Critica dell`opinione filosofica I Manoscritti economico

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Critica dell’opinione filosofica
I Manoscritti economico-filosofici di Marx
FABIO BAZZANI
Through the accurate analysis of the section of Marx’s Philosophical-economic manuscripts, which is dedicated to the Hegelian
dialectic, it has been reconstructed the route of knowledge from
the common and philosophical opinion to the hypothesis of a
truth that distances itself from opinion and which, at the same
time, represents the result and the critique of the opinion. Marx
is seen as a break in the modern philosophical tradition: a thinker
that, even if setting himself in the Hegelian philosophical horizon,
shows some assonance with the tradition which is directly antagonist to the Hegelism, i.e. with the philosophy of Schopenhauer.
The philosophical opinion is nihilistic distance from life: the critique of the philosophical opinion means therefore centrality of
life as ontological paradigm, beyond the nihilism of modernity.
Keywords: Hegel, Feuerbach, Marx, reason, life, modernity.
Premessa
Husserl scriveva nella Krisis che neppure quando ci si inoltra su un
terreno filosofico si può prescindere dalla «tanto disprezzata dóxa». Anzi,
proprio allora di essa si deve tenere conto, poiché solo in essa è possibile
rinvenire i materiali grezzi per una considerazione filosofica del mondo.
La dóxa, l’opinione, rappresenta, infatti, il nostro immediato sapere,
potremmo dire la cultura medesima, la generale concezione del mondo,
il riferimento ultimo del nostro pensare ed agire nel momento medesimo
in cui veniamo alla luce. In altre parole, non si può ignorare l’opinione
dal momento che questa costituisce la radice stessa, anche se radice da
cui distaccarsi, della filosofia, il complesso di quell’esperienza da cui la
filosofia in quanto tale scaturisce e di cui altro non è che ulteriore momento esperienziale. Del resto, se guardiamo alle filosofie nel loro negativo porsi, cioè nelle loro mosse iniziali, le quali non possono non essere
che differenziazione da altro – per affermarsi è sempre necessario differenziarsi, e differenziarsi significa negare – vi è, mi sembra, un tratto che
tutte accomuna, pur nelle loro peculiari e irriducibili distinzioni, quel
Annali del Dipartimento di Filosofia 2003-2004, ISBN 88-8453-270-1
© 2005, Firenze University Press
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tratto che consente di parlare – forse un po’ sbrigativamente e sommariamente ma efficacemente – proprio di filosofia, di pensiero filosofico, di
cultura filosofica: la filosofia è altra cosa dall’opinione, la filosofia nega
l’opinione del senso comune e ricerca la verità. Il sapere filosofico è tale
poiché è critico del sapere comune, poiché lo sa oltrepassare in quanto è
appunto ricerca del vero.
Ma, si diceva, non vi è solo la filosofia, bensì vi sono le filosofie, le
differenziazioni nel sapere filosofico, la reciproca negazione che conduce
alla caratterizzazione peculiare di ogni sapere. Ed allora cambia il concetto
stesso di opinione, ritagliato secondo il modello di ciascuna filosofia. In
quel concetto vengono fatti confluire non solo gli elementi propri del
senso comune ma anche gli elementi di quelle altre filosofie da cui ci si
vuol differenziare, che così vengono abbassate di rango, considerate né
più né meno che aspetti del senso comune stesso. In tal modo, i confini
del senso comune, dell’opinione, si allargano a dismisura, e non soltanto
secondo una prospettiva banalmente dislocata su scala cronologica (quanto più numerose filosofie si succedono e si intersecano nel tempo tanto
più numerosi diventano gli oggetti della critica), ma anche secondo una
prospettiva, potremmo dire, «qualitativa», in relazione alla maggiore o
minore profondità di un pensiero filosofico, in relazione, insomma, alla
capacità di indicare le vie per una ricerca e determinazione di verità.
Tutto ciò costituisce l’esperienza del pensare e, dunque, l’esperienza
dell’esistere, dal momento che, direttamente oppure indirettamente, lo
si intenda per elemento derivato e funzione giudicante oppure per elemento originario con valenza fondativa, il pensare non può che inerire
all’esistere, o più esattamente, dal momento che il pensare scaturisce
dall’esistere.
Come si inserisce, allora, Marx in questo contesto? In accezione
generalissima vi si inserisce come il pensatore che, in ambito hegeliano,
sa meglio di altri collegare critica dell’opinione ed esperienza esistenziale, critica delle forme della coscienza propria del senso comune ed esperienza storica del vero. Critica, secondo il suo lessico, della falsa coscienza e/o ideologia nella prospettiva non solo teorica ma anche realizzabile
in sede direttamente esistenziale, nella quotidianità di una situazione a
cui pervenire proprio ad esito del superamento di un’opinione che non è
solo errore teoretico (appunto, falsa coscienza, ideologia, opinione) ma
anche, e soprattutto, distanza dalla «verità» pratica. E tutto ciò, ed anzi,
assai meglio che nella maturità, a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e da alcuni altri scritti del periodo. E sottolineo: in ambito
hegeliano, poiché al di fuori dell’hegelismo quel collegamento tra critica
dell’opinione del senso comune e della «falsa coscienza» ed esperienza
esistenziale già si era manifestato, anche con esiti teoreticamente assai
più rilevanti, tanto da giungere alla formazione di una componente del
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pensiero filosofico che ha inaugurato una tradizione interpretativa totalmente alternativa a quella hegeliana, riportando, quasi come in un giuoco di ruolo, il pensiero di Hegel e dei suoi epigoni, tra cui Marx, ad
ulteriore declinazione dell’opinione (mi riferisco alla poderosa rilettura
del kantismo operata da Schopenhauer e alla fecondità nel pensare la
realtà e nel ricercarne il radicale significato che ne è scaturita, fino ai
nostri giorni). Io credo che si debba leggere Marx come pensatore hegeliano non perché egli sia riducibile a Hegel in quanto a presupposti oppure
a concezione dell’Essere e del suo manifestarsi (anzi, su questo versante,
ed è versante centrale, mostra grande indipendenza) ma perché la sua
teoresi segue schema, metodo e prospettive di Hegel: dalla critica dell’opinione/ideologia alla verità attraverso un metodo dialettico che affida alla
ragione analitica priorità conoscitiva, verso una prospettiva di universalità comunitaria che ritraduce, per più aspetti, lo Stato etico hegeliano,
definendo valore e ruolo delle individualità singole in funzione di quella
prospettiva.
Ora, affermare lo stretto collegamento di Marx con Hegel non è
certo una novità. Quel collegamento è stato sostenuto a lungo, soprattutto
nel marxismo degli anni Cinquanta e Sessanta, quando si discuteva sul
rapporto tra «involucro mistico» e «nucleo razionale» del sistema, come
se su di esso si giocassero i destini del mondo, o, in stile squisitamente
terzinternazionalista, quando quei medesimi destini venivano proiettati
sullo sfondo di un ideale di società e di Stato dai tratti fortemente autoritari, negatori del valore delle individualità, sulla scorta della pari riconduzione, secondo una lettura leninista che si voleva imprescindibile, alla
Logica di Hegel ed alla riflessione di Marx. Il collegamento di Marx con
Hegel serviva, dunque, a giustificare un modello di società e di Stato dai
connotati totalizzanti, che si volevano come traduzione e realizzazione,
sul piano storico, del superamento dell’opinione e della falsa coscienza;
in questo senso, anche nello studio delle «opere giovanili» di Marx si
tendeva ad accentuare tutti quegli elementi che avessero una valenza
sovraindividuale, riconducendo a forma di borghese «falsa coscienza»
ogni attenzione che si dedicasse alla individualità: dell’espressione marxiana individuo generico, mutuata da Feuerbach e di importanza centrale poiché, questa sì, indicativa di un oltrepassamento rispetto all’ontologia
hegeliana nonché indicativa della definizione di una nuova lettura del
fondamento, si concentrava l’analisi sull’aggettivo e si tendeva a dimenticare il sostantivo, sciogliendolo nel quadro della dialettica hegeliana tra
singolare ed universale, finito ed infinito (nei fatti: la dialettica tra l’individuo e la società e lo Stato comunisti).
Il collegamento che qui si propone di Marx con Hegel ha, invece,
quei tratti a cui si accennava; vale a dire si ritiene che Marx sia pervenuto
alla formulazione della critica dell’opinione in connessione ad una consi-
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derazione dell’esperienza sulla base della teoresi di Hegel (ma non solo,
come vedremo), seguendone schema, metodo e, sotto molti riguardi,
prospettive, e che vi sia pervenuto nel senso del superamento, anche se
mai compiuto del tutto. Si tratta di un collegamento che oggi possiamo
leggere in una chiave genuinamente e liberamente filosofica, senza l’obbligo di riferirci a parrocchie e parrocchiette politico-dottrinarie, valutandone l’importanza ed il significato nel quadro della cultura filosofica occidentale in sé e per sé. L’importanza ed il significato di Marx, sotto un tal
riguardo, consistono nella sua capacità, pur se con molte debolezze, di
sapersi svincolare da Hegel facendo leva su aspetti interni del sistema di
Hegel, in un grandioso sforzo di rilettura della modernità che per certi
versi trova talune convergenze con la tradizione esterna, antagonistica o
meglio indifferente, rispetto a quella di cui Hegel è, a un tempo, approdo e iniziatore. E al pari di Hegel anche Marx opera quella rilettura
proprio sulla base di una critica dell’opinione (falsa coscienza o ideologia, come si è ricordato) con riferimento all’esperienza che nell’esistenza
si svolge. L’interesse di un tale collegamento va dunque ben al di là delle
figure di questi due pensatori e riguarda un intero paradigma di cultura:
in un ambito ancora costretto nelle maglie del razionalismo moderno si
determinano effettive cesure, si registra un processo irreversibile di autocritica del moderno in sé e per sé.
Per dirla più chiaramente: Marx vede in Hegel l’assommarsi ed il
risolversi di un’intera tradizione di pensiero e di cultura, quella della
modernità, ma vi vede anche il sistemarsi della teoria politica e sociale
della modernità medesima, ovvero vi scorge l’elaborazione di una filosofia del potere – direttamente, in senso conservativo, ma, per implicita
difficoltà, anche in senso potenzialmente soggetto a mutamento quale
possibile costruzione di un nuovo potere. Ne consegue che Marx vede
nel pensiero di Hegel la definizione compiuta di un modello del vivere
e del comprendere la vita che non si limita ad aspetti parziali, circoscritti
in settori, bensì che giunge ad identificarsi con la stessa civiltà occidentale nel suo complesso. Ora, intervenire sul sistema di Hegel, trasformarlo, per lui significa intervenire su/trasformare quell’intero modello, significa intervenire sulle coordinate teoriche e pratiche di una civiltà in
quanto tale. Se il sistema di Hegel è tutto questo, se è, per così dire,
una civiltà, allora è evidente che in quel sistema si danno cesure, momenti di rottura, contraddizioni radicali, ambivalenze di significato,
possibilità di interpretazione in direzioni anche opposte: nessuna civiltà, infatti, è un insieme omogeneo e, come è facile dimostrare, anche su
un piano semplicemente storico, nessuna civiltà è immortale; ogni civiltà ha in seno gli elementi che la conducono a fine. Marx ha voluto
trasformare quel sistema poiché ha voluto trasformare una civiltà ed in
questo sforzo si è appunto indirizzato nella ricerca di quelli che ne
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erano gli aspetti più controversi e, dunque, più virtualmente forieri di
mutamento.
Su questo sfondo, credo che sia lecito ed opportuno, proprio per
cogliere con esattezza il senso della riflessione marxiana, soffermarsi inizialmente su Hegel, leggendo un passo della Fenomenologia dello Spirito:
Si deve dire [...] che niente vien saputo, che non sia nell’esperienza o, come
anche si esprime questa medesima cosa, che non si presenti in quanto verità
sentita, in quanto eterno interiormente rivelato, in quanto sacro in cui si ha fede,
o in quanto altro modo ciò si voglia esprimere. L’esperienza, infatti, è appunto
questo: che il contenuto in sé – e questo contenuto è lo Spirito – è sostanza e
quindi oggetto della coscienza.1
Anche la filosofia di Hegel, al pari di ogni filosofia, prende le mosse
negativamente, differenziandosi da altro; in questo caso, tuttavia, non
muove da una opinione filosofica particolare, ma proprio dall’insieme
del pensiero filosofico che lo ha preceduto e dall’opinione del senso comune. La sua prospettiva è quindi alta, generale: direttamente si configura per posizione della filosofia in quanto tale. Hegel muove, come si
vede nella I sezione della Fenomenologia, dedicata alla Coscienza, dalla
«certezza sensibile», o dal «questo» e dall’«opinione», e perviene alla
verità scientifica, filosofica, contemplando, limitandosi a registrare, senza ermeneuticamente intervenire, le forme di una verità (Spirito) che si
fa tempo, mondo, uomo, ovvero limitandosi a cogliere le figure dell’apparire di un Essere che non può non manifestare, in ogni sua figura, e
proprio perché figura dell’Essere, il vero in quanto tale. Ma allora, se vi
è un’opinione di cui si fa esperienza e se da questa opinione si è costretti
a prender le mosse, come è parimente possibile asserire la necessità di un
manifestarsi dell’Essere, della verità, sempre e ovunque? Vi è uno scarto,
un deficit, una zona di impenetrabilità per l’Essere, un luogo di non
manifestazione? Questo, evidentemente, non è ammissibile in una concezione che si delinei quale registrazione di un’attualità compresente
dell’Essere e che dunque rinvii ad una realtà dell’Essere che, in quanto
fondamento universale ed assoluto, niente può contemplare al di fuori
sé, se non al patto di inficiare se stesso nella propria dimensione di
fondamentalità ontologica. Il deficit, dunque, ove ci si attesti all’opinione, non è – non può essere – ontologico; è, invece, conoscitivo; vi è un
deficit, se così possiamo esprimerci, di consapevolezza, una mancanza
teoretica. Nondimeno, della verità non si può non fare esperienza, pur
se nelle forme della mancanza, della inadeguatezza, dell’opinione. Se
1
G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Id., Werke, hrsg. von E. Moldenhauer
und K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, III, p. 585.
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questa esperienza non venisse compiuta, se nell’opinione stessa non vi
fosse il vero dell’Essere, anche se vero in potenza, allora l’opinione si
determinerebbe come un essere-altro-dall’Essere, come Essere a sua volta,
il che condurrebbe ad una dimensione aporematica di pensiero.
Ma se queste sono le mosse iniziali di negazione dell’opinione che
fan sì che una filosofia si ponga per la filosofia, vi sono anche le mosse
che, come si osservava in apertura, differenziano una filosofia dall’altra,
caratterizzandola come la filosofia ed ampliando al contempo i confini
dell’opinione con l’inscrivere in essa la filosofia o le filosofie antagonistiche, quelle rimaste «indietro» sul cammino della verità. È appunto in
questo senso che l’opinione a cui guarda Hegel non è soltanto o eminentemente il contenuto della coscienza del senso comune, del «sano intelletto umano», ma è anche, e soprattutto, l’opinione del contenuto della
coscienza filosofica, l’opinione di quei filosofi che utilizzano strumenti
concettuali inadeguati al coglimento di un vero di cui, pur se inconsapevolmente, non possono non fare esperienza. E se la critica di Hegel
prende di mira l’opinione dell’intero pensiero filosofico che lo ha preceduto, nello specifico ha per oggetto l’opinione della coscienza filosofica
moderna, la quale identifica il vero con quel che appare e che pensa la
realtà come esaurita nei dati sensibili del manifestarsi, anche se questi
dati vengono trasposti e sublimati nelle forme della ragione, di quel che
per Hegel, di fatto, non è ragione ma astratta razionalità. È l’opinione,
allora, della coscienza filosofica moderna – da Cartesio a Kant – contro
la quale, nel passo riportato, si mostra con chiarezza il richiamo al «sentire», all’«interiormente rivelato», un richiamo che è denuncia della dimensione dimidiata, non vera, di quella coscienza che razionalisticamente,
cioè, ancora una volta, astrattamente, tien fuori dalla realtà elementi che
nel profondo la costituiscono, che dunque dipinge, della realtà medesima,
un quadro alterato, lontano dal vero, un quadro sul quale dualisticamente si collocano, senza possibilità di incontro, le forme pensate e le forme
vissute dell’esperienza che nell’esistenza si compie. E l’opinione filosofica
che Hegel contesta, nella prospettiva del superamento verso il vero, è la
stessa opinione che avrà principalmente a cuore anche Marx (il «giovane
Marx»), anch’egli nella prospettiva del superamento verso una verità che
in lui, dopo l’incontro con l’economia politica, ed appunto con i Manoscritti, assume le forme della critica nei confronti dell’ideologia e della
falsa coscienza.
Ma soffermiamoci, ancora, sul percorso che Hegel delinea: il passo
sopra riportato mostra ancora molti elementi di interesse. L’itinerario
che va dall’opinione alla verità, dal «noto» al «conosciuto», muove dunque dall’esperire, o meglio, da un «sentire» profondo proprio di un tale
esperire. Si tratta di un sentire che è coglimento, sia pure oscuro, della
realtà di un qualcosa oltre l’esperire di per sé: l’irriducibile all’esperire
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fenomenico in quanto tale. Questo sentire significa, al contempo, delineare inizialmente ed acquisire alla fine del processo conoscitivo un concetto di realtà piena, connotato da un’esperienza del vero che monisticamente lega insieme le forme del pensare e le forme del vivere (teoreticamente: di un pensare che esprime adeguatamente quel vivere senza ridurlo
alle figure del semplice apparire; eticamente: un vivere secondo un pensare che, acquisita una consapevolezza filosofica oramai emancipata dalla coscienza dell’opinione, si mostra adeguato a quel pensare il vero e
che perciò è morale in quanto tale). Insomma, con il «sentire», con l’oscuramente avvertire, con l’«interiormente rivelato», si perviene a costituire
l’esperire medesimo nel suo complesso, dalla sua mossa iniziale sino al
suo esito ultimo. Questa esperienza del sentire non mostra nessuna affinità
né con la conoscenza dell’intelletto né con quella della ragione, bensì
simiglianza con la posteriore «intuizione» feuerbachiana o, al di fuori
dell’hegelismo, schopenhaueriana. Quando si studia Hegel, si dovrebbe
tener massimamente conto di questo «sentire», poiché è tramite esso
che si può scorgere l’apertura in se medesimo del sistema al di fuori di
sé, definirne i lineamenti di un superamento o autosuperamento. Con il
«sentire», ci troviamo di fronte ad una priorità che viene accordata non,
appunto, alla conoscenza intellettuale e, poi, razionale, bensì alla sensibilità – la quale non è solo il regno dei sensi ma anche il sapere intuitivo,
l’avvertenza di un interiore/implicito. E si tratta, come sembra evidente,
di una sensibilità e di una intuizione da cui la ragione non può prescindere
poiché se sensibilità e intuizione hanno un contenuto di verità, entrambe contribuiscono, insieme, al disvelarsi della ragione stessa in quanto
scienza. Ora, questo sentire ed intuire, che la coscienza umana esperisce,
è un qualcosa di «oltresensibile» e di infinito, còlto entro i confini della
sensibilità e della finitezza: è certamente lo Spirito, l’eterno, che tuttavia
non può darsi in quanto Spirito ed in quanto eterno in sé, poiché la
sensibilità non ha strumenti adeguati alla percezione di Spirito e di eterno, risultando tanto l’uno quanto l’altro determinazioni concettuali, universali che, in quanto tali, non possono che appartenere alla sfera della
ragione. Allora la sensibilità dovrà intuire un quid che le è immediatamente omogeneo, un quid che non richieda l’intervento della ragione:
un tale quid cos’altro può essere se non ciò che la sensibilità medesima
direttamente coglie? E cosa coglie direttamente la sensibilità se non ciò
che direttamente le appartiene, ciò di cui direttamente fa esperienza?
L’esperienza sensibile è ciò che definisce l’esistenza stessa dell’individualità e l’esistenza altro non può essere che la vita, o per meglio dire, il
singolarizzarsi, l’individualizzarsi della vita nelle plurali forme di esistenza
e nei molteplici momenti di questa. Il quid che in ultima istanza la sensibilità intuisce altro non è che la vita che nell’esistenza di ogni individuo
cade, la scansione temporale della vita, cioè la scansione dell’eterno nel-
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le esistenze e coscienze dei singoli enti. Insomma, l’intuizione sensibile
dell’oltresensibile e dell’infinito a rigore non è che intuizione della vita
universale e della vita singolare quale esistenza, l’intuizione di un quid
che solo successivamente può venir posto nelle categorie del pensiero e
del linguaggio, che solo successivamente può venir còlto nella sua verità,
di un quid che sta prima della categorialità della coscienza costruita sui
dati del consueto, del noto, cioè che sta prima della coscienza tanto del
senso comune quanto e, appunto, soprattutto, dell’opinione filosofica.
Con l’espressione «niente vien saputo, che non sia nell’esperienza»,
si determina un plesso categoriale in cui entrano in giuoco gli elementi
dell’esperienza, dell’apparenza e della verità. Si tratta di un plesso problematico, delicato, che crea difficoltà gravi nel sistema ma che, nondimeno,
fa scaturire dal sistema stesso quelle potenzialità di autosuperamento
che si manifesteranno in tutta la loro portata nelle filosofie di Feuerbach
e di Marx.
Per Hegel, ma anche ben al di là di Hegel, questione centrale è la
ricerca di una realtà la cui «verità» sia costituita dal significato di questa
realtà medesima. È il significato che definisce una realtà piena, una realtà che, in quanto piena, oltrepassa la nozione della realtà nel suo apparire. È cioè evidente che ove si ponga il problema di un significato della
realtà, il problema della definizione di una realtà che è tale solo congiuntamente al proprio significato, la «verità» non è situabile esclusivamente
nella «realtà» immediata che viene esperita, poiché una tale «realtà» è
soltanto realtà fenomenica, superficiale, di rappresentazione, eminentemente soggettiva – nel senso dell’apparire dell’Essere per un soggetto –
vale a dire relativa. Questione centrale, dunque, è la ricerca di una realtà
che non si limiti al fenomenico-rappresentativo, alla superficie delle cose:
e la ricerca di un significato costituisce proprio il problema della realtà
oltre l’apparire, nonostante che questo apparire definisca l’esperienza
diretta della vita che ogni ente compie; ed anche, questa ricerca di significato costituisce proprio ciò che distanzia la filosofia dall’opinione e ciò
che nella filosofia distingue le filosofie, con la relativa, reciproca condanna
all’opinione filosofica o all’opinione tout court.
Ora, quell’esperienza della vita che si compie e di cui si ricerca un
senso profondo è l’esistenza in quanto tale. Nell’esistenza, cioè, si esperisce
la vita, ma la si esperisce nelle forme dell’apparire dell’Essere e quindi
solo quale allusione al profondo e coglimento, parziale, del profondo.
Nell’esistenza, cioè, si esperisce l’esistenza medesima in quanto momento finito e fenomenico della vita, in quanto momento in cui l’Essere appare, oppure non-appare-più o non-appare-ancóra. Esperienza dell’esistenza, oppure esperienza in quanto esistenza, è l’esperienza quotidiana. Hegel
si muove appunto su questa linea, tentando di giungere dall’apparenza
esperita all’esperienza del «vero», e tentando ad ogni passo di determinare
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una forma monistica di conoscenza, una collegamento non rescindibile
tra l’apparenza ed il vero. Tuttavia, come si ricordava, un simile tentativo
mostra difficoltà – difficoltà che, certo, non sono estranee ad altri modi
di filosofare – collisioni, cesure che non si ricompongono, opposizioni
che talora si riescono a superare nel particolare dell’argomentazione ma
che, in generale, nella trama complessiva del discorso, appaiono non sciolte; si tratta del conflitto tra l’esperienza fenomenica del quotidiano in cui
la quasi totalità degli uomini si trova irretita e l’aspirazione, genuinamente
filosofica e critica, verso una realtà vera che il quotidiano perlopiù disconosce oppure ammette quale sfondo soltanto ipotetico. In Hegel, un tale
conflitto si ripete come presa in carico del quotidiano, da un lato, e come
negazione radicale del quotidiano dall’altro lato, come antagonismo tra
ammissione del quotidiano per esclusivo motivo di partenza, occasionale contingenza, mera temporalità, ed asserzione di un livello di eterna
permanenza di fronte a cui ogni quotidiana contingenza sfuma.
Ma vi è una difficoltà che riguarda proprio la presa in carico del
quotidiano, del temporale, accompagnata, però, da un subitaneo rigetto: come si può sostenere, da una parte, che la ricerca della realtà vera
muova dall’esperienza temporale del quotidiano, dall’opinione che lo
connota, e simultaneamente sostenere, dall’altra parte, che il quotidiano, ciò che viene temporalmente esperito, in nessun modo riguardi la
verità, l’eterno, o perlomeno, che lo riguardi soltanto come un implicito
nucleo di essenzialità che in quanto tale non può non risiedervi? L’esperienza che del vero, infatti, si compie nell’opinione è esperienza del tutto
indiretta, inconsapevole consapevolezza, se così possiamo esprimerci.
Eminentemente, la situazione di esistenza, la situazione che si struttura tramite l’esperienza e che struttura l’esperienza, è connotata dall’immediatezza, mentre la ricerca della realtà vera, l’approfondimento
quale superamento dell’esperienza che in quanto realtà fenomenica si
svolge, è connotata dalla necessità della mediazione logica. L’opinione è
immediatezza, percezione diretta di un reale che si ritiene per tale ma
che in verità è solo presunto tale. E in Marx, ciò, appunto hegelianamente,
si ripete nelle categorie della ideologia, della falsa coscienza, della visione capovolta del mondo; e ben poco importa, sotto questo profilo, che
tali categorie vengano applicate alla interpretazione del pensiero hegeliano
stesso. E, ancora sotto questo profilo, è evidente che si assiste, tanto in
Hegel quanto in Marx, alla difficoltà della conciliazione, o della mediazione, tra il tempo e l’eterno, dal momento che piuttosto se ne marca lo
scarto, traducendone le valenze in termini proprio di opinione e verità,
di ideologia e di visione non capovolta del mondo e delle cose. Il tempo,
infatti, va in larga misura a coincidere con quanto viene di fatto immediatamente esperito, mentre l’eterno risulta attingibile solo grazie ad un
procedimento conoscitivo che, in quanto tale, comporta la mediazione,
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una mediazione che giustifica la medesima asserzione di un «interiormente rivelato», di un «sentire» della coscienza che appunto sente «il
contenuto in sé», l’Essere, la realtà vera e la giustificazione ontologica di
ogni esistente e di ogni esistenza, la «sostanza», solo allontanandosi dall’apparire in sé riducente ogni reale che è proprio dell’opinione (comune o filosofica che questa sia). Questa sostanza, «quindi oggetto della
coscienza», è tale – «quindi», cioè, conseguenza, intima concatenazione
tra premesse dell’argomentazione e suoi esiti di sapere – solo nella misura in cui sappia distanziarsi dell’immediatezza del «noto», fuoriuscire
dall’opinione, abbandonare il temporale contingente onde ricercare il
permanente, il significato che la scorza dell’apparenza nasconde.
Se niente vien saputo che non sia nell’esperienza, se cioè dall’esperienza non si può prescindere, allora nella determinazione del processo
veritativo non si può prescindere da quell’opinione di cui si fa immediata esperienza. Oggetto prioritario della riflessione filosofica non potrà
che essere il luogo di origine della riflessione filosofica medesima, là dove
risiede la contingenza del «noto»; non potrà dunque che essere il luogo
di origine dell’esperienza e del suo svolgersi. Questo luogo è un dato di
esistenza immediata quale dato dell’esperire medesimo, quale presupposto imprescindibile di ogni processo orientato all’acquisizione del vero.
Ed è a questo luogo che, sulla linea di Hegel, prioritariamente guardano
Feuerbach e il Marx che qui consideriamo.
Il presente lavoro intende essere l’approfondimento, e lo sviluppo
parziale, di una indagine che prosegue da anni e che ha trovato un suo
primo punto fermo in un libro pubblicato alcuni anni fa.2 Una delle tesi
che là si sosteneva, e a cui sopra si è fatto breve ed incidentale accenno,
era che il pensiero della modernità, o per meglio dire, della nostra contemporaneità, è venuto formandosi ad esito di un duplice movimento
critico nei confronti della filosofia di Hegel. Un movimento interno all’hegelismo ed un movimento ad esso esterno, la cui critica verso Hegel,
come abbiamo ricordato, si svolge per più aspetti autonomamente da
Hegel stesso, cioè che è critica non per ricercata volontà di confronto ed
aspirazione al superamento, ma che lo è oggettivamente, nel suo porsi in
totale alterità, ignorando l’hegelismo e con ciò delegittimandolo in quanto
filosofia, ovvero riconducendolo direttamente ad opinione. Se, si diceva,
su questo secondo versante spicca, quale sorta di gigante polarmente
opposto la figura di Schopenhauer, sul primo versante si situano, eminentemente, le figure di Feuerbach e di Marx, il cui pensiero si insinua negli
interstizi «sporchi» del sistema di Hegel, nelle sue zone d’ombra, nelle
contraddizioni e che, pur ripetendone, in larga misura, l’impostazione
2
Mi riferisco a Esistenza e progetto. Tra Hegel e Nietzsche, Clinamen, Firenze 2000.
Critica dell’opinione filosofica
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filosofico-storica e, in generale, continuando al contempo a riproporne
il tipico armamentario concettuale (la centralità, ad esempio, di categorie
come alienazione, coscienza, autocoscienza ecc. sia pur riscritte in
significazione nuova poiché nuova è la connotazione del fondamento
ontologico che vien determinato), di quel sistema sancisce la crisi, o perlomeno, sancisce la non sostenibilità della ispirazione logicistica di fondo,
però sempre nel riconoscimento di una aderenza di quel sistema stesso
al «reale». Feuerbach e Marx, insomma, conducono ad esiti di oltrepassamento del sistema hegeliano grazie agli strumenti che quel sistema offre;
il che significa che Feuerbach e Marx scorgono in esso e, soprattutto,
nelle sue zone d’ombra e nelle sue contraddizioni, potenzialità di emancipazione dalla dimensione logica e spiritualistica del pensiero hegeliano
per una riconduzione del medesimo a modello di analisi del reale.
È Feuerbach che interviene decisamente contro Hegel ed è Marx
che ne prosegue il lavoro. Nei Manoscritti, e in particolare nella sezione
dedicata alla dialettica hegeliana, il confronto con le tesi di Hegel si fa
puntuale, molto analitico. E si registra un parallelismo: si muove, ora in
Marx come prima in Hegel, dalla critica di ciò che non è «vero»; si muove, cioè, dalla critica dell’opinione, dalla critica della Meinung, da una
critica che, anche se vuol mostrarsi come reiezione del senso comune
tout court, in realtà è reiezione tanto del senso comune quanto del senso
comune filosofico.
La critica dell’opinione mostra dunque due aspetti: è critica speciale, rivolta, appunto, allo specifico del pensiero filosofico, ed è critica
generale, inquadramento del pensiero filosofico nell’ambito di più ampie e comprensive forme di cultura ma anche di economia e politica.
Negli anni qui considerati, si assiste non tanto all’abbandono dello schema speculativo hegeliano quanto alla ridefinizione di un tale schema tramite elementi centrali dell’antropologia feuerbachiana. L’hegelismo di
Marx è, qui, un hegelismo filtrato da quello di Feuerbach e riscritto grazie a quello di Feuerbach, vale a dire ridefinito in senso antagonistico a
Hegel, perlomeno sotto il profilo della determinazione dello statuto
epistemologico e del contenuto ontologico. Son questi i motivi per i quali la critica dell’opinione è tanto speciale quanto generale: è critica speciale in quanto critica di Hegel in particolare, ma è anche critica generale
poiché Hegel (ed i filosofi «più recenti») viene stagliato sullo sfondo di
una valutazione polemica del «positivo» di cui egli medesimo, insieme ai
filosofi «più recenti», risulta espressione.
Sotto il riguardo della critica dell’opinione, cosa c’è di hegeliano in
Marx e, dunque, in quanto suo diretto predecessore, cosa c’è di hegeliano
in Feuerbach, nonostante la riscrittura in termini antropologici dell’Essere e l’ampliarsi della critica stessa da speciale in generale? C’è il ribadire i connotati delle critica quale presa in carico e analisi di un sussistente
114
Fabio Bazzani
commisurato all’essenziale, quale valutazione di inadeguatezza del sussistente all’Essere. Anche se in questi anni si inscrive lo stesso Hegel in
una tale valutazione di inadeguatezza (la definizione dell’Essere in accezione spirituale non è adeguata all’Essere reale, all’Essere che appare
secondo determinate forme di esistenza), nondimeno l’andamento
argomentativo rimane hegeliano, accentuandosi nella prospettiva medesima di una nuova filosofia, nella «necessità» di una antropologia a-venire, con Feuerbach, e, soprattutto, nella altrettanto forte «necessità» di
una situazione futura comunitaria, con Marx, nella quale l’agire umano
risulti adeguato al sapere vero, prospettiva che viene posta in termini
teleologici e che è la traduzione, in una sorta di comunismo dai tratti
fortemente idealistici, dell’idealismo proprio dell’hegeliano Stato etico
universale. Per comprendere ciò, possiamo leggere un celebre passo dei
Manoscritti:
Il comunismo come positiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza
da parte dell’uomo e per l’uomo; e come ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale
uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto
naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è
la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace
soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma
della storia e si sa come tale soluzione.3
In questo denso luogo un elemento si evidenzia sùbito, proprio nella
chiusa: il comunismo sa se stesso come soluzione, ovvero il comunismo è
quella situazione di esistenza, quella situazione della prassi e dell’esperienza, che incarna l’oltrepassamento definitivo dell’opinione: il comunismo è verità e sa se stesso come verità.
Ma vediamo analiticamente: il comunismo è l’esito di un movimento teorico-pratico in cui l’uomo, avendo coscienza del proprio essere
alienato (e torneremo sui temi dell’alienazione e della coscienza), non è
più alienato, e non lo è più proprio perché, dialetticamente, ha una tale
coscienza; in pari tempo, e conseguentemente, il comunismo è quella
situazione dell’esistenza in cui l’uomo si riappropria di se stesso in quanto ente generico, proprio perché, avendo coscienza del suo essere-alienato,
non è più appunto tale. Il comunismo, ancóra, è «compiuto naturalismo»,
cioè accoglimento della natura, dal momento che l’uomo sa se stesso
oramai non più in forma alienata ma appunto generica (non si può non
3
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in K. Marx e F. Engels, Opere, Editori
Riuniti, Roma 1976, vol. III, pp. 323-324.
Critica dell’opinione filosofica
115
registrare, al proposito, la totale acquisizione da Feuerbach della idea di
una duplice fondazione dell’ente singolo: fondazione di un Essere generico-umano a sua volta fondato su un Essere di natura). La natura, insomma, non è grande forma di alienazione dello Spirito ma fondazione
ontologica che giustifica l’Esserci dell’ente. In una parola: il comunismo
è affermazione della natura dell’uomo e del rapporto della natura specifica dell’uomo con la natura altra-dall’uomo, ma non altra per qualità,
bensì appunto fondativa. E continua: la contraddizione tra uomo e natura è superata (la «verace soluzione» del loro «contrasto»), così come è
superata la contraddizione tra «esistenza ed essenza» e tra «oggettivazione» e «affermazione soggettiva». Il «marchio» di Hegel è a tal riguardo ben impresso; sia pure attraverso l’acquisizione della impostazione e
della terminologia feuerbachiane che consente a Marx l’inversione della
relazione tra Essere e presenza, l’intera argomentazione ha una valenza
tutta giuocata nel quadro dell’hegelismo, sin dalla determinazione della
posizione della natura e del suo rapporto con l’uomo. Anche Hegel, infatti,
parla della natura in accezione di specificità ma non di alterità rispetto al
fondamento: la natura è fondamento nella forma dello specificarsi del
fondamento, del suo farsi presenza, certo del suo essere-altro del fondamento, però di un essere-altro che non è altro-da-sé, ma che è altro-dasé-in sé, che è un uscire-fuori-da-sé però in sé. E laddove Marx scrive
che il comunismo, in quanto conciliazione di umanismo e naturalismo, è
«la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva», nel polemizzare con Hegel, nel ricondurre Hegel ad opinione, non fa che ribadire Hegel. Se, nella frase di Marx,
il termine polemico ed implicito è «Spirito» («la verace soluzione del
conflitto fra oggettivazione e affermazione soggettiva» dello Spirito), il
termine positivo ed esplicito, che sostituisce «Spirito», è «comunismo»;
ma la struttura del discorso non cambia. Possiamo dunque rileggere il
complesso dell’argomentazione in chiave direttamente hegeliana ed al
contempo in prospettiva marxiana; dal che potrebbe risultare la interpretazione seguente: la contraddizione tra uomo e natura è superata, così
come è superata la contraddizione tra «esistenza ed essenza» e tra «oggettivazione» e «affermazione soggettiva» dello Spirito, cioè tra alienazione, l’uscire fuori da sé, e l’autoaffermazione, l’altro-da-sé-in sé, la posizione di sé in un superiore livello che invera i livelli precedenti (precedenti sul piano fenomenologico-storico, non certo sul piano logicoontologico). Il comunismo, proprio in virtù del superamento di quelle
contraddizioni, risolve l’«enigma della storia», ne rappresenta la verità,
così come lo Spirito assoluto e lo Stato universale rappresentavano, su
piani diversi, la verità di Hegel.
Tuttavia, come si è sottolineato a più riprese, nonostante lo stretto
legame della teoresi di Marx con quella di Hegel, sarebbe sommamente
116
Fabio Bazzani
riduttivo asserire che Marx sia semplicemente un epigono di Hegel, portatore di un hegelismo rivisto e corretto grazie alle categorie feuerbachiane, oppure asserire, in specifico, che la critica dell’opinione che egli
sviluppa sia assimilabile in toto alla critica già svolta da Hegel e da tutti i
maggiori pensatori precedenti o a lui coevi e successivi. Vi sono delle
peculiarità che, per il momento generalmente, possiamo definire ambivalenti: più ricche, da una lato, di attenzione all’esistenza e all’esperienza
umane e, dunque, in grado di riscrivere, in prospettiva, un’idea di verità
che con l’esistenza e l’esperienza non può non fare i conti quale suo
luogo di scaturigine, ma anche più povere, per così esprimerci, di consapevolezza filosofica e, dunque, più a rischio di decadere in forme di opinione,
di storicizzazione, di distanza da quella verità a cui pur si aspira.
Ci siamo soffermati, in via preliminare, proprio sugli esiti finali, comunitari, comunistici, della riflessione di Marx, evidenziando in essi i tratti
hegeliani salienti, più marcati: la verità che qui si incarna praticamente
nel comunismo come là si incarnava nello Stato etico universale. Ma è
appunto riferendoci a questi esiti che possiamo, al contempo, giustificare l’altra asserzione, cioè quella della non riducibilità di Marx a Hegel,
pur nell’essere da parte di Marx assai più hegeliano di Feuerbach e della
sinistra hegeliana. Leggiamo:
Il comunismo è la posizione come negazione della negazione, e perciò il
momento reale – e necessario per il prossimo sviluppo storico – dell’umana emancipazione e restaurazione. Il comunismo è la forma necessaria e l’energico principio del prossimo avvenire; ma esso non è come tale il termine dell’evoluzione
umana – la forma dell’umana società.4
Dunque il comunismo è Aufhebung, negazione che conserva, negazione di una situazione che a sua volta negava, posizione, dunque, di una
situazione priva di ciò che la situazione precedente mostrava come negativa e dalla quale questo negativo è stato eliminato. Il comunismo è, allora, momento reale, cioè realtà in atto, effettualità, Wirklichkeit, ricchezza
di opposizioni conciliate, oltrepassamento di ogni astratta universalità
negativa, di quella universalità a cui si attesta l’opinione filosofica e l’opinione in genere. Sin qui – aldilà di qualche latente risonanza di utopiche
età dell’oro (la «restaurazione» di una umanità armonica antecedente
l’umanità alienata) – Hegel, lo schema hegeliano, completamente dispiegato in tutta la sua dinamica dialettica. Ma anche oltre Hegel: nel comunismo la storia non si arresta (a tal proposito, il Marx del Capitale, ad
esempio, sarà molto più hegeliano): esso è momento «necessario» di un
ulteriore sviluppo; non è «il termine dell’evoluzione umana», ma è «princi4
Ivi, p. 334.
Critica dell’opinione filosofica
117
pio del prossimo avvenire». Forse non si sa bene cosa sia questo comunismo, come, in un tale schema, sia determinabile una realtà ulteriore rispetto al comunismo, ma una cosa è chiara, ed è importante: la verità
non si arresta in un dato bensì risulta anch’essa in continuo autosuperamento; dunque l’opinione non appare mai definitivamente superata, bensì
anch’essa sempre in procinto di minacciare il sapere autentico che quella verità esprime. Nondimeno, a ben guardare, neppure in questo caso
Hegel sembra così lontano; neppure in Hegel, infatti, la dialettica può, a
rigore, contemplare momenti di arresto definitivo, a meno di non negarsi per dialettica in quanto tale. Il movimento dello Spirito, proprio perché movimento dialettico che comporta un negativo come suo motore
interno, non può trovare una stasi finale. Contraddizione, questa, tra
verità e processo della verità, non risolta né da Hegel né da Marx, come
non risolta da tutte quelle filosofie che si dibattono tra la posizione di un
Essere fondamentale e originario e un dover-essere, veritativo ed etico,
da raggiungere e realizzare. Contraddizione, comunque, feconda, utile
se non altro a segnalare l’esigenza del dubbio a costante compagno di
viaggio nella ricerca del vero, dibattuti come si è, in questo viaggio, tra i
limiti della nostra esistenza ed esperienza e l’infinito ed assoluto dell’Essere (o della Vita, o dello Spirito, o di Dio, o di come in tutti gli altri modi
lo si voglia chiamare).
Ma prima di entrare nello specifico dell’argomento che qui ci occupa, dobbiamo segnalare un ulteriore elemento nelle argomentazioni hegeliane, prima, e marxiane, poi, quell’elemento della sussistenza del negativo (negazione, e negazione della negazione) che non solo marca una
feconda contraddizione nella ricerca della verità, ma che anche marca,
contemporaneamente, in senso aporematico la verità in quanto tale, sino
a connotarla per instabile, per provvisoria, quindi per relativa, di conseguenza per non vera, cioè per opinione a sua volta. La qual cosa ripete in
Hegel e in Marx i limiti nichilistici dell’intera tradizione occidentale,
sempre giocata tra i poli della verità e dell’opinione, in una costante ed
insuperata tensione tra opinione e verità stesse.
La critica dell’opinione filosofica
Da Feuerbach soltanto data la positiva critica umanistica e naturalistica. Quanto più senza rumore, tanto più sicuro, profondo, esteso e
durevole l’effetto degli scritti feuerbachiani, gli unici scritti, dalla «Fenomenologia» e dalla «Logica» di Hegel in poi, nei quali è contenuta una
reale rivoluzione teoretica.5
5
Ivi, p. 252.
118
Fabio Bazzani
L’interesse del passo si concentra su due termini, posti in contiguità:
positiva e critica. Questi due termini hanno un implicito rimando ad una
critica non positiva, cioè ad una critica negativa, che Marx vede svilupparsi in un arco temporale tutto sommato breve: dalla Fenomenologia di
Hegel (e, dunque, Hegel è sottratto dall’ambito della critica solo negativa) alla «reale rivoluzione teoretica» di Feuerbach, una rivoluzione che
si vuole tanto rispetto alla critica negativa quanto rispetto a Hegel stesso,
incrociando, in ciò, tanto i motivi della negazione quanto quelli della
conservazione, della Aufhebung, della negazione di una situazione a sua
volta negante. Sottesa all’apprezzamento nei riguardi di Feuerbach (ma
anche di Hegel) vi è la reiezione nei riguardi di quell’«ignaro recensore»
di cui si parla poche righe sopra6, cioè di Bruno Bauer, costante e cospicuo riferimento polemico nelle altre due importanti opere del periodo,
nella Sacra famiglia ma anche, e soprattutto, nella Ideologia tedesca.
Bauer aveva pubblicato sulla «Allgemeine Literatur-Zeitung» del
luglio 1844 un articolo, sicuramente in parte fumoso ma in cui si ripetevano molte delle posizioni già espresse nella Questione ebraica, dedicato
a Che cosa è oggi l’oggetto della critica?7 e in cui si procedeva nei confronti della religione, delle istituzioni, delle idee liberali, dell’evento rivoluzionario del 1789, della «massa», del movimento socialista, ecc. in maniera radicalmente liquidatoria. Per Marx, la critica di Bauer è semplicemente negativa (e quel «semplicemente» equivale, per più versi, ad «astrattamente») poiché, nel rifiutare il tutto, egli rifiuterebbe, di fatto, la realtà
stessa; un tale rifiuto continuerebbe ad ancorare Bauer ad una concezione spiritualistica, non emancipata da quella hegeliana, ma, potremmo
aggiungere, seguendo lo schema marxiano, ancorata ad una concezione
ben al di qua di Hegel, su una linea «intellettuale-astratta». Tuttavia, a
prescindere dalla ambivalenza marxiana – che, secondo lo stile tipico di
tutto l’hegelismo di sinistra, rovescia sugli avversari le medesime posizioni altrimenti assunte in proprio, tratteggiandole in maniera negativa
(l’hegelismo dell’avversario è un errore teoretico, la debolezza teoretica
dell’avversario è sempre hegelismo, ma l’hegelismo proprio non è
hegelismo) – è corretta la lettura di un Bauer così estraneo al reale come
Marx lo dipinge? Bauer – e sulla sua linea molti tra gli hegeliani di sinistra – formula un giudizio sul pensare gli eventi, e sulle forme critiche
che agli eventi sono correlate e nelle quali questo pensare può dispiegarsi,
a muovere dagli esiti storici, istituzionali e politici di questo pensare gli
eventi, di queste forme critiche. Il giudizio sugli eventi e sul pensare gli
6
Cfr. ivi, p. 251.
Cfr. B. Bauer, Che cosa è oggi l’oggetto della critica?, appendice in F. Engels e K.
Marx, La sacra famiglia, ed. it. a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1979, pp.
299-310.
7
Critica dell’opinione filosofica
119
eventi fa sempre capo ad un modello di riferimento teorico quale misura
del compiersi degli eventi. Gli eventi vengono valutati sulla base della
loro adeguatezza o non adeguatezza a quel modello, ovvero ad un piano
che si vuole di verità, quindi non appartenente all’opinione. Il limite sta
nel fatto che si tende a ridefinire il dato teorico sulla base dell’evento; il
che, per molti versi, può costituire uno smarrire il senso di una ricerca di
verità, un restare in forme di opinione distanti dal vero, uno storicizzare
e relativizzare il vero. Quanto, ad esempio, Bauer scrive della rivoluzione francese e dell’illuminismo è, al proposito, indicativo:
La Rivoluzione francese è stata un esperimento che apparteneva ancora
del tutto al secolo diciottesimo. Essa voleva fondare un nuovo ordine umano,
ma le idee che aveva suscitate non hanno portato oltre la situazione che essa
voleva superare con la violenza […] Lo stesso esito ha avuto l’illuminismo filosofico e religioso […] La semplice sorte di questo illuminismo è stato il suo tramonto nel romanticismo, dopo essere stato costretto a darsi prigioniero alla reazione.8
E dunque, conclude Bauer, se gli esiti son questi, allora la critica
deve proprio elevare «a soggetto se stessa» e «deve soprattutto dedicare
il suo studio» a quel «fenomeno» che «appartiene al nostro tempo»,9 il
che sembrerebbe, se mi è concesso questo inciso, un auspicio del tutto
ragionevole e sensato, laddove ci si confronti con il piano della situazione politica e sociale in atto o divenuta.
Si è lontani dai fatti, allora, come sostiene Marx, o invece si è lontani
dal «vero», ove quel vero, pur se inteso per piano di riferimento ultimo,
e dunque, di per se stesso, immutabile, venga continuamente riveduto,
sottoposto a critica, nella misura in cui i fatti non vi risultino conformi?
In Bauer si nota una precisa aderenza al reale – cosa che, appunto, Marx
non riconosce – ad un positivo rispetto al quale la critica continua a
restare non adeguata per responsabilità di una sua insufficienza e che,
proprio a motivo di ciò, non può non esser «soggetto» di se stessa. Quando
Marx parla di critica negativa, o di «critica critica», è liquidatorio di una
consapevolezza degli eventi che egli non sa scorgere per tale: se in Bauer
una tale consapevolezza non si registra, o non si registra pienamente, ciò
dipende dal motivo che essa è astratta ed intellettualistica; pur nell’apparenza di aderire al fatto lo si ignorerebbe dal momento che ci si limiterebbe
ad esso isolandolo da un generale sfondo giustificativo del fatto medesimo – hegelianamente, il particolare privo di riferimento universale si
confina in una universalità astratta e, appunto, intellettualistica, che è
solo negativa e che si cristallizza in se stessa, che, dunque, non è reale,
8
9
Ivi, pp. 308-309.
Ivi, p. 310.
120
Fabio Bazzani
«concreta». Insistere sulla richiesta di una continua revisione del modello teorico a muovere dal fatto comporta il venir meno di un criterium
veritatis che consenta di giudicare il fatto medesimo. Marx, quando critica Bauer e il giovane hegelismo contesta per più versi l’idea di una
variabilità del modello teorico, quella variabilità che sarebbe appunto
indice di astrattezza. Egli, infatti, assai più in linea con Hegel, ha in mente un criterium veritatis forte ed immutabile, e ha in mente un «positivo»
che non prescinde (hegelianamente e feuerbachianamente) dalla necessità del commisurarsi con un piano che rispetto a quegli eventi sta oltre,
che ad essi è irriducibile, e che è, soprattutto, tendenzialmente immodificabile (tendenzialmente, come è ovvio, nel processo di approssimazione conoscitiva, non certo nella sua dimensione ontologica) e che del positivo rappresenta il solido fondamento.
A muovere da qui, a muovere, cioè, dalla definizione di un positivo
come convergenza di temporale ed eterno, di forme storiche mutevoli e
di immutabilità del vero, di presenza ed essenza, vengono riformulate le
tradizionali categorie di ragione, di realtà e di critica. È in questo senso
che, contro Bauer e gli hegeliani di sinistra, va l’apprezzamento di Marx
a Feuerbach: gli eventi e ciò che li fonda, cioè la natura e l’umanità, non
devono essere giudicati riferendosi ad una struttura razionale astratta
(non legittimante su base ontologica e quindi variabile), ma devono essere giudicati e criticati in quanto tali, cioè con riferimento ad una struttura razionale concreta (legittimante su base ontologica e quindi immutabile), costitutiva degli eventi medesimi. Insomma: la critica negativa
segue un modello di ragione astratta, un modello di ragione, cioè, che
sembra adeguato alle cose ma che, al contrario, si porrebbe del tutto
esternamente ad esse, che le giudicherebbe solo a muovere dalla superficie di esse medesime (variabilità del modello teorico); la critica positiva,
invece, un modello di ragione concreta, immanente nelle cose (immutabilità del modello teorico); nel seguire un modello di ragione astratta, la
critica negativa si riduce a mera registrazione dei fatti senza coglierne il
significato metafisico di verità e la dimensione ontologica di fondazione
(che, insieme ai fatti, costituiscono il positivo in quanto tale); nel seguire
un modello concreto di ragione, invece, la critica determina un positivo
che appunto è coesistenza, su livelli differenziati, di mutevole ed immutabile, di contingenza ed eterno, di presenza ed essenza.10
10
Non sembrano marginali, su questo sfondo, le assonanze con la distinzione operata da Feuerbach tra ragione astratta e ragione speculativa, nei Princìpi della filosofia
dell’avvenire (1843), ovvero la distinzione tra la tradizione cartesiano-kantiana e la tradizione idealistica (soprattutto hegeliana), nonostante le significative, anche se non univoche, eccezioni, rappresentate da Spinoza e Leibniz; una distinzione che dà luogo alla
determinazione, per assimilazione ed esclusione, di un duplice registro ermeneutico: la
Critica dell’opinione filosofica
121
Tuttavia, l’attenzione di Marx si concentra non tanto su Bauer e
sugli hegeliani di sinistra, nonostante le molte pagine ad essi dedicate,
quanto sulla radice teorica e culturale dell’hegelismo di sinistra, non ripetendo questo, a suo parere, che tutte le debolezze proprie del sistema
di Hegel, anzi accentuandone i limiti e le insufficienze. Al pari che in
Feuerbach, anche in Marx la critica rivolta a Hegel prende le mosse da
un esame della Fenomenologia e della Logica, nella sezione dei Manoscritti dedicata organicamente alla dialettica e alla filosofia hegeliana in
generale. Questa critica si svolge su tre versanti tra loro intrecciati: sul
primo, si registra, come si è accennato, il costante apprezzamento nei
riguardi di Feuerbach; sul secondo, la sarcastica polemica verso la sinistra hegeliana, ridotta ad una forma di hegelismo impoverito rispetto al
sistema del maestro; sul terzo, lo specifico della esplicita reiezione (sia
pur controversa e molto spesso reiterante proprio quel che si voleva combattere) della filosofia di Hegel. Una tale critica, organizzata nella sezione indicata dei Manoscritti, viene anticipata e diluita nelle pagine precedenti del testo e si ritrova, in forme talvolta ripetute, negli altri scritti del
periodo.
Vi è, in queste pagine, un luogo decisivo, intorno al quale ruota la
pari negazione e conservazione marxiana della filosofia di Hegel, un punto
che ricalca, anche lessicalmente, molti dei luoghi feuerbachiani, ma che,
rispetto a Feuerbach, mostra un maggiore hegelismo, cioè una minore
capacità di emanciparsi dalla tradizione filosofica che in Hegel si assomma
e che, in tal senso, marca una tabe nichilistica, e mostra una minore coerenza argomentativa. Il luogo è il seguente: «Pensare e essere sono certamente distinti, ma ad un tempo in unità l’un con l’altro».11 Ed anche
Feuerbach aveva scritto: «Un essere che non è diverso dal pensare […] è
soltanto un essere pensato, un essere astratto, che in realtà non è un
essere».12 Si affermano cose quasi eguali, dunque; l’obiettivo polemico è
comune, come comune è la prospettiva filosofica: contro l’identità logico-ontologica dell’Essere hegeliano che riduce, di fatto, l’Essere a pensiero e conseguentemente a linguaggio, e per una filosofia che determini
l’Essere non più, appunto, secondo le forme di una identità logica bensì,
come si è visto, secondo le forme di una identità con l’uomo e la natura.
sovrapposizione tra razionalismo astratto e teologia comune/teismo e la sovrapposizione
tra ragione speculativa («concreta») hegeliana e teologia speculativa/panteismo, tradizioni che, prese ognuna di per sé, si danno in un processo di continuità e, al contempo,
di esclusione (la seconda che soppianta la prima ma che ne conserva alcuni tratti salienti); tradizioni che segnano la modernità e le cesure nella modernità.
11
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 326.
12
L. Feuerbach, Princìpi della filosofia dell’avvenire, in Id., La filosofia dell’avvenire, ed. it. a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 91.
122
Fabio Bazzani
Tuttavia, Feuerbach non avrebbe potuto consentire con la riscrittura
marxiana di quanto da lui asserito; si tratta di luoghi, come si diceva,
quasi eguali, ma anche molto diversi. Se leggiamo con attenzione, notiamo che nella formulazione di Marx viene introdotto un termine, unità,
assente in quella feuerbachiana; ed è una tale assenza che definisce una
maggiore coerenza argomentativa ed una maggiore capacità di emancipazione dall’hegelismo, mentre la presenza di quel termine, pressoché
insostenibile sul piano della argomentazione, definisce, invece, l’aderenza ad una tradizione che dialetticamente aspira a negazioni sempre
conciliative di altre determinazioni, anche al costo di entrare in contraddizioni insolubili e in aporie. Ma rigore vorrebbe che si scegliesse una
delle due soluzioni: o l’Essere è altra cosa dal pensare, e dunque è soltanto distinto, oppure è in unità col pensare, e dunque è essere-di-pensiero,
identità hegeliana col pensiero. Non si può, cioè, sostenere la distinzione
e insieme l’unità, poiché ove si sostenga l’unità non può non decadere la
prospettiva umanistica e naturalistica di una filosofia a-venire. Del resto,
su ciò Feuerbach è molto chiaro e mostra una precisa consapevolezza
del problema:
La filosofia hegeliana è rimasta impigliata nella contraddizione tra pensare
ed essere. L’essere con cui incomincia la Fenomenologia, non meno dell’essere
con cui comincia la Logica, si trova nella più stretta contraddizione con l’essere
reale […] Ma io non devo la mia esistenza, mai e poi mai, al pane della lingua o
della logica – al pane in astratto – ma sempre e soltanto a questo pane, al pane di
cui non si può parlare, «l’ineffabile». E l’essere, che ha il suo fondamento in tali
cose perfettamente ineffabili è quindi anch’esso qualcosa di ineffabile.13
E dunque, se l’Essere è «ineffabile», non può darsi in «unità» con il
pensiero, cioè con la parola-concetto del linguaggio.
Si diceva che la riscrittura operata da Marx della formulazione
feuerbachiana rappresenta un luogo decisivo, altamente significativo, del
suo rapporto con la filosofia hegeliana, ma anche del suo rapporto con la
filosofia feuerbachiana stessa: se la coerenza logica viene meno, se viene
meno anche la capacità di fuoriuscire decisamente dall’ambito di una
tradizione la quale, osservata secondo una visuale esterna all’hegelismo,
risulta né più né meno che opinione, nondimeno quella riscrittura costituisce il tentativo di esprimere un’apertura verso forme non ancóra
esperite di pensiero che assumano quel che di vivo c’è in concezioni
ritenute fondamentali, abbandonando al contempo quel che viene ritenuto per morto. In questo senso, ci si appella a Feuerbach contro Hegel,
onde determinare la centralità della concretezza «di carne e di sangue»
13
Ivi, pp. 96-97.
Critica dell’opinione filosofica
123
dell’Essere, la distinzione dal pensiero; e ci si appella a Hegel «correggendo» Feuerbach, per affermare la non riducibilità dell’Essere stesso
ad una globale immanenza nelle cose che lascerebbe inalterate le cose
medesime, la loro potenzialità di evoluzione, e che potrebbe ridursi a
registrazione di una fattualità per la fattualità, sul modello di una ragione astratta, solo negativa, secondo un’idea dimidiata di «positivo», già
contestata a Bauer: è per questo che si afferma l’unità con il pensiero.
Quel che insomma giuoca, ancóra una volta, in Marx, è l’idea, tutta
hegeliana, di Aufhebung, idea che egli mai lascerà cadere e che, ben al di
là della forma, talvolta radicale, di reiezione, sosterrà negli anni la medesima ipotesi di società futura.
Ma se prescindiamo da questo, notiamo come Feuerbach e Marx
comunemente rilevino in Hegel un duplice movimento: da un lato, si
assiste al rovesciamento dell’esistenza e dell’esperienza in quel che Hegel
chiama Geist, l’Essere in identità con il pensare; dall’altro lato, e contemporaneamente, si assiste al rovesciarsi del Geist nell’esistenza e nell’esperienza, con il manifestarsi spirituale nell’ente esistente, con il ripetersi nell’apparire dell’Essere. Questo duplice movimento, tipico della
dialettica hegeliana, viene presentato da Marx in termini di realtà esistenziale concreta non in termini di astrazione concettuale. In altre parole: per Marx, la dialettica hegeliana è teoria del movimento reale non
teoria del movimento astratto, cioè è espressione della concezione
hegeliana della realtà. Da questa impostazione discendono considerazioni di rilievo che culminano, anche sotto un tal riguardo, nella critica
dell’opinione filosofica e, con lessico marxiano, appunto nella critica
dell’ideologia. Quelle considerazioni si svolgono, a loro volta, su un duplice livello: il primo inerisce, ancóra, alla polemica nei confronti della
sinistra hegeliana; il secondo è la specificazione, in termini antiideologici,
conformemente ad un percorso di approssimazione al vero, dell’apprezzamento verso Feuerbach.
Sul primo livello: i giovani hegeliani mostrano «ignoranza» nei riguardi delle «filosofia hegeliana in genere» e nei riguardi della «dialettica
hegeliana in specie»;14 ma una tale ignoranza non è indicativa di una
posizione autonoma da quella del maestro, di un disinteresse poiché situati
in altro luogo discorsivo, bensì è «completa inconsapevolezza»,15 e nello
stesso tempo totale subordinazione, anche lessicale, «parola per parola»,16 al maestro. La valutazione di Marx ha una doppia valenza: in senso
molto lato, significa, di nuovo, l’asserzione della centralità della critica
14
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 354.
Ibid.
16
Ivi, p. 355.
15
124
Fabio Bazzani
quale unico strumento di analisi e di giudizio in grado di trar fuori dalla
ideologia grazie all’acquisizione conoscitiva delle strutture concettuali
dell’ideologia in quanto tali (ed in questo senso, Hegel vien fatto rientrare nel quadro dell’opinione filosofica); in senso specifico, significa, invece,
che Marx scorge in Hegel un filosofo della realtà (ed in questo senso, per
alcuni versi, Hegel viene sottratto all’opinione filosofica). Disinteressarsi
di Hegel, ignorarne la concezione, vuol dunque dire disinteressarsi della
realtà, ignorarla, e per tal motivo esserne subordinati (ad esempio, la
critica solo negativa di Bauer), come si è subordinati a tutto ciò di cui
non si è consapevoli. Dialetticamente, si ignora Hegel poiché si ignora la
realtà e si ignora la realtà poiché si ignora Hegel. Del resto, come si è
sottolineato in apertura, Hegel muove proprio dalla certezza sensibile e
definisce il percorso fenomenologico di una spiritualità che in ogni sua
manifestazione è concretezza ed esperienza conoscitiva di una esperienza
esistenziale: appunto, «niente vien saputo, che non sia nell’esperienza».
E dunque, non interessando alla sinistra hegeliana conoscere la realtà neppure le interessa conoscere la concezione hegeliana della realtà, ed
essendo, appunto, la dialettica hegeliana non teoria del movimento astratto bensì teoria del movimento reale, alla sinistra hegeliana non interessando il movimento reale neppure interessa conoscere la dialettica
hegeliana. Per Marx, insomma, concepire la dialettica hegeliana come
teoria del movimento reale significa, pur reiterando le forme dell’opinione, essere in grado di determinare le coordinate per fuoriuscire dall’opinione medesima. Non è cioè lecito disinteressarsi di Hegel, poiché
ciò vuol dire disinteressarsi del reale. Il duplice movimento tipico della
dialettica hegeliana, pur se connotato secondo la prospettiva di una
ribaltamento della relazione ontico/ontologico, è la «forma», ma anche
il dato «realmente sostanziale»17 della realtà, vale a dire il riferimento
iniziale per la definizione di un conoscere vero.
Ben diverso, invece, è l’atteggiamento di Feuerbach (ed affrontiamo, così, il secondo livello della riflessione di Marx), apprezzato anche
perché si trova «in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana»,18
il che, richiamando quanto sopra osservato, denota la sua non astrazione
dal reale, proprio per il fatto che ha un rapporto critico con un pensatore
del reale, con una dialettica che è appunto concezione non del movimento astratto bensì del movimento reale. Feuerbach, dunque, movendo da Hegel, è in grado di superare quell’opinione filosofica di cui nondimeno fa parte Hegel medesimo.19 Ma è l’idea di un sapere che sempre
17
Ivi, p. 354.
Ivi, p. 356.
19
Sono note le posizioni feuerbachiane al proposito: Hegel è pensatore che continua a restare nel quadro dell’opinione, senza poter pervenire a verità, dal momento che
18
Critica dell’opinione filosofica
125
e comunque è sapere dell’esperienza l’approdo hegeliano da cui un pensatore «serio» e «critico», cioè un pensatore della realtà, come è Feuerbach, non può prescindere. A muovere da questa base, Feuerbach sa
rompere con la critica solo negativa ed astratta della sinistra hegeliana e
fondare «il vero materialismo» ed il sapere che al vero materialismo è
connesso, cioè «la scienza reale».20 Il concetto hegeliano di esperienza
subisce così una trasformazione, un ribaltamento nei termini del rapporto ontico/ontologico, pur mantenendo intatta l’ispirazione originaria e
generale di un suo legame inscindibile con il sapere (un sapere sempre
dell’esperienza). «Vero materialismo», nella lettura che Marx fornisce di
Feuerbach, significa scorgere negli uomini e nella natura il principio della
realtà, e la «scienza reale» è quel conseguente sapere antropologico e
fisiologico che definisce la fuoriuscita dall’opinione filosofica, dall’ideologia. Il sapere esperienziale di Hegel o, potremmo dire, dell’idealismo
in sé e per sé, è opinione, ideologia, proprio perché, pur segnalando
un’esigenza iniziale di verità, connette una tale esigenza non a un dato
antropologico e fisiologico bensì a un dato che dell’antropologico e del
fisiologico fa proiezione di una realtà ancor più fondamentale: è ideologia, opinione, insomma, il fatto che l’esperienza venga sancita relativamente ad un luogo di per sé non esperibile ma soltanto asseribile a presupposto indimostrato. L’Essere, così come lo tratteggia Hegel, è quel
presupposto; gli uomini e la natura ne sono gli epifenomeni. Ne consegue, appunto, che Hegel si situa nell’opinione e che la sua esigenza di
verità si riscontra soltanto nella mossa iniziale del processo conoscitivo,
in quel sapere certo, diretto, opinato, di cui tutti gli uomini compiono
esperienza.
Attenersi a quel sapere, dunque? Affermare al pari di Stirner – e
qualche decennio dopo, al pari di Nietzsche – che solo quel sapere è
vero, proprio perché opinione, Meinung, poiché solo quel che è mio
(mein) è certo, vero, dal momento che solo di quel che è mio, di quel che
mi appartiene, ho reale possibilità di verifica?21 Non è questa, come abopera un’inversione tra ontico ed ontologico, determinando, in tal modo una forma di
pensiero che ha dimensione «teologica», cioè, in questo ambito, andamento ipostatizzante
l’ontico e consequenzialmente riducente a semplice apparire l’ontologico in quanto tale.
20
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 356.
21
Come è chiaro, l’ambito in cui si svolgono simili considerazioni risulta direttamente relativistico, costruito sul rifiuto di un’idea di verità che abbia dimensione eterna,
universale e fondativa. Sostiene dunque Stirner che la Meinung è l’unica verità poiché
vero è soltanto ciò che è mio, e soltanto la Meinung può esser mia; nessun’altra verità può
appartenermi se non la mia opinione (mein e Meinung), l’unica verità che per me possa
valere, in quanto mia, l’unica verità che possa dissolvere l’«idea fissa», il «fantasma», lo
«spettro» della verità universale, che, in quanto universale, mi sovrasta e mi annichilisce.
Con Stirner e poi, appunto, come si ricordava nel testo, con Nietzsche, la dóxa di Plato-
126
Fabio Bazzani
biamo visto, la risposta che fornisce Marx e, del resto, questa può esser
risposta che vale solo per un qualcuno che riduca la verità a lingua nazionale (Heidegger, nel Novecento, ha costruito un’intera filosofia giuocando con i termini della lingua tedesca … e greca!): il sapere come opinione, come Meinung (mein/meinen), è proprio l’ideologia contro cui Hegel
stesso combatte ma dalla quale neppure egli sa liberarsi: la verità del
Geist da lui asserita è a sua volta opinione, sua opinione, suo sapere (sarebbe divertente vedere cosa un amante di giuochi linguistici saprebbe
inventarsi declinando l’opinione, la mein-ung, dal mio al suo … come
verità), in quanto anch’egli asserisce un qualcosa senza dimostrazione, a
muovere, potremmo dire, da una personale presupposizione di verità.
Ma per quale motivo gli uomini e la natura, «il positivo riposante su se
stesso e su se stesso positivamente fondato» 22, gli esiti ed i presupposti
della filosofia feuerbachiana, non potrebbero essere a loro volta una personale presupposizione di verità, una Meinung materialistica?
Marx fornisce di Feuerbach una lettura corretta, ma superficiale, di
corto respiro, cioè costruisce la propria filosofia, la propria critica dell’opinione filosofica, a muovere dai risultati della riflessione che
Feuerbach svolge sulla teoresi di Hegel, senza, tuttavia, la grande interrogazione di fondo che anima tanto la riflessione di Feuerbach quanto la
teoresi di Hegel, ovvero senza una domanda radicale sul senso, sul significato profondo dell’esperienza del sapere e sul sapere l’esperienza, senza, in altri termini, una domanda sul significato dell’esistenza, quella
domanda che spinge Hegel e che, in ambito hegeliano, spinge Feuerbach,
ad interrogarsi sulla struttura stessa della realtà, su cosa sia la realtà, su
cosa, cioè, sia l’Essere e sotto quale riguardo sia lecita e praticabile una
domanda sull’Essere stesso. Marx muove dagli uomini e dalla natura,
dal rovesciamento feuerbachiano dell’hegelismo in merito ai connotati
ontologici del reale ed afferma, senza dubbio alcuno, che quel rovesciane e la Meinung di Hegel vengono ad assumere valenze totalmente opposte a quelle loro
attribuite da Platone e Hegel medesimi, che sempre vi associano un giudizio di disvalore
(quel che deve essere superato onde pervenire alla verità), ma che appunto anche vi
scorgono il luogo da cui scaturisce il «bisogno filosofico». Dóxa e Meinung rappresentano, infatti, il luogo di svolgimento dell’esistenza e dell’esperienza dell’uomo. In questo
senso, vi è una linea comune di valutazione, una linea che sta oltre le contrapposte tradizioni del pensiero e che si esprime nell’esigenza del vero, della verità, non certo, però,
della mia verità. La dóxa deve essere radicalmente riconsiderata, ma non per attenersi ad
essa, bensì in quanto scaturigine di ogni pensamento e teoresi. La concretezza esistenziale dell’Esserci qui ed ora non può esser dimenticata proprio al fine di esser superata,
tuttavia non superata secondo la direzione della tradizione metafisica, la quale non fornisce un vero superamento bensì solo una giustapposizione astratta all’Esserci qui ed ora,
una verità che si pone come altra cosa rispetto alla dóxa, come mai toccata dalla dóxa.
22
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., p. 356.
Critica dell’opinione filosofica
127
mento dia la nozione esatta del reale in quanto tale, della struttura
ontologica del reale. Il positivo che riposa su se stesso e che positivamente si fonda su se stesso costituisce la formula che esprime il vero Essere,
cioè la verità, il sapere che ha fatto piazza pulita dell’opinione e dell’ideologia. È a muovere da qui, cioè a muovere dall’accoglimento degli
esiti a cui la riflessione di Feuerbach perviene, che Marx delinea la propria concezione del sapere vero, non ideologico, una concezione che,
bisogna pur dire, nel suo nucleo filosofico più autentico non si distanzia
da quella di Feuerbach, neppure dopo l’incontro con l’economia politica, tuttavia sicuramente più stagliata che in Feuerbach su un’idea di futuro, sull’idea forte di un avvenire a cui si giunge, da un lato, sulla scorta
della critica, costante e puntuale, della filosofia di Hegel, ma sempre,
come si è sottolineato, nel quadro di una filosofia della storia decisamente hegeliana, necessitata nei suoi momenti di successione. Le pagine finali
dei Manoscritti sono, in tal senso, illuminanti e degne di uno sforzo analitico. Seguiamone le argomentazioni, prendendo le mosse dall’espressione
sopra esaminata, dopo averla inquadrata nel suo contesto argomentativo:
Il contributo grande di Feuerbach è […] l’aver contrapposto alla negazione della negazione – che afferma di esser l’assoluto positivo – il positivo riposante
su se stesso e su se stesso positivamente fondato.23
Si rileva un’asserzione di verità come sapere dell’immediato, ciò in
linea con gli esiti della filosofia di Feuerbach (pur senza la generale tonalità di interrogazione di senso, come si è osservato) ed in posizione antagonistica, perlomeno su questo versante, con la negazione conservatrice,
motore della dialettica hegeliana (e confinamento, ribadiamo, della concezione di Hegel nel quadro del nichilismo moderno). Com’è noto, per
Hegel ogni determinazione del reale è mediata; ciascuna determinazione
della realtà è, con parole diverse, il risultato della negazione di determinazioni. Marx, quando si rivolge alla determinazione del fondamento,
contrappone a Hegel l’idea di un positivo che riposa su se stesso e che
fonda se stesso, cioè l’idea feuerbachiana che la realtà è costituita da
determinazioni immediate, appunto la natura e l’uomo, il «sensibile-certo».24 Il definire il fondamento in termini di immediatezza, e quindi di
espunzione della negazione della negazione, non è tuttavia privo di difficoltà in Marx; gli esiti feuerbachiani, che sono il momento di partenza
della filosofia marxiana, entrano in conflitto con lo svolgimento di questa stessa filosofia, costantemente sorretta, come si è osservato, dal richiamo alla dialettica di Hegel. E di fatto, si deve notare come Marx
23
24
Ibid.
Ibid.
128
Fabio Bazzani
mostri una ambivalenza, un qualche imbarazzo, nel sostenere il «sensibile-certo» di Feuerbach che, nel luogo in esame, viene eminentemente
utilizzato contro Hegel. Marx non può accogliere in tutta la sua portata
teorica il «sensibile-certo», dal momento che ciò comporterebbe il venir
meno dell’intero impianto dialettico della sua concezione. Ne limita, dunque, l’applicazione ad una funzione polemica e fondativa, o per meglio
dire, in funzione fondativa antihegeliana e polemica tanto nei riguardi di
Hegel quanto nei riguardi di Feuerbach medesimo. Qui l’argomentazione
appare intrecciata, appunto ambivalente e, come si diceva, «imbarazzata».
Per tentare di scioglierne i nodi, ripercorriamone brevemente l’andamento.
Il «sensibile-certo» di Feuerbach espunge dalla realtà quella negazione della negazione che al contrario un pensatore dialettico, un
pensatore della realtà come Hegel, sa scorgervi. Vi è un limite che accomuna Feuerbach ed Hegel, un limite, lo potremmo definire, di unilateralità: l’uno guarda alla negazione della negazione come a semplice legge
del pensiero, l’altro, invece, come ad esclusiva legge del reale (un reale
che, comunque, tanto per Feuerbach quanto per Marx, è, nella lettura
hegeliana, struttura logica). Ancóra: Marx introduce un elemento ulteriore rispetto a Feuerbach nella sua critica a Hegel: l’accentuata equivalenza tra il concetto di negazione della negazione ed il concetto di contraddizione – la dialettica si muove per contraddizioni – e, da qui, tra il
concetto di contraddizione ed il concetto di storia (concetto che
Feuerbach non contempla). In ultima analisi, Feuerbach viene accomunato (sia pure implicitamente e debolmente) a Hegel proprio per la imputata mancanza di una lettura storica della situazione degli enti. Con
parole diverse: come Hegel non ha percezione dell’immediato e definisce la realtà nei termini mediati della negazione della negazione,25 così
Feuerbach non ha percezione del fatto che la negazione della negazione
non riguarda solamente il pensiero ma anche il reale; nella realtà non ci
sono solo determinazioni immediate (uomini e natura), sembra suggerire Marx, ma anche determinazioni mediate. Se, dunque, Feuerbach ha
ragione, contro Hegel, ad eliminare la negazione della negazione dal fondamento della realtà, non altrettanta ragione ha nell’eliminare la negazione della negazione da tutta la realtà, né ha ragione nel limitare quella
forma di negazione al semplice pensiero. La valenza della posizione
feuerbachiana è dunque solo negativa, non sufficiente per la definizione
di una concezione realmente altra rispetto a quella hegeliana. Ancóra: né
Hegel né Feuerbach hanno percezione della storia: il primo, perché con
l’asserire la totale mediazione di ogni determinazione coglie la storia stessa
solo nella sua dimensione astratta, formale, «speculativa», ma non anche
25
Cfr. ivi, p. 357.
Critica dell’opinione filosofica
129
nella sua dimensione reale (la negazione di determinazioni definisce una
contraddizione che nella storia può verificarsi anche in forma diretta,
immediata);26 il secondo perché con il riportare le negazione della negazione al solo pensiero è in grado di scorgere solamente «la contraddizione della filosofia con se stessa, come la filosofia che afferma la teologia
dopo averla negata», ecc.27 (ma la contraddizione non riguarda solo la
filosofia, così come non riguardava, con Hegel, solo la realtà, bensì riguarda piuttosto il rapporto tra filosofia e realtà, quel rapporto che vede
gli uomini protagonisti sia immediatamente, come enti di natura, sia
mediatamente, come soggetti storici).
Vi è comunque da dire, o meglio, da ribadire, come di fatto tanto
Feuerbach quanto Marx accolgano da Hegel non un’idea marginale, accessoria, liminare al sistema filosofico, bensì l’idea centrale stessa di questo sistema, e l’idea centrale che questo sistema rielabora riassumendola
dalla tradizione filosofica della modernità raziocinante: vale a dire, l’idea
di realtà. Feuerbach e Marx guardano alla medesima realtà a cui guardava Hegel e a cui guardava la filosofia moderna da Cartesio in poi, tenute
salve le straordinarie eccezioni di Kant, per certi versi, e di Schopenhauer,
totalmente, e a cui guardava, e tuttora guarda, quell’opinione comune
che talora indossa le vesti della filosofia. La realtà è costituita dal mondo
dell’esperienza, tanto che essa mostri dati di sola mediazione, quanto
dati di sola immediatezza o di relazione tra mediazione ed immediatezza; è fatta di enti, di oggetti e di pensiero sugli enti e sugli oggetti. Ed è
fatta di storia, tanto che questa si configuri come svolgersi delle formazioni dell’uomo, quanto che questa contempli o radicalmente disegni il
protagonismo dei soggetti storici. La realtà, insomma, è fatta di solidità e
di evanescenze, di visibile e di invisibile, di generazione e di corruzione,
in un disegno che, sempre e comunque, prevede un divenire, un continuo ed ininterrotto passaggio di essere e nulla, di nulla ed essere. Certo,
la filosofia, anche se opinione, si distingue dalla mera opinione nella stessa
misura in cui si interroga sul senso, sul significato profondo di una realtà
così intesa; ma il problema resta, ovvero, resta un problema di ricerca e
di determinazione della realtà in quanto tale. In altre parole: pur sussistendo in Hegel e in Feuerbach l’interrogazione radicale, profonda, sul
significato ultimo di questa realtà – una interrogazione che, come si è
osservato, in Marx quasi scompare – nondimeno si mostra non soddisfacente la riflessione sulle strutture della realtà, potremmo dire sulla
nominazione linguistica stessa del reale in sé e per sé. La realtà, in fondo,
è quel che il senso comune dice che sia; la sollecitazione filosofica sca26
27
Cfr. ibid.
Ivi, p. 356.
130
Fabio Bazzani
turente da una domanda di senso ha solo il potere di definirne la
legittimazione ultima, di giustificarne in termini universali, unitari,
oltretemporali, la singolarità, la differenziazione, la temporale evanescenza
proprie dell’apparire esperienziale, esistenziale, ma non ha il potere di
ripensare il concetto, la nozione del reale in sé e per sé. La medesima
inversione dell’ontico/ontologico hegeliano operata da Feuerbach e ribadita da Marx ha la capacità, sì, di avvicinare il reale al dubbio sul reale,
al punto d’avvìo della domanda sul reale, al significato non contraddittorio, di maggiore coerenza, tra livello dell’Essere e livello dell’apparire
di quel reale, ma non ha la capacità di ridefinirlo, capacità che, come si è
accennato, è invece propria di filosofie totalmente dissonanti nell’ambito della modernità e della sua ragione (logico-funzionale o logicoontologica che questa sia). Nelle pagine dei Manoscritti che qui stiamo
esaminando, ma anche, e ancor di più, nella restante produzione
marxiana, si assiste ad uno schema interpretativo tutto sommato semplice, giuocato interamente sul ribaltamento di quel che viene scorto per
ribaltato, sulla inversione della inversione hegeliana tra ontico ed
ontologico. Il che, certo, nel quadro dell’opinione filosofica consente un
ulteriore passo al di fuori dell’opinione, una approssimazione alla critica
e ridefinizione delle strutture e della nominazione del reale, una qualche
consonanza con la radicale dissonanza rispetto al moderno, ma non
consente la fuoriuscita totale dall’opinione in sé o, con le parole di Marx,
dall’ideologia. Conclusivamente, allora, su questi aspetti, soffermiamoci
su quelle pagine dei Manoscritti e limitiamoci a far parlare il testo.
Centrale, in questo quadro, è la posizione della categoria di «alienazione» e certamente originale è la lettura che di essa viene condotta da
Marx, non più circoscritta entro i confini del più tradizionale riferimento
filosofico in senso stretto, e teologico, come era in Hegel e in Feuerbach,
ma ridisegnata sulla base di quel ricordato incontro con l’analisi economico-politica. L’inversione tra ontico ed ontologico conduce Hegel ad una
forma di pensiero ipostatizzato da cui discendono tutte le determinazioni
del «reale»: la natura, l’uomo e le produzioni dell’uomo altro non sono
che «alienazione», estraneazione, apparire fenomenico di quel pensiero.28
Hegel, insomma, non parla di alienazione reale dell’uomo bensì di alienazione del pensiero, non parla, cioè, di quell’alienazione che per Feuerbach significa globale distanza religiosa e teologica dalla verità e che Marx
verifica nella estraneità dell’uomo-lavoratore rispetto ai prodotti della
propria attività e rispetto al modo stesso della produzione:
Ciò che vale come la essenza posta e da sopprimere dell’alienazione non è
che l’ente umano si oggettivi disumanamente in opposizione a se stesso, ma ben28
Ivi, p. 358.
Critica dell’opinione filosofica
131
sì che esso si oggettivi a differenza dell’astratto pensiero e in opposizione all’astratto
pensiero.29
Hegel scorge l’alienazione come movimento del pensiero con se stesso e in se stesso, un pensiero che è «astratto», cioè che ha dimensione
logica, ma che è anche «assoluto», cioè che ha, in pari tempo, dimensione ontologica (si tratta, appunto, di pensiero ipostatizzato) e che si svolge attraverso negazioni di negazioni. L’alienazione è storia di «produzione» di un pensiero siffatto che in se stesso passa, si aliena, in astrazioni e
realtà plurali, in realtà di concetto e in «realtà sensibili», in contraddizioni, di volta in volta, tra «in sé» (contenuto) e «per sé» (forma), vale a dire
tra «coscienza» e «autocoscienza», tra «soggetto» e «oggetto».30 Se per
Hegel il superamento dell’alienazione significa conciliazione, stare insieme, di tali determinazioni contrapposte, sostanzialmente stare insieme
di soggetto e di oggetto, per Marx significa, di fatto, realizzazione di, per
così dire, plurali realtà sensibili proprie di soggetti che sono naturali e
storici. In altre parole: l’uomo sarebbe estraneo al movimento delineato
da Hegel, quando invece quel che interessa è proprio la realizzazione
dell’uomo nel mondo, il condizionamento del mondo (oggetto) da parte
del soggetto naturale e storico (l’uomo, per l’appunto, quel che nella
chiusa del passo ora riportato si esprime come oggettivazione in opposizione al pensiero astratto).
Nondimeno, come a più riprese si è ricordato, Hegel è per Marx un
filosofo della realtà, non un pensatore «critico-critico», e dunque è un
filosofo da cui un pensiero «serio» e «critico» non può prescindere. Ed è
anche un filosofo dell’esperienza che l’uomo compie, pur se vede una
tale esperienza secondo la prospettiva astratta e ribaltata sulla quale ci
siamo soffermati. Ne consegue che pure in questo caso, Marx fa seguire
alla polemica l’apprezzamento, ed è apprezzamento su un punto decisivo, su un aspetto che evidenzia il portato di apertura, di potenzialità
conoscitiva inespressa ma peculiare della teoresi di Hegel (una potenzialità
che si ritrova proprio nelle contraddizioni ed oscurità del suo sistema).
Un simile apprezzamento verte ancora sul tema dell’alienazione ed è introdotto da una notazione incidentale polemica: nella Fenomenologia è
«latente» un «positivismo acritico».31 In questa notazione, interessante
non è tanto l’aggettivo, che rinvia allo stilema giovane-hegeliano di contestazione del giustificazionismo nei confronti del sussistente, quanto il
sostantivo, tramite il quale si sottolinea la presenza dell’empiria nel pensiero hegeliano, una presenza così marcata che, nonostante l’inversione
29
Ivi, p. 359.
Per questo complesso argomentativo, cfr. ibid.
31
Ibid.
30
132
Fabio Bazzani
dovuta alla ipostatizzazione del pensiero, rappresenterebbe il vero contenuto della dialettica dello Spirito. È grazie alla «latente» presenza dell’empiria che il concetto hegeliano di alienazione, pur nella sua astrattezza,
sa guardare al soggetto umano e, dunque, in generale, mostrare una capacità di emancipazione dall’opinione della precedente filosofia e dalle forme solo negative che questa assume nel pensiero giovane-hegeliano:
La «Fenomenologia» è quindi la critica nascosta, ancora non chiara a se
stessa e mistificatrice; ma in quanto tiene ferma l’alienazione umana – sebbene
l’uomo appaia soltanto nella figura dello spirito – si trovano in essa nascosti
tutti gli elementi della critica, e spesso preparati e elaborati in una guisa che
sorpassa di molto il punto di vista hegeliano.32
Nella Fenomenologia, dunque, si parla di alienazione. Tuttavia, «sebbene l’uomo appaia soltanto nella figura della spirito», anche se cioè si
parla di alienazione da un punto di vista puramente categoriale, quella
categoria implicitamente riguarda l’uomo stesso e, come verrà chiarito
nelle righe successive, lo riguarda nella sua attività produttiva, nella sua
«sensibilità» reale, nella sua empiria storica. Poiché allora l’alienazione
è, in quanto implicita declinazione umana, tenuta «ferma», nella Fenomenologia sono rintracciabili le possibilità di una «critica» dell’alienazione
stessa e, in generale, di una critica e di un superamento del sistema hegeliano nel suo insieme. Si noti, ancora una volta, come la possibilità della
negazione del sistema venga fornita dal sistema in quanto tale, dai suoi
momenti di debolezza, cioè dalle contraddizioni che si manifestano quale
inconciliabilità tra contenuto e forma di questo sistema in quanto tale.
E si diceva, nello specifico, che il sistema contiene tutti gli elementi
per intendere concretamente il procedere delle configurazioni storicosociali, vale a dire tutti gli elementi per intendere concretamente il processo di produzione ed il dato alienante che in esso trova verifica. Si
ripete, così, l’apprezzamento di Marx, accompagnato, anche in questo
caso, da una radicale notazione critica: Hegel sa vedere l’alienazione nella sua realtà oggettiva e quindi sa cogliere l’essenza del lavoro; sa inoltre
vedere come l’uomo si autoproduca nel lavoro – l’uomo, nel lavoro, si
aliena ma si realizza, dal momento che, secondo lo schema generale della
concezione hegeliana il momento logico negativo è in pari tempo momento logico positivo.33 Ma vedere questo, o vederlo come lo vede Hegel,
significa saper vedere solo l’aspetto positivo del lavoro, considerando
l’alienazione non come negatività assoluta bensì, appunto, come nega32
Ivi, p. 360.
«Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come
un desoggettivarsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione» (ibid.).
33
Critica dell’opinione filosofica
133
zione positivizzante, come negazione che produce proprio affermazione. Hegel è dunque «unilaterale» e «resta al punto di vista dell’economia politica», cioè dell’opinione, dell’ideologia: il lavoro è l’essenza realizzata dell’uomo, l’uomo si realizza tramite l’alienazione. E al pari dell’economia politica, Hegel prescinde dalle condizioni storiche del lavoro (e
del resto, si è osservato, Marx contesta proprio il fatto che Hegel guardi
non tanto all’uomo come soggetto storico quanto alla storia come svolgersi delle formazioni dell’uomo) e riduce il lavoro a movimento logico,
ad alienazione-negazione logica cui appunto segue necessariamente la
realizzazione come negazione della negazione.34
È evidente che la critica di Marx, su questo punto, ha già oltrepassato di gran lunga lo schema hegeliano ed è costituzione, di per sé, di un
ulteriore punto di vista a cui appare sottesa una nuova visione della verità: non si tratta più di realizzazione attraverso negazione, né, assai più
radicalmente, di produzione; si tratta ora, invece, di autoproduzione
dell’uomo che può determinarsi solo tramite un’attività lavorativa non
alienata la quale, come coevamente si esprime Moses Hess, risulti perfettamente adeguata all’essenza umana, di per sé attività assoluta e che,
dunque, nel proprio apparire non richiede, anzi espunge, determinazioni
alienanti, negative e mediatrici. Il punto di vista di Marx, oltre Hegel, è
così il tentativo di costruire un umanismo positivo che non contempli
più alcuna alienazione, o necessità dell’alienazione. Questo tentativo viene
articolandosi, ancora una volta, attraverso la critica rivolta a Hegel, la
cui riflessione viene ora esaminata sotto il versante del rapporto soggetto-oggetto, ulteriore declinazione di quel ribaltamento tra il livello dell’ontico e il livello dell’ontologico.
Lo specifico dell’argomentazione critica marxiana è il sottoporre ad
analisi la relazione coscienza-oggetto, così come questa si configura in
particolare nel capitolo finale della Fenomenologia dedicato al cosiddetto sapere assoluto:
La cosa principale è che l’oggetto della coscienza non è altro che autocoscienza, o che l’oggetto è soltanto l’autocoscienza oggettivata, l’autocoscienza
come oggetto.35
Per comprendere queste righe, si deve rammentare come in Hegel
l’oggetto sia momento di estraneazione, o di alienazione, del soggetto e,
ancora, come non esista una oggettività originaria, ma appunto solo una
soggettività originaria: l’oggettività, dunque, è sempre derivata dalla soggettività. L’oggetto della coscienza è la coscienza che ha se stessa ad og34
35
Cfr. ivi, p. 361.
Ibid.
134
Fabio Bazzani
getto, e la coscienza che ha sé ad oggetto non può che essere autocoscienza. D’altronde, e dialetticamente, la coscienza nell’assumere se stessa
a proprio oggetto pone, al contempo, l’oggetto di sé, ovvero, ancora una
volta, pone se stessa come oggetto. Sotto questo riguardo, dunque, la
coscienza è autocoscienza e lo è sia sotto un profilo soggettivo che sotto
un profilo oggettivo (ammesso che sia lecito, in tale contesto, parlare di
un profilo oggettivo in sé). L’oggetto altro non è che l’uscir fuori di sé
dell’autocoscienza, alienazione di sé che pure rimane se stessa (su un
piano strettamente ontologico, è il ritrarsi dell’identità dell’Essere in se
stessa, differenziando sé in sé); la posizione dell’uomo è autocoscienza
nel senso soggettivo e oggettivo sopra osservato, ed in questo senso non
può non esser che posizione alienata (il porre se stessa dell’autocoscienza
come oggetto, come oggetto che tuttavia è soggetto poiché è l’autocoscienza stessa). Ma se la posizione dell’uomo è l’autocoscienza alienata,
l’estranearsi della soggettività come oggetto di sé a sé, allora, ed è l’osservazione critica centrale di Marx, Hegel non fornisce strumenti atti a cogliere l’alienazione reale, dal momento che ogni elemento che mostri il carattere dell’alienazione, tra cui l’uomo, altro non è che momento della circolarità di un soggetto che mai perde se stesso bensì che, al contrario,
tutto ingloba, «incorpora»,36 proprio con il ricondurre sé a se stesso. In
altre parole, l’alienazione reale non è tale per intima essenza, poiché per
intima essenza altro non è che soggettività ontologica e, dunque, in quanto
tale, soggettività che a sé riconduce necessariamente ogni cosa e che, di
conseguenza, non può contemplare un dato alienante quale perdita di
sé. L’alienazione, allora, è ciò che come alienazione si presenta, che come
alienazione appare; ovvero, è fenomeno, apparire, appunto, dell’autocoscienza, suo farsi presenza, cioè suo assumere le forme del mondo, del
tempo, dell’uomo, o, in una parola, della pluralità degli enti. E, dunque,
nel suo apparire, nel suo alienarsi fenomenico, l’autocoscienza pone se
stessa come oggetto, come cosa, come «cosalità».37 Ma porre la cosalità
significa, per Marx, non porre la cosa reale, bensì la cosa astratta, cioè la
cosa in genere. Ne consegue che gli oggetti, l’uomo, il mondo, in quanto
posti dal movimento di alienazione della soggettività autocosciente, altro non sono che momenti astratti, generali, non concreti né specificamente determinati.
Come si diceva, il tentativo di Marx è quello di costruire un umanismo
positivo che espunga ogni forma di necessaria alienazione. Ma chiediamoci: può una tale prospettiva risultare praticabile ove ci si muova nel
quadro di una filosofia dell’Essere che determini il piano fenomenico in
36
37
Ivi, p. 362.
Cfr. ibid. e ivi, p. 363.
Critica dell’opinione filosofica
135
situazione di effettiva esternità rispetto al piano essenziale in sé e per sé,
ovvero in una filosofia dell’Essere che ponga l’identità dell’Essere e la
differenza del suo apparire non in situazione di intimo ritrarsi dell’Essere
in sé quale differenziarsi di sé in sé? Ove si reiteri la difficoltà hegeliana
dello scarto tra essenza e fenomeno, non è forse necessaria una alienazione
dell’essenza in quanto tale, proprio ai fini della legittimazione degli oggetti,
degli uomini e del mondo, o, in generale, dell’esistenza e dell’esperienza
in quanto tali? Ma anche a prescindere da queste considerazioni che
portano ben oltre Marx e che sotto molti riguardi richiamano ulteriormente filosofie esterne all’universo discorsivo hegeliano, ed attenendoci strettamente al merito del tentativo marxiano di costruzione di un umanismo
positivo privo di alienazione, si notano, mi sembra, alcune debolezze,
alcune, per così dire, asserzioni dogmatiche. Sotto un tale riguardo possiamo infatti osservare che alla negazione di ogni necessaria alienazione si
può pervenire delegittimando non solo l’idea di una originaria soggettività
ma anche quella di una originaria oggettività. Se sul primo aspetto Marx
è, come si è ampiamente visto, estremamente chiaro e coerente, sul secondo è assai meno esplicito, anche se mai cade nell’opinione, nell’ideologia,
di quel che in altra sede definisce «materialismo volgare». Se, con parole
diverse, Marx elimina univocamente e recisamente una alienazione che
va dal soggetto all’oggetto, non altrettanto univoco è nell’eliminare una
alienazione che va dall’oggetto al soggetto, pur correggendo questo aspetto, «volgarmente» materialistico, tramite l’adozione di strumenti dialettici
che da Hegel medesimo attinge. La sua concezione della cosalità – cioè
la critica alla cosalità in sé e per sé, cioè alla cosa in astratto – è la compresenza dell’uomo e dei suoi oggetti, della loro reciprocità: l’uomo pone
gli oggetti in quanto e nella misura in cui è posto da essi. Egli non esce da
sé per creare i suoi oggetti dal momento che la sua attività è l’attività
propria di un ente oggettivo.38 Marx chiama questa concezione «compiuto
materialismo o umanismo», abbracciando in una sola espressione, attraverso due termini che dà per equivalenti («naturalismo» e «umanismo»),
quella dialettica tra profilo soggettivo e profilo oggettivo del movimento
autoalienantesi dell’autocoscienza hegeliana. E questa concezione, ancora
una volta secondo lo schema hegeliano, la potremmo definire negazione
che conserva, negazione della negazione, poiché, come esplicitamente
afferma Marx, «si distingue tanto dall’idealismo che dal materialismo»
ed è «ad un tempo la verità che li congiunge».39
Il «compiuto naturalismo o umanismo» è tesi positiva nella stessa
misura in cui è tesi critica: è tesi positiva grazie al filtro feuerbachiano
38
39
Cfr. ivi, p. 364.
Ibid.
136
Fabio Bazzani
che ne consente la formulazione stessa (l’uomo è ente naturale ed è ente
generico, è ente attivo ed è ente passivo, è soggetto naturale ed è soggetto storico, nel senso che «la storia è la vera storia naturale dell’uomo»),40
ed è tesi positiva anche grazie alla matrice hegeliana che ne consente la
dimensione di negazione conservatrice; ma è al contempo tesi critica che
sottende ancora una volta l’esigenza di una affermazione, di una «riappropriazione», dell’uomo priva di alienazione, ovvero in polemica con
l’idea di riappropriazione hegeliana la quale, nel quadro di una soggettività autocosciente, altro non sarebbe che conferma dell’alienazione stessa
in tutte le sue forme, determinate e rese insuperabili nel movimento
dialettico in quanto tale, chiuso nella propria circolarità autoreferenziale
(il circolo dell’autocoscienza che nel suo essere-altro-da-sé è sé e pressodi-sé).
Si permane, dunque, tanto in positivo quanto in negativo, nel centro del pensiero di Hegel, in quel cerchio stregato della teologia – così
Stirner chiamava la filosofia di Hegel, nonché quella di Feuerbach – che
di volta in volta fornisce gli strumenti stessi della critica e della proposta.
E pure in questo caso, la tesi positiva/negativa di Marx si disloca secondo categorie che appunto avevano trovato pieno sviluppo nella teoresi
del maestro: la critica dell’alienazione perviene alla critica della riappropriazione tramite alienazione, nondimeno, e simultaneamente, perviene
alla determinazione della categoria della riappropriazione in quanto tale
ed all’apprezzamento, anche sotto questo profilo, del pensiero di Hegel.
Possiamo ricostruire l’argomentazione di Marx nel modo seguente: se è
vero che Hegel rimane nell’ambito dell’alienazione, è altrettanto vero
che parla esplicitamente di riappropriazione, cioè sa formulare un concetto di riappropriazione quale soppressione dell’alienazione medesima.
Insomma, a Hegl non manca un concetto di riappropriazione e non manca
un concetto di alienazione negativa; tuttavia si attesta all’ambito dell’alienazione dal momento che con riappropriazione intende un qualcosa che
caratterizza positivamente l’alienazione in sé e per sé; Hegel fa i conti
con il reale e con l’oggettività, ma questo reale e questa oggettività sono
la cosalità, cioè l’estranearsi dell’autocoscienza che non può uscire da sé
ma sempre e solo muoversi dialetticamente in sé.
È comunque sulla base di questa critica e di questo riconoscimento
e, come si è visto, a muovere dagli esiti della riflessione feuerbachiana,
che Marx appunto tenta di determinare il proprio umanismo positivo,
sulla base e nell’ambito, dunque, di un hegelismo più marcato che in
Feuerbach – perlomeno sotto il profilo del metodo seguito, che continua a rimanere dialettico, e sotto il profilo dell’interesse specifico nei
40
Ivi, p. 366.
Critica dell’opinione filosofica
137
confronti della teoresi maggiore di riferimento, nei confronti, cioè, della
impostazione hegeliana, riguardo alla quale Feuerbach si mostra più indipendente, meno attento e meno rispettoso delle articolazioni e definizioni che la specificano e che la rendono caratteristica. Si diceva che lo
schema seguito da Marx risulta, tutto sommato, semplice, giuocato intorno al tema del rovesciamento di ciò che sarebbe rovesciato. Il suo
umanismo positivo, quell’umanismo «procedente positivamente da se
stesso», è chiara esemplificazione di ciò, ed è momento di rilievo poiché
momento conclusivo dell’intera sua riflessione, esito di un percorso che
si vuole oramai emancipato dall’opinione filosofica, dalla falsa coscienza, dalla ideologia ed asserente, al contrario, il vero dell’esperienza e
dell’esistenza o l’esperienza ed esistenza in quanto vero. L’umanismo che
procede positivamente da se stesso rovescia i termini della logica hegeliana
in un punto nodale, nella connotazione della vita umana stessa e nel suo
farsi esistenza ed esperienza; se in un quadro di autocoscienza autoalienantesi la vita umana è di per sé vita alienata, «auto-oggettivarsi», «autoespropriazione»,41 ovvero riduzione a movimento astratto, con l’umanismo che pone se stesso essa si trasforma in posizione diretta e fondante
ogni soggettività ed oggettività «concreta», «reale».
Per una nuova filosofia?
L’umanismo positivo, dunque, è ciò che supera tanto l’idealismo
quanto il materialismo ed è, al contempo, «la verità che li congiunge».
L’umanismo positivo, cioè, reitera e riscrive l’hegeliano «niente vien saputo, che non sia nell’esperienza» superando, da un lato, il mero registrarsi dell’esistenza e dell’esperienza a dato esclusivo di giustificazione
di ogni vero, e superando, dall’altro lato, la posizione dell’esperienza in
un dato di giustificazione a prescindere da esistenza e da esperienza
medesime, dato che le riduce nel quadro di una eterna alienazione. Con
l’umanismo positivo si definisce, così, la verità oltre l’opinione di Hegel
e della filosofia moderna e oltre l’opinione del senso comune, ma anche
oltre l’opinione di Feuerbach nonostante che in questa definizione di
verità entrino in giuoco tanto gli strumenti teorici offerti da Hegel, quanto
quelli offerti da Feuerbach, quanto la «percezione» di realtà che è propria del senso comune stesso. Ma se Feuerbach è tanto decisivo nella
definizione marxiana di un umanismo positivo, cosa significa andare oltre Feuerbach? Significa, soprattutto, andare oltre la filosofia feuerbachiana dell’avvenire, legandosi ad un preciso disegno di società futura,
ad un’idea determinata di organizzazione del vivere umano.
41
Ivi, p. 371.
138
Fabio Bazzani
Nei Manoscritti tutto questo si trova congiunto, come si è accennato, alla critica nei confronti della cosiddetta economia politica, ad una
critica che non comporta solo un primo esito socialistico o comunitario,
bensì anche, e fondamentalmente, un primo esito metafisico, o meglio,
ontologico che di per sé giustifica l’ipotesi medesima della futura società
o comunità. Ciò avviene nell’ambito di una discussione inerente al lavoro alienato e alla merce, nel quadro di una riflessione che sembra mille
anni lontana da questioni metafisiche, ma che si sviluppa proprio, ed
ancora una volta, grazie alle indicazioni tratte da Hegel e da Feuerbach.
Hegel e Feuerbach, insomma, insieme alla critica dell’economia politica,
consentono a Marx di definire una concezione di verità che, legandosi al
modello sociale da costruire, indicano in un unico modo possibile l’oltrepassamento ultimo dell’opinione: la traduzione pratica del vero in
quanto tale. È solo su questo sfondo che si comprende la critica dell’economia politica nella sua congiunzione con la critica della filosofia e con
la proposta di una nuova filosofia, su uno sfondo che ha appunto forti
tratti metafisici, ontologici, e che si articola, anch’esso, tanto negativamente quanto positivamente. Vi è, in Marx, una ontologia negativa che
affianca quella positiva, umano-naturale, attinta da Feuerbach. Potremmo dire che questa ontologia negativa rappresenta la punta estrema della
critica marxiana nei confronti dell’opinione, il penetrare della critica negli
interstizi più segreti del vivere quotidiano degli individui. Quella che
chiamo ontologia negativa in Marx è sempre e soltanto funzionale alla
posizione del suo umanismo-naturalismo, è, come in Hegel, l’affezione
nichilistica della posizione dell’Essere e della verità, è l’opinione, l’ideologia, la falsa coscienza senza la quale, tuttavia, non sarebbe possibile
alcun superamento del presente o tensione tra il presente e la verità (o
tra produzione e autoproduzione). L’ontologia negativa in Marx risulta
essenziale alla sua ontologia positiva, nello stesso modo in cui il Nulla
risulta essenziale a Hegel per l’asserzione dell’Essere; è il potenziamento
e al contempo la semplificazione/contrazione della dialettica come contraddizione, come radicale polarità dei termini in opposizione, come
subordinazione dell’uno all’altro e soccombere dell’uno di fronte all’altro; è il negativo che si mostra per condizione imprescindibile del positivo, è un Essere che è Nulla, ed è un Nulla che in realtà è Qualcosa, cioè
Essere in potenza. La categoria centrale di una tale ontologia negativa
che anche, sul piano fenomenico, si articola e si declina, appunto, come
critica dell’opinione, è quella di merce, di questa maschera della verità
che permanentemente regola, condiziona e giustifica ogni relazione tra
gli uomini. Marx attribuisce alla merce connotati di permanenza; la merce, cioè, si dà per categoria eterna, che in sé è nulla ma che pur nel suo
esser nulla condiziona le esistenze umane, e che ha il proprio simbolo –
potremmo dire «concreto/astratto» – in una ulteriore determinazione
Critica dell’opinione filosofica
139
nullificante, nel denaro, anch’esso nulla, o nulla di nulla, ma altrettanto
condizionante le esistenze individuali e collettive. Ma seguiamo il testo.
Marx muove dal presupposto di una perdita da parte dell’individuo
dei propri connotati essenziali, di una perdita, cioè, dell’umanità dell’uomo (il negativo della merce rappresenta una tale perdita e in pari
tempo segna il percorso necessario verso il positivo dell’umanità futura);
il presupposto, con parole diverse, è dunque quello dell’alienazione dell’uomo in determinazioni altre da lui – e qui l’impianto ontologico è
feuerbachiano. Un simile alienarsi dell’umanità è funzionale all’accrescimento di valore proprio di queste determinazioni altre – e qui, pur ripetendo lo schema feuerbachiano dell’alienazione religiosa che, a sua volta, reinterpretava lo schema hegeliano della necessaria alienazione spirituale, siamo già oltre Feuerbach. Leggiamo:
L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Essa esprime il processo materiale della proprietà privata, il processo da
questa compiuto in realtà, in formule generali, astratte, che essa poi fa valere
come leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non mostra come esse risultino dall’essenza della proprietà privata.42
L’economia politica, in altre parole, dà come presupposto permanente, eterno, la sussistenza della proprietà privata («non ce la spiega») e
la riduce a «formule», a «leggi» generali, universali, di per sé senza tempo, senza connotazione epocale ed economico-sociale. Ma queste leggi,
annota Marx, non sono universali bensì vengono «astratte» dall’«essenza»
stessa della proprietà privata, vale a dire da quel suo esser forma e processo di disumanizzazione dell’individuo finalizzato all’accrescimento di
valore di quel che sta oltre l’individuo, di quello in cui l’individuo stesso
si perde. Questa essenza della proprietà privata, questa determinazione
disumanante è, appunto, la merce. Tuttavia, affermare quel che afferma
Marx significa forse spiegare qualcosa o più semplicemente invertire i
termini della questione, riportando ad effettiva e corretta dimensione
storica fenomeni determinati ma al contempo lasciando inalterato il piano ontologico su cui tali fenomeni si stagliano, pur rovesciandone la valenza? Del resto, non sembra marginale, né poco significativo in questo
ambito, continuare a parlare di «essenza»; con quel termine, e in simile
contesto, infatti, altro non si fa che ribadire la già a più riprese evidenziata
inversione tra ontico ed ontologico per altri riguardi imputata a Hegel
(quella ontologia negativa di cui si parlava). Con l’attribuire dimensione
fondativa (in accezione negativa) alla merce, in pari tempo (ed è procedimento del tutto hegeliano) si attribuiscono caratteri mercificati agli enti
42
Ivi, pp. 296-297.
140
Fabio Bazzani
nei quali il fondamento si manifesta (l’Essere, nella sua presenza, non
può che ripetere i tratti che gli son propri). Si può così asserire che il
mondo, nel suo insieme, risulta mercificato. Quando poco oltre Marx
scrive che «noi partiamo da un fatto dell’economia politica, da un fatto
attuale»,43 vuol proprio indicare questo: il fatto «attuale» è ciò che è in
atto, e in atto è la mercificazione, la sostantificazione a fondamento di
ciò che invece è solo un prodotto storico-sociale, legato al tempo e alla
contingenza degli eventi. Quindi, in questo ambito, la critica si appunta
sul rovesciamento e tende a stabilire la «verità» quale ristabilirsi in forma diretta del rapporto: critica dell’opinione è critica dell’economia politica che rovescia la relazione tra merce e uomo facendo della prima il
sostantivo permanente e del secondo l’attributo contingente (la «merce
umana», la «merce auto-cosciente e automatica»).44 E dunque, molto
feuerbachianamente, il soggetto che si fa predicato ed il predicato che si
dà come soggetto, sì da ribadire che come Dio è prodotto storico altrettanto lo è la merce e che il vero soggetto non storico, o perlomeno, non
riducibile alle forme della storia, è, tanto nell’un caso quanto nell’altro,
l’uomo. Quel che nondimeno continua a rimanere poco convincente,
tanto in Feuerbach quanto in Marx – e per riprendere una critica che
Stirner rivolge al Dio di Feuerbach e che può ripetersi per la Merce di
Marx – è che in quella critica della inversione tra l’ontico e l’ontologico,
tra il soggetto e il predicato, non si riesce a pensare senza quel che si
nomina per «predicato»: Dio e Merce sono prodotti storici, si afferma,
tuttavia si riesce forse a pensare ad un qualche tempo, ad una qualche
configurazione storica e sociale, senza Dio e senza Merce? E non è forse
anche vero che la società del futuro è una società che traduce in prassi i
conti teoretici che si son fatti con Dio e Merce?
Ma per tentare di giungere ad una conclusione che sappia contemplare un’idea finalmente chiara e del tutto originale in Marx, in grado di
indicare una prospettiva ermeneutica libera dalle oscillazioni osservate,
(in grado, cioè, di definire alcuni punti di un effettivo superamento
dell’hegelismo e quindi di definire momenti di incontro con quella tradizione non hegeliana che, come si accennava, sa porre il problema del
vero in una posizione di reale alterità rispetto all’opinione filosofica e
comune ma al contempo di maggiore aderenza all’esperienza che nell’esistenza viene compiuta), soffermiamoci ancora su alcune pagine dei
Manoscritti, riprendendo alcuni dei temi sin qui toccati. E muoviamo,
ancora, da quella critica dell’economia politica che, come si osservava, si
interseca e talvolta si confonde con la critica dell’opinione filosofica, e in
43
44
Ivi, p. 298.
Ivi, p. 311.
Critica dell’opinione filosofica
141
specie sotto il profilo della relazione, capovolta, tra ontico ed ontologico.
Una tal critica si orienta come ricerca di realtà, cioè come tensione tra il
qui ed ora e la verità. Proviamo a leggere il seguente passo, spogliandolo
dalle molte determinazioni e dall’ipertrofico lessico attinto dall’economia politica (e che ne depotenziano la dimensione più direttamente e
significativamente teoretica). Libero da tali determinazioni e da tale lessico, in questo passo, oltre ad alcune debolezze, si possono rilevare indicazioni centrali per la definizione di un modello filosofico nuovo incentrato su una nozione di verità essenziale emancipata dall’opinione:
La proprietà privata ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto
è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale,
o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo,
abitato ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte
queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzi di vita, la vita,
cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata, lavoro e capitalizzazione.45
Iniziamo dalle debolezze, non per la maggiore facilità dell’obiettivo
da colpire, ma perché proprio dalle debolezze di questo argomentare
scaturisce un punto di forza che fa dimenticare le debolezze medesime e
che sembra in qualche misura reiterare quel destino che è proprio
dell’hegelismo intero, ad iniziare da Hegel stesso: si è fecondi e realmente innovativi rispetto alla tradizione filosofica coeva e precedente laddove
si è contraddittori, o meglio, laddove il sistema entra in contraddizione
con se stesso poiché quel sistema non può, per sua interiore dinamica e
natura, ignorare proprio quel che alla fine lo pone in crisi aprendolo
all’oltre-da-sé. Le debolezze nel passo son relative a considerazioni solo
polemiche. Tra queste, una considerazione solo polemica è l’attribuzione univoca di responsabilità alla «proprietà privata» per il nostro pensare in termini di opinione. Se è vero che un oggetto non è «nostro» solo
quando lo abbiamo ma è «nostro» soprattutto quando lo cogliamo come
oggetto e nel coglierlo di fatto lo costituiamo come oggetto in quanto
tale, come, appunto, «nostro oggetto», è altrettanto vero che la «ottusità» ed «unilateralità» nel non cogliere l’oggetto per-noi conosciuto ma
solo l’oggetto da-noi posseduto ha una radice in quel che Schopenhauer
chiamerebbe «realismo ingenuo» e che situa l’oggetto sempre e comunque prima del soggetto, un oggetto a cui dunque il soggetto può rapportarsi solo in posizione subordinata, sempre «dopo», e dunque «possedere» conoscitivamente sempre dopo. Vi è di fatto un possesso solo di un
qualcosa che preesiste, e ciò tanto sul piano delle pratiche materiali quanto
sul piano della conoscenza; ove invece il soggetto sia scorto di per sé
45
Ivi, p. 327.
142
Fabio Bazzani
quale momento imprescindibilmente correlato alla definizione medesima di un oggetto di per sé, decade anche l’idea di possesso dal momento
che viene meno la esigenza stessa di un possesso onde pensare l’oggetto,
proprio perché non si dà preesistenza di alcuna realtà rispetto alla possibilità di conoscenza da parte del soggetto. Nel realismo ingenuo vi è
quella responsabilità del pensare in termini di opinione di cui parla Marx,
vi è quella ottusità ed unilateralità, appunto per l’esigenza conoscitiva
che del realismo ingenuo è propria, ovvero l’esigenza che implica il possesso, ma non vi è l’esigenza della proprietà privata, che certo non equivale
a possesso e che è soltanto, eventualmente, consequenziale pratica materiale di una concezione complessiva del mondo che sa pensare solo in
termini di possesso e della quale il realismo è parte sicuramente non
marginale. Ovvero, quel che è una implicazione, nel luogo di Marx riportato diviene una sorta di soggetto assoluto, una sorta di causa generale di
ogni errore e distanza dal vero reale. Tuttavia, proprio qui, proprio in
questa ipertrofia sociologistica ed economicistica, proprio in questa incongrua equiparazione tra proprietà privata e possesso nonché tra proprietà
privata ed opinione (e verrebbe da dire, tra proprietà privata ed errore
teoretico, su di un versante, e tra proprietà privata e male morale, su di
un altro), si mostra un aspetto di grande interesse: si parla di vita, si
opera un confronto tra quelle determinazioni e la vita, alla quale queste
medesime vengono commisurate. Come in Hegel, lo si sottolineava, anche in Marx irrompe la vita, e la vita sconvolge il sistema. Non si potrebbe parlare di errore o di male se non vi fossero le nozioni di verità e di
bene. Queste nozioni si danno per via negativa, attraverso un percorso
critico. La vita è lo sfondo dell’argomentazione negativa, la misura del
bene e del male, dell’errore e del vero. La vita diviene il non esplicitato
criterium veritatis che consente di scorgere l’errore (e prescindiamo, sotto questo riguardo, dalla equivalenza tra errore e proprietà privata), consente, cioè, di definire una soggettività in correlazione con l’oggetto, oltre, quindi, i limiti di una preesistenza causativa dell’oggetto, la quale
appunto richiede un’idea di possesso per la conoscenza medesima.
In una impostazione come è quella marxiana, vale a dire, in una
impostazione di matrice hegeliana che sempre accompagna il criterio di
verità ad un dato di fondazione ontologica, la vita, allora, in quanto criterio di verità, diventa dato ontologicamente significativo, substrato di
un conoscere emancipato dall’opinare filosofico (e, in questo contesto,
economico-politico), base direttamente fondativa dell’ente e del suo sapere. Del resto, poco oltre il passo sopra riportato, si afferma: «L’occhio
è divenuto occhio umano allo stesso modo come il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale, umano, dell’uomo e per l’uomo».46 Ora, se pre46
Ibid.
Critica dell’opinione filosofica
143
scindiamo dalla premessa di queste asserzioni, che reitera la solita vis
polemica, che ha una valenza eminentemente pratica e che indebolisce la
forza teoretica dell’argomentazione, cioè se prescindiamo da «soppressa
che sia la proprietà privata, allora …», si nota, in esse, l’adeguarsi di un
conoscere dell’ente esistente al dato fondativo vitale: si determina una
relazione generica autentica poiché rettamente si conosce; soggetto conoscente e soggetto ontologico stanno in equilibrio, oggetto esistente e
soggetto fondante si rispecchiano l’uno nell’altro, soggetto conoscente/
oggetto esistente ed oggetto conosciuto/soggetto fondante appaiono finalmente adeguati l’uno all’altro. Del resto, in tal senso molto significative sono le espressioni di poco successive: «realtà umana» con le «sue
proprie forze essenziali»; «realtà oggettiva» come «realtà delle forze essenziali dell’uomo»; la «natura dell’oggetto» corrisponde alla natura della
«forza essenziale»; «la peculiarità di ogni forza sostanziale è precisamente la sua peculiare essenza, dunque anche la peculiare guisa della sua
oggettivazione, del suo oggettivo, reale, vivente essere».47 Se un possesso
è ammesso, dunque, si tratta del possesso della essenza propria, del possesso di un qualcosa che evidentemente non può rientrare nelle «leggi»
della proprietà privata o nell’ «utile» del capitale ma che si situa sul piano della oltretemporalità del fondamento, della vita, a sua volta declinantesi nelle esistenze umane. È questa la novità, se così possiamo esprimerci, di Marx; o perlomeno, questa è la sua capacità di condurre ad
evidenza le contraddizioni e le potenzialità insite nel sistema di Hegel, di
farle maturare, grazie anche, come si ricordava, al filtro feuerbachiano,
sino alla definizione di un nuovo modello di interpretazione del mondo,
di una nuova filosofia che, se pur ancora limitata nel quadro ermeneutico
hegeliano, ne consente la fuoriuscita e che, simultaneamente, recupera
l’hegelismo medesimo a dignità interpretativa: «La società formatasi produce come sua costante realtà l’uomo in questa intera ricchezza del suo
essere, l’uomo ricco di senso universale e di senso profondo».48 L’opinione
viene in tal modo superata sul piano della prassi, ovvero sul piano di un
agire che dialetticamente sia in-formato dal vero ed in-formi a sua volta
il vero; la filosofia si fa esistenza, oppure è esistenza adeguata alla vita,
dunque esprime la vita, ed in questo esprimere la vita è verità. Si esce,
insomma, dall’opinione ed al contempo si denuncia come opinione quella
filosofia che scorga in se medesima il movimento di autosuperamento
dell’opinione in quanto tale; al superamento autocritico della filosofia, si
risponde, così, con il dislocare, un po’ bruscamente a dire il vero, il discorso sul piano di una prassi che risolverebbe tutte le «antitesi teori47
48
Ivi, p. 328.
Ivi, p. 329.
144
Fabio Bazzani
che», quelle antitesi che l’opinione filosofica non poteva risolvere proprio perché le assegnava ad «un compito soltanto teorico».49
Ma non vi è una forzatura? Spostare i referenti del discorso non
significa condurre a soluzione le questioni che in quel discorso si aprono; e d’altronde, pur nella precisa avvertenza di Marx del radicamento
imprescindibile nell’esistenza e nell’esperienza di ogni filosofia, la prassi
che egli configura non ha forse già subìto il vaglio della teoresi e dunque
non si è già imposta per vera poiché già sanzionata, appunto in sede
teorica, dalla verità? Non vi è forse, anche in questo caso, l’eco, neppur
troppo lontana, della nozione hegeliana di un vero che sempre sussiste,
pur nell’opinione, anche se solo in potenza, di un vero già stabilito a
sanzione di ogni ulteriore valutazione e giudizio? In altre parole, pur
nella necessaria avvertenza di un dato di verità quale immutabilità a
legittimazione della mutevolezza, o inadeguatezza, del suo apparire (altrimenti, se non si desse immutabilità neppure si darebbe verità e l’apparire stesso altro non sarebbe che evanescenza, appunto la Meinung di cui
parlava Stirner), non vi è forse, nonostante la critica del prescrittivismo,
nonostante la polemica nei confronti di un’idea di sapere filosofico privo di presupposti e dunque disvelantesi progressivamente nella verità
finale senza intervento interpretante, non vi è forse, si diceva, un certo
tono prescrittivistico in quella impostazione, proprio nel collegamento
necessario tra verità e sua traduzione pratica? Non vi è forse, in Marx,
l’attesa del comunismo quale pendant del vero (di un comunismo, dunque, e di un vero, di cui già l’intera storia e tutta l’opinione sarebbero
gravide), al pari, come si è notato a più riprese, dello Stato etico universale hegeliano, quale eguale pendant della verità finalmente disvelata?
Ma, nonostante i limiti prescrittivistici, che denunciano una carenza
di interrogazione sul senso profondo della realtà e dell’esistenza (e solo
una interrogazione simile consente di porre il problema del vero in termini
di aderenza al luogo originario da cui il vero in quanto tale si pone come
problema e si manifesta in quanto apparire e che dunque oltrepassa ogni
nozione pre-scritta delle verità in sé e per sé), e che reiterano alcuni dei
tratti tipici del razionalismo moderno con la sua nichilistica distanza dalla vita, tutto ciò – proprio per l’insistenza sulla vita, o sulla presenza
della vita quale potenziale contraddizione insita nel sistema stesso – si
colloca in una situazione di apertura, di cesura, della modernità, di crisi
della ragione cartesiana, che certo continua a porre se stessa ma che comincia anche a togliere se stessa con l’interrogarsi su se stessa, con il
porre se stessa a problema, e ciò proprio a muovere da se stessa (un
porre ed un togliere che sono ben rappresentati da Hegel e dai suoi cri49
Ivi, pp. 329-330.
Critica dell’opinione filosofica
145
tici interni). E dunque, con Hegel, e poi con Feuerbach, e in ultimo,
sempre dentro l’hegelismo, con Marx, la crisi della ragione moderna giunge a configurarsi come autoriflessione, come porsi del moderno a problema di se stesso, come avvìo di una autoconsiderazione del moderno per
opinione o, più debolmente, per verità parziale. L’accentuazione del dato
esistenziale ed esperienziale, insieme con il risalire al fondamento di quel
dato, cioè alla vita, costituiscono il simbolo di questa critica dell’opinione
filosofica o, altrimenti detto, dell’autocritica della modernità stessa, e ciò
appunto nel quadro di una delle due tradizioni maggioritarie del pensiero
filosofico moderno, in quella che della vita a fondamento ha minore consapevolezza e nei riguardi della quale mostra minore attenzione ed interesse,
ma dalla quale, in pari tempo, per propria dinamica interna di svolgimento
argomentativo, non può di fatto prescindere.
E dunque, se vita ed esistenza irrompono nel sistema filosofico, se il
sistema filosofico, nella propria costruzione medesima, non può prescindere da vita ed esistenza, allora quel sistema non può trovare in se stesso
il punto di culminazione della verità, non può rappresentare, nei suoi
approdi, il punto finale di un processo conoscitivo, dal momento che
con vita ed esistenza vien meno la possibilità stessa della pre-scrizione
del vero. Se vita ed esistenza, infatti, sono presenti nel sistema, questo
sistema non può esaurire alcunché, dal momento che vita ed esistenza
mai sono racchiudibili in forme sistematiche: nessun sistema potrà mai
esaurire la vita, poiché nessuna forma di pensiero, neppure la più «aperta»
alla vita, potrà mai riassumere, di questa, varianti, cesure, scarti, scansioni
temporali, oscillazioni individuali e collettive; nessun sistema, insomma,
potrà mai dar conto di ciò che è imprevedibile, imponderabile, ineffabile. I sistemi filosofici sono momenti del pensare umano, momenti che
non sempre risultano, nel loro situarsi storico, accrescimento di esperienza
del vero, ma che possono, anzi, nel loro procedere, dal vero allontanarsi.
I sistemi filosofici e, tra questi, il sistema hegeliano, non rappresentano il
compimento del pensiero – compimento che, com’è poi evidente, viene
sempre spostato e diversificato in relazione al punto di vista dei filosofi e
delle loro scuole: vi è quasi un’espressione «chiave», ricorrente con grande
frequenza soprattutto nella tradizione moderna, per accedere all’ultimissimo dei sistemi, l’espressione che si può condensare nella formula «la
nostra epoca», caratterizzata da crisi e da venir meno di presupposti teoretici e di valori etici, e nei confronti della quale quel sistema ultimissimo
si porrebbe quale orizzonte di «avvenire», quale conclusione di un intero percorso di pensiero e di esperienza. Ma i sistemi filosofici sono soltanto momenti di trasformazione del pensiero, con minore o maggiore
approssimazione al vero, con maggiore o minore capacità di esperire il
vero. Se ben leggiamo Hegel, notiamo come egli non delinei la definitività
del proprio sistema. E se è possibile scorgere una tale non definitività,
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Fabio Bazzani
ciò non è tanto per esplicita asserzione di Hegel stesso, non è tanto per
una sua forza, ma per una sua debolezza, appunto per il fatto che nel suo
sistema sono presenti elementi che lo aprono all’oltre-da-sé; il che, tuttavia, non ne depotenzia il portato di apertura, il significato di cesura nel
razionalismo moderno. E come non è Hegel a delineare conchiusione di
sorta, neppure, dopo Hegel, è Marx a tratteggiare una concezione ultima, definitiva, della storia; non è Marx che tratteggia l’insuperabilità
della propria riflessione. E pure in questo caso, non per forza, bensì per
debolezza, per implicite contraddizioni, che garantiscono alla ricerca della
verità di proseguire. Nessun sistema, insomma, può esser considerato
chiuso, anche nel caso in cui per tale si autodefinisca, secondo una pretesa idea di perfezione a sé riconducibile; nessun sistema, come si diceva, può racchiudere nelle proprie forme la vita, bensì ogni sistema è soggetto a trasformazione, a quella trasformazione che è propria della vita,
perlomeno nelle sue strutture ontiche esistenziali, nelle sue configurazioni temporali di esistenza ed esperienza storica. Il sistema di Hegel è
aperto in sé – non per definizione di Hegel ma, appunto, per debolezza
di Hegel, per quella debolezza che ne rappresenta la forza filosofica – e,
poiché aperto in sé, si apre all’oltre da sé. La non alterità, o non totale
alterità, rispetto alla vita di quel sistema, consiste proprio nell’autoriconoscimento del suo essere aperto, ovvero nel riconoscimento – malgrado Hegel – del suo esser suscettibile di futura trasformazione. Il sistema
di Hegel si è trasformato – ovvero, è stato negato e si è conservato – nella
ontoantropologia di Feuerbach e, tramite Feuerbach, nella critica del
sussistente e nel progetto comunitario di Marx. Certo, in questo non vi è
la necessità storica di cui Hegel parla e che Feuerbach e Marx reiterano,
bensì – al di là di ogni teleologismo e finalismo – vi è l’avvertenza del
dubbio che costantemente accompagna il pensare e l’agire degli uomini,
di un dubbio che fa sì che lo stesso sistema hegeliano, al pari di ogni altro
sistema, entri in crisi con se stesso, entri in una autodiscussione continua. Si tratta, in una parola, dell’inquietudine medesima della vita, o
meglio, di quell’inquietudine esistenziale che sempre sta a lato dell’esperire la vita e che consente il dinamismo stesso delle forme del pensare. E
sono proprio una tale inquietudine esistenziale ed un tale dinamismo nel
pensare a rappresentare l’emblema stesso della verità quale continua tensione del conoscere e, dunque, l’emblema stesso di quel che è critica
dell’opinione, filosofica o comune che questa sia.