Mitsuko Uchida pianoforte - Società del Quartetto di Milano

Sala Verdi del Conservatorio
Martedì 28 marzo 2006, ore 20.30
S TA G I O N E 2 0 0 5 • 2 0 0 6
Mitsuko Uchida pianoforte
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Consiglieri di turno
Prof. Alberto Conti
Avv. Marco Janni
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FONDAZIONE CARIPLO
Per assicurare agli artisti la migliore accoglienza e concentrazione
e al pubblico il clima più favorevole all’ascolto, si prega di:
• spegnere i telefoni cellulari e altri apparecchi con dispositivi acustici;
• limitare qualsiasi rumore, anche involontario (fruscio di programmi, tosse ...);
• non lasciare la sala prima del congedo dell’artista.
Si ricorda inoltre che registrazioni e fotografie non sono consentite, e che
l’ingresso in sala a concerto iniziato è possibile solo durante gli applausi, salvo
eccezioni consentite dagli artisti.
Mitsuko Uchida pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart
(Salisburgo 1756 – Vienna 1791)
Fantasia in do minore K 475
Pierre Boulez
(Montbrison, Loire 1925)
Douze Notations
Ludwig van Beethoven
(Bonn 1770 - Vienna 1827)
Sonata n. 31 in la bemolle maggiore op. 110
Intervallo
Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in fa maggiore K 533/494
Sonata in re maggiore K 576
Wolfgang Amadeus Mozart
Fantasia in do minore K 475
«… in nessun’altra composizione pianistica Mozart ha più decisamente
anticipato lo spirito beethoveniano e, diremmo, quello della musica pianistica
moderna in genere, permeando di appassionato melodismo gli elementi formali
delle scuole nordiche tedesche. Il tono tragico, la rovente passione, gli accenti
rassegnati e gravi di presentimento, già notati nelle opere precedenti, toccano
l’acme dell’intensità soggettiva. Divinazione prodigiosa, il breve e sognante
canto in re maggiore, dopo l’improvviso e violento incalzare del dramma; lo
ritroveremo, nell’episodio in mi minore, nello sviluppo dell’Eroica».
Sono le parole che Bernhard Paumgartner, nella sua classica monografia
mozartiana di metà Novecento, riserva alla Fantasia in do minore per
pianoforte che Mozart compose il 20 maggio del 1785, poco prima di iniziare Le
nozze di Figaro. Sono considerazioni che illuminano il breve capolavoro e che
nello stesso tempo confermano la loro inadeguatezza nell’esprimere una
sostanza musicale ancora una volta trascendente. Perché nelle poche pagine
pentagrammate non ci sono appigli per la grande letteratura, per il teatro. C’è
solo musica. Musica facile, anzi, nella tecnica, e pure nell’architettura. Chi vuole
potrà cercare i modelli nella tradizione barocca o, meglio, in quella galante dei
figli “minori” del grande Johann Sebastian Bach. Le regole sono rispettate: un
“Adagio” che serve da introduzione, in tono “patetico”; poi una serie di varianti;
quindi il passaggio a tempi più vivaci da organizzare secondo criteri non
predeterminati; il ritorno del “Tempo I” per riassumere e concludere. Si
potranno segnalare le “tecniche”, l’efficienza di dispositivi timbrici e armonici
applicati alle nascenti possibilità del moderno pianoforte; tante altre cose che
tanti hanno correttamente registrato. Ma sarà solo elenco di materiali, neppure
nuovissimi, apparentemente sistemati alla rinfusa, allo stato puro. Il fascino
incomparabile della Fantasia in do minore K 475 sta, forse, tutto qui.
Pierre Boulez
Douze Notations
Fantasque – Modéré
Très vif
Assez lent
Rythmique
Doux et improvisé
Rapide
Hiératique
Modéré jusqu'à très vif
Lointain – Calme
Mécanique et très sec
Scintillant
Lent - Puissant et âpre
Uno dei primi lavori scritti da Boulez, nel 1945, s’intitola Notations ed è per
pianoforte. Fu però presto giudicato immaturo e ripudiato assieme a tanti altri.
Il ventenne Boulez aveva deciso da poco di lasciare gli studi scientifici al
Politecnico e di dedicarsi alla musica. Da allora è stato un protagonista della
musica del nostro tempo. Ha cominciato come militante dei movimenti
d’avanguardia, sostenendo e praticando le teorie mistico-esotiche del suo
maestro Messiaen, la musica concreta di Pierre Schaeffer, la serialità
postweberniana e integrale da lui stesso teorizzata e praticata con Stockhausen,
Pousseur, Nono; salvo poi estendere la sua ricerca verso l’aleatorietà e l’opera
aperta, con recuperi di surrealismo e di primitivismo. È giunto così agli anni
Sessanta, alla rivalutazione di Stravinskij da un lato e all’interesse per le
impostazioni di John Cage e dei suoi seguaci dall’altro. Ha iniziato a fare il
direttore d’orchestra e ha avuto un successo strepitoso, che lo ha portato a
contatto diretto del grande pubblico, del grande repertorio, del teatro di
Wagner, di cui ha lasciato interpretazioni memorabili. E non ha smesso l’attività
di polemista e saggista, di organizzatore in Francia, di didatta in tutto il mondo.
Negli ultimi decenni e dopo la fioritura degli anni Cinquanta ha però trascurato
la composizione, o forse, anzi senz’altro, l’ha volutamente limitata. Una delle sue
ultime composizioni per grande orchestra è del 1977-79, e s’intitola Notations I-IV.
Un lavoro da camera coevo, Répons (1981), è per due pianoforti, arpa, cimbalom,
xilofono, vibrafono e computer. Per quanto sembri strano, in entrambi questi
lavori, come in quelli precedenti, la firma di Boulez è inconfondibile, nonostante
le distanze temporali e i tanti prestiti stilistici e la molteplicità delle prospettive
adottate. Si sente proprio che Boulez resta fedele alla sua formazione originale
di ingegnere/matematico interessato alla struttura, alla costruzione, alla
tecnica; ovvero al controllo logico e formale di ogni immaginazione umana.
Eppure l’“altra esperienza” costruita in anni di frequentazione amorosa di
culture non europee e di correnti di pensiero non analitico, e il continuo
misurarsi con il labirinto del reale, con il soggettivismo e l’irrazionale l’hanno
portato a cercare, sempre e comunque, una sintesi fra logica e immaginazione,
a fare una musica che traduca l’organizzazione in delirio e la furia creativa in
procedura artigianale. Anche le Douze Notations per pianoforte, pubblicate nel
giugno del 1988, nascono dalla medesima concezione e non sono solo un titolo
favorito che si ripete. Possono essere lette in modo strutturale, anzi
combinatorio, partendo dall’osservazione che i dodici pezzi sono formati
ciascuno da dodici battute e che per prima cosa vengono esposte tutte le dodici
note, e così via. Oppure vi si possono cercare (e trovare) recuperi di materiali del
passato, dall’asciutta dodecafonia viennese alla contemplazione timbrica
impressionista, al gusto per la miniatura romantica, al nitore classico, al
decorativismo barocco; scorrono i nomi di Debussy, di Chopin, di Bach; si pensa
alle loro ricerche di sistematicità, di chiarezza, alla fiducia che tutti noi
riponiamo nei numeri naturali quali specchio del disordine dell’universo.
Ludwig van Beethoven
Sonata n. 31 in la bemolle maggiore
op.110
Moderato cantabile molto
espressivo
Allegro molto
Adagio ma non troppo, arioso
dolente
Fuga. Allegro ma non troppo
Da sempre le ultime tre hanno un fascino e un ruolo tutto particolare all’interno
della strepitosa serie delle 32 sonate per pianoforte di Beethoven. Al punto che
spesso (troppo spesso) sono chiamate a formare un programma completo di
serata di concerto, per certificare la raggiunta maturità artistica di un pianista
esordiente o semplicemente anagrafica di uno affermato. Perché sia così,
davvero non si sa. Si possono fare illazioni. Ha un ruolo il numero magico “tre”.
Forse conta l’aggettivo “ultime”. Di sicuro ha poco valore il nome “sonata”,
perché nessuna delle tre rispetta in alcun modo le regole auree che per
tradizione si attribuiscono al genere. In questo senso, la vera “ultima” sonata di
Beethoven è l’op. 106, con la sua chiara articolazione nei classici quattro
movimenti, con tanto di “Allegro” iniziale in forma sonata seguito da veloce
“Scherzo” e da pensoso “Adagio”. Accettabile, dal punto di vista accademico, la
scelta della fuga come movimento finale, e anche l’abnorme dimensione
quantitativa (oltre che qualitativa) del tutto. Poco, se non proprio nulla, in
comune con la abituale accezione di sonata ha il lavoro cronologicamente
successivo, l’op. 109, che nasce con la logica della fantasia settecentesca e sposa
il principio sequenziale (cioè antidialettico) del tema con variazioni.
Contrappunto (primo tempo) e ancora variazioni (secondo tempo), con finale
sospeso (non c’è terzo tempo, e neppure quarto) propone l’op. 111, l’ultima e più
enigmatica composizione che Beethoven definì sonata. Gioco facile si ha quando
si prova a dimostrare quanto lontana dalla sonata tradizionale sia anche
l’op. 110, la penultima, terminata il giorno di Natale del 1821. Nel primo
movimento le tracce della struttura formale sono tanto labili da risultare quasi
inesistenti. Non c'è rapporto dialettico fra due temi, anzi manca un vero e
proprio secondo tema, come manca la sezione di sviluppo, sostituita da semplici
riproposte dell’unico soggetto. Così il “Moderato cantabile molto espressivo”
non è altro che una lunga e astratta meditazione, condotta con linearità estrema,
senza alzare la voce, senza contrasti, senza polifonia, appoggiata su
accompagnamenti convenzionali più nell’apparenza che nella sostanza,
frammentata da vaporosi arpeggi, che ammorbidiscono transizioni armoniche di
ardita e nuova concezione. Segue un “Allegro molto” in cui si può riconoscere
una specie di “Scherzo” con le parti laterali secche e perentorie (e con possibile
citazione di un motivo popolaresco dei sobborghi viennesi) e un “Trio” centrale
dalla scrittura insolitamente rarefatta: due sole voci, ridotte all’essenziale
associazione di linee e di punti che spaziano sull’intera tastiera.
Dopo i robusti stacchi accordali della “Coda” che conclude l’“Allegro molto”, si
passa a una delle pagine più intense dell’ultimo Beethoven. Nell’“Adagio ma non
troppo” la forma perde tutti i valori di simmetria voluti dal classicismo, pare
tornare a stereotipie barocche, al preludiare improvvisatorio di certi lavori
strumentali, ai compositi recitativi che precedevano le arie vocali. Preparata da
un’ampia introduzione che culmina con una serie di “la” ripetuti con implorante
intensità, sulla mesta pulsazione degli accordi ribattuti, la semplice melodia
dell’“Arioso dolente” riesce a condensare valori musicali che riassumono e
qualificano il senso vero dell’ultima stagione beethoveniana. Come già era
capitato più volte in lavori di quel tempo (op. 101, 102, 106), le solide regole della
fuga paiono a Beethoven il naturale tampone a tanta tensione espressiva. In
questo caso però, in coerenza con lo spirito proprio della sonata tutta, la fuga
non ha contorni aspri e drammatici, ma si mantiene intima, perfino lirica. Le
angosce dell’“Arioso dolente” si sciolgono a contatto con i razionali (e perciò
certi, incorruttibili) valori dell’antico contrappunto. Conclusa la prima
elaborazione della fuga, riappare per poche battute il tragico clima dell’“Arioso”:
“perdendo le forze, dolente”, scrive Beethoven subito dopo l’indicazione agogica
“L’istesso tempo di Arioso”. Ancora una volta risponde, e in modo definitivo (lo
confermano se non altro i tredici rintocchi che fungono da transizione) una fuga,
costruita sul tema precedente però rovesciato. La nuova fuga non dura molto.
Con graduale accelerazione di passo e di emozione si passa all’entusiasmante
crescendo finale, dove l’idealistica fede di Beethoven nel trionfo dei valori
positivi sulle miserie e sui dolori del contingente trova - in musica, sul pianoforte,
per l’ultima volta - traduzione perfetta.
Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in fa maggiore K 533/494
Allegro (K 533)
Andante (K 533)
Rondò (K 494)
Sonata in re maggiore K 576
Allegro
Adagio
Allegretto
Negli anni della maturità, Mozart ebbe un interesse molto modesto per la
sonata per pianoforte solo. A suo avviso era un genere minore e soprattutto poco
redditizio. Preferiva scrivere concerti, che assolvevano altrettanto bene allo
scopo di esibire la sua bravura di pianista e che, in più, consentivano
l’organizzazione di “accademie”, cioè di concerti pubblici, a pagamento, il cui
successo artistico e finanziario nella Vienna di quegli anni Ottanta era ormai
collaudato da una lunga esperienza. Il concerto solistico puro non si era ancora
affermato e le sonate erano destinate a studenti e dilettanti. Spesso avevano una
elementare parte ad libitum per violino e nel privato dei salottini di casa
trovavano l’ambientazione ideale. Di regola la scrittura aveva difficoltà media o
elementare. Talvolta non si trattava neppure di lavori organici ma di pezzi
staccati, riuniti solo per facilitare la pubblicazione. È questo il caso della Sonata
in fa maggiore K 533 che Mozart mise insieme rapidamente e passò nel 1788
all’amico editore Hoffmeister come parziale compensazione (in natura) di un
debito contratto tempo prima. I primi due movimenti sono rispettivamente un
Allegro e un Adagio terminati il 3 gennaio 1788. Come terzo e ultimo movimento
fu ripreso un Rondò composto in precedenza per fini didattici e datato 10 giugno
1786. Ciò non significa tuttavia che la Sonata K 533 sia visibilmente eterogenea.
Non conoscendo gli antefatti risulta senz’altro un lavoro coerente e compiuto,
anzi uno dei migliori del genere. Il primo movimento è un perfetto esempio di
matura scrittura pianistica mozartiana, con le sue tre idee principali distinte ma
integrate, con quel suo alternare polifonie e omofonie, con il bilanciarsi di
momenti seriosi e giocosi. A sua volta l’“Andante”, polifonico e doloroso, è uno
dei movimenti lenti più intensi scritti da Mozart, degno di essere paragonato ai
grandi “adagi” sinfonici e da camera di quell’ultima stagione. Il Rondò ha infine
struttura insolitamente ampia e articolata: ci sono ben quattro temi distinti e
ben riconoscibili, quello principale compare per esteso ben quattro volte e regge
una coda complessa e contrappuntistica.
Anche l’altra sonata in programma stasera ha una storia tutta particolare.
Avrebbe dovuto essere la prima di una serie di sei sonate facili da inviare alla
principessa Federica di Prussia. Divenne invece l’ultima in assoluto fra le sonate
per pianoforte di Mozart. Si era nel luglio del 1789, alla fine di una deludente
tournée in Germania (Dresda, Lipsia, Berlino) e poco prima della immersione
totale in Così fan tutte, Flauto magico, Clemenza di Tito. Anche la promessa di
scrivere una sonata facile non fu mantenuta. Senza essere virtuosistico,
l’“Allegretto” finale è tutt’altro che alla portata di un semplice dilettante, con
quelle terzine di semicrome su entrambe le mani, gli arpeggi, i passaggi di
registro. Negli altri due tempi la tecnica è più semplice, però si chiede la non
elementare capacità di costruire un dialogo polifonico (proprio a Lipsia, Mozart
aveva riscoperto la lezione di J.S. Bach) e di stratificare i timbri. Se poi si
considera che il primo movimento è uno dei più convincenti esempi di forma
sonata secondo le regole classiche (cioè pre-beethoveniane) e che l’“Andante” ha
la nobile cantabilità del più maturo Mozart operista, il quadro sarà completo, o
quasi.
Enzo Beacco
Mitsuko Uchida pianoforte
Nata a Tokyo e oggi residente a Londra, ha conquistato le platee di tutto il
mondo per le sue interpretazioni nel prediletto repertorio “classico” – Mozart,
Beethoven, Schubert – e per il progressivo suo avvicinamento alla musica del
Novecento. Nella stagione 1994/95 ha tenuto a Londra una serie di concerti
(ripetuti a Tokyo, New York, Amsterdam, Vienna e al Festival di Salisburgo)
con un programma dedicato al confronto fra le opere di Schubert e Schönberg;
nel 1996 ha eseguito il concerto per pianoforte di Harrison Birtwistle
Antiphonies con la Los Angeles Philharmonic Orchestra diretta da Pierre
Boulez. Ospite regolare delle più importanti orchestre del mondo in
collaborazione con direttori quali Mehta, Sanderling, Salonen e Slatkin, nel
1999 è stata protagonista alla Royal Festival Hall di Londra di un concerto
per i 150 anni della morte di Chopin. Nel 2001, dopo il successo di critica che
ha accolto l’incisione del Concerto per pianoforte di Schönberg, è stata
protagonista in Giappone con Yo-Yo Ma, Mark Steinberg e Marina Piccinini
di una serie di concerti di musica da camera (Pierrot Lunaire, Drei
Klavierstücke op. 11 di Schönberg Quatour pour la fin du temps e di
Messiaen). Alla Royal Festival Hall di Londra ha eseguito con il Quartetto
Brentano i concerti per pianoforte di Mozart nella versione per pianoforte e
quartetto d’archi presentata anche alla nostra Società nella primavera del
2001. Dal 2002 è “Artist in Residence” della Cleveland Orchestra con la quale
ha in corso l’esecuzione di tutti i concerti per orchestra di Mozart ripresi nel
2003 e 2004 con i Berliner Philharmoniker, Los Angeles Philharmonic,
Chicago Symphony, Camerata di Salisburgo, London Symphony Orchestra e
con la Chamber Orchestra of Europe. In recital si è esibita per festival di
primo piano e nelle maggiori sale da concerto di tutto il mondo. Attualmente
è impegnata nell’esecuzione integrale delle sonate di Beethoven. Continua la
collaborazione con Ian Bostridge con il quale ha eseguito Die schöne Müllerin
negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, a Parigi, Amsterdam, Vienna e in
Giappone, e con Mark Steinberg nell’esecuzione delle sonate per violino di
Mozart. Ha inoltre in programma un ciclo di concerti beethoveniani con la
Los Angeles Philharmonic e Esa-Pekka Salonen e concerti con la New York
Philharmonic, Wiener Philharmoniker, Royal Concertgebouw, London
Symphony e Philharmonia di Londra. Mitsuko Uchida dedica molta
attenzione alla formazione dei giovani musicisti; è tra gli amministratori e
sostenitori del fondo Borletti-Buitoni e con Richard Goode dirige il Marlboro
Music Festival. Tra le sue numerose registrazioni discografiche, ricordiamo
l’integrale delle sonate e dei concerti per pianoforte di Mozart che ha meritato
il Gramophone Award nel 1989, l’integrale dei concerti di Beethoven con Kurt
Sanderling e il ciclo di sonate per pianoforte di Schubert pubblicato con gli
Impromptus e i Six Moments Musicaux. La registrazione nel 2001 del Concerto
per pianoforte di Schönberg con la Cleveland Orchestra diretta da Pierre
Boulez ha vinto quattro premi, tra i quali il Gramophone Award.
Nel 2005 le è stato assegnato il Premio della Royal Philharmonic Society.
È stata ospite della nostra Società nel 2001 con il Quartetto Brentano e nel 2002.
Prossimi concerti:
martedì 11 aprile 2006, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Jonathan Biss pianoforte
Ha davvero la musica nel sangue, il ventitreenne pianista americano Jonathan
Biss, che debutta alla nostra Società nel prossimo concerto. In primo luogo
perché è figlio di violinisti: il padre Paul è anche violista, la madre Mirian Fried è
stata nostra ospite come solista qualche lustro fa. Poi perché, dopo essere
stato un fanciullo prodigio, ha già confermato piena maturità d’interprete del
repertorio classico, come avrà modo di dimostrare proponendoci Schumann e
Beethoven. E ancora perché conosce il repertorio moderno (appunto Janáček)
e si muove bene nel contemporaneo, tanto da aver convinto l’affermato autore
americano Lewis Spratlan a scrivere, tutto per lui, il pezzo nuovo Wonderer,
divertente e composito, che ascolteremo in prima italiana.
Programma (Discografia minima)
L. Janáček
Sonata 1.X.1905
(Firkusny, BMG 74321 84 592-2)
R. Schumann
Fantasia in do maggiore op. 17
(Richter; EMI 521-575 234-2)
martedì 2 maggio 2006, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Mark Padmore tenore
Natalie Clein violoncello
Julius Drake pianoforte
Schubert, Britten
martedì 9 maggio 2006, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Quartetto Casals
Haydn, Šostakovič, Brahms
L. Spratlan
Wonderer
L. van Beethoven
Sonata n. 23 in fa minore op. 57
“Appassionata”
(Richter; BMG 97863 56 518-2)
Società del Quartetto di Milano - via Durini 24 - 20122 Milano
tel. 02.795.393 - fax 02.7601.4281
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