IL WELFARE IN TEMPO DI CRISI: LA PROSPETTIVA DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA + Mario Toso Premessa Nella Dottrina o Insegnamento o Magistero sociale della Chiesa (=DSC) non si parla in maniera esplicita e sistematica del welfare. Se ne fa un accenno nella Centesimus annus, ove per la prima volta si usa l’espressione «Stato del benessere». 1 E tuttavia, dalla DSC si può ricavare un insegnamento che collega quella che potremmo definire la questione del welfare – intesa in senso ampio, non limitata cioè a sistemi di assicurazione sociale – alla realizzazione della democrazia sostanziale, sociale, rappresentativa e partecipativa. La DSC ha gradualmente aderito all’ideale della democrazia sociale, specificatosi mediante l’innalzamento di sistemi di welfare, non solo per ragioni sociologiche o meramente ideologiche, bensì perché guidata primariamente dall’amore di Dio per l’uomo e per la sua dignità. Il progetto che presiedeva a una simile forma di democrazia consisteva nell’attuazione dei diritti sociali – tra i quali si trova il diritto alla sicurezza sociale – per rendere più compiuta la dignità di tutti i cittadini e più reale la loro partecipazione non solo alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica, ma anche alla realizzazione del bene comune. 1. La nascita dello Stato sociale e democratico È, allora, bene richiamare qui alcuni elementi che connotano la democrazia sociale, perché ci consentiranno di avere dei punti di riferimento per la nostra riflessione sulla crisi dello Stato del benessere e sulla sua possibile soluzione. La democrazia sociale, perseguita per dare compimento alla democrazia politica e civile, si è concretizzata in un progetto che: è nato non solo per l’assistenza o sicurezza sociale per le fasce più svantaggiate della popolazione, ma come progetto coraggioso e solidale di sviluppo economico, di prevenzione delle recessioni, delle crisi e delle conseguenti povertà. All’origine dello Stato sociale della metà del secolo Ventesimo sta non tanto una ricchezza già prodotta da ripartire,2 quanto un accordo preventivo tra tutte le parti (imprenditori, lavoratori, sindacati, 1 «Si è assistito negli ultimi anni – si legge nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II – ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo “Stato del benessere”. Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come «Stato assistenziale». Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un'inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno» (GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 48, in AAS 83 [1991] 793-857). 2 Il riformismo e la politica sociali dello Stato sociale e democratico, ideato fra le due guerre mondiali, non 1 istituzioni politiche) per un’equanime ripartizione dei vantaggi e degli svantaggi di uno sviluppo economico non sempre controllabile in tutti i suoi aspetti; per contribuire ad alimentare, secondo il principio della giustizia sociale, un sistema di sicurezza e di progresso per tutti, compatibile con lo sviluppo economico in atto. Si tratta del progetto ambizioso di perseguire la deproletarizzazione, di eliminare la povertà e di dare sicurezza a tutti, su basi di libertà, di solidarietà, di sussidiarietà e di giustizia sociale; implica politiche, non solo di assistenza e di sicurezza, ma soprattutto di sviluppo economico, finanziario, culturale e internazionale. Le politiche economiche e finanziarie sono orientate al progresso sociale, che peraltro non è identificabile con la garanzia per tutti dei beni materiali fondamentali; prevede diritti sociali (diritto al lavoro, diritto di associazione, diritto alla casa e alla formazione professionale, alla sufficienza e alla sicurezza sociale, ecc.), diritti che appartengono a ogni cittadino, indipendentemente dall’età, dallo status, dall’effettivo e contingente apporto al bene comune. Il patto sociale sotteso al progetto della democrazia sociale tende a radicarsi su ragioni più che lavoristiche e mutualistiche. Queste non sono negate, ma presupposte e inscritte in un progetto di solidarietà più ampio, che intende abbracciare anche chi nella società non è e non sarà mai produttivo. Anche a chi è sfortunato spetta qualcosa, perché è anzitutto un uomo. Ad ogni persona – prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti, delle relazioni di interdipendenza, della mutualità, delle varie forme di giustizia – va riconosciuto che è dovuto qualcosa in forza della sua nativa dignità. Lo Stato sociale e democratico, rappresentativo e partecipativo, del secolo scorso postulava che la verifica del proprio grado di civiltà e la controprova dell’autenticità della sua solidarietà avvenivano proprio a livello della cura e dell’interessamento nei confronti dei più deboli, dei meno produttivi, perché sprovvisti dei mezzi atti a contribuire al bene comune; è da realizzare non prescindendo dallo Stato o nonostante lo Stato, bensì anche mediante lo Stato, considerato come il maggiore strumento di solidarietà a disposizione dei cittadini, reso promotore attivo dei diritti sociali, sussidiariamente coordinatore delle iniziative dei singoli, dei gruppi e della società civile; orientatore dell’economia nella sua globalità e talora come imprenditore in settori chiave, quando necessario al bene comune, e rispetto alla rilevanza sociale dei beni in gioco; è da realizzare, pertanto, mediante un intervento statale che non tenda a soppiantare né l’iniziativa privata né l’economia di mercato e, quindi, senza abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma introducendo, specie in settori strategici del sistema economico, istituti e formule propri dell’economia di Stato, come le aziende pubbliche o controllate, al fine di incrementare il libero mercato e la proprietà per tutti. Lo strumento giuridico, attraverso il quale vengono perseguiti fini sostanziali di maggiore solidarietà fra i vari gruppi sociali, è costituito essenzialmente dal sistema tributario di tassazioni, volto a colpire in maniera rilevante la ricchezza prodotta, non solo in vista del finanziamento delle attività di Stato, ma anche della redistribuzione perequativa di tale ricchezza e della realizzazione di un sistema di welfare per tutti.3 partivano dal presupposto di un’alta produttività esistente e da un surplus di ricchezza nazionale; tantomeno miravano a reggersi su una logica di spreco delle risorse. La democrazia sociale affonda le sue radici ideologiche in una cultura di solidarietà, di uguaglianza, di sviluppo umanistico, che non ha nulla da spartire con l’inattività, la dissennatezza amministrativa, l’assistenzialismo paternalistico, il corporativismo egoistico. 3 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate (= CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. 2 2. L’apporto della Chiesa all’elaborazione dello Stato sociale e democratico del secolo XX Con la sua dottrina sociale, la Chiesa accompagna e sostiene il percorso della costruzione dello Stato sociale e democratico, rappresentativo e partecipativo, evidenziando in particolare: un’opzione preferenziale per i poveri, quali operai, braccianti agricoli ed altre categorie non abbienti; la naturalità dei diritti sociali, con riferimento alla dignità di ogni persona e di ogni popolo. Essi sono presupposti dal diritto di vivere da esseri liberi e responsabili, aperti alla Trascendenza, nonché dal diritto all’uso dei beni, che è un diritto primario e originario, in ragione della dignità dell’uomo e della finalità immanente alle cose e ai beni. I diritti sono sempre correlativi ai doveri e vanno esercitati entro il quadro di una visione antropologica globale, vale a dire entro una prospettiva di benessere aperto alla trascendenza sia verso l’altro che verso l’Alto, coniugando libertà e giustizia sociale, solidarietà ed efficienza; l’importanza di una sapiente politica sociale – comprendente anche le politiche di pieno impiego –, in quanto necessaria alla solidità e allo sviluppo dell’economia e al bene comune. I cittadini, liberi dalla schiavitù della povertà e dell’insicurezza, preparati professionalmente e culturalmente, sono allora nella condizione di poter meglio contribuire alla formazione di ulteriore ricchezza nazionale. Lo sviluppo economico, posto a servizio del progresso sociale, finisce per esserne a sua volta avvantaggiato. Le politiche economiche e le politiche sociali non sono di per sé antitetiche: le prime devono essere gestite in modo da non destrutturare le seconde, e viceversa, secondo una logica del dare e ricevere per il mutuo potenziamento. Ad una lettura attenta, la DSC non risulta sostenere la prospettiva di un’economia a somma zero, ove al guadagno di un soggetto o di un settore deve corrispondere necessariamente la perdita di un altro. Infatti, la distribuzione non può essere pensata in modo da nuocere agli investimenti, alla produttività, alla ricerca, allo sviluppo delle aziende, alla creazione di nuovo lavoro, ai diritti delle generazioni future; la prospettiva di un’economia sociale, che non equivale alla proposta di un sistema economico particolare e che non è da non confondere con l’economia civile di cui oggi si parla spesso, specie con riferimento al Terzo Settore. L’economia sociale ha un’accezione più vasta e concerne anche l’economia di mercato ove vige lo scambio degli equivalenti. Parlando di economia sociale, i pontefici si riferiscono più che altro a una prospettiva ideale, storico-concreta di economia, nella quale la proprietà dei mezzi di produzione, la divisione tra capitale e lavoro, l’economia d’impresa, il profitto, la razionalizzazione dell’organizzazione delle imprese, il mercato, la libera iniziativa e la libera concorrenza, grazie all’intervento delle forze sociali e dello Stato, vengono tutti subordinati al bene comune, ovvero a fini umani e sociali a loro superiori. Si tratta esattamente di una prospettiva, più che di un sistema concreto e determinato. Varia da epoca ad epoca. Più che nei suoi principi e valori di fondo, si diversifica nella sua strumentazione di realizzazione pratica, che viene indicata dai pontefici ora in un modo ora in un altro, a seconda delle necessità storiche, quale armonizzazione tra capitalismo e democrazia;4 l’ideale storico e concreto di una democrazia sostanziale o globale. Poiché la persona umana è essere pluridimensionale ed unitario, nell’interdipendenza dei suoi livelli costitutivi, la democrazia politica è condizionata ed interdipendente con la democrazia economica e sociale; e questa, a sua volta, è sempre condizionata e interdipendente con 4 Sul concetto di economia sociale nei pontefici, si rimanda a M. TOSO, Welfare Society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, LAS, Roma 2003, pp. 591-597. 3 la democrazia politica. In breve, la democrazia autentica dev’essere sostanziale e non solo formale. 3. La crisi dello Stato sociale democratico e del welfare Nel tempo, lo Stato sociale e democratico si è configurato come Welfare State, secondo le due modalità fondamentali, assistenziale e riformista,5 e talvolta anche mediante un loro mix. La prima è caratterizzata da un intervento statale più profondo ed esteso. La seconda da un intervento statale più limitato, ristretto solo ad alcuni servizi sociali, lasciando ai cittadini e alla società civile di provvedere ai loro bisogni tramite libera iniziativa ed autorganizzazione. È, però, noto a tutti che il Welfare State, dopo la prima fase di sperimentazione e quella successiva di consolidamento, è entrato in una crisi profonda di deterioramento, da cui non si è ancora riavuto. Questa crisi dello Stato sociale e democratico contemporaneo è dovuta a molteplici fattori interni ed esterni. Tra le cause interne si possono annoverare: innanzitutto l’eccessiva spesa sociale, oltre la soglia della sostenibilità e delle reali possibilità, che riguarda anche il rispetto dei diritti delle generazioni future; la sua gestione non sempre razionale e l’alto livello della tassazione, che frenano fortemente lo sviluppo economico; la concezione della solidarietà in termini prevalentemente statalistici o semplicemente distributivi, che deresponsabilizza la soggettività della società civile e dei corpi intermedi nella produzione del benessere sociale; la burocratizzazione e spersonalizzazione delle prestazioni (il cittadino è considerato come oggetto anonimo di prestazioni più che soggetto) con la mancata copertura di vasti strati di popolazione (giovani, donne, immigrati, ecc.) e il riemergere delle vecchie povertà, vero scacco dello Stato sociale; il rapido invecchiamento della popolazione, senza il necessario ricambio generazionale; la deriva socio-economica delle regioni del Sud; un assetto di tipo neocorporativistico e clientelare, che penalizza i soggetti sociali privi di rappresentanza; l’inadeguato supporto della ricerca scientifica allo sviluppo del Paese; un sistema scolastico piuttosto obsoleto ed autoreferenziale rispetto ai nuovi bisogni della società e del mercato. Tra le cause esterne, influiscono sulla crisi della democrazia sociale e della gestione del welfare la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia,6 sempre più governata e determinata da e in funzione di interessi e strategie di poteri mondiali privati, che tendono a sovrapporsi ai popoli e alle nazioni. L’accresciuto potere di tale tipo di mondializzazione si traduce in una perdita strutturale e visibile della capacità di governo dell’economia nazionale e mondiale da parte dei poteri pubblici, che rimangono limitati al piano nazionale. A fronte di un capitale e di un mercato del lavoro, che dipendono sempre di più dalle strategie di sviluppo e di conquista messe in atto dalle reti mondiali di imprese private e di transizioni finanziarie transnazionali, diventa difficile tassare i capitali e i profitti. Tutto ciò provoca l’erosione del campo di sovranità e del suo esercizio e, quindi, l’inefficacia delle politiche economiche e dello sviluppo che dovrebbero garantire un buon livello di produttività e di occupazione e comporta, conseguentemente, lo scadimento delle politiche sociali nazionali. 5 Il criterio delle prestazioni sociali del Welfare State nella sua forma assistenziale è la sicurezza sociale. Secondo questo criterio, fondamento e misura delle erogazioni è l’esistenza di cittadini-persone in stato di bisogno, indipendentemente dalla loro capacità lavorativa e contributiva. Gli interventi dello Stato sono riferiti allo status di cittadino ed hanno una funzione preventiva e costitutiva, invece che semplicemente reattiva e reintegrativa. Il criterio di erogazione delle prestazioni sociali del Welfare State nella sua forma riformista è la previdenzialità (offre il proprio servizio a chi lavora o ha lavorato, sulla base del pagamento di determinati contributi da parte dello stesso lavoratore, dei datori di lavoro e dello Stato). La modalità di copertura delle erogazioni è la capitalizzazione: le prestazioni di un certo periodo sono finanziate tramite i contributi pagati nello stesso periodo e i frutti delle riserve costituite con quelli versati in periodi antecedenti. 6 Su questo si veda N. ACOCELLA [ed.], Globalizzazione e Stato sociale, Il Mulino, Bologna 1999. 4 All’interno di un capitalismo globalizzato, le Istituzioni finanziarie, specie quelle sovranazionali, appaiono sempre meno inclini a concertazioni salariali per motivi politico-sociali. Attraverso una rete mondiale, il «capitale» acquista la capacità di «muoversi» da un’opportunità all’altra senza vincoli spazio-temporali. Questa caratteristica di «mobilità» delle Istituzioni finanziarie permette di mettere in concorrenza fra loro i diversi regimi fiscali – oltre che i vari mercati del lavoro –, per decidere dove allocare i propri investimenti, penalizzando in tal modo i necessari finanziamenti allo Stato sociale che ovviamente dipendono dal livello della tassazione. Gli studiosi più attenti convergono nel ritenere che il fallimento del Welfare State non è dovuto tanto a eventi prettamente economici, quali la mancanza di risorse o il deficit pubblico,7 sì anche ad essi, quanto principalmente al venire meno delle condizioni sociologiche, antropologiche ed etiche, demografiche e culturali su cui poggiava. Innanzitutto, ha avuto inizio il tramonto della società di tipo fordista, relativamente stabile stratificata per classi: scompaiono le scansioni rigide del tempo di lavoro e di quello libero, le classi e le categorie omogenee di lavoratori, mentre nascono nuove professioni con difficoltà di rappresentabilità. Divengono così più ardue la contrattazione e la concertazione sociale. Con riferimento alle politiche di protezione, i rischi, una volta relativamente catalogabili e collocati in precisi momenti e fasi di transizione dei percorsi di vita, si generalizzano a tutta la popolazione e sono meno prevedibili. Analogamente, le forme di povertà, che erano riconducibili a segmenti circoscritti e abbastanza stabili di popolazione e prodotti da precise forme di esclusione e di sfruttamento, sono sempre meno ascrivibili al mondo del lavoro o a determinati gruppi sociali e riguardano soprattutto le dinamiche familiari, gli stili di vita, con la nascita di nuove emarginazioni e patologie. La depressione demografica, poi, comporta tassi crescenti di immigrazione. In definitiva, sorge una nuova questione sociale, caratterizzata dai problemi di equità tra le generazioni, di rilancio della soggettività dei corpi sociali intermedi e di base, di garanzia incondizionata e universale dei diritti sociali. 8 In secondo luogo, è fortemente indebolita la cultura comune, che doveva essere incentrata sull’etica della solidarietà, su valori condivisi, in concomitanza al montare strisciante e nocivo di un’ideologia neoliberista, individualistica, utilitaristica e tecnocratica, che mette in crisi due punti forza dello Stato sociale – il patto sociale e la concertazione efficace, permanente, tra imprese e sindacati, pronubo uno Stato moderatore e mediatore – ma soprattutto la logica solidarista di esso, come si dirà meglio più avanti. Rispetto alla crisi etico-culturale della democrazia sociale e del connesso welfare, sono da sottolineare alcuni aspetti ben messi in luce da Zygmunt Bauman, uno dei più noti sociologi a livello mondiale. Egli ha descritto realisticamente la mutazione dell’ethos di fraternità e di solidarietà che sorreggeva lo Stato sociale e democratico degli inizi. I disoccupati erano, sì, ritenuti degli sventurati, ma il loro posto nella società era assicurato e fuori discussione. Erano considerati socialmente deprivati, bisognosi di sostegno, ma destinati ad entrare prima o poi nel mercato del lavoro, grazie alla solidarietà di tutti e al proprio impegno. La decomposizione dello Stato sociale contemporaneo in Europa sotto i colpi di una deregulation individualistica, imposta da incontrollabili forze globali con l’accettazione di una economia dei due terzi, a causa del trionfo del moderno capitalismo industriale, si accompagna, osservava il Bauman, alla produzione di «gente superflua». Questa è gente «indesiderata, tutt’al più sopportata, condannata a restare la destinataria delle iniziative socialmente consigliate o tollerate, trattata, nel migliore dei casi, come oggetto di benevolenza, di beneficenza e di compassione (criticate come immeritate, tanto per spargere sale sulle piaghe) ma non di aiuto fraterno, accusata di indolenza e sospettata di intenti malvagi e propensioni criminali». Dalla «gente superflua», che perde non solo il lavoro, ma i progetti, i punti 7 Cf P. DONATI, Perché un Rapporto sul Welfare State?, in P. DONATI [ed.], Lo Stato sociale in Italia. Bilanci e prospettive, Mondadori, Milano 1999, p. 12; R. PETRELLA, Il bene comune. Elogio della solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 1997, pp. 48 e 51. 8 Cf P. DONATI, Il welfare del XXI secolo: perché e come inventarlo, in Lo Stato sociale in Italia, pp. 39-49. 5 di riferimento, il controllo della propria vita e si trova spogliata della propria dignità, la società non è più considerata una casa cui si deve fedeltà e sollecitudine. Il guaio più grande – sottolineava ancora il Bauman −, è che, in un contesto in cui lo Stato sociale è smantellato, quasi tutti i cittadini sono candidati ad essere «vite di scarto».9 L’estrema precarietà si traduce in paura, sentimento che dissolve la fiducia nella società, non più collante di ogni comunità umana. I problemi sociali sono criminalizzati. La repressione aumenta e prende il posto della solidarietà. La contrazione del mercato degli alloggi e la massiccia disoccupazione sono trascurati a favore di politiche associate al rigore, al contenimento e al controllo. «Un aspetto fatale della trasformazione è stato rilevato in tempi relativamente precoci e da allora è stato accuratamente documentato: il passaggio da un modello di comunità inclusiva, ispirato allo “Stato sociale”, a uno Stato esclusivo, ispirato alla “giustizia penale” o al “controllo della criminalità”». 10 Il rilevante fenomeno che consiste nel cercare sempre più la compagnia dei simili deriva, in molti casi e paradossalmente, dalla riluttanza a guardarsi profondamente e fiduciosamente l’un l’altro, a impegnarsi reciprocamente in modo intimo e profondo, in modo umano. Più le persone si separano, rinchiudendosi in gated communities di uomini e di donne simili, meno sono capaci di trattare con gli stranieri, nei cui riguardi aumenta la paura.11 Per il prof. Bauman, in un clima di globalizzazione la situazione economica dei cittadini sfugge al controllo dello Stato. Le leggi del Brasile o degli stessi Stati Uniti, ad esempio, non riescono ad imporre che il denaro guadagnato o risparmiato nel Paese sia lì reinvestito. Esiste una super-classe globale che prende tutte le grandi decisioni economiche in assoluta indipendenza dalle legislazioni vigenti e, a fortiori, dalla volontà degli elettori. Ciò, tra l’altro, significa che i «super-ricchi» sono liberi di operare, ignorando completamente gli interessi altrui. 12 E non esiste nessuna comunità politica globale, di qualsiasi natura, in grado di postulare l’introduzione di regole del gioco vincolanti per tutti, e meno ancora di tentare di renderle effettivamente applicabili. Fin qui il Bauman. 4. Il welfare in rapporto alla recente crisi finanziaria ed economica, che intacca i diritti sociali sia dal punto di vista della loro attuazione sia da quello della loro legittimità Non si deve oggi faticare molto per mostrare come la crisi finanziaria ed economica, che ha avuto inizio negli Stati Uniti e si è abbattuta anche sull’Europa, ha svuotato le casse degli Stati i quali, impegnati a risanare il debito pubblico e a favorire la ricapitalizzazione delle banche, e peraltro ulteriormente indeboliti dalla recessione e da tassi di disoccupazione in aumento, non hanno più risorse sufficienti non solo per finanziare il welfare, ma neppure per favorire la crescita. Con riferimento alla crisi della cultura sottesa allo Stato sociale, va anche sottolineato che oggi, in forza di più fattori, collegati con il prevalere del capitalismo finanziario speculativo e deregolato sull’economia reale, e della connessa cultura capitalista neoliberista e tecnocratica, è anche cresciuta la convinzione che i diritti sociali sono secondari o addirittura un lusso. Detto altrimenti, all’elenco delle summenzionate cause della crisi dello Stato sociale e del connesso welfare ne vanno aggiunte altre, che ne intaccano i pilastri fondanti. Basti anche solo pensare che, all’interno dell’ideologia neoliberista che ha – in parte e, quindi, non del tutto – scatenato l’attuale crisi finanziaria con la sua assolutizzazione del profitto a breve termine, il lavoro non è ritenuto un bene fondamentale per le persone, le famiglie e la ricchezza delle Nazioni. Il lavoro è considerato marginale, poiché hanno maggior peso le attività di investimento speculativo rispetto all’economia reale. Nel secolo scorso, invece, il lavoro doveva essere universalizzato per contribuire al 9 Cf Z. BAUMAN, Vite di scarto, Laterza, Roma- Bari 2005, p. 115. Ib., pp. 84-85. 11 Cf ID., Fiducia e paura nella città, Mondadori, Milano 2005, pp. 74-75. 12 Cf R. RORTY, Globalization, the Politics of Identity and Social Hope, in ID., Philosophy and Social Hope, Penguin, New York 1999, pp. 229-239. 10 6 finanziamento dello Stato di sicurezza sociale, per cui si dovevano programmare politiche attive di lavoro per tutti. Dall’attuale dogmatica capitalistica il lavoro è ritenuto quasi superfluo. Dal punto di vista culturale, è anche da vedere come fattore di disgregazione dello Stato sociale e del welfare la convinzione sempre più diffusa, tipica di alcune scuole economiche come quella di Chicago, secondo cui le risorse destinate al welfare sarebbero sottratte allo sviluppo economico di un Paese. Lo Stato sociale e il welfare, in definitiva, sarebbero un impedimento alla crescita. 13 Per conseguenza, non si pensa più che il diritto al lavoro, alla sicurezza, ad un reddito minimo debbano essere garantiti per tutti. Secondo una mentalità chiaramente neoliberista e conservatrice, che si è consolidata soprattutto nei templi dell’alta finanza, si giunge anche ad affermare che la protezione sociale non è un diritto inalienabile. 14 I diritti sociali sarebbero diritti distributivi, ossia potrebbero essere attuati soltanto nel caso vi fossero risorse disponibili. Secondo una concezione che tende a contrapporli ai diritti civili e politici, non sarebbero parte integrante dei diritti propri del cittadino. Non va, poi, dimenticato che oggi i diritti sociali sono al centro della discussione pubblica anche per ragioni meno preconcette. Il problema del reperimento delle risorse in momenti di bassa produttività, la necessaria equità tra generazioni, il crescente flusso migratorio pongono di fronte alcuni inevitabili dilemmi: i diritti sociali debbono essere garantiti sempre e comunque, oppure vincolati a certe condizioni? Titolare dei diritti sociali è la persona umana in quanto tale o solo il cittadino? In altri termini, i diritti sociali di welfare – si pensi ai servizi sanitari, sociali, scolastici – debbono essere garantiti soltanto ai cittadini o anche ad altre persone che vivono sul territorio, ad esempio gli immigrati che, non essendo né lavoratori in regola né cittadini a pieno titolo ma solo residenti, non pagano tasse e contributi o li pagano in modo limitato?15 E ancora: i diritti sociali devono essere conquistati lavorando o appartengono costituzionalmente alla persona, indipendentemente dalla contingenza storica in cui si colloca? Si è, dunque, di fronte a questioni cruciali, che impongono di ridiscutere o, meglio, di rivedere la vita sociale e politica nelle sue fondamenta antropologiche, etico-solidali e giuridiche. Non sono solo in questione problemi di risorse finanziarie e di bilancio, ma prima ancora visioni dell’uomo, dell’economia, della società e della stessa democrazia. Qual’è la posizione della DSC di fronte a problemi così importanti e complessi? Prendiamo come punto di riferimento soprattutto l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI.16 5. La posizione della «Caritas in veritate»: sicurezza sociale e lavoro per tutti La Caritas in veritate (= CIV) riconosce che lo Stato sociale e il welfare, in un contesto di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, subiscono veri e propri assedi, non potendo più gli Stati, a causa delle forti limitazioni della loro sovranità, fissare le priorità dell’economia e garantire in qualche modo un sufficiente finanziamento delle strutture di sicurezza sociale. I sistemi di protezione e previdenza faticano, e potrebbero faticare ancor più in futuro, nel perseguire i loro obiettivi di vera giustizia sociale entro un quadro di forze profondamente mutato. «Il mercato diventato globale – spiega Benedetto XVI – ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imp0rese straniere, mediante vari 13 Con riferimento a questo pregiudizio si legga la risposta di S. ZAMAGNI, DSC, welfare e crescita, in «La Società» 1 (2013), p0p. 36-43. 14 Al riguardo si veda quanto afferma Riccardo Petrella a p. 75 de Il bene comune. 15 Cf P. DONATI, Il welfare del XXI secolo, p. 43. 16 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate (= CIV), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009. 7 strumenti, tra cui un fisco favorevole e la deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell'uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale. I sistemi di sicurezza sociale possono perdere la capacità di assolvere al loro compito, sia nei Paesi emergenti, sia in quelli di antico sviluppo, oltre che nei Paesi poveri. Qui le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi dalle Istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori. L'insieme dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i Governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi. Le reti di solidarietà tradizionali trovano così crescenti ostacoli da superare» (CIV 25). L’enciclica non solo evidenzia le ragioni della crisi del welfare contemporaneo, dovute in particolare al «mercatismo», ovvero all’assolutizzazione del libero mercato e alla sua organizzazione in maniera da escludere i più deboli e i più poveri, considerati un «fardello», e non una «risorsa» dal punto di vista anche economico. Essa stigmatizza l’ideologia neoliberista, secondo cui l’economia di mercato ha strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. Per Benedetto XVI, il mercato deve essere, invece, organizzato in modo da offrire lavoro a tutti, ossia deve essere inclusivo (cf CIV n. 35). Proprio nel presente contesto di globalizzazione e di crisi finanziaria mondiale, egli non esita a ribadire uno dei pilastri classici della costruzione dello Stato sociale, facendo appello alla dignità delle persone e alle esigenze della giustizia. Queste richiedono che «soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che – scrive il pontefice – si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (CIV n. 32). La disoccupazione emargina le persone dalla vita sociale, accrescendo povertà e diseguaglianza, entrambi deleterie per la democrazia e per lo stesso sviluppo: «L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali all'interno di un medesimo Paese e tra le popolazioni dei vari Paesi, ossia l'aumento massiccio della povertà in senso relativo, non solamente – osserva il pontefice – tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia di quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile» (CIV n. 32). 6. La globalizzazione della sicurezza sociale per tutti e di un’economia di mercato capace di includere tutti Ad una lettura attenta della CIV, emerge che Benedetto XVI non propende affatto per lo smantellamento dello Stato sociale e democratico e, tantomeno, per l’annientamento del progetto di una sicurezza sociale per tutti. Ben al contrario, sulla base dei diritti e doveri delle persone, egli è per la globalizzazione della sicurezza sociale e, quindi, di un welfare correttamente inteso. Quanto affermato può essere ricavato agevolmente da quei passi in cui, parlando del fenomeno della delocalizzazione, peraltro senza demonizzarla, ma mettendone in luce aspetti negativi e positivi, dichiara che non è lecito «delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile» (CIV n. 40). Detto altrimenti, nel mutato scenario internazionale e culturale, la CIV non sembra proprio proporre la soppressione o l’abbandono dei sistemi di sicurezza sociale e nemmeno dello Stato sociale. Ne sollecita, invece, la globalizzazione, peraltro richiesta anche dal premio Nobel per l’economia 8 Amartya Sen, che nelle sue opere indica soluzioni non lontane da quelle del magistero sociale. In vista di ciò la CIV, in particolare, insiste anche sulla globalizzazione di un’economia sociale. Ai fini dell’universalizzazione della sicurezza sociale, ovvero dei diritti sociali di ogni persona e dell’emancipazione delle fasce di povertà, il pontefice ritiene che debba essere globalizzato un modello economico di mercato capace di includere, almeno tendenzialmente, tutti i popoli. Nell’epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere, in particolare, dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva − come sottolinea la stessa CIV −, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, per cui non può essere delegata in toto allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che bisognasse dapprima perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse in un secondo tempo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riuscirà a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un tipo di mercato globale, ove non valga solo la logica dello scambio degli equivalenti, ma anche la logica politica e la logica del dono. Serve un mercato caratterizzato da un’imprenditorialità plurivalente, ovvero un mercato «nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali» (CIV n. 38). È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e, dunque, un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia a livello mondiale. Evidentemente, la globalizzazione di un modello di economia di mercato, capace di includere tutti i popoli, implica il problema della globalizzazione della democrazia sociale, rappresentativa e partecipativa. Si tratta di una questione complessa, rispetto a cui la CIV ha tentato di offrire alcune linee prospettiche, contenenti nel loro punto focale l’idea della costituzione di una vera autorità politica mondiale, di tipo democratico, incentrata sul principio della sussidiarietà e, ovviamente, sul principio della solidarietà universale (cf CIV n. 67). Collegata all’idea di un’autorità politica universale è quella della globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale, rappresentativa e partecipativa, cosa che non è possibile mediante l’imposizione, bensì mediante una maturazione delle coscienze e una mobilitazione dal basso, ossia tramite libertà e responsabilità. 7. L’apporto della «Caritas in veritate» alla realizzazione di una Welfare Society guidata dalla prospettiva del «well-being» Oggi, sulla base dei suoi aspetti positivi e negativi, si sta procedendo a ridisegnare il welfare, seguendo, tra gli altri orientamenti possibili, un approccio particolare al benessere. Secondo vari studiosi e anche il noto economista Amartya Sen, occorre spostare il fuoco dell’attenzione dai beni e servizi che si intendono porre a disposizione del portatore di bisogni, alla loro effettiva capacità di consentire una fruizione ottimale. Questo significa che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del suo vecchio modello. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono la possibilità di utilizzo da parte di coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci e anche dannose, perché non aiutano il processo di sviluppo. Ciò implicherebbe che, con il superamento della contrapposizione tra i diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà, e i diritti sociali a cui si rivolge il welfare, si giunga anche a ristrutturare il welfare in senso societario e sussidiario. Il nuovo welfare deve essere gestito dalla società civile avvalendosi dei suoi molteplici soggetti, tra i quali vi è anche lo Stato. Le risorse pubbliche, ottenute principalmente dalla tassazione generale, debbono finanziare non già – come spesso avviene – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò, in quanto il finanziamento diretto dello Stato alle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i costi. Quando è lo Stato a scegliere i servizi e le prestazioni per i cittadini, necessariamente si trova a dover imporre standard regolamentativi di qualità, avendo come punto di 9 riferimento il cittadino medio. Ne derivano, per un verso, una mancata personalizzazione del modo di soddisfacimento del bisogno; e, per un altro verso, una lievitazione dei costi a seguito degli sprechi di qualità. Infatti, il servizio offerto, per alcuni sarà di qualità superiore alle reali aspettative cioè superiore a ciò che il cittadino sceglierebbe se fosse libero di farlo, mentre, per altri, sarà di qualità inferiore date le diverse esigenze. 17 Uno dei problemi a monte, in cui appaiono coinvolti gli studiosi del welfare e i responsabili politici assieme ai soggetti della società civile, è quello della individuazione degli indicatori per un benessere equo e sostenibile, quali sono ad esempio: salute, istituzioni e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca ed innovazione, qualità dei servizi. In considerazione di quanto detto, come si pone la DSC rispetto alla soluzione della crisi del welfare e del suo nuovo volto? Volendo sintetizzare la posizione della DSC va sottolineato che, sia per Giovanni Paolo II sia per Benedetto XVI, la soluzione va trovata passando dallo Stato assistenzialistico, inefficiente, discriminatorio e deresponsabilizzante, a uno Stato sociale che, mentre garantisce un sistema efficace e mirato di previdenza e di sicurezza per tutti, consente alla società civile – non solo per motivi di opportunità e di funzionalità, ma soprattutto perché essa ne è la prima responsabile! –, di esprimere al meglio le sue risorse di solidarietà, di gratuità e di inventiva creatrice. Là ove la società civile, di fatto e di diritto, è maggiormente proporzionata nel rispondere ai bisogni dell’uomo, lo Stato, più che operare direttamente, invadendo competenze altrui e sostituendosi indebitamente alle responsabilità dei vari soggetti sociali – singoli privati, volontari, famiglie, società intermedie, comunità religiose, ecc. –, ha il compito di incoraggiarne, stimolarne, sostenerne attività ed iniziative, allocando risorse, coordinando sforzi, intervenendo con un quadro giuridico regolatore e garantista, ma anche con le proprie istituzioni solo quando, per diversi motivi, i singoli o i gruppi sono manifestamente e intrinsecamente inferiori al proprio compito. In altri termini, la soluzione della crisi dello Stato del benessere va trovata instaurando un nuovo rapporto tra Stato, società e mercato, non solo per l’economia, come già accennato, ma anche per la sicurezza sociale, che si è chiamati ad organizzare, lasciando più spazio alla soggettività della società civile e allo stesso mercato. È richiesta una nuova compenetrazione fra pubblico, privato e sociale, senza polarizzazioni. In altre parole ancora, il punto del nuovo raccordo tra pubblico, privato e sociale dovrebbe essere trovato in un quadro istituzionale di Welfare Society, nel quale i cittadini, i gruppi e le agenzie di servizio di carattere privato o privato sociale − come sogliono definirle oggi i sociologi −, sono inserite all’interno della programmazione pubblica di servizi, per partecipare ai vari momenti della rilevazione dei bisogni, della determinazione degli obiettivi, della scelta degli strumenti e del controllo sui risultati conseguiti. La soluzione della crisi dello Stato del benessere non si realizza tramite un processo di pura inclusione o statalizzazione della solidarietà primaria, secondaria, di privato sociale, oppure tramite la sua emarginazione o depotenziamento, ma riconoscendone l’autonomia, sostenendola, raccordandosi con essa, anche con sistemi di mix, per meglio rispondere a tutti i bisogni fondamentali della persona. In altri termini ancora, stabilendo una nuova comunicazione tra solidarietà pubblica, solidarietà privata di mercato e non, solidarietà sociale e solidarietà di privato sociale. Occorre, peraltro, riconoscere che nell’attuale DSC non sono presi direttamente in considerazione il problema del finanziamento da parte dello Stato alle agenzie di welfare, che altererebbe la natura dei loro servizi e farebbe lievitare i loro costi, e nemmeno altri problemi particolari di carattere tecnico, strategico o sociale, come il salario minimo di cittadinanza. Ma l’apporto della DSC alla promozione di una Welfare Society, oltre che nella riaffermazione della non marginalità dei diritti sociali e della loro non disgiungibilità dagli altri diritti, sta soprattutto 17 Su questo si veda S. ZAMAGNI, DSC, welfare e crescita, in «La Società» 1 (2013), pp. 38-39. Ma si veda anche F. FOLGHERAITER, La grammatica del welfare. Al di qua e al di là dello sportello sociale, Erickson, Trento 2011. 10 nella proposta di una nuova e più ampia concezione del benessere, ovvero non appiattita sui beni materiali, ma allargata ai beni relazionali e morali. Vi è chi, come Amartya Sen, ha avanzato la proposta di un benessere come well-being. L’idea di non parlare più di welfare ma di bene-essere deriva dalle ampie ed articolate discussioni sui cosiddetti indici dello sviluppo umano. Proprio sulla scorta di tali riflessioni, Sen parla di bene-essere, ossia di un benessere non più legato solo ad indicatori prevalentemente materiali o cognitivi, quali il reddito, la sicurezza della casa, la salute o l’istruzione, ma anche alla «facoltà di agire» (agency) delle persone, ossia alle differenti possibilità di convertire i suddetti beni primari in uno «star bene acquisito», in una qualità di vita soddisfacente.18 Secondo Sen, lo Stato consegue un vero benessere per il cittadino quando, oltre a garantire il minimo necessario per una vita decente, si impegna affinché si allarghi la gamma delle scelte disponibili, vi siano un ambiente naturale e sociale soddisfacente e soprattutto la tutela dei diritti umani. Vero sviluppo si ha là ove si incrementano non solo il reddito, ma anche le scelte umane. 19 In altri termini, mettere a disposizione dei cittadini più risorse materiali, aumentando le acquisizioni, non equivale automaticamente ad accrescere il loro benessere. Questo aumenta allorché le persone dispongono di possibilità o capacità di scegliere, ossia quando l’ambiente sociale offre maggiori condizioni di esercizio della loro libertà (più capacità di scelta = più benessere), permettendo la crescita dell’autonomia, dell’intraprendenza, dell’organizzazione, incoraggiando le persone a farsi carico di tutti quei compiti che sono in grado di svolgere in proprio.20 Tuttavia la proposta di Sen, come è stato giustamente osservato, proprio perché non sembra sdoganare del tutto la nozione di benessere da parametri quantitativi (più capacità di compiere scelte = maggior benessere), appare insufficiente a garantire l’approdo ad una libertà che, mediante il suo esercizio, faccia crescere in umanità le persone e le società. Non basta, infatti, che gli individui abbiano a disposizione un’infinità di scelte o di chance di vita, come direbbe Ralf Dahrendorf, 21 occorre che compiano scelte buone. In definitiva, anche la moltiplicazione illimitata delle possibilità di scelta può divenire un fatto trascurabile e non ancora decisivo per l’accesso ad un benessere a misura d’uomo, quando non si abbia a disposizione un parametro interiore ed etico, ossia quando le nostre scelte non siano guidate dalla nozione del bene umano integrale. Senza di esso, le nostre capacità di scelta non possono tradursi in azioni produttrici di beni relazionali, i cosiddetti beni collettivi, che sono l’ambiente naturale, l’ambiente umano, la pace; e neppure di servizi sociali, che non solo diano risposte materiali, ma si sforzino anche di cogliere la domanda profonda che sgorga da ogni essere personale. Ebbene, mentre indica l’«annuncio di Gesù Cristo» (cf CIV n. 8) come primo e principale fattore dello sviluppo integrale, l’enciclica propone una concezione della promozione umana aperta alla Trascendenza, secondo una corretta scala di beni-valori, che viene a strutturarsi avendo Dio come parametro ultimo.22 Questa scala, intesa come telos umano (insieme di beni valori ordinati tra loro 18 Cf A. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1994, p. 47. Questa visione del benessere si può riscontrare in UNDP-UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME, Lo sviluppo umano, 6. La parte delle donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1995, p. 21. 20 Cf S. BELARDINELLI, La comunità liberale, pp. 101-102. 21 Cf R. DAHRENDORF, La libertà che cambia, Laterza, Bari 1980, p. 41. 22 Secondo Benedetto XVI, fattori interdipendenti con lo sviluppo sono anche l’etica della vita, la libertà responsabile, la verità del bene umano integrale, la fraternità, la carità di Cristo. Questi sono anche i primi capisaldi di un’azione educativa commisurata al tema centrale dell’enciclica. Indici dello sviluppo umano, invece, non sono soltanto quelli che appartengono alle categorie materiali o cognitive, quali il reddito, la sicurezza della casa, la salute o l’istruzione, le opportunità di scelta. Sono, in particolare: il riconoscimento del telos umano, che sospinge ad effettuare scelte buone e giuste; un multiculturalismo non divaricato e non eclettico, ma animato da una profonda comunicazione e da un’intensa convivialità circa il bene umano; un assetto di istituzioni economiche, atto a fronteggiare le necessità di beni primari e le emergenze di vere e proprie crisi alimentari e ambientali. Altri indici di importanza primaria sono l’impegno per l’apertura alla vita e il rispetto dovutole lungo tutto il suo percorso, l’accettazione del diritto alla libertà religiosa, la connessione tra ecologia umana ed ecologia ambientale, l’interazione tra i diversi livelli del sapere umano 19 11 secondo il compimento umano in Dio), consente di compiere scelte buone, di vivere come amministratori, politici ed operatori sociali ed economici retti (cf CIV n. 71), ossia senza anteporre i beni materiali a quelli spirituali, senza averne visioni monche o deformate. Sulla base di una teologia dello sviluppo, resa accessibile dal nuovo indice dello sviluppo e del benessere rappresentato dalla carità nella verità, la CIV, in ultima analisi, propone la subordinazione del benessere materiale al bene-essere, che è il benessere qualitativo, inclusivo, sostenibile, rispettoso dell’ambiente e dei diritti delle generazioni future. Il welfare societario, incentrato sulla soggettività della società civile, welfare non assistenzialistico, ma equo per tutti i cittadini, dev’essere interpretato e realizzato alla luce del bene umano integrale, ossia del telos umano, poggiante su una dimensione di trascendenza, sia orizzontale che verticale. Lo sviluppo non è solo questione di risorse materiali, di mezzi tecnici, di informazioni, di istituzioni, di cultura, di innovazione, di ricerca, di apertura dei mercati, di abbattimento dei dazi, di investimenti produttivi (cf CIV n. 71), di un’ampia gamma di opportunità o di scelte o di chance di vita. Tutti questi aspetti sono quanto mai importanti, ma in vista di uno sviluppo plenario, comunitario, sostenibile, inclusivo, è fondamentale promuovere una sua nuova concezione, la quale, secondo Benedetto XVI, può derivare solo da una nuova evangelizzazione che rinnova l’amore per Gesù Cristo e l’adesione a Lui, fonte di una nuova visione delle cose, di nuove scale di beni-valori e di un’esistenza trasfigurata. La condotta umana, nella realizzazione di un welfare societario, equo e non assistenzialistico, deve essere guidata da una coscienza ove Dio è considerato come bene e fine ultimo; e l’unione del cuore e della mente con Dio è il criterio del vero ordine dei fini. Riconoscendo e amando Dio come sommo Bene e sommo Vero, si è nella condizione di abbattere i falsi dèi moderni, di compiere un’inversione nella scala dei beni-valori che assegna il primato al successo, al potere, al profitto a breve termine, alla dimensione economica e tecnica, alle stesse istituzioni sociali di welfare considerate come fini in stesse, più che ai comportamenti virtuosi delle persone. Grazie al primato affidato a Dio, è possibile per gli uomini una nuova condotta morale, nonché il superamento delle dicotomie dell’etica post-moderna (fra etica e tecnica, etica e politica, etica ed ambiente), che pregiudicano la visione di uno sviluppo umano integrale. Secondo una corretta visione dello sviluppo, l’economia e la finanza nonché le istituzioni di sicurezza sociale, pur essendo fondamentali in ordine ad un compimento umano non velleitario, non sono ancora le cose più importanti e nemmeno le uniche. Prima dell’economia, della finanza, delle istituzioni, della solidarietà, ci sono le persone reali e concrete, considerate singolarmente o in gruppo. Il primato assegnato a Dio consente di superare un errore antropologico fatale dello Stato del benessere, quello che trasforma le istituzioni della solidarietà in persone e in veri soggetti e fini ultimi del welfare. E allora i sistemi di previdenza ed assistenza, i sistemi sanitari e i sistemi di sicurezza sociale con i servizi annessi sono considerati come sostituti funzionali della solidarietà e della carità, intesa sia come insieme di atti antropologici privati sia come virtù. Secondo la prospettiva di un nuovo sviluppo, quale quello proposto dalla CIV, andrebbe perseguito un welfare che si avvale di un sistema integrato di protezione sociale, ossia un sistema in cui sono riconosciuti alla società, alle sue articolazioni comunitarie e locali, spazi e poteri autonomi di iniziativa, di partecipazione, di gestione e di controllo efficace e responsabile. In tal modo, i vari servizi verrebbero maggiormente decentrati, sburocratizzati, resi più vicini e attenti ai bisogni delle persone. I cittadini, le famiglie, i gruppi sociali da utenti passivi diverrebbero sempre più protagonisti nella programmazione, nella erogazione e nella verifica dei servizi sociali. all’interno di una loro sintesi armonica e sapienziale, resa possibile da un amore intelligente, la DSC, la «ragione economica». Su questo si veda M. TOSO, Il realismo dell’amore di Cristo. La «Caritas in veritate»: prospettive pastorali e impegno del laicato, Studium, Roma 2010, pp. 43-44. 12 8. La posizione della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea − COMECE Il welfare, specie in Europa, sarà la partita decisiva dei prossimi decenni. Ai fini del nostro discorso è, allora, utile conoscere anche la posizione in proposito della COMECE. Ovviamente, si è su un piano non di insegnamento pontificio bensì di magistero episcopale. Alcune indicazioni possono essere ricavate da quei passi ove i vescovi, nella loro Dichiarazione, si pronunciano sul concetto di «economia sociale di mercato altamente concorrenziale», quale fa parte degli obiettivi del Trattato dell’Unione Europea (=UE).23 Sul tappeto è il problema della destatalizzazione del welfare senza incorrere nella mercificazione del mercato tipicamente capitalistico, ossia senza enfatizzare eccessivamente il suo ruolo nei servizi sociali come vorrebbe un’impostazione liberista. Ma sul tappeto c’è anche il problema della politica sociale, resa molto problematica dall’attuale profonda crisi finanziario-economica, e rispetto alla quale, però, l’Unione Europea ha finora solo competenze limitate. I vescovi della COMECE propongono innanzitutto un bilancio sul modello della politica sociale e sul welfare sinora attuati. Un eccesso di welfare statale può generare relazioni di dipendenza e ostacolare l’assunzione di responsabilità personali, l’attivo amore del prossimo e la solidarietà. Peraltro, la solidarietà statale, prevista dall’economia sociale di mercato, è necessaria, perché le iniziative private da sole non sono sufficienti. Ma anche la solidarietà statale da sola non riesce a rispondere a tutti i bisogni delle persone. Dev’essere, allora, integrata e stimolata dalla solidarietà volontaria, da forme di cura e da istituzioni di previdenza e assistenza sociale, espresse da libere iniziative ed associazioni della società civile e del mercato stesso. Con riferimento ai nessi dell’economia sociale di mercato con le politiche sociali, fiscali, di bilancio, i vescovi della COMECE, evidenziano il criterio guida della giustizia sociale. Se la crisi finanziaria ed economica internazionale obbliga gli Stati a rivedere i sistemi di sicurezza sociale, ad essere concorrenziali, ad evitare sprechi ed assistenzialismi, a fronteggiare diseguaglianze crescenti, gli adeguamenti in parte necessari di questi sistemi devono rispettare il principio della giustizia sociale, e non erodere il tessuto della protezione sociale. «Nell’interesse degli assistiti e del bene comune, la politica sociale dell’Unione Europea deve continuare a orientarsi coerentemente secondo i principi della sussidiarietà e della solidarietà. Più cresce il divario fra poveri e ricchi, più diventa necessaria e legittima la ridistribuzione, che mira ad una perequazione fra poveri e ricchi, malati e sani, giovani ed anziani». «Riguardo alla massiccia disoccupazione, la politica sociale non può limitarsi unicamente a fornire alle persone che ne sono colpite gli alimenti per il sostentamento. La disoccupazione va ben oltre la mancanza di un reddito: essa comporta un crescente senso di esclusione dalla vita sociale. Perciò, gli aiuti sociali dello Stato devono mirre a reintrodurre le persone nella vita della società».24 Per abbattere la disoccupazione, i vescovi della COMECE suggeriscono anche di facilitare la mobilità dei lavoratori nell’economia sociale di mercato, un maggior allineamento dei Paesi europei in merito alla trasferibilità di diritti pensionistici supplementari, alle politiche fiscali e sociali, nonché alle politiche di potenziamento delle famiglie e dell’educazione, e di superamento delle disparità di informazioni e di potere tra i contraenti. Con riferimento alla tendenza enfatizzatrice del ruolo del mercato nei servizi sociali, così si esprimono: «Anche se può sembrare sensato organizzare secondo i principi dell’economia di mercato parte dei servizi sociali e dei servizi di previdenza e assistenza alla salute, l’offerta di base e la qualità di tali servizi deve essere garantita dall’autorità pubblica attraverso adeguati mezzi e norme». «Oggi – soggiungono i vescovi poco più avanti – dobbiamo guardarci dall’introdurre il mercato e le sue logiche interne in tutti gli ambiti della vita per non permettergli di dominarci. Vi 23 Cf COMECE – COMMISSIONE DEGLI EPISCOPATI DELLA COMUNITÀ EUROPEA, Una Comunità Europea di solidarietà e di responsabilità, in «Il Regno-Documenti» 3 (2012), pp. 102-111. 24 Ib., p. 109. 13 sono bisogni condivisi e qualitativi che il mercato non può soddisfare, specie nell’ambito famigliare»25 In ultima analisi, i vescovi della COMECE non negano al mercato un possibile ruolo nei servizi sociali. Questo, però, dev’essere limitato nei tempi e negli spazi da parte dello Stato, degli stessi cittadini, singoli od organizzati, produttori e consumatori. Rispetto a ciò divengono indispensabili la maturità delle coscienze e un grande impegno sul piano dell’educazione. 9. Conclusione L’excursus compiuto sull’ultimo magistero sociale ci ha consentito di verificare che, per la Chiesa, il welfare rimane un obiettivo valido da realizzare, in vista del compimento integrale delle persone, sia come singoli sia come gruppi. Esso va interpretato in senso personalista e societario, come realtà sociale aperta alla trascendenza. La sua realizzazione è affidata primariamente alla responsabilità della società civile, che la orienta al servizio delle persone, considerate nell’integralità del loro essere, mediante processi di vita politica ed amministrativa democratici, solidali, attenti alla sussidiarietà e alla giustizia sociale. I livelli e gli standard dei servizi, pertanto, vanno decisi sulla base non solo della visione dell’uomo integrale, ma anche della disponibilità reale delle risorse, per non far ricadere il loro costo sulle generazioni future. La DSC ritiene che la spesa sociale non è un mero consumo ma costituisce un investimento positivo per lo sviluppo integrale. I vari servizi sociali, infatti, non agiscono solo sulle condizioni di vita, ma incidono anche sulla promozione delle capacità degli individui . È per questa ragione che un welfare ben orientato, gestito secondo il criterio di un benessere equo e sostenibile, e aperto alla trascendenza, non può essere che fattore di crescita economica e civile. In questo contesto non è inutile sottolineare come stia crescendo, presso le comunità ecclesiali e gli episcopati del mondo, ma anche presso gruppi di non credenti, la consapevolezza che il finanziamento di pratiche contraccettive ed abortive, talora imposto alle stesse istituzioni religiose, 26 non va a vantaggio dello sviluppo demografico ed economico del proprio Paese. 25 Ib., p. 108. Si deve, infatti, registrare che vi sono ordinamenti giuridici e amministrazioni della giustizia che, oltre a consentire la discriminazione di chi fa la obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto, della guerra e dell’eutanasia, impongono ad istituzioni di carattere culturale e religioso – come negli Stati Uniti - di dare ai propri dipendenti copertura finanziaria per metodi contraccettivi e per pratiche abortive. 26 14