle gerarchie culturali, corrisponde per esempio, ancora oggi, una varietà di logiche motivazionali che esprimono chiaramente le differenze e i rapporti di genere, intrecciando conflitto e cooperazione, gratificazione personale e sacrificio a beneficio dei propri cari. Così nella sua etnografia sulla spesa al supermercato delle famiglie di un quartiere di Londra, Daniel Miller ha illustrato quanto il fare acquisti sia intrecciato a rapporti di genere diseguali: se oggi uomini e donne fanno spesso la spesa supermercato insieme, le modalità di negoziazione degli acquisti rafforzano marcate asimmetrie di genere che si esprimono nel tentativo maschile di sanzionare le scelte e in quello femminile di anticipare i desideri. Proprio per questa necessità di orientarsi all’altro, sono soprattutto le donne, tra i soggetti studiati da Miller, a trovare insensato lo shopping se non c’è nessuno a cui pensare, se sono sole o senza uno stabile orizzonte relazionale50. Con buona pace del femminismo dunque, posto che il discorso sullo shopping cattura la potenza trasgressiva del denaro e dello spreco, “l’elemento di trasgressione viene ancora più accentuato dall’idea che il compratore dalle mani bucate è la donna, proprio perché su di lei ricade la responsabilità di fare la spesa per la famiglia … Lo shopping fa tanto più scalpore come consumo distruttivo quanto più chi compra viene ad essere identificato con chi si suppone debba essere il simbolo di chi si sacrifica, e cioè la donna di casa che vive per il bene della sua famiglia”51. Per quanto siano entrambi coinvolti nel fare acquisti, uomini e donne tendono oggi a concettualizzare tale attività in modo diverso. Come ha mostrato Colin Campbell analizzando gli atteggiamenti nei confronti dello shopping di uomini e donne nell’Inghilterra contemporanea lo shopping è un vero e proprio campo di battaglia tra i generi52, e non tanto perché le donne sono più propense a mostrarsi entusiaste e gli uomini a dirsi in media più annoiati e distanti. Queste diverse espressioni sono infatti la punta di un iceberg, non solo perché le donne associano lo shopping più spesso all’acquisto di vistiti e gli uomini all’acquisto di tecnologia, ma anche perché le prime tendono a considerare il tempo speso a girare tra le vetrine un tempo necessario e importante, e i secondi invece tendono a voler minimizzare il tempo per l’acquisto, dando al proprio tempo un valore maggiore. Gli uomini appaiono così alle donne “compratori incompetenti” mentre le donne sembrano agli uomini “consumatrici frivole”. Questa guerra simbolica corrisponde peraltro ad una differenziazione di fondo: le donne descrivono lo shopping usando quadri di riferimento presi in prestito dai discorsi sul tempo libero (socievolezza, fantasia), gli uomini invece più spesso si servono delle cornici discorsive che si applicano al lavoro (efficienza, razionalità), arrivando a sostenere che il loro non è propriamente shopping. Si tratta di due diverse “ideologie” del fare acquisti in conflitto tra loro attraverso le quali sia lo shopping che i rapporti di genere vengono ad essere reciprocamente definiti. La posizione maschile per esempio fornisce agli uomini un modo per “indugiare” in questa attività “dominata dalle donne” senza “compromettere troppo le identità maschili” dominanti, “evitando di riconoscere la superiorità femminile”. Se molti sono gli spazi pubblici che risultano oggi sempre più legittimamente visibili come luoghi del consumo, la casa rimane l’ambito forse più articolato e complesso in cui si realizzano le pratiche di consumo quotidiane. Pur essendo un luogo privato la sfera domestica è uno specchio e allo stesso tempo uno nei nodi costitutivi delle relazioni di potere che innervano la società, ed in particolare le relazioni di genere. Come suggerito, la sfera domestica si è costituita idealmente in opposizione a quella della produzione come ambito di consumo e del tempo libero; allo stesso tempo però molto di quello che passa per consumo è in effetti mediato dal lavoro non retribuito delle donne, un lavoro sia emotivo che materiale. Ciò è vero ancora oggi: in uno studio sulle famiglie statunitensi contemporanee la femminista Marjorie DeVault ha messo in luce la grande capacità di negoziazione e gestione del conflitto che le donne, come madri e mogli, devono mettere in campo affinché i bisogni di tutti componenti vengano in qualche modo accomodati e la quantità di lavoro di preparazione che esse devono portare a termine affinché ciò che è stato acquistato per le necessità della famiglia possa essere effettivamente consumato53. Le asimmetrie di genere che caratterizzano le famiglie segnano profondamente i consumi domestici, inclusi i consumi culturali che si connotano ormai come un tratto saliente della domesticità contemporanea54. In un noto studio sulle famiglie londinesi contemporanee David Morley ha riscontrato due modi chiaramente diversi di guardare la tv: uno femminile ed uno maschile55. Le responsabilità domestiche ma anche e soprattutto la percezione che le donne hanno del proprio ruolo rispetto al benessere famigliare facevano sì che raramente esse guardassero la televisione, incluso i loro programmi preferiti, in totale concentrazione. Il modo di consumare la televisione in casa finisce così per rafforzare la percezione che per le donne, anche per quelle che lavorano fuori casa, la casa sia ancora un luogo di lavoro, mentre per gli uomini sia essenzialmente un luogo di riposo e di stacco dalle responsabilità lavorative. Del resto anche altri consumi culturali domestici tipicamente femminili vanno messi sullo sfondo della struttura di genere del lavoro domestico. Un recente studio sulle riviste femminili ha mostrato che la loro principale attrattiva non risiede affatto nei significati veicolati ma nel modo in cui vengono lette: si tratta innanzi tutto di una lettura “facile” non tanto e non solo perché leggera, ma soprattutto perché il suo formato “in pillole” fa si che possa essere “facilmente abbandonata e ripresa” durante i compiti di gestione domestica che spettano tipicamente alle donne56. Nel panorama contemporaneo esistono indubbiamente alcuni prodotti culturali che vengono considerati femminili per antonomasia: le soap operas, il romanzo rosa e il fotoromanzo. Proprio in quanto forme d’intrattenimento popolari e femminili che parlano di rapporti tra i sessi soap operas, romanzo rosa e fotoromanzo sono stati spesso oggetto di un forte ostracismo culturale. Nel suo studio sul fotoromanzo, che ha conosciuto un vastissima diffusione nel dopoguerra soprattutto in Italia e America del Sud, Anna Bravo ha mostrato per esempio la stretta interconnessione tra ceto sia nelle storie presentate sia nei profili sociali del pubblico, tanto che le lettrici di fotoromanzo per lo più provenienti dalle classi popolari sono state stigmatizzate prima come “cattive ragazze” e poi come “ragazze arretrate e inconsistenti”57. Eppure, passando rapidamente dall’essere un prodotto che mette in pericolo la modestia femminile ad esserne uno troppo banale per le nuove femminilità impegnate, anche il fotoromanzo ha contribuito a modificare le condizioni culturali entro le quali le donne, anche quelle delle classi meno favorite, hanno potuto rivendicare spazi di legittimità per i propri piaceri. Diversi studi oggi mostrano che, pur rimanendo programmi di massa e largamente criticati per la loro vacuità, le soap operas sono seguiti da un pubblico variegato capace di operare delle distinzioni grazie alle quali“divertirsi” pur mantenendo un “senso di realtà”, lasciarsi andare emotivamente pur considerando le situazioni presentate chiaramente assurde da un punto di vista cognitivo. Così nel suo noto lavoro sul pubblico di Dallas – una sit-com statunitense di successo degli anni settanta – Ien Ang mostra che le spettatrici, consapevoli della retorica elitaria che stigmatizzava le loro preferenze, sentivano di doversi giustificare, scegliendo o una retorica “populista” (sostenendo cioè che il piacere dato dal programma era equivalente a piaceri più raffinati), o più spesso atteggiamenti “ironici” (sostenendo di seguire il programma come una commedia e non un melodramma) e “consapevoli” (affermando di riconoscerne sia i pericoli che il senso)58. Anche le lettrici di romanzi rosa studiate da Janice Radway in un fondamentale studio sulla lettura al femminile hanno mostrato insospettabili dosi di capacità critica anche grazie al consolidarsi di una sorta di “comunità interpretativa” che, raccoltasi introno ad una particolare libreria, fungeva da stimolo e da luogo di confronto59. Le donne studiate da Radway descrivevano il leggere come un “regalo speciale” che potevano concedersi di tanto in tanto. Anche in questo caso, per comprendere le loro esperienze di consumo, Radway ha dovuto considerare la forte asimmetria di genere che ancora caratterizza la famiglia occidentale. Se gli uomini vengono sostenuti emotivamente dalle donne, le donne devono più spesso trovare da sole la capacità di rilassarsi e rinfrancarsi: la lettura dei romanzi rosa contribuisce in modo importante alla riproduzione emotiva di molte di loro, offrendo una “temporaneo ma letterale diniego” delle richieste cui si sottopongono per essere mogli e madri amorevoli, offrendo piaceri forse “vicari”, ma indubbiamente “reali”. E’ proprio nella “differenza” dalla vita ordinaria che sta il significato di queste letture: trovare tempo per sé, in un momento in cui la casa è tranquilla, in una particolare stanza, non è solo “un distacco rilassante dalle tensioni della vita quotidiana”, ma crea anche “un tempo o uno spazio in cui una donna può essere interamente per conto proprio, preoccupata solo dei propri desideri, bisogni e piaceri”60. Certo, a ben guardare, è difficile stabilire una volta per tutte se simili piaceri siano effettivi strumenti di liberazione e cambiamento sociale o se invece riproducano le strutture della disuguaglianza di genere. Ciò non di meno, le pratiche di lettura al femminile e soprattutto i gruppi di lettura femminili offrono la possibilità di innestare uno spazio per la creazione di una coscienza pubblica proprio nel cuore della sfera domestica, e di converso, di dare risonanza pubblica a questioni private. Questo in parte quanto rilevato da Elizabeth Long nel suo studio sui reading groups femminili di Huston in Texas, dalla fine della Guerra Civile ad oggi61. Nell’ottocento questi gruppi di donne bianche furono in grado di catalizzare una serie di pratiche organizzative, letterarie e di mutuo soccorso che diedero loro la necessaria fiducia per immaginare se stesse in modo nuovo, trasformando un iniziale movimento letterario in un movimento per la riforma sociale, coinvolto tra l’altro nel movimento per il diritto al voto alle donne. Pur rimanendo connotati in base a marcati confini di razza e classe, anche gli odierni gruppi di lettura studiati da Long con metodo etnografico, sembrano incoraggiare le donne che li animano a mettere in questione l’ordine sociale: per queste donne i libri diventano il linguaggio attraverso cui narrare le proprie esperienze e tentare di trascenderle. E se la lettura si configura come un fenomeno chiaramente connotato in base al genere, un ambito di consumo tanto affine quanto diverso quale è lo sport non è da meno62. Come accennato, le sport è nato come regno maschile e le donne hanno faticato e faticano ad accedere alla pratica sportiva in misura eguale agli uomini. La diffusione degli sport tra le donne è stata segnata da una continua e difficile negoziazione con le barriere anche e soprattutto simboliche e culturali che relegavano nella sfera domestica, al ruolo di madri. In Italia, Francia e Germania, come pure in Inghilterra e negli Stati Uniti, ancora nei primi decenni del novecento si intrecciano acrimoniosi dibattiti tra coloro che salutavano con entusiasmo la prospettiva della diffusione delle attività sportive tra le donne e coloro che invece temevano che le atlete avrebbero rovinato le proprie future capacità di mogli e madri, e quindi avrebbero agito come elementi di disordine sociale e decadenza morale e fisica della nazione63. Certo, soprattutto a partire dagli anni settanta e anche grazie al consolidarsi del movimento del fitness, si sono diffuse pratiche sportive e fisicoricreative che sembrano mettere in discussione almeno alcuni aspetti dell’opposizione tra maschile e femminile, e che sono caratterizzate sia dalla forte mediazione commerciale sia dal ridimensionamento della competizione e dall’accentuazione del divertimento64. Eppure anche in culture sportive unisex, le donne non solo hanno l’occasione di sviluppare significati e pratiche opposizionali, rafforzando capacità tradizionalmente definite come maschili quali la forza e il coraggio, ma sono anche indotte, quasi per compensazione, ad accentuare alcuni tratti della femminilità tradizionale, per esempio utilizzando codici del vestito e di cura del corpo tradizionalmente femminili. Nella pratica di uno sport che sembra tagliare le distinzioni di genere come il windsurf, per esempio, le donne sembrano scontare la propria maschilizzazione nell’attività sportiva, rimanendo ancorate a tratti di femminilità tradizionale soprattutto rispetto alla sfera personale.65 D’altro canto, ancora oggi lo sport è una delle arene cruciali di riproduzione di una maschilità aggressiva: soprattutto attraverso gli sport di contatto, i maschi vengono socializzati ad apprezzare il pericolo, la durezza e la forza fisica. Non stupisce quindi che la ricerca sulle identità maschili nello sport si sia spesso focalizzata sulla questione della violenza66. In effetti, la partecipazione a sport di contatto che premiano l’aggressività non solo appare effettivamente correlata ad una più disinvolto uso della violenza anche fuori dalla sfera sportiva ma anche rafforza l’impressione che gli uomini siano più violenti, naturalizzando così una consolidata associazione simbolica. Anche forme di consumo che sembrerebbero difficilmente riportabili a stereotipi di genere - dal collezionismo al turismo, dai nuovi gadgets elettronici alla musica – a ben guardare risultano connotate in base al genere67. In molti campi però più che consumare cose diverse, uomini e donne consumano in modi sottilmente diversi, rinegoziando, anche attraverso i consumi le tradizionali distinzioni di genere, magari proponendo nuove dimensioni della differenza. E’ evidente infatti che il consumo oggi consente sempre più di mischiare codici tradizionalmente maschili e femminili, e di proporre nuove visioni della maschilità e della femminilità. Alcuni studi, tra cui quelli di Tim Edwards, Frank Mort e Sean Nixon, hanno messo in luce che anche l’identità maschile viene sempre più messa in gioco dai meccanismi della moda, da merci “superflue” e “frivole” e da codici visivi trasversali rispetto al genere68. Del resto l’“uomo nuovo” dell’industria della moda mescola spesso codici maschili e femminili e gioca con le ansie omofobiche della tradizionale identità sessuale maschile. Le immagini commerciali della moda sempre più spesso tendono non solo a mettere in discussione l’identificazione tra sobrietà e maschilità ma anche a rappresentare l’uomo come “oggetto” del desiderio, usando codici visuali precedentemente riservati alla rappresentazione del corpo femminile69. Il modello della rivista femminile sui consumi, la salute e bellezza che tanta parte ha avuto nel legare insieme femminilità e consumi voluttuari è peraltro stato felicemente esteso anche al pubblico maschile come mostra chiaramente il successo di riviste come Men’s Health che propongono le tematiche dello shopping, della moda e della cura di sé70. I consumi possono dunque essere complici del superamento delle tradizionali identità di genere, ma spesso questo avviene a discapito di un rafforzamento delle distinzioni di classe, come mostra un recente studio sulle scelte d’abbigliamento dei giovani maschi britannici di classe media71. Anche il celebre studio di Dick Hebdige sulla diffusione della Vespa in Inghilterra nel secondo dopoguerra, mostra non solo che tale diffusione seguì percorsi imprevisti e incontrollabili dai pubblicitari, ma anche che essa segnò il consolidarsi di una nuova maschilità che rimaneva comunque profondamente connotata in base all’appartenenza di classe72. Pubblicizzata come un veicolo femminile, comodo ed elegante, la Vespa divenne un oggetto di culto per la sotto-cultura giovanile Mod, per lo più composta da giovani uomini in ascesa sociale. Attraverso la Vespa i Mods poterono opporre la propria maschilità raffinata ed esteticizzante a quella più tradizionale dei motociclisti rockettari. I loro consumi rappresentavano dunque una sfida alle classiche distinzioni di genere e al contempo tendevano a riprodurre, ed anzi a rafforzare, le distinzioni di classe. E qualcosa di simile possiamo rivenire anche nell’Italia del secondo dopoguerra: quando la pubblicità comincia a proporre immagini di maschilità nuove, spesso associate a nuove, più paritarie visioni dei rapporti di genere, l’accesso ai nuovi beni di massa si configura come un modo di essere maschi moderni, liberati dalle costrizioni della campagna, in opposizione ai “cafoni” che non solo non sanno (o possono) consumare, ma che sono ancora dominati di sentimenti incivili73. Le merci si mostrano così come catalizzatori di forme d’identità che destabilizzano alcuni dei confini sociali che passano attraverso il genere e la sessualità per ristabilirne, anche involontariamente, altri74. L’ibridazione di maschile e femminile nella cultura di consumo sembra quindi avvenire non mediante un superamento della distinzione di genere in quanto tale, quanto mediante la distillazione in forme nuove, più sofisticate e sottili, della differenza. Per quanto riguarda il vestire ad esempio, l’ingresso delle donne sul luogo di lavoro soprattutto a partire dagli anni settanta è stato accompagnato dall’utilizzo di codici del vestire maschili attraverso i quali le donne hanno cercato di appropriarsi di alcune qualità espressive per essere accettate come compagne di lavoro competenti75. Ciò ha richiesto una complessa negoziazione tra connotazioni di maschilità e femminilità: l’adozione di codici del vestire maschili che veicolano immagini di autorità sul lavoro, il fenomeno del così detto “power dressing”, è stato per le donne un modo di facilitare il proprio ingresso negli ambienti professionali mantenendo una nota di femminilità ma contenendo le connotazioni sessuali. La giacca strutturata e le sobrie tinte unite si sono quindi combinate alle gonne e ai tacchi alti, creando un ibrido sempre instabile tra le connotazioni maschili (autorità/distacco) e quelle femminili (sessualità/emotività) che le donne riescono a volte a giocare a proprio favore, ma che le obbliga ad una vigilanza assai più costante e consapevole di quella richiesta ai loro colleghi maschi. Lungi dall’essere messi al bando dalla cultura di consumo contemporanea, ibridità e trasgressione dei confini di genere, omosessualità ed ambiguità sessuale e sono diventati codici importanti sia della moda che delle immagini pubblicitarie. Se la vocazione strumentale della pubblicità commerciale la rende tendenzialmente standardizzata, essa agisce anche nel senso della spregiudicatezza, aprendosi a tutto ciò che può colpire ed attrarre il pubblico, mescolando tutto e riconciliando gli opposti76. La pubblicità è una forma simbolica essenzialmente ambigua: può sia riprodurre le distinzioni e gerarchie sociali dominanti, sia, per quanto più di rado, appoggiarsi a nuovi orientamenti culturali, a nuove identità emergenti e a tendenze sociali innovative. Accanto alla maschilità e femminilità egemoniche, la pubblicità ha così aiutato a veicolare immagini non tradizionali del genere, mettendo in circolo, a disposizione di tutti, anche solo per riuscire ad attirare l’attenzione di un pubblico distratto, immagini sovversive, marginali, devianti della maschilità e della femminilità, arrivando persino a giocare sull’ambiguità sessuale, l’omosessualità, il travestitismo e l’immaginario drag77. In effetti, se ancora negli anni sessanta la pubblicità lasciava ampio spazio alle immagini più tradizionali della distinzione e della differenza di genere, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta le immagini e le strategie commerciali hanno cavalcato l’onda di movimenti progressisti o di protesta, come quello femminista78. Oggi sempre più spesso i messaggi pubblicitari propongono anche immagini di femminilità innovative, donne che fanno sport, che stanno al passo degli uomini e li superano, donne forti e impegnate sul lavoro, donne attive sessualmente, donne aggressive che lottano tra di loro, ecc. In effetti, l’emancipazione femminile e il movimento femminista hanno fatto sì che i pubblicitari dovessero confezionare anche immagini di femminilità diverse da quelle tradizionali, costruendo le donne come consumatrici indipendenti e forti. La presenza di nuove immagini della femminilità in pubblicità è stata vista da alcuni come una forma di cooptazione che neutralizza ogni pretesa di sovversione reale: Robert Goldman per esempio ha sostenuto che la traduzione pubblicitaria ha reso il femminismo un “feticcio”, distillando un look dagli obiettivi delle donne (l’indipendenza e il successo professionale) e trasferendoli in oggetti di consumo che diventerebbero equivalenti e li sostituirebbero; Chistopher Lasch invece ha affermato che è stata la “logica della creazione della domanda” ad esigere che “le donne fumino e bevano in pubblico, siano libere di andare in giro e rivendichino il loro diritto a essere felici anziché vivere per gli altri”, e che questo ha incoraggiato una “pseudoemancipazione” consumistica che assoggetta le donne stesse “al nuovo paternalismo dell’industria pubblicitaria”79. Nel complesso simili affermazioni sottolineano la forte valenza ideologica della pubblicità come veicolo di legittimazione del consumo come attività sociale significativa, ma contengono anche una malcelata nostalgia per una società tradizionale e patriarcale che assegna ai soli maschi adulti la possibilità consumare in modo non deviante e pedissequo e lascia ben poche alternative alle donne e ai giovani (o schiavi delle merci o schiavi degli uomini adulti). Se è vero che quel tanto di femminismo (o maschilismo) che troviamo in alcuni messaggi pubblicitari è più che altro uno stile che si esprime mediante una collezione di beni, è problematico sostenere che lo stile sostituisce la vita reale, o attribuire alla sola sfera dei consumi la possibilità di riprodurre o modificare un ordine di genere che taglia trasversalmente l’intera organizzazione sociale. Il fatto che i messaggi pubblicitari oggi contengono immagini contrastanti e innovative di genere non va sottovalutato: le immagini pubblicitarie sembrano lavorare in funzione dialettica rispetto alla realtà delle identità di genere, rassicurano le identità tradizionali mentre le spingono verso consumi che destabilizzano l’ordine di genere ma anche solleticando le nuove sensibilità di genere mentre le ancorano a consumi che sono espressione di ruoli tradizionali. Note Conclusive Secondo quanto sostenuto da Arjun Appadurai, i consumatori moderni sono “vittime della velocità della moda” tanto quanto i consumatori delle società primitive o di quelle tradizionali sono “vittime della stabilità di leggi suntuarie” che, a seconda del censo, del genere, dell’età, ecc., vietavano selettivamente l’utilizzo e il possesso di numerosi beni voluttuari80. La democratizzazione dei consumi che si accompagna allo sviluppo di una cultura di consumo propriamente moderna è in effetti non solo un processo lungo, tortuoso e contrastato, ma anche un processo ambivalente. Lungi dal liberare l'essere umano dal proprio essere, il consumo lo obbliga al compito di produrre se stesso, facendosi carico di un’incombente varietà di scelte. Questa individualità obbligatoria a sua volta risulta connotata in base ad una particolare visione della normalità che si intreccia, in filigrana, ai confini simbolici delle diverse identità sociali, in particolare di quelle di genere. All’universalismo formale che corrisponde all’espansione del libero mercato e del processo di mercificazione che caratterizza progressivamente le società occidentali, non corrisponde infatti una eguaglianza di fatto né tra i consumatori e né tra le pratiche di consumo. E questo non solo perché non tutti possiedono sufficiente denaro per acquistare i beni che, ma anche e soprattutto perché consumi diversi sono socialmente e moralmente sanzionati in modo diverso, e questa normalizzazione è più o meno stringente a seconda dell’identità sociale del consumatore. Lo svincolarsi dei consumi dalle leggi suntuarie lascia quindi spazio a nuove forme di governo dei consumi in linea con quella nuova configurazione del valore economico consona alla modernità capitalistica che si è prepotentemente affermata. Come abbiamo visto, per esempio, alle donne borghesi venne progressivamente lasciato il compito di consumare, ma questo non è avvenuto in piena libertà. La cultura moderna ha proposto nuovi stili di vita, spesso compromissori e instabili, che sembrano accomodare esigenze di consumo e di produzione, anche mediante la divisione dei compiti all’interno della famiglia secondo distinzioni di genere. L’impianto smithiano, che fonde edonismo ed ascetismo, vincolando i desideri immediati ad una visione disciplinata della casa, delle fortune e della famiglia borghese, funge ancora almeno in parte da sfondo normativo della cultura di consumo contemporanea. Questa visione normativa della scelta di consumo, che viene a patti con l’edonismo addomesticandolo, da valore alla ricerca di gratificazione personale ma l’accompagna ad un’enfasi sul controllo dei desideri. Essa soprattutto sembra poggiare su una nozione di autonomia individuale sostantiva, che si realizza cioè nella dimostrazione della capacità di essere fedeli a se stessi, alle proprie identità sociali di genere, classe, ecc. 81. Ecco quindi che nel consumo la politica della normalità si intreccia ad una politica della differenza: metaforicamente associati ai desideri incontrollati e alla sovversione dell’ordine di genere i consumi delle donne sono stati spesso oggetto di ansie pressanti oltre che strumento di liberazione; presi a testimonianza di una corretta razionalità economica, i consumi degli uomini li hanno spesso costretti in forme di maschilità egemoniche. Dinamizzato anche da una dialettica tra i sessi, i consumi si sono configurati e si configurano come un vero e proprio campo di battaglia nel quale vengono giocati vecchie e nuove identità di genere, oltre che visioni contrastanti dell’ordine sociale. NOTE 1 Bourdieu, P. (1979) La distinzione: critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2000. Un’utile e aggiornata discussione del ruolo delle differenze di classe nei consumi si trova in Crompton, R. (1996) “Consumption and Class Analysis” in S. Edgell, K. Hetherington e A. Warde (a cura di) Consumption Matters, Oxford, Blackwell. Per una critica all’approccio bourdieano dal punto di vista del genere cfr. McNay, N. (1999) "Gender, habitus and the field: Pierre Bourdieu and the Limits of Reflexivity" in Theory, Culture and Society, 16, 1, pp. 95-117. Sul ruolo dell’ordine di genere nella cultura di consumo odierna si vedano tra gli altri: sulla sfera domestica Jackson, S. e Moores, S. (1995) (a cura di) The Politics of Domestic Consumption, London, Prentice-Hall; sui consumi omosessuali Wardlow, D.L. (1996) Gay, Lesbians and Consumer Behaviour, New York, Haworth Press; sullo shopping Nava, M. (1997) “Modernity’s Disavowal: Women, the City and the Department Store” in P.Falk e C. Campbell, The Shopping Experience, Sage, London; sulla moda Wilson, E. (1985) Adorned in Dreams: Fashion and Modernity, London, Virago. 3 Il termine “genere” è ormai consolidato nelle scienze sociali italiane anche se non rappresenta una fedele traduzione dell’inglese “gender” che è connotato esclusivamente in senso sessuale e non fa riferimento anche al generico significato di “tipo” o “specie” come accade in italiano. Su questo e più in generale per una panoramica sugli studi di genere si vedano soprattutto Piccone Stella, S. e Saraceno, C. (a cura di) (1995) Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, Il Mulino, e più recentemente Leccardi, C. (a cura di) (2002) Tra i generi. Rileggendo le differenze di genere, di generazione, di orientamento sessuale, Milano, Guerrini. Per la rilevanza della nozione di genere nell’analisi storica, si veda Scott, J.W. (1987) “Genere. Un’utile categoria di analisi storica”, in Rivista di Storia Contemporanea, 4, pp. 560-86. 2 4 Si vedano P. Kirkham, a cura di, 1996, The Gendered Object, Manchester University Press, Manchester. e K. Ames e K. Martinez (a cura di) The Material Culture of Gender/The Gender or Material Culture, University of Michigan Press, Ann Arbor. 5 Si veda Gunter, B. e Furnham A. (1998) Children as consumers. A Psychological Analysis of the Young People Market, London, Routledge; Kline, S. (1994) "The Play of the Market: on the internationalization of children's culture", in Theory, Culture and Society, 12, 2, pp. 103-129 e Id. (2005) “A Becoming Subject: Consumer socialization in the mediated marketplace”, in Trentmann, F.(a cura di) The Making of the Consumer: Knowledge, Power and Identity in the Modern World, Berg, Oxford. Sul rapporto tra consumi e genitorialità cfr. Seiter, E. (1993) Sold Separately: Parents and Children in Consumer Culture, New Brunswick, Rutgers University Press. 6 Si veda Muzzarelli, M.G. e Tarozzi, F. (2003) Donne e Cibo, Bruno Mondatori, Milano e D. Lupton, (1996) L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna. Sul rifiuto di cibo come pratica ascetica durante il medioevo, cfr. Bell, R. (1985) La santa anoressia, Mondatori, Milano, e sulla relativamente recente medicalizzazione del rapporto femminile con il cibo cfr. anche il captiolo sui disordini alimentari in Poulain, J. P. (2002) Sociologies de l’alimentation, Paris, Puf. Più in generale, per un influente punto di vista femminista su femminilità, disordini alimentari e cultura di consumo, cfr. Susan Bordo (1993) Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano, 1997. Per approfondire al tematica del genere nei consumi alimentari con riferimento all’Italia contemporanea, si veda lo studio antropologico di Carole M. Counihan, The Anthropology of Food and the Body. Gender, Meaning and Power, Routledge, London, 1999. 7 Si vedano Guttman, A. 1991 Women’s Sport, New York, Columbia University Press e McKay, J., M. A. Messner e D. F. Sabo (2000) Masculinities, Gender Relations and Sport, Sage, London. Cfr. Anche Sassatelli, R. 2003 “Genere e Sport. Lo sport al femminile”, Enciclopedia dello Sport TRECCANI, Roma, pp. 201-19. 8 Bourdieu, P. 1978 "Sport and social class", in Social Science Information 17, 6, pp. 819-840 e Elias, N. e Dunning, R. (1986) Sport e aggressività, Bologna, il Mulino, 1989. 9 Schwartz, H. (1996) “Hearing aids. Sweet Nothing, or an ear for a ear” in P.Kirkham (a cura di), cit. 10 Tra i testi recenti che tentano di fare il punto sulle differenze di genere nei consumi da una prospettiva storica si vedano oltre al fondamentale De Grazia V. e Furlough, E. (a cura di )1996 The sex of Things: Gender and Consumption in Historical Perspective, Berkeley, University of California Press, il saggio di Roberts, M. L. 1998 “Gender, Consumption and Commodity Culture”, American Historical Review, 103, 3, pp. 817-44 e quello di Passerini, L. 1992 “Donne, consumi e cultura di massa”, in G. Duby, M. Pierrot (a cura di) Storia delle Donne in Occidente, Vol. V, Novecento, a cura di F. Thébaud, Laterza, Roma. Si vedano inoltre, in italiano, la raccolta di saggi di Arru, A. e Stella M. (a cura di) 2003 I consumi. Una questione di genere, Carocci, Roma; quella sulla maschilità di Bellassai, S. e Malatesta, M. (a cura di) 2000 Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, Bulzoni, Roma; e la sezione dedicata al genere in P. Capuzzo (a cura di) 2003 Genere, generazione e consumi. L’Italia degli anni sessanta, Carocci, Roma. Utile anche la raccolta di saggi in Scanldon, J. (XXXX) (a cura di) The Gender and Consumer Culture Reader, New York University Press, New York. 11 In generale sui legami tra genere, disordini negli acquisti e psicoterapia Baker, A. (a cura di) 2000 Serious Shopping. Essays in Psychotherapy and Consumerism, Free Association Books, London. Sulla storia della cleptomania come fenomeno specificatamente femminile, cfr. Abelson, E. 1989 When Ladies go A-Thieving: Middle Class Shoplifters in the Victorian Department Stores, Oxford University Press, Oxford. Più maschile invece il gioco d’azzardo, la cui progressiva legittimazione nel corso del novecento come pratica di consumo e tempo libero è legata non solo alla gestione statale delle lotterie ma anche allo sviluppo della teoria scientifica della probabilità che codificò e razionalizzò la casualità, cfr. McMillan, J. (a cura di) 1997 Gambling Cultures, London, Routledge e Reith, G. (1999) The Age of Chance: Gambling in Western Culture, London, Routledge. Sul gioco d’azzardo al femminile si veda il saggio di Emma Casey sulle donne e la lotteria in Gran Bretagna, cfr. Casey, E. (2003) “Gambling and Consumption: Working-class women and Uk National Lottery Play”, in Journal of Consumer Culture, 3, 2, pp. 245-63. 12 Importante il contributo di Chandra Mukerj che ha messo in luce il ruolo del commercio internazionale e di una cultura materialistica a partire quanto meno dalle città rinascimentali, cfr. Mukerji, C. (1983) From Graven Images: Patterns of Modern Materialism, New York, Columbia University Press. Si veda inoltra Burke, P. 1978 Popular Culture in Early Modern Europe, London, Temple Smith e, più recentemente, Findlen, P. (1998) “Possessing the Past: The material World of the Italian Reinassance”, in American Historical Review, CIII, pp. 83-114. Anche se un chiaro incremento dei consumi è stato registrato soprattutto a partire dalla seconda metà del seicento e per tutto il settecento, la storiografia economica e culturale contemporanea ha sottolineato l’impossibilità di dividere rigidamente tra una precedente epoca puritana e protestante, che avrebbe dato l’impulso iniziale all’accumulazione, e un’epoca edonista successiva, da cui sarebbe scaturita la società dei consumi e, adottando un approccio multi-fattoriale e a traiettorie multiple, descrive lo sviluppo della società dei consumi meno come una subitanea rivoluzione e più come un fenomeno di lungo periodo, variegato e a geometrie variabili, cfr. Brewer, J. e Porter, R. (1993) (a cura di) Consumption and the World of Goods, London, Routledge; Fairchilds, C. (1998) “Consumption in Early Modern Europe. A Review Article”, in Comparative Studies in Society and History, 35, pp. 850-58. Glennie, P. (1995) “Consumption within Historical Studies”, in D. Miller (ed.) Acknowledging Consumption. A Review of New Studies, London, Routledge. Sull’emergere di un discorso pubblico sul consumo e la tematizzazione, soprattutto nell’ottocento e nel novecento, della categoria di ‘consumatore’, cfr. F. Trentmann 2005 The Making of the Consumer: Knowledge, Power and Identity in the Modern World, Berg, Oxford. 13 Sombart, W. 1913 Lusso e capitalismo, Unicopli, Milano, 1988. Su Sombart e il lusso, cfr. Sassatelli, R. (2003) “Introduzione”, in W. Sombart, La genesi del capitalismo dal lusso, Armando, Roma. Sul lusso da una prospettiva storica cfr. anche D. Roche Storia delle cose banali. La nascita del consumo in occidente, Riuniti, Roma, 1999 e Id. Il linguaggio della moda, Einaudi torino, 1991. Per una discussione teorico sociale del regime di consumo incentrato sul raffinamento della cultura materiale, cfr. il fondamentale saggio con cui Ajrun Appadurai apre il volume The social life of Things (Appadurai, A. a cura di, Cambridge University Press, Cambridge, 1986). 14 Sombart, cit., p. 81. 15 Il ruolo liberatorio dei grandi magazzini viene sottolineato se si pensa che ancora a metà dell’ottocento, la presenza di donne di buona famiglia per le strade, se non accompagnate dal marito, era problematica, cfr. Glennie, P. e Thrift, N. (1996) “Consumption, Shopping and Gender“ in E. Wringley e M. Lowe (a cura di) Retailing, Consumption and Capital, Longman, London. Sulla divisione sessuale dello spazio cittadino , si veda anche J. Walkowitz, City of Dreadful Delight. Narratives of Sexual Danger in Late-Victorian London, London, Virago Press, 1992, pp. 45-49. 16 Campbell, C. 1987 L'etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, Lavoro, Roma, 1992, p. 87. 17 Per una discussione generale dei consumi culturali dal punto di vista storico, cfr. Bermingham, A. e Brewer J.(a cura di) 1995 The Consumption of Culture, 1600-1800, Image, Object, Text, Routledge, London. Per una panoramica sugli studi e le teorie sociologiche, cfr. Storey, J. 1999 Cultural Consumption and Everyday Life, Arnold, London. 18 Cfr.Bowlby, R. (1985) Just Looking.Consumer Culture in Dreiser, Gissing and Zola, Methuen, New York; Williams, R. D., cit. Le donne furono spesso in primo piano, anche come scrittrici: sulla crescente e contesa partecipazione femminile alla produzione letteraria, cfr. C.Gallagher 1994 Nobody’s Story. The Wanishing Acts of Women’s writers in the Marketplace, 1670-1820, Clarendon Press, Oxford. 19 Anche se i riferimenti al genere sono spesso casuali, si veda Cruise, J. 1999 Governing Consumption. Needs and Wants, Suspended Characters and the ‘Origins’ of the Eighteenth-Century English Novel, Blackwell, Oxford. 20 Come ha suggerito Rachel Bowlby, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde può essere visto come un modo di riflettere sui piaceri e i costi di una vita da dandy: Dorian “scambia il proprio sé morale per la libertà senza confini del nuovo edonista”, non c’è limite a ciò che può avere, “al numero di personalità che può adottare, alle esperienze che può provare”, diviene un puro “ricettacolo e un portatore di sensazioni, cfr. Bowlby, R. (1993) Shopping with Freud, London, Routledge, pp. 16 e 23. Il sociologo Mike Featherstone ha suggerito che ciò che caratterizza le società post-moderne è il fatto che non solo le élites artistiche maschili ma tutti i consumatori sono ormai degli sperimentatori edonisti che hanno imparato ad esteticizzare le proprie pratiche di consumo, cfr. Featherstone, M. (1991) Cultura del consumo e postmodernismo, Seam, Roma, 1994. In effetti, forme di edonismo controllato (mediante l’esteticizzazione, l’ironia, ecc.) si configurano come la fondamentale retorica legittimatoria del consumo. cfr. Sassatelli, R. (2001) “Tamed Hedonism: Choice, Desires and Deviant Pleasures”, in A. Warde and J. Gronow (eds.), Ordinary Consumption, London, Routledge e Sassatelli, R. (2004) Consumo, cultura e società, Il mulino, Bologna. 21 Si veda a questo proposito Jones, R.W. (1998) Gender and the Formation of Taste in Eighteenth Century England. The Analysis of Beauty, Cambridge University Press, Cambridge. 22 Sulle differenze di genere negli assetti normativi e nelle reali possibilità di amministrazione, trasferimento e godimento della proprietà e dei patrimoni cfr. Arru, A., L. Di Michele e Stella M. (a cura di) 2001 Proprietarie. Avere, non avere, ereditare, industriarsi, Liguori, Napoli; Calvi, C., Chabot, I. e Fazio, I (a cura di) 1998 La ricchezza delle donne. Diritti patrimoniali e poteri familiari in Italia (XIII-XIX sec.), Rosemberg & Sellier, Torino; Finn, M. 1996. “Women, consumption and coverture in England, 1760-1860” in Historical Journal, 39, pp. 703-22. Più in generale si veda Brewer, J. e Staves, Early Modern Conceptions of Property, London, Routledge, 1995 che contiene anche diversi contributi sulle differenze di genere. 23 Cfr. Hirschman, A. O. 1977 Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Feltrinelli, Milano, 1990 e Id. 1982 “Rival interpretations of market society: civilizing, destructive or feeble”, in Journal of Economic Literature 20, pp. 1463-84. 24 Sui discorsi normativi sul consumo, oltre ai classici lavori di Hirschman già menzionati, cfr. Fox, R.W. and Lears, T.J. (a cura di) The Culture of Consumption: Critical Essays in American History, 1880-1980, Pantheon Books, New York; Horowitz, D. 1985 The Morality of Spending, Attitudes towards Consumer Society in America, 1875-1940, Johns Hopkins UP, Baltimora, Williams R.H. 1982 Dream Worlds. Mass Consumption in Late Nineteenth Century France, University of California press, Berkeley e Boltanski, L. e Thévenot, L. 1991 De la justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris. 25 Sassatelli, R. 1997 'Consuming Ambivalence: Eighteenth Century Public Discourse on Consumption and Mandeville's Legacy', in Journal of Material Culture, 2, 3, pp. 339-60. Su Elizabeth Haywood, cfr. anche il contributo di Bennett in Bermingham e Brewer (a cura di) 1995, cit. e l’introduzione di Firmanger in Haywood, E. The Female Spectator, Being Selections from Mrs Eliza Haywood's Periodical First Published in Monthly Parts (1744-6), a cura di G. M. Firmanger, London, Bristol Classical Press, 1993. 26 Sassatelli, R. 1997, cit. Su Mandeville anche in relazione alla sua riflessione sui consumi, cfr. Goldsmith, M.M. 1985 Private Vices, Public Benefits. Bernard Mandeville's Social and Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press. 27 Veblen, T. 1899 La teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 1971, p. 59. Per una discussione critica del lavoro di Veblen, cfr. Tilman, R. 1996 The Intellectual Legacy of Thorstein Veblen, Greenwood, Westport. L’analisi di Veblen sul ruolo delle donne presenta ancora tratti di grande attualità e ha trovato importanti applicazioni in alcuni contributi recenti che mettono in relazione genere, commercializzazione e cultura di consumo: cfr. p. es. Arlie Russell Hochshild, 2003, The Commercialization of Intimate Life, California UP, Berkeley, e Sharon Hays 1996 The Cultural Contradictions of Motherhood, Yale University Press, New Haven. 28 Anche grazie alla nascita delle vetrine nel settecento, le merci non vengono più stipate nei retrobottega dai quali il venditore le prelevava mediandone accessibilità e significati per il pubblico, ma vengono sempre più spettacolarizzate e devono in qualche modo attirare il cliente indipendentemente dagli sforzi del venditore, cfr. Laermans, R. (1993) “Learning to Consume: early department stores and the shaping of the modern consumer culture”, 1896-1914, in Theory, Culture and Society, 10, 4, pp. 79-102. Progressivamente, e soprattutto da metà dell’ottocento con l’illuminazione artificiale degli interni e l’ampiezza delle lastre di vetro che fungono da vetrata, le vetrine diventano sempre più delle occasioni per mettere in scena le merci. Concepiti come un pubblico, i consumatori non solo acquistano ma anche imparano a godere dello spettacolo delle merci, effetto che viene ampliato dalla creazione delle gallerie commerciali coperte o passages. I grandi magazzini dell’ottocento consolidano e affinano questa tendenza divenendo un aspetto importante dell’ambiente urbano. I grandi magazzini, infatti, si propongono essi stessi come luoghi da visitare, come fiori all’occhiello delle grandi città. Il Bon Marché, per esempio, che è stato primo grande magazzino di Parigi, venne costruito come se fosse un monumento aperto ai turisti che visitavano la città imponendosi come una delle sue tappe obbligate, cfr. Miller, M. B. 1981 The Bon Marché. Bourgois Culture and the Deparment Store, 1869-1920, Allen & Unwin, London. 29 Gli spazi pubblici commerciali rendono meno nitida la separazione tra una sfera pubblica che gli studi tradizionali sul genere nell’età vittoriana hanno visto come solo maschile e sfera privata solo femminile, si veda il fondamentale lavoro di Leonore Davidoff e Catherine Hall, Family Fortunes. Men and women of the English middle class 1780-1850, London, Hutchinson, 1987. 30 E. D. Rappaport, Shopping for pleasure: women in the making of London’s West End, Princeton, Princeton University Press, 2000. La letteratura sulla storia dello shopping in chiave di genere è assai vasta, oltre al citato lavoro di Laermans, si vedano anche Leach, W. 1984 “Transformations in a culture of Consumption. Women and Department Store, 1890-1925” in Journal of American History, 7, 2, 319-42; Kowaleski-Wallace, E. Consuming Subjects. Women, Shopping, and Business in the Eighteenth Century, New York, Columbia University Press, 1997; Nava, M.; Radner, H. 1995 Shopping Around. Feminist Culture and the Pursuit of Pleasure, London, Routledge; Tiersten, L.2001 Marianne in the Market. Envisioning Consumer Society in Fin-de-Siècle France, University of California Press, Berkeley. Un primo riferimento teorico generale sulle potenzialità sovversive dello shopping su può trovare in Fiske J.1989 “Shopping for Pleasure” in J. Fiske, Reading the Popular, Boston, Unwin Hyman. Per una problematizzaizone utile inoltre la rassegna di E. Bini, “Cultura dei consumi e cittadinanza delle donne nel recente dibattito storiografico”, in Ricerche di storia e politica, 2/2004, pp. 227-43. 31 Sulla letteratura e lo shopping, cfr. Bowlby, 1985, cit. e Id. 2000 Carried Away. The invention of Modern Shopping, Faber and Faber, London. Si veda anche Radner, cit. e Wolff, J. 1985 “The invisible Flaneuse: Women in the Literature of Modernity” in Theory, Culture and Society, 2, 3, pp.37-46. 32 Citato in A. Adburgham, 1979, Shopping in Style. London From the Restoration to Edwardian Elegance, Thames and Hudson, London, p. 159. Sull’importante ruolo della figura della commessa, cfr. il fondamentale Benson, S. P. (1986) Counter Cultures : Saleswomen, Managers and Costumers in American Department Stores, University of Illinois Press, Chicago. 33 Bowlby, R. 1993, cit. e Williams, R.H., cit. Anche oggi, le maniere del consumo sono tanto importanti quanto gli oggetti dei nostri acquisti se è vero che circa un terzo di chi entra in un centro commerciale in effetti ne esce senza aver comprato qualcosa, cfr. R. Shields, a cura di, 1992 Lifestyle Shopping: The Subject of Consumption, London, Routledge. 34 Valverde, M. 1989 “The Love of Finery: Fashion and The Fallen Woman in 19th Century Social discorse” in Victorian Studies, 32, pp. 169-88. 35 Abelson, E. cit. 36 Cfr. Bowlby 1985, cit, e Nava, 1997, cit. La massa peraltro,come osserva Andrea Huyssen, è spesso assimilata alle donne o comunque femminilizzata, cfr. Huyssen, A. 1986 “Mass Culture as Woman: Modernism’s Other” in Id. After the Great Divide: Modernism, Mass Culture and Postmodernism, MacMillan, Basingstoke. 37 Cfr. Roberts,1998, cit. Sulla ideologia della padrona di casa e sulla casa borghese si veda, tra gli altri, Blunden, K. 1988 Il lavoro e la virtù. Ideologia del focolare domestico, Sansoni, Firenze. 38 Cfr. Forty, A. 1986 Objects of Desire, Thames and Hudson, London. 39 Più in generale sulla cultura del cucito e i suoi oggetti, si veda la collezione di saggi raccolti da Barbara Barman (a cura di) 1999 The Culture of Sewing: Gender, Consumption and Home Dress-making, Berg, Oxford. 40 Cfr. P. es. Vickery, A. “Women and the World of Goods”, in J: Brewer e R. Porter, 1993, cit.; Auslander, L. “The gendering of Consumer Practices in Nineteenth Century France”, in De Grazia, V. e Furlough, E., cit. 41 Kutcha, D. “The Making of the Self Made man, Class, clothing and English Masculinity, 1688-1832”, in De Grazia, V. e Furlough, E., cit. Si vedano inoltre Perrot, Ph. (1984) La Vérité des Apparences ou le Drame du Corps Bougeois (XVIII-XIX siècles), in Cahiers Internationaux de Sociologie, Vol. LXXVI, pp.185-99 e Id. 1987 Pour un généalogie de l'austerité des apparences, in Communication, 46, Parure, Pudeur, Etiquette, pp.157-80. 42 Duflos-Priot, M. T. 1987 « Le maquillage, seduction protocolaire et artifice normalisé », in Communication, 46, Parure, Pudeur, Etiquette, pp. 245-54 e K. Peiss, “Making up, Making over: Cosmetics, Consumer Culture and Women’s Identity”, in De Grazia, V. e Furlough, E., cit. 43 Simmel, G. 1895 La moda, Editori Riuniti, Roma. 1986, p. 37. Sulle influenti osservazioni simmeliane sulla moda cfr., tra gli altri, Nedelman B. 1989 “Georg Simmel e la sua analisi dei processi autonomi: il carosello della moda”, in Rassegna Italiana di Sociologia, Il Mulino, Bologna, pp. 569-84 e Sassatelli, R. 2000 'From Value to Consumption. A Social-Theoretical Perspective on Simmel's Philosophie des Geldes', in Acta Sociologica, 43, 3,pp. 207-18. Su Simmel, la cultura materiale e le donne, cfr. van Vucht Tijssen, L. 1991 “Women and Objective Culture: Georg Simmel and Marianne Weber”, in Theory, Culture and Society, 8, 3, pp. 203-18. 44 Sul corsetto si veda soprattutto il capitolo ad esso dedicato da Valerie Steele nel suo saggio sul feticismo e la moda, cfr. Steele, V. 1995 Fetish: Moda, Sesso e Potere, Meltemi, Roma, 2005. 45 Wilson., E. 1985, cit. Cfr. anche Evans, C. e Thornton, M. Women and Fashion, Quartet Books, London, 1989 e D. Crane 2000 Questioni di moda. Classe, genere e identità nell’abbigliamento, Angeli, Milano, 2004. 46 cfr. Finnegan, M. 1999 Selling Suffrage: Consumer Culture and Votes for Women, Columbia University Press, New York. 47 Passerini, L. 1992, cit. e Bini, E., Cit. 48 Cfr. Rispettivamente: Davies, K. 2000« A moral Purchase : Femininity, commerce, abolition, 1788-1792 » in E. Eger and C.Grant (a cura di) Women and the Public Sphere. Writing and Representation, 1660-1800, Cambridge University Press, Cambridge; Chessel, M. E. (2005) Women and Ethics of Consumption at the Turn of the Twentieth Century, in F. Trentmann, 2005, cit; Glickman, L.B.“Born to Shop? Consumer History and American History” in Glickman, L.B. (a cura di) Consumer Society in American History. A Reader, Ithaca, Cornell UP, 1997 e Sklar, K.K. 1997 Florence Kelley and the Nation’s Work, Yale University Press, CT, 1997; Frank, D. (1985) “Housewives, socialists, and the politics of food: the 1917 New York cost-ofLiving Protests”, in Feminist Studies, 11, pp. 255-85. 49 Cfr. per una recente panoramica storica Hilton, M. 2002 “The Female Consumer and the Politics of Consumption in Twentieth-Century Britain”, in The Historical Journal, 45, 1, pp. 103-28. Per una discussione del contributo delle donne allo sviluppo odierno di forme di consumo critico e politico, cfr. Micheletti, M. (2004)“Issues of Gender and Political Consumerism” in Micheletti, M et alii (a cura di) 2004 Politics, Products and Markets. Exploring Political Consumerism Past and Present, Transaction Publishers, New Brunswick. 50 Miller, D. 1998 Teoria dello shopping, Editori Riuniti, Roma, 1998 , soprattutto cap. 1. 51 Miller, cit., p. 128. 52 Campbell, C. “Shopping, Pleasure and the Sex War” in P.Falk e C. Campbell, 1997, cit. 53 DeVault, M. Feading the Family, Chicago, University of Chicago Press, 1991. Per utili dati sul perdurare della divisione del lavoro nelle giovani coppie italiane, cfr. Sartori, F. (2002) La giovane coppia, in Buzzi, C. et alii, Giovani nel nuovo secolo, Il mulino, Bologna, 54 Cfr. J. Pahl, 2000 “The Gendering of Spending within the Household”, in Radical Statistics, 75, 38-48; e sull’Italia 55 Morley, D. Television, Audience and Cultural Studies, London, Routledge, 1992. Lo studio etnografico dei modi di utilizzare i media è diventato centrali negli studi sul pubblico perché ci si è resi conto dei limiti di quegli approcci semiotici che, riproponendo una forma di determinismo testuale, si concentravano sull’analisi formale del contenuto dei programmi per immaginare come venivano interpretati dai consumatori. I consumi culturali domestici effetti mostrano molto bene che il significato che i soggetti derivano da un testo e il modo in cui esso viene consumato sono co-estensivi ed innervati da relazioni sociali e di potere, cfr. Moores, S.1993 Il consumo dei media, il mulino, Bologna, 1998. 56 Hermes, J. Reading Women’s Magazines, Cambridge, Polity Press, 1995. Per una discussione dell’evoluzione storica delle riviste femminili in relazione alla visione della femminilità, cfr. Breward, C. “Femininity and Consumption. The Problem of late Nineteenth Century Fashion Journal” in Journal of Design History, 7, 2, pp. XXX-XX, 1994 e Winship, J. Inside Women’s Magazines, Pandora, London, 1987. 57 Bravo, A. 2003 Il fotoromanzo, Il mulino, Bologna. Ang, I. Watching Dallas: Soap Opera and the Melodramatic Imagination, Methuen, London, 1985. Sulle soaps come intrattenimento femminile cfr. soprattutto Geraghty, C. 1991 Women and Soap Opera, Cambridge, Polity Press. 59 Radway, J.Reading the Romance: Women, Patriarchy and Popular Literature, London, Verso, 1987. 60 Radway, cit, p. 61. 61 Long, E. Book Clubs. Women and the Uses of Reading in Everyday Life, Chicago UP, Chicago, 2003. Sul ruolo dei saloni e dei clubs femminili come luoghi di letture, consumi e socialità tra persone dello stesso sesso già nel settecento cfr. M.M. Roberts, 1996 “Pleasures engendered by gender: Homosociality and the Club” in R. Porter e M.M. Roberts, a cura di Pleasures in the Eighteenth Century, MacMillan, London. 62 In Italia per esempio, il numero di donne che legge libri supera di dieci punti percentuali o più gli uomini per la maggior parte dei generi letterari (eccetto alcuni generi maschili come la saggistica, il fumetto o le guide turistiche), mentre, al contrario, il tasso di sportività maschile è superiore di dieci punti percentuali o più di quello femminile nella maggior parte delle discipline (eccetto alcuni sport femminili come la ginnastica, il fitness, il nuoto) (cfr. rispettivamente Santoro, M., Sassatelli, M. e Sassatelli, R. Il campo letterario, Rapporto di Ricerca, Istituto Carlo Cattaneo, Gennaio 2001 e Sassatelli, R. 2003, cit.). 63 Cfr. Guttmann 1991, cit.; Sassatelli, R. 2003, cit. 64 cfr. Sassatelli, R. 2000 Anatomia della palestra. Cultura commerciale e disciplina del corpo, Il mulino, Bologna. 65 cfr. Wheaton, B. and Tomlinson, A. 1998 “The changing gender order in sport? The case of windsurfing sub-cultures”, in Journal of Sport and Social Issues, 22, pp. 252-74. 66 McKay et alii, a cura di, 2001, cit. 67 Cfr. Belk, R. W. e M. Wallendorf, 1996 “Of Mice and Men: Gender Identity in Collecting”, in K. Ames e K. Martinez (a cura di) The Material Culture of Gender/The Gender or Material Culture, University of Michigan Press, Ann Arbor; Byrne Swain, M. 1995 “Gender in Turism”, in Annals of Tourism Research, XXII, 2, 247-66; C. Cockburn, 1992 “The circuit of technology: gender, identity and power”, in R. Silverstone e E. Hirsch Consuming Technologies, Routledge, London; Christenson, P. G. e Peterson, J. B. 1988 “Genre and Gender in the Structure of Music Preferences”, in Communication Research,, 15, 3, 282301. 68 Edwards, T. Men in the Mirror: Men’s Fashion and Consumer Society, Cassell, London, 1997; Mort, F. Cultures of Consumption. Masculinities and Social Space in Late Twentieth-Century Britain, London, Routledge, 1996; Nixon, S.1996 Hard Looks. Masculinities, spectatorship and contemporary consumption, London, University College London Press, 1996. 69 Cfr. Nixon, cit. e Savage 1996) Savage, J.“What’s so new about the new man? Three decades of advertising to men” in D. Jones (a cura di) Sex, Power and Travel: Ten Years of Arena, Virgin, London, 1996. 70 Cfr. Boni, F. Men’s Help. Sociologia dei periodici maschili, Meltemi, Roma, 2004 e Jackson, P.; Stevenson, N. e Brooks, K.Making Sense of Men’s Magazines, Polity Press, Cambridge, 2001. 71 Galilee, J. 2002 “Class Consumption: Understanding Midlde-class Young Men and their Fashion Choices” in Man and Masculinities, 5, 1, pp. 32-52. 58 72 Hebdige, D. 1988 La lambretta e il videoclip, EDT, Torino, 1991. In generale sulle culture giovanili e i consumi, cfr. Capuzzo, P.2001 “Youth Cultures and Consumption in Contemporary Europe”, in Contemporary European History, 1, 15570. Sull’italia, cfr. Donadia, F e Giannotti, M Teddy-Boys Rockettari e Ciberpunk. Tipi, mode e manie del teenager italiano dagli Anni Cinquanta ad oggi, Riuniti, Roma, 1996. Per un intreccio tra consumi, genere e generazione cfr. Nava, M. 1990 Changing Cultures: Feminism, Youth and Consumerism, London, Sage e sull’Italia del boom, cfr. Piccone Stella, S. La prima generazione. Ragazzi e ragazze del miracolo economico italiano, Angeli, Milano 1993. 73 Cfr. S. Bellassai, 2003 “Mascolinità, mutamento, merce” in P. Capuzzo, cit. 74 A questo proposito si veda anche un interessante recente contributo sul possibile trade-off tra resistenza nei confronti dell’ortodossia eterosessuale e resistenza nei confronti del consumismo nelle manifestazioni omosessuali, cfr. Kates, S.M. e Belk, R.W. 2001“The Meanings of Lesbian and Gay Pride Day: Resistance through consumption and resistance to consumption” in Journal of Contemporary Ethnography, 30, 4, pp. 392-429. 75 Entwistle, J. 2000 The Fashioned Body, Polity, Cambridge. Di diverso avviso Susan Bordo, cit., che ha sostenuto che sul lavoro le donne mescolano gli abiti maschili agli ornamenti femminili per ricordare il proprio ruolo decorativo e risultare concorrenti meno pericolose nel mercato delle carriere. 76 Per una discussione critica delle funzioni ideologiche della pubblicità in relazione anche alle differenze di genere, cfr. Sassatelli, R. 2004, cit., cap. 6 . 77 Cfr. p.es. R. Lewis e K. Rolley, 1997 “(Ad)dressing the Dyke: Lesbian Looks and Lesbian Looking“ in Nava, M. et als. Buy this Book. Studies in Advertising and Consumption, Routledge, London. Più in generale si veda D. Bergman, a cura di, 1993 Camp Grounds: Style and Homosexuality, University of Massachussetts Press, Amherst. 78 Per un classico sulla rappresentazione della differenza di genere in pubblicità si veda Gender Advertisements il celebre studio di Goffman che mostra che non solo maschi e femmine vengono rappresentati in modo diverso (più grandi e in posizione dominante i primi, più piccole e sottomesse le seconde), ma anche che il rapporto con gli oggetti appare diseguale: le donne accarezzano o sfiorano gli oggetti; gli uomini stringono o impugnano, cfr. Goffman, E. 1979 Gender Advertisements, MacMillan, London. Più in generale, cfr. Goldman, R. 1992 Reading Ads Socially, Routledge, London e Wernick, A. 1991 Promotional Culture: Advertising, Ideology and Symbolic Expression, Sage, London. 79 Goldman, 1992, cit., p. 131 e Lasch, C. 1979, La cultura del Narcisismo, Bompiani, Milano, 1981, p. 89). Appadurai, 1986, cit, p. 32. 81 Su questo, cfr. Sassatelli, 2004, cit. soprattutto cap. 7. 80