Donna e straniera: due stereotipi per un soggetto continuamente in

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ANTONELLA ZAPPARRATA
Donna e straniera: due stereotipi per un soggetto continuamente in divenire
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti
(Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri,
Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon,
Roma, Adi editore, 2016
Isbn: 9788846746504
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=776
[data consultazione: gg/mm/aaaa]
© Adi editore 2016
I cantieri dell’Italianistica
ANTONELLA ZAPPARRATA
Donna e straniera: due stereotipi per un soggetto continuamente in divenire
In una società multietnica, la letteratura di migrazione gioca un ruolo fondamentale nel rappresentare l’Altro, educando al
rispetto delle differenze, perché si configura come meta letteratura connessa con il politico e il sociale. Depositarie di tradizioni
e valori, le autrici migranti devono reinterpretarsi in base anche al contesto socio culturale, tentando di far convivere le proprie
tradizioni con le nuove, sebbene, nell’immaginario collettivo, siano ritenute una grave minaccia per l’identità precostituita della
nazione. Si propone l’analisi di due testi: Porto il velo, adoro i Queen (Sonzogno, 2008) di Sumaya Abdel Qader e Pecore
nere (Laterza, 2005), raccolta di racconti di autrici varie. Attraverso vari personaggi, le autrici, italiane di seconda
generazione, ripercorrono alcune tappe della propria vita, per presentarci queste italiane dalla doppia identità che sfatano i
pregiudizi di cui sono carichi alcuni simboli, non sempre in contrasto con la cultura italiana tradizionale.
Quando parliamo di Letteratura migrante italiana intendiamo la produzione letteraria di autori
stranieri, o italiani di seconda generazione che, vivendo a cavallo tra due culture, scrivono nella
nostra lingua e portano all’attenzione del lettore tematiche centrate sulla dicotomia dell’identità
di cui sono portatori.
Caratteristica importante di tale produzione artistica è la massiccia presenza di autrici che si
soffermano su argomenti delicati quali l’integrazione nel paese d’arrivo, la nostalgia per la
propria terra o i valori plurimi da trasmettere alle generazioni successive. La presenza femminile
è notevole in questo settore della letteratura proprio perché il numero di donne giunte nel nostro
paese, attraverso la pratica del ricongiungimento familiare o per motivazioni economiche e
psicologiche, è in continuo aumento. L’immigrata, infatti, lascia la sua terra per mettersi alla
ricerca di un lavoro o per sottrarsi ad una società patriarcale che le impedisce di esprimersi
liberamente. Sente, così, l’esigenza di esprimere se stessa attraverso la scrittura, in una lingua
diversa da quella madre per non rievocare il silenzio forzato a cui era sottomessa.
La scrittura diventa così una terapia per canalizzare le paure, tirar fuori l’ansia e l’angoscia, o
semplicemente per narrare se stesse.
Le donne autrici passano da soggetti passivi ad artefici del proprio cambiamento. Il loro é un
percorso di liberazione e di nuova consapevolezza della propria diversità e della propria
ricchezza, che le accomuna e le spinge a scrivere in un’altra lingua.
Le autrici migranti scrivono in italiano, dando voce a personaggi che incarnano identità
complesse e che spesso rimandano a elementi di autobiografismo, attraverso i quali raccontano
la violenza di cui sono state vittime. Non si tratta più di violenza come mero fenomeno di guerra
o di brutalità fisica, ma di una più sottile, celata dietro il velo della convivenza sociale,
tendenzialmente più astratta e psicologica.
La tematica identitaria è posta al centro dell’attenzione mediante i tradizionali parametri
della scrittura femminile: la scrittura di viaggio, il diario, il romanzo di famiglia e
l’autobiografia.1
La maggior disponibilità alle trasformazioni e all’acquisizione di nuovi modelli culturali,
consente loro di superare i confini, in favore di una personale ricostruzione identitaria, che tiene
conto sia della cultura di partenza sia di quella d’arrivo.
Durante l’altalenante processo di ricostruzione identitaria avviene il passaggio dalla periferia al
centro: da oggetti di descrizione, a soggetti di auto-descrizione. È come se il ‘margine’, dopo
essere stato largamente osservato e raccontato da altri, si volgesse ora ad osservare il ‘centro’,
chiedendo la parola.
La letteratura femminile può seguire due percorsi: quello che osserva la figura femminile
come oggetto di rappresentazione, e quello che l’analizza, invece, come soggetto di scritture
letterarie.
D. REICHARDT, La presenza subalterna in Italia e la scrittura come terapia,in www.rivista-incontri.nl, Anno 28,
2013 / Fascicolo 1.
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Nel paese di accoglienza, la donna deve affrontare una duplice sfida: essa appartiene al sesso
debole che è sottomesso all’uomo e proviene da un’altra cultura che la rende invisa a coloro che
non sempre sono in grado di comprenderla.
Peggiore la situazione della donna musulmana che subisce anche la marginalizzazione
sociale a causa del proprio abbigliamento. Se velata, essa è, infatti, ritenuta subordinata al
marito e all’Islam mentre, se svelata, troppo occidentalizzata e quindi traditrice della sua
identità originale. La diffusione di giudizi distorti sul mondo musulmano, continuamente offerti
dai mass media, è causa della stigmatizzazione della donna islamica.
Troppo facile ricordare alcuni fatti di cronaca che raccontano di violenze inaccettabili di cui
sono vittime le donne mediorientali, ma altrettanto importante è tener presente che il mondo
musulmano non è un blocco monolitico e che alcune di queste pratiche non sono né
contemplate né prescritte dal Corano e quindi non sono indicative della condizione o della
posizione della donna all’interno della società.
Ovunque stereotipi e simboli popolano l’immaginario collettivo e lo rendono conservativo e
difficile da modificare, poiché lo stereotipo è un’imposizione cosciente e arbitraria che si
solidifica nel tempo e diventa parte integrate dell’identità di un soggetto. Essendo un prodotto
culturale, lo stereotipo varia da cultura a cultura, restando però, sempre, astratto e distante dalla
realtà. Come concetto fisso e rigido, esso non può descrivere una realtà plurale e ricca, ma può
solo semplificarla, riassumendola in tipologie generiche che annullano le differenze. E’ questa la
caratteristica violenta dello stereotipo che esprime, in realtà, solamente la paura e l’incapacità di
accettare le diversità.
Generalmente, gli stereotipi esprimono l’esperienza maschile, che, in una società patriarcale,
emerge più facilmente rispetto a quella femminile.
Da sempre, arma efficace per la stereotipizzazione dei ruoli di genere all’interno della società
è il linguaggio religioso. Gli stereotipi religiosi non s’identificano, necessariamente, con i
contenuti delle religioni anzi, di solito, vengono usati per rinforzare un modello di potere.
Approfondendo tale concetto, possiamo dire che uno stereotipo è una descrizione
semplicistica d’interi gruppi sociali e si presenta, dunque, come una categoria concettuale in cui
i membri di una cultura fanno rientrare tutti gli individui di un gruppo altro, indistintamente
accomunati da uguali caratteristiche.2 Esistono varie teorie sulla nascita e sullo sviluppo dello
stereotipo: per alcuni, esso è una rappresentazione mitologica e leggendaria della realtà sociale;
per altri è il frutto della distorsione di un pensiero e per altri ancora è la categorizzazione di un
gruppo in base ad una sua peculiarità piuttosto visibile.3 Essendo una rappresentazione negativa
dell’Altro, lo stereotipo può essere considerato l’esito di conflittualità interne che riversano sul
soggetto più debole le proprie tensioni inconsce.4
Come afferma Campbell, la stereotipizzazione può produrre una sopravvalutazione delle
differenze tra gruppi e una seguente sottovalutazione delle variazioni possibili interne ad esso. Il
ragionamento condotto per stereotipi può portare, facilmente, alla giustificazione delle ostilità
sociali ed è ciò che sta accadendo attualmente tra l’Islam e l’Occidente.5
Persistente ed ingombrante appare lo stereotipo del musulmano che è stato costruito nel
tempo dalla letteratura orientalista: il musulmano dall’instancabile appetito sessuale, abita un
Oriente immobile ed immutabile, accanto a donne seducenti che stimolano i suoi sensi, in città
governate da dispotici corrotti, ubbidendo ad una religione mistica e arcaica; questa in breve la
tipica descrizione orientalista dell’arabo-musulmano.6
W. LIPPMAN, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 1995, 68.
3 L. ARCURI, M.R. CADINU, Gli stereotipi, Il Mulino, Bologna, 1998, 33.
4 B. MAZZARA, Appartenenza e pregiudizio: psicologia sociale delle relazioni interetniche, NIS, Roma, 1996, 121.
5 D.T. CAMPBELL, Sterotypes and the perception of group differences, in « AMERICAN PSYCHOLOGIST, 22, 819829.
6 J. CLIFFORD, Sull’Orientalismo in I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati
Boringhieri, Torino, 1993, 96.
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I fatti del Settembre 2001 hanno, ovviamente, rinvigorito tutti gli stereotipi sull’Islam. Oggi il
musulmano appare mosso solo e soltanto dalla sua religione che, per natura, è violenta,
impermeabile alla modernità e incompatibile con i regimi democratici. Il musulmano è
diventato, così, il nemico assoluto, caratterizzato da elementi quali: l’arretratezza, l’inferiorità,
l’aggressività e la politicizzazione estrema che alimentano, tutti, una concezione di stampo
razzista.
Nella percezione occidentale del musulmano va poi ad aggiungersi l’elemento religioso: la
religione islamica è, infatti, ritenuta inaccettabile perché portatrice di valori opposti rispetto ai
suoi. Secondo il filosofo tedesco Hans Kung, questa immagine dell’Islam assolve molteplici
funzioni: innanzitutto cancella i sensi di colpa occidentali nei confronti di un mondo da sempre
colonizzato sia economicamente che culturalmente; in secondo luogo stabilizza il senso di
coesione di un gruppo di fronte ad un altro, inteso come comune minaccia ed infine palesa
chiaramente qual è il nemico contro il quale schierarsi.7
In una società permeata da stereotipi nei confronti delle minoranze è facile che nascano
anche pregiudizi cioè atteggiamenti negativi e sfavorevoli nei confronti dell’Altro, motivati dalle
sue differenze, socialmente definite.
Caratteristiche del pregiudizio sono: contenuto cioè giudizio e valutazione; longevità cioè
resistenza nel tempo; sentimento provato dal soggetto dominante nei confronti di quello
sottomesso e, infine, comportamento conseguente.8
I pregiudizi determinano l’identità di un gruppo in una società, accentuandone l’elemento
discriminatorio e ne stabiliscono la strategia comportamentale eventualmente difensiva. Tale
sistema fa sì che l’out-group venga definito in base a caratteristiche di cui è manchevole rispetto al
we-group. Il pregiudizio assume così un ruolo fondamentale nei rapporti tra culture.
Dopo un primo momento storico in cui il Determinismo biologico aveva stabilito che
l’aggressività contro l’out-group fosse di natura biologica, si è giunti ad affermare che, anche in
assenza di aggressività tra due gruppi, permangono comunque i pregiudizi tra essi. Ciò dimostra
che non si tratta di componenti biologiche, bensì di decisioni comportamentali.9
Anche all’interno del we-group è possibile ritrovare pregiudizi, basati però soprattutto sulle
differenze di classe o sulla discriminazione sociale; diverso il discorso se sottoponiamo a esame
una società multietnica, dove la presenza di stranieri è massiccia o perlomeno evidente. In tal
caso il pregiudizio passa anche attraverso la componente etnico-razziale e, nel caso specifico
degli stranieri musulmani, attraverso quella religiosa. Il pregiudizio contro l’Islam, definito
anche islamofobia, è fondato sulla non assimilabilità di un gruppo a causa della propria religione
di origine, concepita come qualcosa di immutabile ed intrinseco nella personalità del singolo,
tanto radicata da dettarne i comportamenti. L’islamofobia risulta, quindi, caratterizzata da
quattro elementi: l’esclusione sociale, la violenza, il pregiudizio stesso e la discriminazione che la rendono
quindi determinante nei rapporti di potere tra l’out-group e il we-group.10
Dal paese di partenza all’Italia, un’immagine della storia e dell’identità delle donne
musulmane giunge in parte vera e in parte distorta. Ciò che conosciamo come tradizione
musulmana è, infatti, una mera ed accurata selezione di usi, testi e memoria storica. È la storia
dei vincitori, e anche gli stereotipi sono quelli imposti da essi.11 Lo sguardo sull’Oriente è quello
del soggetto occidentale e maschile, che lo rende una costruzione culturale e sessuale, costruita
sulla differenza tra i generi.12
La subordinazione della donna, nella società musulmana, è sempre stata letta come
conseguenza diretta della religione islamica e pratiche come il velo, l’harem e la poligamia viste
H. KUNG, Islam. Passato, presente e futuro, Rizzoli, Milano 2005.
8 K.J. GERNER, M.M. GERNER, Pregiudizio e discriminazione, in Psicologia sociale, il Mulino, Bologna, 1985.
9 P.A. TAGUIEFF, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994.
10 M. MASSARI, Islamofobia, Laterza, Roma-Bari, 2000.
11 L. MOSCHINI (a cura di), Il genere tra le righe: gli stereotipi nei testi e nei media, Università Romatre, Roma,
2005.
12 E. SAID, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2001.
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come gli strumenti atti a preservare i tratti essenziali della tradizione e della religione islamica.
Alla luce degli studi effettuati sulle molteplici traduzioni, e quindi interpretazioni, del Corano e
di conseguenza dell’Islam, oggi, sappiamo che la concezione delle differenze tra i sessi e l’idea
caratteristica della donna come essere inferiore e sottomesso all’uomo, non sono figlie dell’Islam
religioso, bensì potremo dire, di quello politico, in quanto è stato l’ordine politico dominante a
legittimare solo questa interpretazione, a discapito del vero messaggio etico di uguaglianza che
caratterizza l’Islam alla sua base, e a tacciare le altre interpretazioni come eretiche, al fine di
poter gestire e controllare una parte della popolazione, le donne appunto. Nel Corano, libro
sacro islamico, leggiamo così:
Fa parte dei Suoi segni l'aver creato per voi, delle spose, affinché riposiate presso di loro e
ha stabilito tra voi amore e tenerezza. Ecco davvero dei segni per coloro che riflettono.13
Il loro Signore risponde all'invocazione: "In verità non farò andare perduto nulla di quello
che fate, uomini o donne che siate.14
E inclina con bontà, verso di loro, l'ala della tenerezza; e di': "O Signore, sii misericordioso
nei loro confronti, come esse lo sono state nei miei, allevandomi quando ero piccolo.15
Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Dio concede agli uni
rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni…16
L’immigrata diventa, nell’immaginario collettivo europeo, la più grave minaccia per
l’identità precostituita delle nazioni, in quanto portatrice e trasmettitrice di nuovi valori,
tradizioni e riti. L’identità del singolo è sicuramente definita dagli atteggiamenti soggettivi e
peculiari dell’individuo stesso, ma è caratterizzata anche dalle più vaste dinamiche della cultura
che s’intrecciano tra conoscenze, credenze, ideologie e simboli. La cultura viene così ad incidere
sull’identità personale, che può esistere solo se condivisa all’interno di un gruppo più o meno
esteso. 17 Presupposto per la creazione di un’identità è l’aggregazione in un gruppo che,
condividendo lo stesso universo di valori del singolo, ne determina quindi gli atteggiamenti e i
comportamenti.
Ogni identità presuppone sempre un’alterità composta dai soggetti che sono stati separati
dal gruppo perché portatori di caratteristiche diverse da esso. Identità e alterità diventano
quindi le due facce della stessa medaglia perché ogni singolo individuo ha un’identità propria
che lo definisce all’interno di un gruppo e un’alterità che lo differenzia rispetto all’Altro.
In un mondo in cui il concetto di confine è piuttosto labile, l’affermazione della propria
identità diventa fondamentale per mantenere vive le proprie radici, evitando la massificazione
totale. Accade però che la riscoperta delle proprie peculiarità inneschi conflitti interni in una
società dove sono compresenti molteplici culture, finora percepite come lontane e diverse. Il
mescolamento di stili di vita, tradizioni, usi e costumi diversi è frutto della globalizzazione che
ha permesso o causato lo spostamento di migliaia di persone che portano con sé brandelli di
identità, da cui non possono staccarsi senza sentir recidere una parte fondamentale di sé stessi. È
a questo punto che si sviluppa l’attaccamento alle proprie peculiarità per affermare il particolare
sull’universale e sentirsi quindi parte di un gruppo.18 Questo tipo d’identità, condivisa, è definita
identità collettiva ed indica la possibilità per l’individuo di caratterizzarsi in base a valori che
vanno oltre se stessi e trovano significato in riferimento ad altri.
Come gli individui, anche le civiltà si identificano per contrapposizione ad un’altra e la
dialettica tra Islam ed Occidente ne è un esempio. Le identità di entrambe le civiltà sono
immagini di uno specchio riflesso capovolto: ciò che non è una è l’altra, ma senza la prima la
M.M. MORENO (a cura di), Il Corano, De Agostini, Novara, 2005, 4:34.
Ivi 30:21.
15 Ivi 3:195.
16 Ivi 17:24.
17 L. SCIOLLA (a cura di), Identità, Rosenberg &Sellier, Torino, 1983.
18 R. ROBERTSON, Globalization, Sage, London 1992.
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seconda non sa definirsi e viceversa. Come l’Occidente ha creato un suo Oriente, così
quest’ultimo ha dato un’immagine precisa del suo opposto.19
Vittima per antonomasia dei pregiudizi, degli stereotipi e convinta portatrice di un’identità
forte da non nascondere è la donna musulmana che è sempre rappresentata da soggetti
maschili, non potendo mostrare se stessa per quello che è veramente. Se il linguaggio, infatti,
anche quello non stereotipato20,è apparentemente neutro, ma di fatto maschile, ne deriva
l’urgenza per la donna di farsi soggetto nel linguaggio, per significare autonomamente
l’esperienza femminile. Solo così il soggetto femminile potrà ristrutturare e destrutturare i
significati codificati, attribuendo nuovi valori a simboli stereo tipizzati.21
… i miei amici, quelli simili a me, paragonano la nostra situazione a quella degli amanti.
Ami sia il partner ufficiale sia quello non ufficiale: vorresti che stessero sempre con te,che
facessero parte di te, ma ciascuno pretende che tu appartenga solo a lui e che tu sia come
lui ti vuole. Difficile gestirli entrambi. Passi dall’uno all’altro, sorridi all’uno e all’altro, ti
spezzi in due e poi li perdi (…). Però io preferisco un’altra immagine, quella del padre e
della madre. Li ami entrambi, prendi i caratteri dell’uno e dell’altra, non devi
necessariamente scegliere chi dei due seguire. Entrambi ti amano e ti accettano per come
sei, e tu li ami e li accetti per quello che sono, senza temere di perderli. In questa situazione
confusa è facile sentirsi disorientati, ingannare sé stessi e gli altri, volendo apparire ciò che
non si è …22
l brano appena letto è tratto dal testo Porto il velo, adoro i Queen di Sumaya Abdel Qader,
italiana di seconda generazione, nata da genitori di origine palestinese, musulmana, scrittrice
migrante. L’autrice ci restituisce uno spaccato della sua vita quotidiana in Italia, dove è definita
italiana di seconda generazione. La prima difficoltà che i nuovi italiani come lei incontrano nella
nostra società è non essere accettati per come sono: diversi, nuovi, speciali e portatori di novità.
Tutto sembra diventare dicotomico e rende difficile normalizzare la propria vita. Il più
frequente tipo di approccio tentato dagli italiani nei loro confronti è quello che li considera
opposti e contrari.
Come per tutti gli adolescenti, quando si è giovanissimi la logica del branco degli amicicompagni diventa omologazione o esclusione e questo crea, nelle persone più sensibili, un senso
di inferiorità, impotenza e marginalizzazione. L’obiettivo principale, il sogno o l’ossessione per
un giovane italiano di seconda generazione diventa essere accettati non solo dalla gente, ma
anche dalle Istituzioni ed essere riconosciuti come parte della società. La questione della
cittadinanza raccontata nel libro non è solo la storia di Sulinda, ma di centinaia di ragazzi che
ritengono il riconoscimento un passo importante verso un’interazione normalizzata.
Un’ironia pungente emerge dalle pagine del testo e riesce a sfatare tutti i piccoli stereotipi
che si formano nella percezione della donna musulmana velata, dimostrando come essa possa
rispettare tutti gli stili di vita tipicamente occidentali, dall’abbigliamento intimo, alla scelta della
tata per le proprie figlie, pur restando fedele a quello che è un obbligo religioso.
Protagonista delle divertenti avventure quotidiane è Sulinda, una donna musulmana che
ama profondamente Dio ma, contrariamente ai luoghi comuni sui musulmani, conosce e si
ispira a vari personaggi mitici occidentali, comunicando con un linguaggio da sit-com
americana.
Dalle pagine del testo emerge un ritratto di una nuova Italia, che ospita
cinquecentosettantamila nuove cittadinanze, cioè figli degli immigrati nati in Italia. Le
avventure di Sulinda ci aiutano a comprendere il difficile processo di costruzione della propria
identità che giovani come lei sono costretti ad attuare in un paese che, seppur li ha visti nascere,
non li riconosce come suoi figli.
A. T.LABIB, L’Altro nella cultura araba, in L’Altro nella cultura araba, Mesogea, Messina,2006.
20 L. IRIGARAY, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, 1991.
21 L. MOSCHINI op.cit.
22 S. ABDEL QADER, Porto il velo, adoro i Queen, Sonzogno Editore, Milano 2008, 14.
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Oltre ad essere un’italiana di seconda generazione, Sulinda è una musulmana praticante che
ogni mattina dedica tempo non alla scelta del trucco, bensì a quella del velo da abbinare alla
borsa e al soprabito. Nonostante le apparenze date dal nome esotico, dal tipico abbigliamento
islamico che la nasconde, dal continuo interrogarsi sulla propria identità, dalle odiate risposte
troppo generiche e superficiali rifilate dai media e dagli spinosi giudizi dei musulmani che la
ritengono troppo occidentale, le parole di Sulinda suonano come segue:
Mi guardo allo specchio, dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa. Tutto rigorosamente made
in Italy.23
Sulinda è una giovane donna forte e tenacemente aggrappata alla sua identità, non si abbatte
per le difficili situazioni della vita e non incolpa nessuno per le proprie sconfitte. Ella reagisce
sempre in modo positivo insegnando alle sue due figlie a capire le ragioni degli altri anche
quando i giudizi e gli approcci da essi manifestati sono infarciti di ottusi pregiudizi, che non
fanno altro che palesare la perenne ignoranza o la scarsa apertura mentale in un epoca in cui
non esistono più confini tra le persone:
Mi trovo sul bus 56 che percorre via Padova, di solito lo prendo per portare le bambine
all'asilo o per andare ai giardinetti. Sono appena finiti i mondiali di calcio 2006.
Curiosamente l'unica cosa che è rimasta nella memoria delle mie innocenti creature è l'inno
d'Italia. Allora, siamo sul bus, quando i due angioletti, di punto in bianco, iniziano a
cantare a squarciagola: "siam pronti alla morte, siam pronti alla morte". E insistono su
questa frase. La signora, giàdisturbata dalla sola presenza dei pargoli e dalle loro voci,
sdegnata commenta:"Ecco cosa insegnano, la violenza e la cultura della morte". Non mi
resta chesollevare il sopracciglio. Le due piccole invece, la fissano con loro sguardo furbetto
di chi la sa lunga, e ignorando il borbottio della signora riprendono a cantare: "Siam pronti
alla morte, l'Italia chiamò, yeah!". Sull' autobus cala il gelo e l'imbarazzo della sciura Maria
che, con fare discreto, si gira dall'altra parte come se nulla fosse, accompagnata da un
sottofondo di risatine dei passeggeri che hanno assistito alla scena.24
Tra i simboli identitari che Sulinda sfoggia con orgoglio e dignità c’è proprio il higiab, il velo
islamico, considerato dalla protagonista, che è l’incarnazione della stessa autrice, un elemento
personalissimo e intimo del proprio modo di essere. Non è quel pezzo di stoffa sulla testa ad
impedirle, infatti, alcuni particolari comportamenti, ma il senso del pudore, la morale, che
proprio perché individuale e personale, va rispettata e tollerata purché non infranga la sfera di
libertà individuale altrui.
Dal momento che non è difficile oggi incontrare una donna velata in qualsiasi spazio
europeo, sarebbe utile comprendere appieno il significato di tale simbolo religioso: l’uso
dell’higiab è un dovere religioso da rispettare nei confronti dell’intera società, è importante per
tutti, infatti, che le donne vestano modestamente e si comportino umilmente. Il rispetto di tali
regole porterebbe molti benefici al gruppo sociale in quanto le donne, coperte, sembrerebbero
così in grado di salvaguardare meglio il proprio valore personale, i propri pregi interiori e non
verrebbero considerate solo merce in esposizione; in tal modo, esse manifesterebbero anche, in
maniera chiara ed esplicita, la fedeltà e l’amore per il marito e preserverebbero una calda
atmosfera familiare scevra da rancori e liti.25
All’interno della religione islamica, il rapporto tra donna e società è duale e reciproco: la
società chiede alla donna di sacrificarsi osservando il higiab, ma le offre in cambio una posizione
di grande valore all’interno di essa: in questo modo, infatti, la donna eviterà la corruzione
sociale e il deviamento e contribuirà alla creazione di una nazione stabile, sicura e gloriosa;
tuttavia la più grande ricompensa personale per esse sarà presso Dio, per aver adempiuto il
Ivi 178.
24 Ivi 53-54.
25 R. SALIH, Musulmane rivelate, Carocci, Roma 2008.
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proprio obbligo religioso. Le donne musulmane devote, quindi, articolano una riconciliazione
tra libertà e costrizione, dove si valorizza, contemporaneamente, la capacità di scegliere
indipendentemente e di rispondere al volere divino.
L’abitudine di misurare l’emancipazione e la libertà femminili in base ai centimetri di pelle
esposta non è esclusiva dei paesi a maggioranza musulmana, ma è presente anche nei paesi
occidentali, che si ritengono maggiormente evoluti ed emancipati: mentre agli inizi del
ventesimo secolo si riteneva, infatti, che coprire il corpo con abiti fosse segno di civiltà, visto che
ad andar nudi erano i selvaggi, oggi la femminilità deve essere esposta a tutti i costi. Il corpo
deve essere svelato ed esibito.
L’ossessione di velare i corpi femminili trova, così, il suo equivalente nel volerli scoprire per
forza, affinché diventino simbolo di una seduzione esplicita, unica arma e capacità della donna.
Ne conseguono palesi analogie tra gli imperativi dettati dal controllo commerciale del corpo
femminile e quelli dettati dal controllo patriarcale. Il corpo mercificato e venduto sembrerebbe
meno scandaloso del corpo contrassegnato da un simbolo identitario, religioso e patriarcale
come il velo, tanto che la femminista E. Badinter ha affermato che il higiab è da ritenere peggio
della prostituzione dal momento che questa è solo la massima libertà di poter disporre del
proprio corpo, negata appunto alle donne musulmane.26
Dal momento che l’ossessione per il corpo femminile è la stessa in ogni parte del mondo,
risulta poco utile e per nulla corrispondente al vero il presunto conflitto esistente tra democrazia
e legge islamica: non c’è fede, infatti, che non possa adeguarsi all’insopprimibile bisogno di
libertà che ognuno desidera soddisfare. La democrazia e la tolleranza sono fattori formidabili di
mutamento, e l’Islam, senza perdere nulla della sua carica spirituale, saprà adattarsi ai tempi
nuovi altrettanto rapidamente che il Cristianesimo.
Mentre il velo è, da noi, considerato un segno dello svilimento dell’identità femminile e un
simbolo dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, questo segno di passività e segregazione
all’interno di spazi domestici, viene riadattato da donne musulmane, non più costrette ad un
ruolo tradizionale e alla reclusione tra le mura della propria casa. Al contrario il velo diventa
un’espressione sia personale sia collettiva di religiosità islamica. Si porta individualmente sul
corpo, ma viene anche immaginato come fonte di potenziamento collettivo e di collante
orizzontale tra coloro che si vogliono distinguere come musulmani islamisti. Così facendo, esso
si trasforma da potenziale attributo di discredito pubblico, in subalterno vantaggio. Da simbolo
di stigma, il velo è convertito in affermazione positiva di identità, conferendo quindi alla
musulmanità un più alto senso di sé27. Ne consegue che, attraverso l’affermazione collettiva
dell’identità islamica, il senso storico di umiliazione e perdita di dignità, tipico delle donne
musulmane, si sia trasformato in una ricerca di distinzione.
Anche nelle nostre società non si è completamente affermata la possibilità di una libera
scelta. Oggi a imporre stili e mode, di conseguenza a decidere quale debba essere il comune
senso del pudore, sono prima di tutto, le convinzioni maschili, che giudicano le donne secondo
propri parametri, e poi l’industria della moda e il mercato. In Occidente, anche il più severo dei
maschi non ammetterebbe mai di avere remore ad interagire con una donna più emancipata,
ma nei fatti non è sempre così: le donne che in Occidente sono vittime di violenza o
segregazione maschili difficilmente lasciano trapelare qualcosa all’esterno, dal momento che, in
una società che si professa libera, non è ammissibile dover ancora sottostare a determinate
regole. La differenza con il mondo musulmano è che lì la maggior parte delle donne condivide
lo stesso destino, ma non lo nasconde, poiché esso è la norma per l’intera società, in quanto, in
molti casi, dettato dalla legge.
Ricordiamo che la pratica di coprire il capo delle donne non è esclusivamente islamica: la
domesticazione e il controllo della sessualità è una tendenza presente nelle varie società
mediterranee, caratterizzate da un modello basato sulla rigida separazione delle sfere del
maschile e del femminile, sulla convenzione sociale della segregazione spaziale, sul valore
A. M. RIVERA, La guerra dei simboli, Dedalo,Bari 2005.
27 N. GOLE, Musulmane set modernes, voile set civilisation en Turquie, La Decouverte, Parigi,1997.
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cardine dell’onore maschile e su una morale sessuale ossessionata dalla verginità e dal controllo
di un eros femminile, temuto come selvaggio e potenzialmente pericoloso. Tale morale, mentre
formalmente condanna anche le trasgressioni maschili, pratica nei loro confronti la più larga
indulgenza, a tal punto che le è intrinseco il paradosso per cui l’onore di ciascun uomo consiste
nello sfidare, costantemente, l’onore degli altri uomini. E’ innegabile che il dominio sulla
funzione riproduttiva femminile abbia costituito l’assillo delle tre grandi religioni monoteiste
nelle quali, in misura e in forme diverse, si sono rispecchiate la struttura e la cultura patriarcali.
Ricordiamo, per esempio, che nella religione cattolica, nella Prima Epistola ai Corinzi, San
Paolo associa esplicitamente l’obbligo del velo all’inferiorità della donna, che perciò deve
portare il marchio della sua dipendenza. Un marchio che, nei paesi a maggioranza cattolica, le
donne, delle classi subalterne in particolar modo, avrebbero portato almeno fino agli anni
Cinquanta, nella forma di grandi fazzoletti da testa di colore scuro, finché, negli anni Sessanta, il
fazzoletto non si trasformò in un foulard di seta, leggero e colorato, che divenne un elemento
alla moda in tutto l’Occidente.28
Attraverso la storia di Sulinda, Sumaya Abdel Qader spiega come sia possibile oggi vivere in
un paese occidentale continuando però a rispettare i valori più importanti della fede
musulmana: il velo rappresenta, per i musulmani, un simbolo forte di presenza, ma chi non ne
conosce il vero significato potrebbe fraintenderlo. Alcune donne lo scelgono spontaneamente, e,
come libera scelta va rispettato. Se, al contrario, esso viene imposto dai membri maschili della
famiglia, allora è giusto intervenire. Il higiab è, per l’autrice quindi, una scelta religiosa
equilibrata capace di interpretare anche i nuovi comportamenti delle giovani musulmane di
oggi: ci sono cambiamenti, infatti, nell’uso del velo con un ritorno da parte delle ragazze
convinte della propria duplice identità che si sentono europee a tutti gli effetti, ma continuano a
rispettare i propri obblighi religiosi.
La felice previsione che emerge dalle pagine del testo di Abdel Qader è che, nonostante il
clima internazionale difficile e teso, l’unica azione comune possibile sia proprio il dialogo e il
confronto tra giovani che, anche se in maniere diverse, sono impegnati nella causa del proprio
futuro. Tutti loro, a proprio modo, possono portare un importante contributo alla costruzione di
un gruppo arricchito proprio da tali apporti eterogenei.
Tra le scrittrici di seconda generazione, distinguiamo quelle provenienti dalle ex-colonie
italiane, accomunate dalla padronanza della lingua italiana, seconda lingua madre e da
tematiche come il razzismo e l’integrazione. Nell’ambito della letteratura italiana di migrazione
di scrittori originari del Corno d’Africa, la presenza femminile è notevole proprio perché le
donne sono più consapevoli della coesistenza di più culture nella propria vita e nel proprio
passato, perché sono state le principali vittime del colonialismo a causa di pratiche in voga a
quel tempo come appunto quella del madamismo. Si tratta di una pratica incoraggiata durante
la prima fase del colonialismo italiano, verso la fine dell’Ottocento, che permetteva ai
colonizzatori italiani la convivenza more uxorio con le indigene dette appunto madame.29
Le autrici di seconda generazione, per cui l’italiano è un’altra lingua-madre che convive
accanto a quella della famiglia o del paese d’origine, s’interrogano più delle altre sulla propria
identità sospesa fra due culture, e sul rapporto conflittuale con il paese natio.30
Dualità e liminalità sono le due caratteristiche principali di questi nuovi soggetti identitari.Per
alcuni la dualità è una condizione di privilegio, per altri, una lacerazione dovuta a un conflitto
della propria identità e al non sentirsi appartenenti a nessun luogo. Per liminalità s’intende il
passaggio da una condizione ad un’altra senza perdere alcuna delle caratteristiche iniziali, ma
assorbendone di nuove fino a ricreare una nuova identità liquida. Se la dualità permette di
28A.M.
RIVERA, op.cit.
29G. CALCHI NOVATI, Il corno d’Africa nella storia e nella politica. Etiopia, Somalia e Eritrea tra nazionalismi,
sottosviluppo e guerra, SEI, Torino 1994.
30
D.
COMBIERATI,
Le
molte
voci
del
soggetto
nomade,
in
http://www.retididedalus.it/Archivi/2007/marzo/LETTERATURE_MONDO/Letteratura_migrante.
htm
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creare una nuova forma fissa partendo però dalla mescolanza di varie e diverse qualità, la
liminalità non crea un prodotto finito e rigido, bensì una condizione mobile che si alterna tra la
cultura di provenienza e quella di accoglienza.31
Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali, appartiene, quindi, a quella che definiamo
letteratura postcoloniale italiana. Intento principale di queste scrittrici è la ricerca di un’identità
di donna e immigrata in una società maschilista e razzista; questa condizione di alterità
permette loro di distaccarsi e analizzare il mondo circostante con uno sguardo maturo e
disilluso.
L’opera in questione, Pecore nere, è stata presentata al pubblico proprio come un insieme di
racconti di scrittrici migranti di seconda generazione: provenienti dall’India, dalla Somalia e
dall’Egitto, le quattro scrittrici hanno proposto due racconti ciascuna nei quali si interrogano
sulla propria identità sospesa fra due culture e due lingue.32
Salsicce è uno dei racconti che compongono Pecore Nere ed è una risposta ironica alla legge
che obbliga al rilascio delle impronte digitali gli immigrati residenti in Italia. La narrazione si
svolge attorno alla vicenda di una giovane donna italo-somala di fede musulmana che decide di
mangiare salsicce per dimostrare la propria avvenuta “integrazione” in Italia, dimostrazione
necessaria, nonostante la sua cittadinanza italiana, dal momento che essendo nera e
musulmana, è ritenuta straordinaria rispetto alla normalità sociale. La richiesta delle impronte
digitali è letta come un'equazione che accomuna gli stranieri in attesa di regolarizzazione a dei
criminali.
Il corpo dello straniero diviene così un corpo per “natura” criminale che necessita di essere
controllato e monitorato poiché rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale. L’effetto
di tale legge è una compensazione dell’identità, già plurima, della protagonista: essa si sente
costretta ad ingoiare carne di maiale, a lei proibita da prescrizioni religiose, per dimostrare di
essere un’italiana come tutte le altre, annullando quindi le sue peculiarità. Si sente quindi
oggetto di sguardi molteplici che la rendono estranea sia alla comunità italiana bianca che a
quella somala. Il suo corpo, però, rifiuta l’alimento e il vomito diventa cosìla reazione alle forze
che lo rendono estraneo e fuori posto. La necessità di vomitare si presenta durante la lettura di
un articolo di giornale riguardo il pestaggio di un minorenne afroamericano. L’espediente
letterario serve a tracciare una sorta di ritratto della violenza da parte dell’Occidente verso i
neri, una violenza multiforme che va dai pestaggi di matrice razziale, agli sguardi nauseati, fino
ai provvedimenti legislativi.
Igiaba Scego vuole mostrare, anche, come il processo coloniale fatto di desiderio e paura,
attrazione e repulsione nei confronti dei corpi neri sia ancora attivo nel presente. La centralità
della sessualità nella sua opera è indice della sua volontà di liberare le donne nere da uno
sguardo patologizzante e razzializzante. Corpi e desideri “altri”, sembrano acquisire, dunque,
un carattere positivo e liberatorio nell'opera di Scego.
Dismatria è un altro racconto pubblicato in Pecore nere che prende il nome da un
neologismo, coniato da Scego, indicante l’espatrio e la conseguente frattura insanabile e la
distanza traumatica che accompagna la diaspora per le donne italo-somale. La «Dismatria» è
uno stato mentale del desiderio della patria che ormai non è più.
La coniazione di termini nuovi mostra la padronanza di più lingue tipica di queste autrici,
che permette loro di scegliere le forme espressive migliori per esprimere i significati. Nel caso di
Scego, questa capacità si manifesta anche nella fusione tra lingua scritta e lingua orale. Questa
forte sperimentazione stilistico-espressiva diventa una strategia per narrare la complessa identità
sia delle autrici che dei personaggi, specchio di esse.33
M. LURASCHI, La critica postcoloniale della liminalità: la scrittura delle autrici afro-italiane in «Quaderni
d’Italianistica», 33, 1 (2012).
32 D. COMBIERATI, cit.
33 M. V. VITTORI, “Il modello è la lingua: contaminare e mescolare per includere. Intervista a Igiaba Scego”, in
Liberazione (16 novembre 2008). http://www.universitadelledonne.it/vittori-scego.htm
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Protagonista anonima del racconto, è una giovane romana nera di origini somale, che vuole
comunicare alle altre donne della sua famiglia il desiderio di comprare una casa a Roma, ma
incontra l’opposizione di tutte, dal momento che esse rifiutano l’idea dell’Italia come dimora
fissa e stabile. Per trovare il coraggio di confessare la difficile verità, la protagonista si fa
accompagnare da un’amica transgender brasiliana di nome Angelique.Il corpo di Angelique,
attira su di sé l'attenzione delle donne poiché è percepito come estraneo ed eccedente e invade
all’improvviso lo spazio “privato” della comunità di donne italo somale di diverse età, così come
il corpo della protagonista, italiana nera, ha già invaso la città di Roma.
Il racconto è caratterizzato, quindi, dall'invasione di corpi fuori luogo. Se la protagonista e le
sue parenti sono corpi neri che invadono lo spazio pubblico italiano, il corpo di Angelique è il
corpo transgender che, mostra, apertamente e senza veli, la sua distanza dai corpi delle altre
donne presenti.
Sarà proprio l’enorme particolarità di Angelique a dare coraggio all’amica di rivelare la
propria verità e cioè il desiderio di mettere radici in Italia, sua nuova patria.
Le identità delle due protagoniste sono identità ibride cioè composte da elementi eterogenei
che si fondono per creare un unico prodotto. Tale definizione lascia, però, fuori il continuo
lavoro di rielaborazione a cui questi soggetti si accingono nello stabilire il proprio modo di
essere. La continuità e fluidità di tale lavoro è negata dal processo, definito da Francesco
Remotti, di reificazione, cioè la definizione precisa dei tratti di un’identità come se fossero uguali
da sempre e per sempre, perché serrati nei propri confini culturali.
Dal momento che il concetto di identità reca già in sé il carattere di staticità, il concetto di
ibrido associato all’identità non fa altro che evidenziarne maggiormente il carattere di
inamovibilità e astoricità, come se un’identità ibrida si possa definire solo in un modo. La
definizione adatta, invece, per l’identità plurima tipica di tali scrittrici, è quella di liminalità,
teorizzato in ambito antropologico da Van Gennep e da Victor Turner.
La liminalità è una delle tre fasi tipiche dei processi rituali che segnano il cambiamento di
stato di una persona nelle società tribali. Approfondendo diremo che: la prima fase segna la
separazione fisica di un individuo da uno stato ben definito nella società; la seconda fase,
liminalità appunto, indica uno stato ambiguo, in cui non sono goduti né attributi dello stato
precedente né di quello nuovo.
È solo nella terza fase che l’individuo raggiunge un nuovo stato ben definito all’interno della
società che lo reintegra nel villaggio. Riguardo la fase della liminalità, Turner ne ha evidenziato
il carattere di “invisibilità”: situandosi tra due stati ben definiti, le persone liminali diventano,
per quel periodo, invisibili all’interno della società. Non si tratta, però, di una condizione di
transizione che attende il passaggio definitivo ad un altro status, bensì di un momento di rottura
con il passato che crea qualcosa di nuovo.34 I processi migratori, invece, non sono passaggi
completati, ma momenti liminali che tali rimarranno perché i migranti adottano alcuni caratteri
del nuovo stato culturale, senza però abbandonare nessuno di quelli precedenti.35
La definizione di questo tipo di identità è quella che Bauman chiama “vita liquida” e che
ritiene la costante della contemporaneità. Nei processi migratori manca la fase dell’assunzione di
un nuovo status sociale perché cambia la comunità di riferimento. Il nuovo status acquisito dai
migranti non sta dunque alla fine del passaggio, ma nel passaggio stesso. La condizione
esistenziale del migrante è data, quindi dall’atto del passare da un posto all’altro, da una lingua
all’altra, da una cultura all’altra, promuovendo la coesistenza di lingue e di aspetti culturali
diversi. Né la propria cultura di origine né la lingua vengono mai del tutto abbandonate e, come
dice Bauman, non si diventa mai ciò che non si è ancora.36
Alla luce del discorso delineato, risulta evidente che una delle sfide per la nostra società passi
attraverso le nuove ondate migratorie e l’integrazione di esse nel nostro mondo. E chissà che il
V. TURNER, Betwixt and Between: The Liminal Period in the Rites of Passage in «BETWIXT AND BETWEEN:
PATTERNS OF MASCULINE AND FEMININE INITIATION». Eds. Louise CarusMahdi, Steven Fopp. 3-20.
35 A. VAN GENNEP, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, 1985.
36 Z. BAUMAN, Vita liquida Laterza, Roma-Bari 2006.
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nostro vecchio mondo non possa rinascere e risorgere, dall’epoca di rovina in cui versa, grazie
all’apporto culturale, sociale, umano e letterario dei nuovi migranti. In questa rinascita le donne,
data la loro forza e il loro ruolo di spicco nel processo migratorio e nella società, sono le vere
protagoniste di questa agognata ricostruzione etica. Diviene auspicabile, così, l’eliminazione di
ogni stereotipo e il mescolamento e l’assorbimento da parte di tutti delle caratteristiche dell’altro
in quanto a rendere tangibile l’originalità di ciascuno è sempre e comunque un accostamento tra
gli uomini, data la natura relazionale di essi. In tal senso, la letteratura migrante, può
contribuire a sventare le paure di una società basata sulle proprie secolarizzate tradizioni, che si
sente intimorita da compresenze religiose o linguistiche culturali all’interno del proprio tessuto
sociale.
Un’educazione che rappresenti l’Altro promuovendo il rispetto e motivando la curiosità e
l’arricchimento culturale favorisce l’integrazione e il pluriculturalismo e in questo l’arte e la
letteratura in maniera specifica, giocano un ruolo di primaria importanza perché rappresentano
ed educano. Gli scrittori migranti possono, così, rivitalizzare le identità personali e comunitarie,
rafforzandole nella mutua partecipazione e sviluppandone di nuove, come specchi della realtà
odierna, plurima e sfaccettata.
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