Sulla confusione tra le denominazioni di due societa in

Il tema principale che giustifica il provvedimento che quest’oggi ci
occupa verte sulla possibilità di confusione fra le denominazioni di due
società, regolamentata dell’art. 2564 c.c., che prevede l’integrazione o la
modificazione della ditta con indicazioni idonee a differenziarla, quando
questa è uguale o simile a quella utilizzata da un altro imprenditore e
può, quindi, generare confusione per l’oggetto dell’imprese e per il luogo
in cui questa è esercitata.
Insita nel dettato normativo, è la previsione del principio di novità, che
limita ed insieme indirizza l’imprenditore nella scelta della propria ditta.
Il secondo comma dell’articolo in esame stabilisce, infatti, che
l’imprenditore che per primo adotta una determinata denominazione
acquista il diritto all’uso esclusivo della stessa e tale diritto gli viene
attribuito automaticamente per il solo fatto giuridico dell’utilizzo della
ditta.
Di conseguenza, a chi successivamente adotti una ditta uguale o similare,
è fatto obbligo di differenziarsi dall’impresa omonima, modificando od
integrando la denominazione ab origine prescelta.
Consolidata giurisprudenza ha ribadito, a più riprese, che la
confondibilità va valutata in astratto e non in concreto, di modo che non
è preteso l’effettivo verificarsi della confusione.
Sotto quest’ultimo profilo, pertanto, anche ditte identiche possono
convivere, ad opinione della Suprema Corte, qualora la produzione sia
nettamente differenziata o siano diversi i luoghi ove gli imprenditori
operano1.
I principi fin qui esaminati non valgono, difatti, qualora l’omonimia tra
ditte non crei confusione sul mercato.
Nella fattispecie in commento, il contenzioso si svolge fra due società
per azioni, entrambe denominate Irplast, l’una con sede in Toscana,
ricorrente, l’altra con sede in Puglia, resistente, come si evince dalla
ubicazione della Corte d’Appello la cui sentenza viene contestata in
ultimo grado.
I giudici di Bari erano stati chiamati a pronunciarsi sulla possibilità di
confusione fra le due società, posto che, oltre alla conclamata omonimia,
la ricorrente sosteneva anche l’identità dell’oggetto sociale, che, in
1
Cfr. F. GAZZONI, Manuale di Diritto Privato, 2007, 1359 ss.
entrambi i casi, effettivamente riguardava la produzione e la vendita di
materiale plastico.
La tutela inibitoria richiesta dalla Irplast s.p.a. ricorrente non veniva
concessa dalla Corte di merito, la quale contestava, in primo luogo, la
presunta similitudine fra le attività svolte dalle imprese in giudizio, posto
che l’una si occupava della produzione di manufatti plastici per il
mercato calzaturiero, mentre il settore di produzione dell’altra
concerneva il mercato degli acquedotti.
Per i giudici dell’appello, inoltre, differenti erano anche i destinatari
della produzione, dal momento che lo statuto della società pugliese
espressamente prevedeva che l’attività prevista dell’oggetto sociale
dovesse essere svolta “nei territori del Mezzogiorno d’Italia”.
La possibilità di confusione rispetto ad uffici finanziari, operatori bancari
o fornitori veniva, infine, esclusa nel merito sul presupposto che
entrambe le società operavano sul mercato da circa otto anni (tale il
periodo intercorso fra l’inizio dell’attività della resistente e la prima
diffida presentata dalla società toscana) senza alcun problema.
Nel suo passo più importante, la sentenza della Corte di Cassazione
sembra, di primo acchito, dar ragione alla ricorrente, laddove conviene
con la deduzione per cui, “ai fini di valutare la virtuale possibilità di
confusione tra le denominazioni di due società, …, non è necessario
prendere in considerazione le attività effettivamente svolte delle società
(ed eventualmente anche quelle complementari ed analoghe), essendo
sufficiente il rapporto tra i rispettivi oggetti sociali, risultanti dagli atti
costitutivi sottoposti a pubblicità, costituendo l’oggetto sociale, non solo
la sfera di azione tecnica della società, ma altresì l’esteriorizzazione
della sua potenzialità espressiva ed espansiva, immediatamente
percepibile da tutti i soggetti che entrino in rapporto con essa, in forma
negoziale o concorrenziale”.
Fatte tali debite premesse, la Suprema Corte osserva che, pur essendo,
invero, identica l’attività che costituisce l’oggetto sociale di entrambe le
società, “tale attività (stampaggio di materiali plastici) è di per sé
assolutamente generica, e va, pertanto, correlata con i settori operativi
di ciascuna impresa, nella specie completamente dissimili e diversificati
tra loro, riguardando uno il mercato calzaturiero, l’altro il mercato
acquedottistico”.
Quest’ultima precisazione non costituisce un elemento di rottura rispetto
ai precedenti orientamenti in materia2, l’interpretazione vale, anzi, a
chiarire un principio, quello della c.d. “confondibilità virtuale”, che può
prestarsi a differenti letture, a volte, come in questo caso, configgenti
con l’intenzione del legislatore, così come illustrata dai giudici di piazza
Cavour.
Occorre, dunque, valutare caso per caso, a seconda che basti la semplice
indagine sull’oggetto sociale per dichiarare la potenziale confondibilità
di imprese sul mercato, o se, invece, si renda d’obbligo attribuire
decisiva rilevanza alle attività in concreto ed effettivamente esercitate
dalle società, al fine di valutare l’esistenza di una concreta situazione di
confusione e di conseguente pregiudizio.
E’ d’uopo, a tale scopo, tener conto anche di elementi di fatto come,
nella fattispecie, il mancato riscontro di situazioni di significativa
2
Cfr. Cass. Civ., 1993, n. 11570, Riv. 484430; Cass. Civ., 1994, n. 10728, Riv.
489210; Cass. Civ., 2007, n. 7651, Riv. 597160, nella quale si legge: “ai fini della
rilevanza della confondibilità delle denominazioni sociali, alla stregua dell'art.
2564 cod. civ., …, non devono considerarsi tanto le attività svolte in concreto
dalle società che abbiano denominazioni simili, quanto la potenziale
concorrenzialità fra di esse, desumibile dall'oggetto sociale, quale espressione
dell'ambito complessivo di attività che le società, anche in futuro, potrebbero
svolgere nel mercato di riferimento”.
confusione fra le società, nel lasso di tempo trascorso fra l’inizio
dell’attività della Irplast S.p.A. pugliese e la prima diffida da parte della
omonima società toscana.
Un ultimo interessante profilo affrontato dalla pronuncia in esame,
riguarda il principio del “mercato di sbocco”, che regola la confondibilità
delle denominazioni sociali con riferimento al potenziale destinatario
finale della produzione di un’impresa.
Ad avviso della ricorrente, la pronuncia resa in appello non aveva
attribuito rilevanza giuridica alla concorrenza potenziale in ambito
territoriale delle imprese coinvolte nel giudizio, omettendo di
considerare la possibile futura espansione della ditta.
Anche in questo caso, la Corte Suprema afferma correttamente il
principio per cui, “al fine della corretta individuazione di un’area di
potenziale espansione dell’impresa, tale da comportare la confondibilità
delle denominazioni di due diverse società, è necessario che siano
indicati, da parte di chi tale confondibilità deduca, indizi, oggetti e
concreti, di una potenzialità espansiva dell’impresa, ossia di una
tendenza dell’impresa stessa ad orientare la propria attività in quella
specifica direzione”.
Nel caso di specie, l’oggetto sociale della società resistente
espressamente prevedeva che l’attività dell’impresa venisse svolta nei
“territori del Mezzogiorno d’Italia”, nulla opponendo in merito la
ricorrente, la quale, viceversa, “non ha dimostrato che il proprio mercato
di sbocco potesse in concreto identificarsi con l’area di operatività della
società appellata, non essendo sufficiente la mera e generica
affermazione di voler operare in tutto il territorio nazionale, o che la
controparte operi o intenda operare anche in altre zone”.
Appare evidente come la Corte non abbia inteso, in questa sede,
riformulare il già citato principio del “mercato di sbocco”, bensì
unicamente evidenziare l’obbligo, per le imprese che lamentino un
pregiudizio, attuale o potenziale, che si presume causato del fatto di una
concorrente, di dimostrare la coincidenza del mercato di sbocco della
produzione, anche sotto il profilo territoriale.
Con la sentenza in commento la Suprema Corte non opera, dunque, un
significativo distacco dalle più recenti interpretazioni in tema di
confondibilità della ditta ex art. 2564 c.c., ma chiarisce ulteriormente il
significato delle precedenti pronunce in materie.
Il concetto di “virtuale confondibilità” viene definito, circoscritto ed
infine applicato al caso di specie, utilizzando un criterio sussidiario per
la valutazione di un’eventuale identità dell’oggetto sociale, che non si
arresta di fronte alla letterale interpretazione del testo dell’atto
costitutivo, ma prosegue la sua indagine tenendo in considerazione anche
il settore operativo in cui l’attività dell’impresa in concreto si svolge.
Lo stesso principio del “mercato di sbocco”, introdotto da precedente
giurisprudenza, viene rafforzato nella sua generale valenza ed, infine,
ulteriormente specificato nella sua portata laddove la Corte suggerisce
quasi gli elementi da indicare per una più efficace esposizione dei motivi
di ricorso.
Avvocato Carlo Rombolà per Ratio Iuris