digital magazine novembre 2009 N.61 ooioo La battaglia di Yoshimi Moon duo // Black To Comm Lucky Elephant // Edda Michael J. Sheeny // Felix happy birthday warp! 20 Warped Years RUINS // JOOKABOX HALF-HANDED CLOUD TEARDROP EXPLODES Sentireascoltare n.61 La casa editrice Odoya e SentireAscoltare presentano: Turn On PJ Harvey Musica.Maschere.Vita Un libro di Stefano Solventi La sua musica è una sferzata misteriosa e misteriosamente liberatoria. Un’ossessione blues sbocciata nella culla del Dorset, cresciuta tra inquietudini adolescenziali e una incontenibile brama di mondo. Quando infine è esplosa, lo ha fatto col piglio travolgente dei predestinati. Dei suoi primi quaranta anni, Polly Jean Harvey ne ha dedicati venti a tracciare una parabola fatta di musica, maschere e vita. 240 pagine Volume illustrato euro 15,00 p. 4 Moon Duo 5 Black to Comm 6 Lucky Elephant 7 Edda 8 Michael J Sheeny 9 Felix 10 Ruins 12 Jookabox 14 Half-Handed Cloud Rubriche 108 Giant Steps 109 Classic Album 116 La sera della prima 122 A night at the Opera 124 I cosiddetti contemporanei Drop Out 16 20 warped years 24 (OO) I (OO) got the rhythm concept Album Recensioni Un libro di Daniele Follero Introduzione Franco Fabbri Nata sull’onda della rivoluzione musicale di fine anni Sessanta, la pratica del concept album ha accompagnato la maturità del rock, scrivendo un capitolo importantissimo nella storia della popular music. I dischi “a tema” continuano ancora oggi a rappresentare un affascinante mezzo espressivo, anche negli ambienti del pop da classifica. I recenti concept album dei Green Day sono la testimonianza più lampante di un filo rosso che, partendo da Frank Sinatra, tiene insieme Sgt. Pepper’s dei Beatles, Tommy degli Who, The Dark Side of the Moon e The Wall dei Pink Floyd, le storie d’amore di Claudio Baglioni arrivando fino ai Dream Theater e al brit-pop. 226 pagine Volume illustrato 34 Bloody Beetroots, Broadcast/Focus Group, Teatro degli Orrori, Comaneci... Rearview Mirror 98 Teardrop Explodes, Flipper, MF Doom... Direttore: Edoardo Bridda Ufficio Stampa: Teresa Greco Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco euro 15,00 Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Giorgio Avezzù, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Luca Colnaghi, Daniele Follero, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Aldo Romanelli, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Stefano Solventi, Giancarlo Turra, Fabrizio www.odoya.it www.sentireascoltare.com Zampighi. Guida spirituale: Grafica In In tutte le librerie dal 19 novembre e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: OOIOO SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Black To comm Moon Duo New kraut wave Alphabet Drones I suoni e la magia di Marc Richter, boss della Dekorder, alchimista del laptop, krauto illuminato a suon di drones Dal frontman dei Wooden Shjips arriva un nuovo progetto solista e questa volta il ''rock'' è davvero lontano. C osa induce il cantante e chitarrista di una band piuttosto nota (sempre negli angusti limiti dei rispettivi ambiti) come i Wooden Shjips ad intraprendere un progetto parallelo dalle più ristrette sembianze? La volontà di dar vita ad un duo, formula da cui Ripley Johnson dichiara di essere da sempre affascinato, per poter mantenere la cosa il più possibile essenziale e facile da gestire, specialmente in sede live. Ed è così che nasce la collaborazione tra Johnson e Sanae Yamada, artista performativa forse già nota al pubblico del quartetto di Frisco per aver partecipato con le proprie proiezioni ad alcuni concerti della band. Nella scorsa primavera è un pezzo di partecipazione al CD compilation Yeti 7 dell'omonimo magazine a sancire l'esistenza del Moon Duo: si tratta di una prima versione, più breve, di quella Love On The Sea che sarà di lì a poco ripresa in forma più dilatata sulla prima facciata del disco d'esordio.Tuttavia la proposta è già chiara: psichedelia solo vagamente chitarristica e molto più incline ai vortici del kraut che non ai riff di matrice 4 Turn On U blues/rock di cui invece si cibano i progenitori Wooden Shjips; il tutto cullato (se così si può dire) da un cantato/parlato di chiara ispirazione Veganiana. Ma è presto tempo per autoprodursi il primo singolo; esce così per Sick Thirst, label inventata per l'occasione, un 12 pollici composto da due lunghe jam in cui i nostri mettono sul tavolo le carte delle proprie influenze: Suicide, Neu!/La Düsseldorf, Silver Apples e ovviamente molti altri. La cosa non passa inosservata ed infatti è l'iperattiva Sacred Bones a farsi avanti e a pubblicare, proprio di recente, il secondo EP 12" Killing Time, i cui quattro pezzi risultano meno feroci dei precedenti e maggiormente sospesi in un limbo astrale creato dalle tastiere della Yamada e delle algide drum-machine che meccanicizzano ed ovattano il tutto. Se l'evoluzione reggerà il ritmo fin qui sostenuto e se il nome di Woodsist che campeggia, tra gli altri, sul Myspace del gruppo non è lì per caso, sentiremo ancora parlare del duo lunare. Andrea Napoli n personaggio del genere non poteva non destare l’attenzione di Julian Cope, che dall’alto della sua regolare rubrica, Head Heritage, si trova ad un certo punto a magnificare il tedesco Marc Richter, ovvero Black To Comm, innalzandolo al rango di drone master dei nostri giorni, di quelli che possono salvare “tutti i drone freaks annoiati da una pletora ininterrotta di dischi tutti simili e con packaging ridotti all’osso”. La scoperta per Cope avviene con il tentacolare e cacofonico WIR KÖNNEN LEIDER NICHT ETWAS MEHR ZU TUN, ovvero “Non possiamo fare queste canzoni in un modo diverso da come le abbiamo fatte”. Canzoni per modo di dire. Black to Comm è infatti un musicista abbastanza sui generis, di quelli che individui subito in una folla, e per un genere così inflazionato come l’ambient noise dei nostri giorni, la caratteristica è di quelle da porre all’occhiello come un vanto. Richter eccelle nel bozzetto naive, surreale e onirico, condito con una sapiente miscela di kraut rock anni 2000, laptop music, field recordings a tutto spiano. Ingredienti tutto sommato consueti di questi tempi, ma è il modo in cui vengono miscelati, che fa di lui un nome da tenere sott’occhio per i suoni più originali dell’attuale scena sperimentale. Non a caso Richter è anche l’uomo che gestisce la Dekorder etichetta tedesca che sta pubblicando tutto il meglio del settore. La prolificità è degna dell’epoca contemporanea, questo 2009 però merita di essere considerato come l’anno della svolta. Prima una pubblicazione su Digitalis, interessante, ma ancora in regola con lo stile standard, intitolata Charlemagne & Pippin, per poi passare al vero asso nella manica calato su Type records proprio in questi giorni, ovvero il migliore dei suoi lavori, intitolato Alphabet 1968. Trattasi di un disco quanto meno di svolta, innanzitutto nella durata delle composizioni e nel taglio generale che viene dato al disco: ovvero dieci tracce in 45 minuti, uno standard compresso e regolarizzato se paragonato alle precedenti espressioni del musicista tedesco e comunque all’andazzo generale della scena ambient contemporanea. Alphabet 1968 quindi ragiona maggiormente sul concetto di vignetta, che come sempre è surreale e astratta, ma con un senso della sintesi che giova. Richter ha la mano giusta per dosare tutti gli equilibri necessari. Registrazioni e field recordings impiantate su un panorama algido, ma non severo, di ariette digitali leggere come l’aria e a tratti dense come le nebbie invernali. Antonello Comunale Turn On 5 Lucky Elephant Edda Happy Sad Secondo natura Pop e scrittura dinamica, un’attitudine giocoso/malinconica e una buona miscela degli ingredienti a disposizione fanno un esordio promettente. Lucky Elephant is the reason. R ob Da Bank, dj inglese di Radio 1 nonché titolare dell’etichetta Sunday Best e organizzatore, tra le altre cose, del Bestival che si tiene nell’isola di Wight, ha avuto l’occhio lungo a scoprire e mettere sotto contratto i quattro Lucky Elephant. Metà gruppo proviene appunto dall’isola citata, il cantante e frontman Emmanuel ‘Manu’ Labescat è invece originario del sud ovest della Francia, ed è colui il quale fornisce alla band il tocco vocale esotico così riconoscibile ad un primo ascolto. Il cuore della formazione si è costituito intorno ai Treacle Studios a Londra, gestito dal bassista Paul Burnley, un piccolo ma attivo studio di registrazione indipendente, che ha visto la nascita del collettivo. In realtà prima ci sono stati i Boomclick, formazione a due di Burnley e Sam Johnson, attuale chitarrista e pianista degli Elefanti, già sotto contratto con Rob Da Bank e poi l’incontro con Labescat. Il resto è già storia attuale. Forse la provenienza geografica non continentale ha fatto sì che la band si stabilizzasse nei dintorni di una solarità e di un’attitudine gioiosa/giocosa che fa del pop e di una scrittura dinamica le sue carte vincenti. Il lato happy/sad della vicenda è ben dosato, contribuendo ai cambi di ritmo dell’album d’esordio Starsign Trampoline (in spazio recensioni), che si mantiene sobrio nelle sonorità, prevedendo 6 Turn On anche l’uso di vecchi synth, di un piano Wurlitzer, di un harmonium, nonché ukulele e chitarre spesso acustiche. Il contrasto della musica può riflettere sociologicamente le caratteristiche dei posti turistici dai quali il gruppo proviene, nei quali la frenesia delle estati è seguita dalla lunga noia invernale. Ma queste sono solo ipotesi, in realtà. Quel che conta è il risultato dato dalla fusione degli elementi a disposizione. Ecco allora un french touch sensuale con accento prettamente nasale, una miscela che prevede brit pop emotivo/espressivo coniugato con la chanson francese da un lato, e con una scrittura d’autore mediata dai Sixties e rivista con gli ultimi decenni dei Morrissey e dei Paul Weller. E ancora elementi di afrobeat e spezie tropical che ultimamente abbiamo trovato spesso, dai Vampire Weekend in su e in giù, e un sentore jazzy da revival Style Council che ogni tanto si manifesta. Ma ci sono anche il dub, il blues e lo shoegaze tra le melodie sparse dell’esordio. A questo si aggiunga un’emotività che si percepisce nelle liriche di Labescat, passionali, introspettive e dotate nello stesso tempo di humour e curiosità, e che rivelano un’osservazione minuziosa della realtà. Promettenti. Teresa Greco Torna l'ex cantante dei Ritmo Tribale con un disco colmo di rarefazioni e riferimenti autobiografici “C reare mi aveva impedito di vivere veramente. Scrivevo canzoni. Il mio lavoro era andare dietro alle emozioni, che è anche una cosa giusta. Ma ad un certo punto le emozioni finiscono. E allora bisogna cercare di trovare qualcosa di vero, come la vita reale. E io di questa cosa avevo paura”. E la vita reale l'ha trovata, Stefano “Edda” Rampoldi. Operaio specializzato in ponteggi e quarantaseienne musicista a “tempo perso” con in carniere un mezzo capolavoro come l'ultimo Semper Biot. Oltre che - dettagli - una delle figure cardine del rock italiano tra Ottanta e Novanta alla guida dei seminali Ritmo Tribale. Seminali, certo, perché seme furono di tutta quella scena milanese - Afterhours in testa che proprio nei Novanta sdoganò il rock in italiano, creando un nuovo punto di riferimento per miriadi di musicisti e ascoltatori. Il Nostro, nel frattempo, si era già eclissato tra i flutti di una tossicodipendenza quasi inevitabile, nella spiritualità degli Hare Krishna, comunque lontano dalla band che gli aveva regalato notorietà e rispetto. Abbandonata, neanche a dirlo, nel momento di massimo successo, in preda a quella crisi di identità ben circoscritta dalle parole riportate in apertura e che già allora rivelava una sensibilità enorme ma fragilissima.Tanto che ad ascoltare ora la musica dell'Edda solista ci si chiede quanto lontana fosse la realtà dei Ritmo Tribale dalla personalità dubbiosa e solitaria del front-man della band. Allora si parlava di un suono preso in prestito dai Novanta americani - Red Hot Chili Peppers, Pearl Jam, ma non solo - mentre il presente si attesta su una canzone d'autore acustica, peculiare, estremamente catartica e difficilmente riconducibile a modelli stranieri. “Semper Biot”, per parafrasare il titolo del disco, ovvero scarna, spoglia di qualsiasi retaggio del passato musicale del suo autore ma nel contempo dai contenuti fortemente autobiografici. L'idea che ci si fa ascoltando brani come Io e te, Milano, Scamarcio, Snigdelina, è che tutto nasca da un input immediato, quasi irresistibile, come se la musica fosse parte integrante del percorso di recupero dell'uomo, questa volta affrontato senza l'aiuto di comunità esterne. Da un lato verso la riscoperta di una creatività messa in stand-by per dodici anni ma evidentemente innata e dall'altro nel tentativo di riprendere coscienza di sé stessi. I risultati sorprendono, se si ha la pazienza di leggere tra le righe, anche perché è dentro ai brani che c'è tutto quello che serve per entrare in contatto con l'artista. Grazie anche al lavoro egregio di collaboratori come Walter Somà - autore con Edda della maggior parte degli episodi - e Andrea Rabuffetti, fondamentale nel riscrivere la storia recente di Stefano Rampoldi oltre la facciata da rocker maledetto che così poco si addice a un carattere tanto trasparente. Fabrizio Zampighi Turn On 7 felix Michael J. Sheehy Ascesa e caduta di un songwriter Per sottrazione Una parabola da perdente, un pugno di dischi che migliorano invecchiando, un concept album sul pugilato. Ladies & gentlemen... Mr. Sheehy P er chi si interessa di loosers e cause perse, il personaggio Michael J. Sheehy non è certo nuovo. I più attenti lo avvistano una decina di anni fa, quando canta alla testa dei Dream City Film Club, sfortunatissima band britannica che si trovò inghiottita nell’oblio allorché in piena epopea “brit pop” pensò di poter avere attenzione con un repertorio che aveva per modelli Elvis e i Virgin Prunes. La rapida fine della band causò in maniera più o meno indiretta, da un lato l’apparizione sulle scene dei Placebo, che giocarono carte molto simili a loro, forti però di un taglio glam molto più pronunciato e commerciabile e dall’altro l’inizio delle trasmissioni soliste dello Sheehy. Va da sé che l’attenzione attorno ai suoi dischi ha continuato ad essere fumosa, poco monetizzabile, parecchio dimessa e discreta, che è poi anche un riflesso della personalità del suo autore. Cresciuto in una famiglia di cattolici parecchio praticanti, con una predilezione per i dischi di Elvis e del rock’n’roll anni ’50/ ’60, salvo poi una tardiva e leggera inclinazione per la new wave tendente al gotico, Sheehy è un autore classico la cui specialità principale è quella di saper trovare sempre nuovi varianti sul modello di Love Me Tender. Con il tempo si è fatto sempre più raffinato e smaliziato arrivando nel 2009 al quinto lavoro in proprio. With These 8 Turn On Hands merita di essere considerato uno dei migliori dischi dell’anno, una sorta di concept album, ideato su un musical ambientato nei primi anni ’60, che Sheehy ha messo su con una band di musicisti di supporto, omaggiati nell’intestazione del disco con il nome di Hired Mourners. Il ciclo delle canzoni narra la storia di Francis Delaney, un pugile fittizio che è un riflesso distorto dell’autore, pugile anche lui in tenera età. Più che dalle parti di Rocky Balboa o Tony Montana, Francis Delaney e la sua storia sono più avvicinabili a quella di Rocky Graziano nelle sembianze del Paul Newman di Lassù Qualcuno Mi Ama, quindi una storia che vive nella sociologia e nell’immaginario tipici dello sport più popolano e popolare, con una fauna di personaggi viziosi e una serie di ambienti maleodoranti, che giustamente stimolano alla vignetta satirica. Un disco quindi che va ascoltato come se si stesse all’Opera tenendo il libretto con i testi costantemente a portata di mano. Come lonesome man Sheehy non fa una piega. Si diverte ad immaginarsi come uno storyteller demodè riuscendoci perfettamente, anche quando indossa le maschere un po’ storte di Tom Waits o Nick Cave o meglio ancora… dell’icona Elvis. Antonello Comunale Vengono da Nottingham ed esordiscono su Kranky. Le trame sonore dei Felix tra chamber pop, ambient e minimalismo U n accumulo di elementi che in musica si risolve nella sottrazione: questa la parabola degli inglesi Felix, duo di trentenni proveniente da Nottingham, esordienti su Kranky, autori di un chamber pop colto e rarefatto tra ambient e droning. Accumulo si diceva, per la mole di esperienze variegate dei due componenti il gruppo: l’una, Lucinda Chua, con studi classici alle spalle, è violoncello, piano e voce del gruppo, nonché fotografa professionista nonché pianista /violoncellista in tour per Stars Of The Lid; l’altro, Chris Summerlin chitarre e drones nonché componente di molti gruppi (Lords, Kogumaza, Stage Blood nonché Damo Suzuki's Network e Glenn Branca e la lista qui è piuttosto lunga) nonché graphic designer e illustratore freelance per magazine e in campo musicale. Tra queste attività, l’incontro reciproco e la nascita del duo Felix, che esordisce nel 2007 con un split 7" single con Chris Herbert su Low Point (As Blue As Your Eyes Lover / What I Learned From TV). In mezzo collaborazioni a tutto campo, come si diceva, e poi l’esordio sulla lunga distanza a novembre 2009 con You Are The One I Pick (in recensioni). Con l’album si finisce per sottrarre, costituendo nello stesso tempo una sintesi apprezzabile tra ambient e chamber pop, droning e minimalismo, chi- tarrismo post rock e sonorità dream pop, elementi tutti che convivono unificati e bilanciati da un’emotività controllata ma non troppo, che rappresenta il valore aggiunto del disco. Come dei Low più rivolti all’ambient e al minimalismo, ma con la stessa capacità comunicativa ed emozionale. Disco piuttosto breve, You Are The One I Pick, che ha il merito di riportare su un versante più pop, ma non troppo, diremo abbastanza colto, le influenze reciproche di cui s’è detto. Il gioco di corrispondenze intime tra il piano e il violoncello della Chua e l’accompagnamento chitarristico di Summerlin, uniti ad un’espressività mai strabordante sono il punto di forza del duo e dell’album tutto. Si aggiungano all’insieme liriche minimalistiche e sghembe tra surreale, humour ed esplorazione di sentimenti e realtà, liriche che diventano a tratti uno spiazzante spoken word da parte di Lucinda Chua, quasi una declamazione di intenti e che lasciano così intravedere l’inquietudine sottesa e non troppo nascosta, a dire la verità. Finendo per assomigliare a una Cat Power più dimessa in questo, e c’è da dire che musicalmente, nonostante l’apparente diversità, i punti in comune tra le due non mancano. Non si sa se Felix sia un progetto sulla lunga distanza, per il momento ci è piaciuto così com’è. Teresa Greco Turn On 9 I Ruins Goes jazzcore Dopo l'autarchia radicale degli ultimi anni, Yoshida torna a suonare Ruins assieme ad un altro essere umano. Mette il sax al posto del basso e dice chiaro e tondo di essere uno dei papà del jazzcore 10 Turn On Ruins sono - come si dice - una band di culto. E una di quelle senza il cui precedente sarebbe forse venuto a mancare un intero ramo dell'albero genealogico della musica d'oggi. Il ramo che - tra efficacia descrittiva, abuso e svuotamento di senso di un'etichetta - chiamiamo jazzcore. Senza perdersi in ricerche archeologiche che ci porterebbero indietro alla fine degli anni Sessanta (Stooges? Captain Beefheart? Free jazz?), e senza pensare di potere ridurre il fenomeno ai suoi riferimenti di base, comunque, senza i Ruins (sponda prog-based della faccenda), e senza certi fermenti post punkhc (l'altra sponda, anche dell'oceano) che vanno dai Minutemen alle sperimentazioni della "musica compressa" dei Naked City di John Zorn (con dietro tutta la No Wave che ci può essere), senza tutto questo, il jazzcore non esisterebbe. Chiedere ai nostrani Diego D'Agata (Splatterpink, Testadeporcu), Zu e compagnia (Neo, Squartet). Ma anche ai Lightning Bolt, che pure hanno già avuto modo di precisare che: «Noi "insegniamo" educazione fisica. Loro fisica teorica». I Ruins dunque. Creatura tiranneggiata dal piccolo gigante Tatsuya Yoshida, giapponese dagli occhialetti rotondi, raccoglitore giramondo di immagini di pietre strane ed esoteriche, batterista dallo stile architettonico, polipesco, grappoloso, uomo di punta della scena radical/impro giappa, compagno di merende, per capirci, di tipi come Keiji Haino e Otomo Yoshihide. Yoshida è stato negli anni, dalla metà degli Ottanta in avanti, un vero sciupabassisti, sempre alla ricerca del feeling perfetto per il suo power-duo e per il suo ideale di progcore geometrico, melmoso, esagerato. Nel 2004 ha mandato tutti a quel paese e ha continuato da solo (Ruins Alone), suonando e cantando (sempre in perfetto stile Zeuhl, tribal dadadelirante) sopra basi pre-registrate, in una dichiarazione di autarchia che è una dichiarazione di autismo, ad un tempo commovente e al limite del ridicolo. Dopo mille progetti da solista, da leader o da "semplice" batterista (vedi Korekyojinn, Koenji Hyakkei e Acid Mothers Gong, capaci di regalare ai maniaci del prog momenti di vera goduria), e collaborazioni che ne hanno fatto scoprire la figura anche ai non cultori di genere (ha suonato in una delle incarnazioni live dei Painkiller di Zorn, per la serie tutto si tiene), nel 2006 Yoshi ha messo in piedi - un po' a sorpresa - i Sax Ruins, rispolverando quindi l'idea perduta di Ruins-come-gruppo, per rileggere - col sax al posto del solito monumentale basso - un repertorio di fatto già cristallizzato (in senso positivo e negativo). Le label su cui ritroviamo il marchio Ruins si commentano da sole, e rivelano molto della natura della musica del nostro: Skin Graft, Shimmy Disc (quando questa lanciava negli USA anche i Boredoms di Yamatsuka Eye), Tzadik, Ipecac (che ospita anche il debutto dei Sax Ruins). La musica di Yoshi è, nei suoi momenti di massima ispirazione, una deflagrazione totale di muscolarità e cervelloticità (non cerebralità) che concilia cinetismo e senso del massiccio (con stop&go che sono veri schiaffi sonori) e che riesce ad appagare un po' tutti gli amanti delle musiche estreme: con la sua intricatezza prog (ipertecnicismo, senso della struttura e gusto della giustapposizione, temi contorti, tempi composti), la sua foga hardcore e il suo spesso compiaciuto casinarismo noise (e in tal senso va letta la sua componente jazz, pensando, come suggerisce Zorn, che il free era in fondo una musica "punk"), la sua geometrica solidità (leggi math), la sua capacità, insomma, di sposare deriv(azion)e punk, prog alla Magma e alla Henry Cow e stranezze caricaturali alla Frank Zappa. Certo, come accade a chi inventa davvero qualcosa, fa spesso capolino lo spettro della fissità, dell'eterna ripetizione di sé (e il pensiero corre ai Primus), rischio questo che Yoshi ha sempre cercato di arginare - pur rimanendo fedele alle proprie ossessioni - variando formazioni e organici (e questo è anche il caso dei Sax Ruins), non sempre riuscendoci però. Altro spettro, anche questo inevitabile, avendo Yoshi a che fare con un'idea di musica difficile (complessa, ossessiva, nodosa; ancora i Primus) e dovendo gestire una tecnica e una espressività comunque debordanti, quello della godibilità di una proposta che spesso non riesce a uscire dallo stile, dal virtuosismo, dall'esercizio, per quanto agonisticamente avvincente. Gabriele Marino Turn On 11 Jookabox Indiana kings of inconvenience David Adamson è un dropout folk rinnegato con in mano un microfono e nell'altra il fucile. Attenzione alle definizioni: questa è world wave soul freakout... B isognerà pur inventarci un’etichetta nostra per descrivere gente come Dan Deacon e David Adamson / Jookabox. Grassi di sound e di stazza, creativi democratici stellestrisce, drum machine e beat box come pane quotidiano, un’attitudine a far muovere le hips a diverse velocità e il classico 12 Turn On canovaccio d’overdubbing esuberante ad alto tasso ritmico. Caratteristiche comuni a loro e a molti musicisti off del panorama down under americano; nessuna grande sorpresa per chi ne osserva il sottobosco, neppure salti con i già frullanti Novanta ma sicuramente tante e molte più possibilities. Dan, per esempio, in Bromst ha spinto a tavoletta sull’elettronica e l’estetica rave. Adamson si è rinominato Grandpall Jookabox ed è partito unendo due lembi stilistici di questi anni: il folk delle origini e il lo-fi. Ne ha fatto un DIY di chitarra e ritmi registrati, blues del Delta e Appalachi, tenendosi nel cuore - il suo e di milioni di nerd cresciuti con il sequencer l'amore per l’hip hop e una mentalità quattro tracce che poi diventa Pro Tools. Dicendovi di una voglia deep house sottotraccia che li accomuna, le somiglianze finiscono e le stranezze che ti fanno il caso iniziano a farsi notare: Moose è nativo dall’Indiana, lo Stato americano dimenticato da Dio. La recessione è costante e le tensioni razziali nell'aria quanto l’odor della polvere da sparo. E che dire del downtown popolato da soli negozi di liquori? In pratica è l'epitome del White Trash USA altro che gli skater di Van Sant. Tanto più che da adolescente, David trova un modo creativo per godere di quelle strane energie: si butta pesto sui funghi finendo per amare la psichedelia e un modo di comporre per immagini appese al muro, lo stesso che notammo il mese scorso analizzando il piccolo fenomeno Tune-Yards. Per entrambi torniamo a parlare di una fake world music, etnica appresa in TV o sentita in altri dischi, o meglio un’idea di etnica senza legami di terra. Nel caso di David però, la terra in cui abita conta tantissimo, le sue difficoltà e sofferenze vengono sputate fuori attraverso i millenari modi afro-americani. Dal secondo disco in avanti maturano curosi furti: spirituals e canzoni ball & chain, canzoni che lui imbottisce di elio trasformandole da negre in esquimesi (à la Residents) e c'è una grande nuvola di fumo sopra agli arrangiamenti. Fate conto un Beck in combutta con Michael Moore, un produttore ‘ardkore britannico che rinnega tutto per l’amore di Tricky. Fortuna che a tener salda la baracca, c’è il ritmo tribale. Ti riporta a terra, nella brutta provincia a suon di rime sgangherate dallo humor secco come una pistola e lo straniamento tipico andersoniano è servito. Prendete Girls Ain't Preggers, un talking blues alla Lcd Soundsystem in combutta Jon Spencer fatto da un B-Boy fallito, un singolo must per senzatetto con le rime a mo di lista della spesa e un coretto in tono farsesco Pere Ubu a recitare "fortuna che le ragazze non sono incinte". I modi sono quelli filiati dal mainstream, l'estetica di partenza il white negro. E' il fare disperato di chi non ha niente da perdere e ti fa ridere senza ridere. Sotto, a tenere il tem- po, c'è un ritmo battente e un right now a chiudere ogni strofa; ritmo che ci riporta all’altra caratteristica degli USA di questi anni (vedi lo Smell e Foot Village, Health e compagnia bella), un monoloch scompaginante a guastare l’idea folky originaria giocata con le parole Grandpall (il nonnaccio) e jookabox (il jukebox). Il taglio della ragione sociale viene naturale: per Dead Zone Boys, terzo disco del nostro, a rimanere è soltanto la seconda parola e, già dal titolo gangsta, alcuni cambiamenti sono evidenti. Ben oltre il blues, il lo-fi e il muso duro di Ropechain, il sound pensa in grande e non resiste nemmeno all’altro vento in freschezza black, certo glam-soul cibernetico. Inevitabile il confronto con la confraternita Tv On The Radio / Rain Machine, vero marchio forte quando mescoli wave a negritudine, ennesima testimonianza dell’oggi che David si porta a casa preferendo al taglio freaky-romantichy-proggy del Malone, un Beck anti-folk e anti-cool, amante di dada e fervente predicatore di un culto I-hate-metropoli-che-fa-figo e al diavolo la fottuta Scientology. A fargli da conforto gli ritroviamo in bocca la puzza di whisky di un dropout come David Thomas, uno dei suoi idoli, e lui che non è certo un lunatico o uno snob intellettuale, al rantolo beefartiano, c’attacca un falsetto blasfemo à la Micheal Jackson, un brother dell'indiana naturalmente. Il brano celeberrimo è naturalmente I Will Save Young Michael, tra i soliti talking e svolazzi soul, confida al King Of Pop di tornare agli amori per James Brown e Jackie Wilson. In pratica, Moose disegna una parabola folk per il nuovo millennio: provinciale e globale, torta millegusti psycoattiva e ballabile senza negasi il piacere della caricatura. Per Dead Zone Boys, parla di una storia d’amore e uno zombie musical psichedelico, un concept sui generis dove compaiono ancora i canti rubati ai bambini del debutto Scientific Cricket mescolati ad alcune visioni del Peter Gabriel di Shock The Monkey. I risvolti sono tragicomici, pure per merito dei due nuovi membri in formazione, gli psych-poppers Everthus the Deadbeats. Se date un occhio alle press foto del neo formato quartetto vi renderete conto con chi avete a che fare: dei perdenti con in mano un microfono e dall'altra un fucile e, in questa terza puntata, un arcigno yes scritto in fronte. Edoardo Bridda Turn On 13 Half-handed Cloud Anarchia pop Un cantautore che scava dal di dentro l’indie-pop per fare piccole gemme senza barincentro. Un devoto cristiano che fa docili esercizi di anarchia. John Ringofer, aka Half-handed Cloud Hello, my name is John Ringhofer, and welcome to this collection of Half-handed Cloud from the 17 non-album releases between the years 2000 and 2009, now available in one convenient place. Così si presenta, mr. Ringhofer da Knoxville, Tennessee, ideatore senza freni di piccole canzoni che del pop hanno gli elementi ma non la compiutezza, polistrumentista e lo-fier artigianale. Anzi, così inaugura le note contenute nel booklet di quel posto con14 Turn On veniente in cui ha deciso di mettere in ordine tutta la carriera. Si chiama Cut Me Down & Count My Rings, titolo che già dice molto, come del resto la citazione iniziale potrebbe da sola mettere a fuoco questa stranissima creatura chiamata Halfhanded Cloud. Cut me down and count my rings, ci suggerisce il nome della raccolta, ma non per segnalarci presunte discontinuità e ritrovati anelli mancanti, quanto l’op- posto, o quasi, sia a livello esistenziale sia musicale. La raccolta o macro-album (46 tracce di artigianato lo-fi melodico) con cui John si propone a un pubblico senza dubbio più vasto - tramite promozione più sviluppata, soprattutto in Europa - è infatti un flusso dove i pezzi si rincorrono tra loro senza soluzioni di continuità percepite. E si ha davvero l’impressione di scoperchiare un mondo, per il quale sono a disposizione almeno due atteggiamenti: la riluttanza a entrarci, ché vi si può rimanere incastrati per giorni, imbrigliati entro una precisa strategia nei confronti dell’ascoltatore. Una massa critica che, in fin dei conti, non è altro che il prodotto di una levatrice di canzoni, oppure di un unico canzoniere quasi infinito, eppure compatto per durata, se pensiamo alla quantità di gemme che contiene. Già, dimenticavamo il secondo atteggiamento, ma è insito nelle premesse: è quello per cui si accettano le condizioni e ci si butta a capofitto nel discorso di Half-handed Cloud, dei suoi schizzi apparentemente non-finiti, o witz cantautoriali. Non che Cut Me Down & Count My Rings possa a tutti gli effetti essere considerato il primo album di John; né che prima d’ora da questa parte dell’Oceano potessimo ritenerci esclusi dalla distribuzione. Anzi, già Thy Is A Word And Feet Need Lamps (Asthmatic Kitty, 2006), terzo disco di Half-Handed Cloud, aveva viaggiato oltreoceano. Ma è lo stesso Ringhofer, come abbiamo visto, che vede le precedenti uscite come non-album, e in un certo senso a ragione. È l’atmosfera che sa di eppì, in Thy…, nel precedente We Haven't Just Been Told, We Have Been Loved (Asthmatic Kitty, 2002), e ovviamente a partire da un EP vero e proprio, l’aurorale I’m So Sheepy, del 2000, pubblicato inizialmente sull’etichetta Corner Room dell’amico Brandon Buckner, con cui John aveva condiviso l’esperienza di una band precendete, i Wookieback. Entriamo di getto nella biografia di Ringhofer, giusto per sottolineare due elementi che, ancora una volta, sintetizzano l’insieme. John è stato il primo artista dopo Sufjan Stevens ad aver pubblicato su Asthmatic Kitty, che praticamente ha tenuto con l’amico Sufjan a battesimo. Dopo l’EP del 2000, il Nostro era diventato amico di penna del cantautore newyorkese, che gli chiese qualche brano da mettere su una compilation della sua neonata label, To Spirit Back The Mews. In seguito, lo Stevens farà anche da batterista per il già menzionato terzo disco di Half-handed Cloud. Insieme a lui altre figure a noi note (una su tutti: Nedelle Torrisi dei Cryptaci- ze) faranno compagnia a Ringhofer, interrompendo la sua mania di comporre e suonare tutto da solo, usando strumenti del più classico indie-pop ma anche fiati e piccola elettronica cheap. Ma il rapporto tra Sufjan e John non si basava e non si basa solo sull’intesa musicale. Nel nome della band, nei titoli succitati delle uscite, ma più banalmente nelle liriche delle vocalità poppy e strampalate di Ringhofer non si parla di adolescenza o amore. Si parla di religione, devozione cristiana, Gesù Cristo. Half-Handed Cloud è un nome che deriva dal Vecchio Testamento, e la one-man-band non si è trasferita a Berkeley per respirare aria giovane e idee frizzanti e audaci, ma per offrire i propri servigi alla chiesa locale. Eppure crea stupore il modo in cui le sonorità di Half-handed Cloud non risentano degli stigmi del christian rock. Il tutto più che composizioni clericali sembra piuttosto un esercizio divertito di complessità nata dalla semplicità. Stesso discorso dei non-album: è la velocità con cui questi frammenti si susseguono a orientarne la lettura come forme brevi, anche se organizzate, e completamente sprovviste dell’aulicità che ci si aspetterebbe. Half-handed Cloud è anzi la riscoperta del livello n-1 delle costruzioni pop. Attira chi ascolta e poi gli mette confusione in testa. È un calderone di musica a-baricenrica, e questo non vuol dire che essa sia rizomatica, o centripeta, perché usa tutti gli elementi che normalmente ci farebbero ricondurre a un baricentro, a una struttura pop. Usando gli strumenti della musica pop, oltre che piccoli inserti di elettronica cacofonica in sordina, Half-handed Cloud produce qualcosa di completamente anarchico. Altro che gerarchie divine. Il divertimento di John è affatto terreno. E lo stress indotto nell’ascoltatore dipende proprio da questa capacità di lasciare sempre degli appigli a qualcosa di orecchiabile senza mai raggiungerla, continuando a cambiarla, e quindi non consentendo alla memoria e al taccuino visuo-spaziale delle nostre orecchie di aggrapparsi a qualcosa. Ovviamente, tutto questo è molto Residents-iano. Colpo di piatti. E non temiamo di essere considerati bestemmiatori se al capitan scoreggia pensiamo per segnalare come in queste 46 tracce ci siano sempre le stesse forme, gli stessi timbri, quasi le stesse note. Altro colpo di piatti, che in conclusione trascina un dubbio. Cut Me Down & Count My Rings è una summa, un punto e a capo, sotto molti aspetti. E dopo? Ce la dobbiamo aspettare per il futuro, la discontinuità? Gaspare Caliri Turn On 15 2009: A Warp O dissey 20 Warped Years Sono poche le etichette che hanno cambiato le menti di milioni di ascoltatori. La Warp è una di queste. A 20 anni dal primo LP, vi raccontiamo di fatti, suoni, letti e marketing intelligente - Edoardo Bridda e Marco Braggion 16 DROP OUT Arriva tutto per posta. Non elettronica. Come ai vecchi tempi, quando aspettavi il postino con i pacchi quadrati e sapevi che dentro c’erano i vinili. Arriva in questo ottobre 2009, dopo mesi di attesa, il box della Warp. Come diceva Lester Bangs "per un momento il solo piacere sta nello scartare la plastica e assaporare il profumo dell’ignoto". è un edizione limitata a 500 copie, come il primo vinile stampato, un monolite come quello del Kubrick di 2001: A Space Odissey e c’è la celebrazione di un ragazzo di Sheffield in tutto ciò. Si celebrano i vent’anni di Warp, dell’IDM e di tutta una scuola, rendendo così doverosa una retrospettiva e un’analisi su quanto fatto e cogitato fin’ora. Il mese scorso avevamo trattato le due compilation Warp 20 che raccoglievano la classifica suggerita dai frequentatori del sito (nel doppio Chosen) e la selecta di reinterpretazioni scelta dal quartier generale (in Recreated) (vedi recensioni in SentireAscoltare 60), ora s'aggiungono altri due cd, 4 vinili e il catalogo delle copertine in un book stiloso e minimalista. Da un lato, la musica, dall’altro il design. Perché se il suono è importante, dopo 20 anni il succo è (anche) lo stile e niente di meglio che partire da qui per descrivere il pianeta Warp, una delle realtà più abili nello sfruttare e nel godere di un design a 360° dentro e fuori la musica. Sinergie innovative che hanno visto innanzitutto l'intesa con lo studio Designers Republic (purtroppo fallito lo scorso anno), responsabile delle immagini indimenticabili di molte delle cover chiave della label e del layout del vecchio sito (quello con il treddì a ricordare i vecchi coin up); e soprattutto, l’incontro con il pianeta (Chris) Cunningham, matrimonio extra musicale senza precedenti e tra i più scintillanti esperimenti marketing del tempo. Sinestesie di un sound visivo, tattile, interattivo che presto le regalano un alone mitologico e un rispetto quasi religioso. In pratica, Warp si fa testimone di un futuro più reale di quello gelido e robotico dell’Underground Resistance detroitiano, per sempre legato all’ortodossia kraftwerchiana. Visione e missione che dopo dieci anni la label consegnerà ad altri, considerando la “scomparsa della musica strumentale e la supremazia della musica elettronica” un’ingenuità di gioventù, sorpassando il suo ruolo di virus nel mercato, sposterà i propri interessi e campi d’azione senza tagliare con il passato. “Se Warp ha voluto rompere i legami, è con un certo tipo d’etichetta tematica. Ha portato i suoi interessi a livello interna- zionale”, afferma quest’anno George Evelyn, ovvero Nightmares On Wax, personaggio che ha appena inciso (sempre su Warp) il recente Thought So... e di fatto l’artista più longevo nel rooster. Evelyn per la label firmava proprio nel lontano 1989, all’inizio di questa storia… We A re R easonable People L’idea di promuovere l’elettronica su disco nasce dalle menti di Steve Beckett, Rob Mitchell e del produttore Robert Gordon e, come da pratiche UK che portano indietro le lancette del tempo fino alla post-punker Rough Trade, anche in questo caso: la label nasce, dopo due anni di brainstorming, nel 1989 intorno a un negozio di dischi. Siamo a Sheffield e il negozio si chiama FON. A Londra e Manchester si fa festa da un anno e, per i posteri, quel periodo si chiamerà Second Summer Of Love, alludendo allo stato di peace and love indotto chimicamente e tagliato con quello strano mix di suoni balearici e tecnoidi che alcuni illuminati s’erano portati da Ibiza. "Era l'estate dell'acid e dei rave illegali ma era pur sempre da Club come lo Shoom o l’Haçienda che tutto era partito e tutto era destinato a tornare". E parlando di starter è ai tre di Belleville (Atkins, May e Saunderson), che va la mente e il legame d’acciaio senza il quale questa avventura non avrebbe avuto luogo. I loro dischi, importati dall’America proprio come ai tempi del r’n’r, acquistano un’aura divina e generano nei ragazzi brit uno spasmodico bisogno di emulazione. Nel 1989, escono Newbuild di 808 State e l’inno Voodoo Ray di Gerald Simpson (in arte A Guy Called Gerald). La risposta a tutto questo di due clerk di Sheffield si chiama: Track With No Name, vinile a firma Forgemasters. Lo portano, fieri e impavidi, in giro per i negozi del Regno con una macchina a noleggio. è il primo successo da club, l’inizio della produzione del marchio e soprattutto il tassello che ci voleva per emancipare pienamente il suono techno americano taggandolo finalmente con una bella union jack come sarebbe piaciuto agli Who. Segue un 12 pollici chiamato Dextrous, e a firmarlo è Nightmares On Wax. La leggenda narra che il ragazzo sia entrato nel negozio per vendere delle lacche white labelled e sia stato scritturato all’attimo. A differenza dei Forgemaster, caratterizzati da fitte trame di Roland, sapori etno e ipno, phuture sound e le famose tastiere spettrali e antemiche, il sound di Evelyn è hip hop con una punta di acido e solide basi black: una formula che sbancherà facendo vendere all’etichetta 30 mila coDROP OUT 17 pie. Di lì a breve l’attitudine killing diventa una cosa sulla quale farci i soldi. Ed è di nuovo rock’n’roll a Sheffield. C’è la stessa effervescenza nell’aria e quell’ingenuo – ma solo con il senno di poi – miraggio di poter cambiare la storia è anche dei fondatori Warp. Ad un set dei loro Forgemasters al Sunset Boulevard a Huddersfield, sentono un sound micidiale: batterie funky mescolate a bassi e bleep sinusoidali in acido. I suoni provengono da due amici di Winston Hazell: gli LFO. Il quinto vinile prodotto da Beckett e Mitchell è il loro successo per eccellenza LFO. Venderà 120 mila copie e scalerà la classifica inglese fino a raggiungere il dodicesimo posto nel luglio del 1990, preludendo al successo del classico Frequencies. Ma la bolla sta per scoppiare.Tempo quattro anni e arriverà il Criminal Justice and Public Order Act (del 1994) a vietare de facto il rave e a segnare uno spartiacque nella scena. In barba alle leggi, già da due anni qualcosa si sta muovendo fuori dai rave. La non-rivoluzione viene da dentro le case: sul piatto 18 DROP OUT girano B Side che contengono della roba diversa, sperimentale che non è la solita intro new age di inizio serata. Nasce così l’idea di riunire in una compilation (successivamente bissata) il gotha della scena off-club. Il disco si chiama Artificial Intelligence e segna il passo, coniando di fatto il verbo per un genere che prenderà il nome di Intelligent Dance Music. Beckett ironizza sulla nascita del tanto vituperato termine. Si riferiva alle performance al Top Of The Pops di Orbital o Orb. Al fatto che premendo un bottone la musica suonava da sola. Roba da androidi, come quello in copertina della compila che fuma il sigaro virtuale sprofondato in poltrona. I non raver nerd hanno finalmente una casa a cui tornare per ascoltarsi, rigorosamente in cuffia, la crema della scena capitanata dagli esordienti Aphex Twin, Autechre, Richie Hawtin, B12, Alex Paterson (poi negli Orb) e Black Dog. “Eravamo noi a guidare il mercato. La musica era prodotta per l’home listening piuttosto che per i club e i dance floor. La gente tornava a casa, si rilassava e passava la maggior parte della notte ascoltando musica totalmente tripped. Il suono nutriva la scena”, ricorda Beckett a proposito di un disco che preannuncia e pontifica il suono Warp fino alla metà dei novanta. Quel suono, infarcito di sci-fi alle volte cupa e altre estatica, insaporito talvolta di acidità e spezzante del break che nasce dall’hop ma che subito lo travisa, si impone subito come moda e piccolo business. “Casper Pound mi chiese all’epoca di fare dell’ambient music. Dovevo spedirgli una cassetta e così composi velocemente della roba sul genere. Mentivo. Divenne il mio primo disco che con il senno di poi non è per nulla ambient, anzi era l’idea che me n’ero fatto. È stato molto facile da completare: un album e un EP in una settimana”. A parlarci è Luke Vibert da un po’ di anni su Warp, l’esempio migliore della forbice ritmica che in quegli anni si stava allargando terribilmente: breakbeat versus abstract e broken beat e 4/4. Due scuole inconciliabili sia in ambito dance sia in quello casalingo. A risolvere la questione, o meglio, a sublimare le sterili dialettiche tra la musica per intelligenti e quella per cammelli masticanti, ci pensa un disco che all’altezza del 1994 si pone come fine dell’ondata anemica che aveva caratterizzato certa musica oltre-ballo. Richard D. James di un Aphex Twin travestito da se stesso, è la pietra miliare del caso. Approda a un tipo d’elettronica decisamente autoriale, ricca di momenti tosti, pause, sketch e sul finale persino una overture. Con lavori come questo, si comprende come la Warp e i suoi protagonisti crescono assieme e se gli inizi possono strapparci alcuni paragoni con le label di inizio ’80, è la parabola PiL il miglior paragone con le politiche dei due di Sheffield. Percorso che li porterà, infine, sulla scia di Green / Scritti Politti, in una personale versione del Meta-pop per la fine del millennio: Windowlicker. Pop Tones Windowlicker è, al tempo in cui scriviamo, la traccia più votata dai frequentatori del sito. Autore: ancora lui, Aphex Twin. Il pezzo è il sunto massimo tra le istanze elettroniche emerse dalla provincia Briannica e il pop da classifica virato sul piatto più danaroso del pianeta, il soul. Soul come parte dell’impianto hip hop americano e sua presa per il culo dall’interno: stessi mezzi utilizzati e una tecnica esasperata a tal punto da sparare il mix cento anni nel futuro. Lo storico video di Chris Cunningham, dal minutaggio faraonico à la Michael Jackson, ne è il completamento ideale: un inno per le masse basato sull’ossessione per il deforme. Lo sfottò prima al gansta rap e poi al pensiero borghese imbrigliato da un background socioculturale a base di Nip & Tuck. è la rivincita degli electro headz, ragazzi che condividono un certo svacco con gli indie kids immersi nell'ascolto ossessivo delle chitarre, ma che diversamente da questi hanno un'attenzione maniacale per il suono, un approccio in rigorosa cuffia paragonabile alla serietà degli ascoltatori degli anni '70. Sono gli ingegneri smanettoni, quelli che dalla provincia non hanno mai mangiato una pastiglia, quelli che lo sballo ce l'hanno solo davanti al monitor a 16 colori. Sono anche gli altri, che di acidi ne hanno presi troppi e che ora devono far passare la sbornia del dopo rave. Fuori c'è un mondo in rapida evoluzione (internet, laptop, mail..) che ancora permette lentezza, ma di lì a poco la velocità aumenterà di brutto. Tra i tanti cambiamenti, Warp migra da Sheffield a Londra. E non solo per logistica. Identifichiamo dunque nel 1998 l'anno terminale per un certo mondo. L'anno in cui un altopiano ambient dato per morto e sepolto ricomincia a tremare. Con Music Has The Right To Children, la label e i Boards Of Canada promulgano una nostalgia pastorale come rapiti da una profonda gnosi. Quel pizzico di sinistro che farà scuola ne è una parte fondamentale. Diventerà il suono più imitato tra quelli elettronici della label appunto perché il più essenziale e aggregante una certa sensibilità IDM che guarda a un Nord idealtipico non senza scordarsi gli hippy, gli ufo e i documentari degli anni Settanta. Poi Napster farà saltare tutto. E dalla Summer of Love si passerà alla summer of download. I Novanta sono finiti. D ieci e non più dieci “Quando trovo artisti unici e autentici nasce una sorta di affinità sentimentale. Quando sono originali e si percepisce un netto rifiuto di parametri preimpostati, insieme a grandi melodie e buona produzione, intuisci che è questo è il cocktail vincente. A quell’epoca [gli anni 90, ndSA] pensavo non esistessero limiti, mentre ora mi rendo conto che il limite delle nuove sonorità è la stessa tecnologia. Si era arrivati a un punto di stallo, ripetitivo. Aphex Twin o Squarepusher avevano esplorato ben oltre i confini. Bisognava andare in direzioni diverse. È per questo che non volevo firmare con artisti elettronici ma lavorare con chi utilizzasse strumenti. Come i Battles: affondano le loro radici nella musica elettronica ma utiDROP OUT 19 10 D ischi F ondamentali Aphex Twin lizzano gli strumenti in una nuova forma”. Dopo il coraggioso tiro al bersaglio di pubblico e critica con Drukqs (ancora Aphex Twin), doppio tomo tombale che conclude l'era della complicazione drill, l’eterodossia nell’overloading informativo pare sia la carta migliore per Beckett che, a differenza delle coeve e ortodosse Rephlex, Planet Mu e Ninja Tune, sceglie la via dell’imprenditorialità intelligente e inizia un percorso a doppio canale fatto di acquisti a 360° nel panorama indie rock-pop e contratti garantiti agli storici della scuderia. A chiudere una fase e aprirne un’altra, nel 1999, a 10 anni dalla nascita arriva la compilation ‘monstre’ Warp 10: Influences, Classics, Remixes. La prima celebrazione di un sound, ma anche il tentativo di un revival (come accadrà per l’acid poco più tardi con l'Analord di AFX e la produzione a firma Luke Vibert). Quell’anno, abbracciando l’eredità street, Beckett inaugura la Lex, costola devota ai suoni hiphop based (Subtle e gli eredi dispersi del suono Anticon), e ricongiungendosi così, senza artefazioni, con il breaking che porterà poi a Hudson Mohawke e Harmonic 313. è una delle tante rivincite dei tanto disprezzati ardkorer giustamente osannati da Simon Reynolds. Il breakbeat continua 20 DROP OUT a rappresentare una fonte creativa per le nuove generazioni. Di lì appresso si apriranno le porte su Warp all’hip-hop mutante degli Anti-pop Consortium, ai mondi elettro-hop di Prefuse 73 e ai rimasugli dell’elettronica con le macchine a 8 bit fino ad arrivare a gente che con l’elettronica non ha nulla a che fare come i Maxïmo Park. Il trasloco da Sheffield a Londra è stato cruciale. Ha significato il nuovo negozio Warpmart ma anche un’espansione nel settore dei clip indipendenti con la Warp Films (già pionerizzata nel VHS Motion che accompagnava la seconda Artificial Intelligence) e un duplice approdo online sia attraverso il portale Bleep, uno dei primi siti a tralasciare il Digital Rights Management delle tracce scaricate (non come la multinazionale iTunes), sia attraverso il sito ufficiale che aggiorna look e interfacce allineandosi al miglior 2.0 possibile (www.warp20.net). Infine, per celebrare il ventennale, una vera tournée marchiata Warp20 sta girando il pianeta. LFO – Frequencies (1991) E all’inizio era filo Detroit. E all’inizio la variante brit era una e faceva tremare i vetri. Si chiamava bleep and bass e i suoi protagonisti warp erano un commando a prova di test tone. Tricky Disco, Kid Unknown, Nightmares On Wax e naturalmente LFO con l’ormai leggendario Frequencies. Le sentite quelle voci deformi in intro? Ci cresceranno Richie Hawtin (a nome Fuse lo troviamo dal 1993 su Warp). E sempre lì, all’inizio dell’album, li sentite quelle laserate verdi? In pratica forgiarono un modo di ballare e un’illuminazione precisa sul dancefloor. E infine il settaggio della Roland è o non è quello devotissimo a Detroit? Già. Detroit-Sheffield sola andata. La traccia numero due fa la storia del ballo sballo made in UK e si chiama come la ragione sociale del duo, LFO. Dei bleep dicevamo, mancano i bass. Il giro di basso in contrappunto è un’altra Roland. Poi però c’è la specialità della casa: il SUB-basso contrappuntato a colpetti di silicio che fa anthem. E non solo: sotto alle devozioni ritmiche anche per gli LFO c’è la tradizione sci-fi che diventerà marchio della Warp post-balearica e post-party. Cinema di genere che si popola dei replicanti di Scott nell’altro singolaccio We Are Back, numero sul lettore 6 e Underworld sintonizzatissimi sul canale. Brek. Il resto dell’album si muove su ferree linee electro con altre lezioni ben servite ai posteri: Simon From Sydney, da un po’ di consigli agli Orbital su come assestare la maturità 5 anni dopo (In Sides). Nurture con i lustrini e quel fare kitch e la raffinata Tan Ta Ha parlano ai Mouse On Mars. In pratica queste frequenze non solo sono la bibbia per l’elettronica europea, ma anche la sintesi più efficace per comprendere quanto la Warp volesse un marchio interdipendente e poi autonomo rispetto sia a Detroit sia al ballo. Ci dispiace per A Word Of Science di Nightmares On Wax, dovendo scegliere tra i due al primo posto c'è Frequencies. Sabres Of Paradise – Haunted Dancehall (1994) Il nome dietro a questo dimenticato trio è Andrew Weatherall. L’album è per forza Haunted Dancehall anche perché Sabresonic uno e due non lasciano granché dietro di sé.Anno di grazia 1994. L’anno di re Aphex e Black Dog, ma anche l’anno di un album come questo che ha saputo promulgare il verbo dell’uomo di Screamadelia anche in territori meticciati idm come questo. Ingrediente must oltre ai soliti sci-fi, il dance hall robotico e robotizzato messo in mezzo alle sciabole e rigorosamente servito crudo in salsa house (con qualche spezia latina). Da riscoprire. Black Dog – Spanners (1994) 1 Autechre 2 Aphex Twin 3 Black Dog. Il gruppo numero tre se vogliamo fare le scalette come una volta all’interno dello stesso genere o casa. La scelta cade su Spanners, album cruciale per certa exotica d’alta classe ficcata in breakbeat pruriginosi e afosi tessuti sintetici. Black Dog imporanti anche per il cordone con gli Ottanta di un Thomas Leer e profondi anticipatori di quella nostalgia da futuro (vedi David Toop) che influenzerà umori e filosofia del suonare con l’avvento dell’internet e del digitale. Lezioni infinite per Mouse On Mars e tutta la scuola che va da Parigi (Air) e il down tempo di casa Ninja Tune annesse e DROP OUT 21 connesse senza farsi mancare l’aggancio devoto a Detroit. In pratica, è quel nome che con l’etichetta anticipa numerose direzioni future e sul lettore non pare invecchiato di una nota. Provare per credere. Aphex Twin - I Care Because You Do (1995) Una scelta non facile ma alla fine naturale che cade sull’album più ‘cantautorale’ (se ci passate il termine) di James. Un canzoniere, anzi una raccolta di ritratti e sketch fatti con elettroniche analogiche povere e synth aperti e modificati durante notti insonni. A riascoltarlo ora sembra così artigianale e vintage quanto allora sembrò geniale e avanti. A maggior ragione un album con la firma in maiuscolo. Momenti di buio pesto e robot nell’iniziale Come On You Slags, e poi agrodolci con la classicheggiante Waxed Pitch o l’aquerello naif di Alberto Balsam e il suo riff entrato nella storia, la sublimazione del lato bambino in Mookid, l’apologia della droga che fa bene per eccellenza con il campionamento della boccata del Ventolin per asmatici (altro mito), e i cantieri da videogioco al sapor di funk di Cow Cud Is A Twin, altri momenti d’affetto e ricordo dell’infanzia cornovagliese e l’overture finale Next Heap With. Se non ce l’avete in casa siete nati prima dei ’70 ed è meglio che vi dedichiate al progressive. Complicazioni a cui l’Aphex poi non saprà imbrigliare, firmando con Drukqs il suo album da dinosauro elettro precoce. Squarepusher – Hard Normal Daddy (1997) Quando Jenkinson fa sul serio e invece di atteggiarsi col suo basso slappato porta di brutto la sua passione per il jazz dentro alla drum’n’ambient del pre-Boards. In più qui c’è un gusto melodico che avrà una pletora di amanti su Ninja con quelle ingellate di brillantina che sono state la generazione Funky Porcini. La senti tutta la maturità nella suite Papalon con quella perfezione jazz che di nu ha solo l’idea, ci vai a nozze poi anche col popolo dei fan di Aphex quando senti quelle sintesi in Anirog D9 che sarebbero state colonna sonora del dopo Trainspotting (uscito nel 1996) o quel drum’n’bass senza sosta di Chin Hippy e il bbreaking acido dell’inno Fat Controller. In più lo storico booklet dedicato alle grafiche a 8 bit del Vic 20, con i ravers pixellosi di Chelmsford (paese natale di Jenkinson) che scappano dalla polizia. Oggi fa un po’ quello che gli pare, ma una volta quando era nel tunnel dell’acido (Vic Acid), Squarepusher ci consigliava il trip giusto. Autechre – LP 5 (1998) Uno dei gruppi della triade di culto della compila Artificial Intelligence assieme a Black Dog e l’impareggiabile Aphex erano gli Autechre. Avete presente? A distanza tre lustri il duo è finito per identificare non solo l’IDM britannica e il suono Warp, ma anche l’idea più evoluta di cibernetica in musica. I loro glifi sonori, incastri caustici, l’eleganza impersonale e quel modo di farti crescere la melodia astratta dietro ai loop ritmici hanno fatto non scuola ma paradigma. Fra tutta la produzione Novanta la scelta è stata dura ma probabilmente LP 5 è il sunto. L’album più organico in tutti i sensi e il più complicato da realizzare. Più di 300 ore di nastri accumulate ed elaborate e più di un anno d’attività per completarlo. Un lavoro incredibile che contiene pure vertici assoluti sul versante minimal ambient (Melve, Caliper Remote e Drane2), incubi antemici in bassa battuta (Arch Carrier), sci-fi d’alta classe (Fold4, Wrap5) e uno dei loro finali imperdibili, la japonesata di Drane2 (23 minuti!) 22 DROP OUT Boards Of Canada – Music Has The Right To Children (1998) Sono la coda della stirpe degli idiemmers su Warp. E che gran finale. Contenente brani già apparsi nei loro eppì precedenti, Music… è l’esordio datato 1998 che si presenta come un monolite. Proporzioni totali. Sci-fi, ambient, ingredienti sciolti nella consueta melassa break beat. L’aggiunta di un richiamo psych e un immaginario che valica i confini e si piazza nella storia. Grazie a un lavoro sulla nostalgia, attraverso una patina sepia da documentario televisivo che è poi la metafora per eccellenza dei nostri, l’album gioca sull’infanzia polarizzandosi esattamente tra angelico/demoniaco, onirico e ultraterreno. Ecco perché lo mettiamo in top 10 al posto del grandioso Soccur dei Seefeel. Etichette come la Ghost Box non faranno poi che rendere più scientifico e speleologico questo approccio. La mano perfetta su questo mondo rimane però di Mike Sandison e Marcus Eoin. Mira Calix - Eyes Set Against The Sun (2006) Terzo album su Warp e piena maturità per Mira Calix che traghetta la sezione ritmica Warp post Detroit e post AFX in una dimensione panteistica all'insegna dell'electroshifting. Emblematico lo spostamento, suo e di molti elettronici nei Duemila, verso una mimesi analogica sempre più diffusa. Sempre più comune trovare nelle campagne weird e psych un ideale terreno di confronto che sfocerà in un vero ritorno al Popol Vuh in tutti i sensi. Eyes Set Against The Sun è popolato da una fauna fantastica in un paradiso terrestre senza tempo tra rigagnoli e cinguettii, cori di bambini e concretismi attinti dal mondo animale e minerale a interferire continuamente sulla traccia sonora. Battles – Mirrored (2007) Più dei !!! e dei Maxïmo Park -che con l’etichetta hanno una coerenza piuttosto dubbia-, i Battles lontanissimi da Autechre e Black Dog, non sfigurano in un certo fiuto per le mutazioni elettrock che contano. In pratica è il segno dei tempi: dai loop programmati sulle macchine dei ’90 si passa ai loop manipolati dal vivo e riprendendosi pure certe correnti americane coeve alla nascita dell’etichetta, certo post e math. Frastagli di ritmi che agli amanti degli Autechre potrebbero far pensare paradossalmente agli Storm & Stress. Lì c’erano le chitarre e le batterie, qui i sampler e le tastiere. Con Mirrored il mutante dei due corpi ha una testa sola. E non sculetta per niente male. Harmonic 313 – When Machines Exceed Human Intelligence (2009) Dopo aver fiutato un buon cavallo di razza come Flying Lotus, Warp sbanca con un vecchio amico e si porta a casa l’album per eccellenza del wonky sound. Sound che peraltro ha una storia lunga che riporta indietro a gente altrettanto navigata come Neil Landstrumm e a “rivals” come la Planet Mu, sempre più sobria e attenta alle cose più puriste dell’elettronica. When Machines Exceed Human Intelligence è il colpaccio, perché è l’album da consigliare al pubblico più allargato e quello che il pubblico di nicchia erge a culto assoluto. è inoltre una quadratura che rappresenta un ritorno al Kraftwerk sound (che animò la techno dell’anno zero) e al ritmo zoppicato e dispari del post-step (che ha dominato i rivoli di una scena brit stanca delle drillate di Aphex e Squarepusher di fine novanta). DROP OUT 23 N ara , Japan (OO)I(OO) Got The Rhythm! Il ritorno di Yoshimi sotto OOIOO per Thrill Jockey è uno di quelli che tengono il passo. Dentro ci sono vent'anni di carriera con e senza i Boredoms. Una cosmologia ritmica senza precedenti - Massimo Padalino, Edoardo Bridda 24 DROP OUT Una ragazza si sveglia, ciabatta a piedi nudi sulle assi levigate di legno che scricchiolano, ha voglia di tamburellare la punta delle dita sulla schiena di un suo vecchio amico, quindi procede rintronata verso la cucina. Quel vecchio amico è lì ad attenderla: è il suo amico a quattro zampe. Si chiama Spy, spia, ed è un labrador scansafatiche, di quelli non più di primissimo pelo. Pure lei non è più una fanciullina, e di faticare non ne avrebbe forse voglia, ma sono le 11 del mattino e c'è un sole bello che è stampato in cielo, anche laggiù, lontano lontano, perché quella terra è la terra del Sol Levante. Quel giorno lì, come tutti gli altri del resto, la gente chiassosa per le vie deve pur guadagnarsi la pagnotta (o i ramen, come dicono da quelle parti) quotidiana. Lei invece è di umore pensoso, e gironzola pigra per casa, tutta indaffarata. La ragazza - segno dell'acquario: volitiva, caparbia, strana propensione per tamburellamenti vari e per il ritmo - la osserviamo adesso furtivi, così: scalza, con arretrati di sonno inappagato e intenso desiderio di futon nei suoi occhi strizzati a mandorla. Quella ragazza allergica ai gatti, è una che ama la musica folk tradizionale giapponese (quella del popolo Ainu, per la precisione, come la chiamano quelli che sanno) e ha un marito. Tutto farebbe propendere per un ritratto modello, ora. L'immaginetta di una mogliettina perfettina e in odore di santità domestica.Tanto che in quella stanza all'altro capo del mondo - siamo nel 2005 - c'è anche un'altra lei a tenerle compagnia: la sua primogenita di appena un anno e mezzo, quasi a comprovare l'azzardata ipotesi di cui si cianciava. Invece, di anni, ne sono passati quasi venti, da quando questa tranquilla ed innocua tipa dalla faccia di bambina ha iniziato a darsi da fare come musicista, a guadagnarsi la sua ciotola di spaghetti quotidiani, i ramen. Lì seduta, a gambe incrociate, nella sua casetta carezzata dalle ombre della vicina collina, nel cuore verde della città di Nara, la nostra donna si sente davvero tranquilla ed appagata. Nara, la città famosa in tutto il Giappone per due cose almeno: un'enorme statua di Buddha circondata dai daini ammaestrati che ci gironzolano intorno senza posa (e questa è la prima) e perché, pur essendo un centro tutto sommato da sempre periferico nella madrepatria dei Samurai, a lei toccò l'indubbio onore di fare da capitale dell'impero in secoli da noi lontani (e questa la seconda). Lei, la donna-bambina che tamburella su tutto quello che le capita a tiro, di nome fa Yoshimi. Yoshimi P-We, per gli amici. Mica lo sapeva che andava a finire così, due decadi fa... E forse, con vicina la piccola Shoji che tenta di afferrare e stringere il dito della mamma nel suo raggrinzito piccolo pugno, persa amorevolmente nei suoi pensieri di madre ed artista affermata, qualcosa di quegli esordi lontani Yoshimi, in quella tarda mattinata dagli occhi pesanti di sonno, riesce a riagguantare con la memoria... Yamatsuka Ricorda che era il 1985. Ricorda pure che qualcuno le chiese, tanto tempo dopo, quando ormai tutti sapevano tutto di quei suoi oscuri esordi, come era iniziata la cosa coi folli Boredoms e quale demone l'avesse posseduta perché lei (angelo dagli occhi a mandorla), fosse spinta ineluttabilmente fra le braccia di lui (demone dagli occhi a mandorla, che di nome fa Yamatsuka Eye), complice il Caso: "Beh, non avevo mai sentito parlare di lui prima di incontrarlo, ma avevo sentito cose sugli Hanatarash, dove lui cantava. Non avrei neanche mai pensato di mettermi a suonare la batteria se un giorno Eye non mi avesse chiesto di usarla per uno spettacolo degli UFO or Die! Dopo quella volta, mi ripropose l'invito: voleva che percuotessi la batteria anche nel suo nuovo gruppo: i Boredoms. Il batterista originale dei Boredoms, Yoshikawa, era uno che pestava forte. Il suo drumming era roba da manicomio - mai in vita mia ho visto un altro che suonava come lui, giuro! - faceva un tale casino. E poi mulinava di braccia come un matto, c'era sudore che volava dappertutto quando ci dava dentro. Anche oggi che va ad una scuola di musica e si esercita col metronomo, Yoshikawa fa davvero cagare. Però ha del genio. Con gli anni un altro batterista si è unito ai Boredoms, Atari, e Yoshikawa è passato alla voce invece che rimanere alle percussioni. Così i Boredoms si sono trasformati da una band a doppia batteria, ad una band con due vocalist. Confesso che col tempo abbiamo imparato a suonare come una vera e propria 'squadra di percussioni'. E più suoniamo assieme, meglio la cosa ci riesce". I Boredoms sono il cul-de-sac della Tokyo musicale di metà anni '80. Dove passano loro, non cresce più l'erba. Anzi: quella forse se la fumano beati, ma le canzoni davvero non crescono più quando Yoshimi, il chitarrista Seiichi Yamamoto, l'urlatore invasato Yamatsuka Eye e compagni danno sfogo ai loro barbarici e basici rituali noise (sicuramente un lascito degli scassatissimi Hanatarash). Loro fanno così: si mettono tutti posizionati al centro di una stanza, chiudono a chiave la porta, si avvicinano fino a toccarsi gomito a gomito, chiudendosi ad anello... e poi attaccano il terremoto. La gente deve stare DROP OUT 25 Boredoms 26 DROP OUT alle loro spalle (loro vogliono così), mentre i membri della band si guardano in faccia e si sfiancano a suonare. Una messa al contrario, coi fedeli che officiano e gli officianti che fanno i fedeli, in quella loro confraternita che si chiude a cerchio. Pareti di spesso plexiglass parano ai Boredoms il culo: evitano le lamentele di vicini troppo curiosi. Ma una domanda, ora come ora, nasce spontanea: MA CHE DIAVOLO SUONANO questi demoni di Boredoms? Ecco: qui casca l'asino. E casca male, perché casca come una pera cotta nel cestino assassino delle musiche dei Boredoms. Prendiamo il loro disco di esordio. Un ep. Una cosetta breve e dal gusto sobrio, come già si arguisce dal titolo: Anal By Anal (etichetta Trans). No dico: provate un po' a sentirlo. Certo, c'è la nostra Yoshimi che si dà da fare, ma le scena è tutta di quel gattaccio scorticato vivo alla voce di Eye. E' in questo modo che la giovane Yoshimi viene traviata. A suon di rumore, brutalità sonore, anticonformismo esecutivo. La musica è quella cosa che se suona brutta ma ti avvince allora la chiami musica. Ma forse non è neanche così. Forse Yoshimi lo sa che musica o non musica, la questione è un'altra: come si fa a resistere a certe performance al limite? Limite della sopportazione umana, della resistenza fisica, dell'anarchia più destrutturante e destrutturata. Si fa che album dopo album - cosette come Osoresan no Stooges Kyo (Selfish, 1988), Soul Discharge (Shimmy Disc, 1989) o ancora Pop Tatari (Reprise, 1992), Wow 2 (Avant, 1993) e Chocolate Synthesizer (Reprise, 1994) - una strada la trovi da sola, con le tue sole forze: una strada verso la purificazione dalle insopportabili trappole di rumore e ardore dei Boredoms. Ma adesso siamo nel bel mezzo del 1994, e la ragazza non è per nulla sulla via della redenzione. Ci arriverà, passin passetto. Ma non adesso, col tempo... Ora è solo una cenerentola fracassona che ha perduto la sua 'bacchetta della batteria/scarpetta da principessa stracciona' al ballo dei punk scatenati, in mezzo ai quali (e la cosa è durata per anni) si è divertita a fare stage diving. In questo senso, le Free Kitten sono una tappa quasi inevitabile per lei, a metà del decennio dei Nirvana e del Grunge. Sebbene le Kitten, alle orecchie di un profano, facciano più rumore della pala meccanica sotto casa, Julia Cafritz (ex Pussy Galore), Kim Gordon (Sonic Youth), Mark Ibold (bassista con i Pavement) e Yoshimi Yakota (suo nome per intero) sono una classe di educande all'ora di religione se solo paragonate ai macelli di casa Boredoms. La loro discografia inizia, neanche con chissà che balzo felino, con una manciata di singoli. Un classico. Tutti irreperibili o quasi, oggi, ma prima di andarvi a pescare l'album che li raccoglie (Unboxed, Wiiija, 1994), aspettate almeno di ascoltare il loro primo 33 giri. Quello che, un anno dopo appena, si qualifica come il debutto lungo vero e proprio delle Kitten: Nice Ass (Kill Rock Stars, 1995). Solita pappa: indie-rock fra Pussy Galore e Sonic Youth. E con l'aggravante dello scarso nerbo. Quello che ci si aspetterebbe da loro, senza neanche averle ascoltate, ma soltanto tenendo conto del blasone dei rispettivi componenti, questo disco ve lo dà. Senza infamia, senza lode. E ancora più importante del disco, sarà per Yoshimi l'etichetta discografica per cui quel disco uscirà. La Kill Rock Stars... Would you youth ? marry a sonic Un attimo di pazienza adesso: stiamo coi piedi piantati nel 1996. Dodici mesi precisi da quando Nice Ass compare negli scaffali dei negozi di dischi. Dieci anni esatti dal primo vinile dei Boredoms. Dieci anni dove Yoshimi P-We ne ha viste di tutti i colori. Di crude e di cotte. E qualcuna anche di passabilmente al sangue. Come la sera con quel tizio allampanato ritto fra il pubblico, che lo vedevi anche da lontano, quel lampione di uomo, rosso di capelli e che ti assomigliava a Ricky di Happy Days. Quello è il mitico Thurston. Thurston Moore, il chitarrista e cantante dei Sonic Youth, quelli famosi. Yoshimi è li che suona con i Boredoms, quella notte di metà anni '90, e l'altro è perso fra il pubblico pagante, mentre si strugge e cerca di ricordarsi quando e come, per la prima volta, lui e lei si sono incontrati e hanno fatto amicizia. Poi tutto nella testa gli si fa chiaro, e un'immagine più limpida dell'acqua di sorgente gli attraversa la mente... Tokyo. Giappone, Primavera 1988. Lui è lì per vedere i Boredoms. Quell'anno i Sonic Youth, la sua band, daranno alle stampe il loro White Album, il loro Electric Ladyland: Daydream Nation. C'è di che essere soddisfatti. Ma lui ancora non lo sa. A quell'album ci sta pensando, non è mica ancora uscito. Comunque sia, quella sera è lì, in piedi e col drink in mano, che vuole capirci qualcosa di quello che succede sul palco. E che succede mai sul palco? Chi può mai dirlo! Quando a scannarsi sono i Boredoms, tutto il resto è leggenda, mica storia. E allora due passi nella leggenda personale di Mr. Moore adesso li facciamo davvero, attraverso la rievocazione delle parole del protagonista su quella DROP OUT 27 ufo or die mitica serata dal sapor di epifania: "Mai, in tutti gli anni che ho passato ad assistere ad attacchi noise-rock di tutti i tipi, ripeto mai, ero stato spazzato via come quando ho assistito allo spettacolo di questa band di kamikaze del suono, che hanno letteralmente spaccato a metà l'aria con i loro esperimenti. C'erano due batteristi, di cui uno dei quali (per almeno tre volte a numero) si metteva in piedi sul suo seggiolino, e poi si lasciava cadere così: faccia al set di percussioni. Poi continuava a suonare, come nulla fosse accaduto. E suonava feroce, 28 DROP OUT selvaggio, tuonante. Dietro il secondo kit di percussioni c'era invece nascosta lei. La più notevole batterista che abbia mai ascoltato. Vicino a me c'era un amico che mi traduceva tutto, e che mi aveva insegnato a dire in giapponese: "Yoshimi, vuoi sposarmi?". Alla fine di ogni canzone urlavo: "Yoshimi, vuoi sposarmi?". Concluso il concerto Yoshimi mi si fece vicina e mi diede un paio di mutandine. E sai cosa feci io allora? Me le misi in testa e il resto della notte lo passai conciato così: orgogliosamente". "Yoshimi, vuoi sposarmi?". E matrimonio fu. Un sodalizio artistico che è, ancora oggi, vitalissima amicizia fra il lungagnone Moore e la fricchettona P-We. Un sodalizio discografico, anche, visto che a metà anni '90 Yoshimi, per la Ecstatic Peace! di Mr. Moore, qualche disco, seppure nel formato breve e vinilico del 7", lo pubblica pure; a cominciare dal singolo Big Toast: Speaker/ Tuna Power (1993) e continuando con altre due uscite, intitolate semplicemente Two (1994) e Three (1995). Ci siamo. Ormai siamo arrivati. E' il 1995. Ad un anno quasi da quella che sarà la Big Thing di Yoshimi. E' quindi ora di dare corpo al catalogo, perché se proprio dovessimo, un catalogo compileremmo, parlando dei copiosissimi side-project della nipponica già a metà fine secolo scorso. Qualche nome? I già citati Ufo Or Die! (per dirne uno) che la vedono in trio con il solito Yamatsuka Eye (chitarra e voce) e con High Ash (al basso). Tutta la loro discografia di un certo interesse si posiziona fra il 1990 e il 1994: il nastro UFO or Diamond? (1991), il cd-3" UOD (Bron Records, 1991), il cd UFO or Die Live (Dead Inc., 1992), il picture disc Cassettetape Superstar (Timebomb/ Public Bath, 1993), e il 7" per l'allora in ascesa Skin Graft dal titolo Shock Shoppers/Zombie Tube (1994). Se ci aggiungiamo un nastro del 1990, in cui figura un cameo del folle man in black giapponese Keiji Haino, dal titolo Bee Haibu (etichetta SSS) e un contributo alla raccolta Galaxy & New Beauty (1992), abbiamo tutto quel che di loro vale la pena avere. Jazz-core (?) sporco e cattivo. I Fugs ritratti come una lucertola senza coda che non sa più che direzione prendere per fuggire via e salvarsi. E poi che altro, nel curriculum della batterista più amata da Thurston Moore? Ed eccoci che continuiamo il catalogo delle partecipazioni: quella con gli Omoide Hatoba (al fianco del Boredoms Seiichi, di Tsuyama Atsushi e di Hasagawa Chew), le comparsate negli Hanadensha (che coinvolgevano pure il bassista dei Boredoms: Hira), e ancora il suo nome compare, a vario titolo, anche nelle copertine di di- schi a firma Dowser, Rise From The Dead, e via dicendo. Ma questo non è niente. Niente al confronto di quello che succederà alla Nostra nel 1996. Un nuovo gruppo, tutto suo, stavolta, e che manco a dirlo ha il suo battesimo del fuoco dal vivo. O h O h E ye O h O h La prima volta non si scorda mai, e quella delle OOIOO Yoshimi la ricorda così: "Il nostro primo concerto dal vivo fu al fianco dei Sonic Youth, mentre facevano il loro tour in Giappone. Avevamo provato appena una volta, poi ci esibimmo sul palco quella notte e diverse altre, sempre al fianco di Moore e della Gordon". OOIOO. Ma che razza di nome si è scelto Yoshimi per il suo progetto???: "Volevamo un nome che fosse essenzialmente un simbolo", spiega allora la percussionista, "qualcosa che puoi... vedere, diciamo". Ed infatti OOIOO qualcosa suggerisce alla mente. Che ne so: un simbolo alchemico? Una chiave grafica al concetto di infinito? La verità delle OOIOO è però di gran lunga più terra terra. Le OOIOO fanno parte, insieme ai gloriosi Faust, delle band nate per burla e riuscite col botto. La parola sempre alla fondatrice della band: "Un magazine giapponese che si chiama Switch voleva scrivere una storia basata su di me, ma non volevo essere fotografata sola soletta per la rivista, così ho chiamato un gruppo di amiche e abbiamo scattato una foto, fingendo di essere una vera band. Poi pensammo che sarebbe stato figo che questa band che non esisteva diventasse una band reale. Prima delle OOIOO non mi ero mai cimentata alla chitarra, e neanche gli altri membri della band erano dei gran musicisti, a dire il vero. La bassista, per esempio, non aveva mai visto un basso vero e proprio prima di iniziare con noi. Ai, la batterista, era forse l'unica persona fra di noi davvero capace di suonare il suo strumento". Modesta la ragazza. Ed ecco nata una nuova band. La band di Yoshimi (chitarra, voce, jewsharp, cashio tone, tromba, theremin, batteria, synth, effetti vari), Kyoko (chitarra, voce), Maki (basso, cori) e Yoshiko (batteria, cori). L'esordio su disco avviene nel 1997, complice il solito Yamatsuka Eye, che con l'uscita n°3 delle Nostre rafforza il catalogo della sua personale etichetta: la Shock City. La prima cosa, anche per chi distrattamente abbia seguito le vicende dei Boredoms, che salta all'occhio è che qui Yoshimi suona una quantità di strumenti, non solo la batteria. A cominciare dalla chitarra: "La prima volta che ho provato a suonarne una, mi ci sono volute due ore solo per capire dove infilare gli spinotti al posto giusto e per cercare di fare uscire dallo strumento dei suoni che per me avessero un senso. Le canzoni delle OOIOO nascono così di solito: caos e rumore generale, poi ci diamo da fare per raffinare il tutto". Anche se, a dirla tutta, 'raffinato' il disco omonimo (poi ristampato, nel 1998, per la statunitense Kill Rock Stars: in vinile è un disco bianco latte con copertina apribile) non potrebbe certo essere definito. E' vero che Yoshimi ci suona la tromba ("Una volta, alle scuole elementari, suonavo il trombone"), ma bisogna vedere che suoni ci tira fuori da quello strumento che fu anche di Miles Davis. Diciamo che le coglionerie geniali dei Boredoms non sono passate invano (Sister 001 figurerebbe bene anche su Pop Tatari), e diciamo anche che l'anarchia che fu degli Ufo or Die! non è andata persa, e anzi si arricchisce ancora di più se maltrattata alla maniera dei gruppi della storica No Wave (azzardiamo Teenage Jesus?) o della (allora) contemporanea Skin Graft. Ci sono i pattern ritmici prossimi all'industrial che incontrano l'indie song (Right Hand Ponk), ci sono tonfi ipnotici e tribali nella musica cosmica e nel prog-jazz (Switch), ci sono canzoni regolari (Ring A Ring A Lee, le Shonen Knife strafatte?), e non mancano schizzi hardcore che ben figurano nell'epoca dei Truman Water (OOai-OO). E si conta pure qualche numero che pirleggia sui Sonic Youth di Goo, e sul modo di cantare afono di Kim Gordon, strafogandosi in una paccottiglia di suoni sgusciante che fa plink plonk e si perde in un puzzle hardcore-cosmico a metà strada fra le sfere celesti e due sfere così (nel (doppio)senso che avete certamente intuito!). Affascinante. Il disco - prodotto da Yoshimi stessa, registrato presso gli studi Free People fra luglio e ottobre del '96, e che nei credits ringrazia anche Julie Caflitz - chiude i suoi 32 minuti di durata con i 4 del remix di Eye dal titolo Sister OO1 (Eye Mix): esercizio sublime di decostruzione ritmica nell'evo del drum'n'bass al suo culmine. Freak B eats of the World Ecco: i break beat. Qualcosa di più sul fatto che questo disco possieda mille vie di fuga ritmiche come pochi al mondo mai, ce lo spiega Yoshimi stessa, che alla domanda "quali sono state le tue influenza come batterista e percussionista", così risponde: "I break beat. Tu non sai quanto mi abbia influenzato vedere i Public Ebemy dal vivo". Supponiamo molto. Come (e non si fatica affatto a immaginarlo), ascoltando l'album, pare abbastanza chiaro che la signorina in questione non ami troppo le partiture codificate. Piuttosto si gasa improvvisando. Forse tutto deriva da traumi infantili, da quando era piccolina e la mamDROP OUT 29 free kitten ma la 'obbligava' alla settimanale lezione di Cho-on: "Quando avevo quattro o cinque anni, chiesi a mia madre se potevo prendere lezioni di piano. Lei mi disse che potevo, ma solo se prima prendevo lezioni di Cho-on, una specie di musica di chiesa corale che abbiamo qui in Giappone. Tutto l'affare consisteva nell'ascoltare. Una religiosa suonava il piano, e tutte noi dovevamo imparare la partitura direttamente dalle note e dall'armonia ascoltata. All'inizio mi divertiva pure, alla lunga era pallosissimo. Non mi piace, neanche oggi che sono cresciuta, lavorare con le partiture musicali". Ritornando a questo primo vagito sonoro delle OOIOO, aggiungiamo solo che riescono alla grande là dove Le Free Kitten ci provarono (e fallirono), rispolverando anche qualcosa del poderoso caos di metafisico rumore zozzo che era stato dei Pussy Galore più lerci e dei Royal Trux con più eroina in corpo. Altri due anni, e siamo al 1999, e Yoshimi darà un seguito a quel primo disco, che nel frattempo in USA un po' tutti gli addetti ai lavori hanno notato. E siamo in piena zona Father Float. Prima erano solo un gruppo di ragazzotte scombinate e geniali ma non troppo pratiche degli strumenti imbracciati? Ora non più. Ora con quegli affari che gli altri chiamano strumenti musicali, e che loro usano come armi improprie, ci hanno preso dimestichezza. Squadra che vince, non 30 DROP OUT si cambia, e l'organico, compresi gli strumenti suonati, rimane pressoché identico a prima. Quello che cambia è il gioco giocato dalle OOIOO. Prima erano i Fall. Adesso sono i Can. Prima c'erano echi dei Boredoms di Anal By Anal. Adesso cade sull'album, pubblicato dalla Polystar e poi ristampato dall'etichetta di San Francisco Birdman Records nel 2000, una polvere sottile che chiama alla mente Sun Ra che si concede ad una session con i Boredoms a venire, quelli capaci di volare alto con Vision Creation Newsun. Il prog è un altra fonte di sollecitazione fortissima per le OOIOO di allora. Meglio: da allora (in poi). Registrato sempre presso il Free People, fra l'agosto e il novembre 1998, Father Float è il primo frutto maturo della band. Da bambine capricciose a donne magari un po' bizzose, ma dai gusti precisi e a loro modo sofisticati. Un esempio? L'apertura di Be Sure To Loop, che pur di non smentire l'asserzione del suo titolo, ripete all'infinito indovinate che frase? Be sure to loop. Un loop vocale, un coro in crescendo, che un po' rimanda ai Can di Tago Mago nei momenti delle progressioni armoniche più coinvolgenti, e un po' a certe cose prog-jazz di metà Seventies. E, manco a volerlo fare apposta, quel che segue il pezzo citato è un nuovo numero di costruzione strumen- tale armonicamente ardita (anche se fortemente ancorata a modelli ritmici basati sulla ripetitività). Il pezzo si intitola Oizumio, ed è in realtà una cover dei nipponici 和泉希洋志. Non siamo distanti, ancora una volta, da quello che i coevi Boredoms vanno propinando in dischi come Super Ae, o l'ep Super Go!. Senza tenere conte che, stavolta, tutte le partiture (ci perdoni Yoshimi se così le chiamiamo) hanno una qualità etnica (poliritmie africaneggianti e nipponizzate: Ina) e psichedelica (il tropical punk degli Abe Vigoda con 10 anni quasi di anticipo? Eccolo: Ah Yeah!) inclassificabili. I pezzi da due minuti due, poi, non mancano, ma hanno un sapore molto diverso dal disco precedente: la black exploitation riletta e cazzeggiata di Jackson's Club "Sunspot", ad esempio, che introduce ai dieci minuti posti quasi in dirittura d'arrivo del disco: quelli di 1000 Frogs And 3 Sun In A House. Sempre ritmicamente incalzanti, con la chitarra che libera il twang, l'elettronica che disturba ma non troppo, l'atmosfera generale che sa di animismo puro e pure un pizzico di zen. Questo è un disco religioso che ormai omaggia sole, vento, acqua e fuoco, ma lo fa senza pensare che il rumore sia molesto e rovini la sacralità degli elementi della natura. Anzi: il rumore e il ritmo, l'essenza di queste OOIOO, sono qui compenetrazioni di una stessa essenza universale. Che queste OOIOO non siano le grandi eredi che il prog-rock nipponico (eversivo per natura) attende dai Seventies? Che non abbiano davvero raccolto la fiaccola che fu della Far East Family Band di Nipponjin? O magari dei Blues Creation? O forse di tutti e due messi assieme (l'incredibile coda strumentale e poliritmica di 1000 Frogs) solo aggiornati all'epoca dei break beats? Ai posteri l'ardua sentenza. Fino a questo punto della loro, seppur breve carriera discografica, le OOIOO sono state essenzialmente un progetto scanzonato e senza troppe implicazioni artistoidi. Japan underground rhythm Rispetto agli impegni istituzionali con Kim Gordon e le OOIOO, a partire da Yoshimio, P-We porta avanti con altrettanto impegno una copiosa attività underground sconosciuta ai più e volta ad esplorare lati ancora differenti dei già molteplici campi d’azione. Inaugurata nel lontano 1993 con il citato moniker (sospeso per più di un decennio), è a partire dal 1999 che la solo career diventa prassi parallela all’attività nelle band. Da questa data a oggi vengono inaugurati progetti specifici per l’approfondimento di alternati- ve tribali all’ipotesi Boredoms ma anche, all’inverso, volti sviluppare un’idea di ambient con accenti davisiani (la one shot Yoshimi & Yuka) e alcune collaborazioni fee-jazz miratissime con personaggi assai di culto come Mats Gustafson (Words on the Floor, Smalltown Superjazz, 2007), Jim O'Rourke e Akira Sakata (Hagyou, BounDEE, 2008). In tutta questa frenetica attività basata perlopiù sul ritmo, Yoshimio è il ritratto di una musicista che ogni tanto ama tornare a casa e ripartire dal proprio folclore, un progetto eminentemente domestico dunque, nel quale l’elettronica (pensate ai Mouse On Mars ma non troppo) si tinge di misurati slanci avant, ambient e al bozzetto elettroacustico. Dopo l’occidente e l’alienazione/liberazione mai lineare e armonica di jazz e noise, tornare a Oriente significa catarsi nel quotidiano, aspetti fondanti di Yunnan Colorfree (etichetta Commmons), lavoro commissionato per un documentario dello stesso nome popolato da fugaci fotografie e acquerelli di vite e mestieri. Non mancano i soliti svolazzi d’elettro povera stile San Francisco, l’industrial più ambientale che confina con la scuola rumorista, un jazz diluito ma sono soprattutto i field recordings di voci e suoni della sua terra che catturano l’immaginazione, proprio come un film di Yasujiro Ozu. L'album contiene anche una versione - registrata dalla Nostra assieme a Kim Gordon (che canta pure) e alla figlioletta Uta di 5 anni - di Death Valley 69, di sonicyouthiana memoria. Il ritmo qui è variabile aleatoria quando il percuotere è alla base degli altri due progetti. Il primo e probabilmente concluso nel 2002, è Psycho Baba dove assieme a P-We alle percussioni e agli effetti voce (la Kaoss Pad) troviamo il maestro Yoshidadaitiki al sitar e il batterista dei Boredoms ATR. Sotto questa ragione escono: TabLoveDubla TabLoveDubla TabLoveDubla (1998, Japan Overseas), una mesmerica traccia di un'ora che parte dai syntetisimi circolari del Terry Riley più barbuto per finire in un tripudio di tablas altrettanto circolari e ipnotiche dopo un’attesa interminabile ed efficacissima. E due sequel On The Roof Of Kedar Lodge (2000, Japan Overseas) e Liveeep (2001, Japan Overseas), album che ne ripercorrono le strategie e gli invisibili interventi digitali. Per essere veramente completisti sotto PsychoBaba escono poi una serie di EPs soltanto per il mercato giapponese sotto il nome – scritto però come si pronuncia questa volta - di Saicobab. Sono lavori più dilatati e astratti tra droni di sitar e le voci effettate di Yoshimi, l’esatto contrario dello spirito DROP OUT 31 del progetto imbastito dalla ragazza quattro anni più tardi, Olaibi, quintetto tutto al femminile e tutto jappo formato dall’omonima Olaibi alle conga, djembe, kalimba, campanacci, elettroniche e ukelele, Yoshimi alle vocals, melodica e effetti, la OOIOO Aya al basso e altre due donne (Misato Thiam and Chieko) ancora alle congas e djembe. Non così facilmente sintetizzabile, il progetto presenta sia lunghi trip su locked groove di percussioni serrate (la traccia che dà il nome all’album Humming Moon) sia bozzetti più veloci con gli inevitabili rimandi ai Residents ma sempre in una dimensione ultra pagana. Ad ogni modo, due gli album partoriti: Humming Moon Drip (3d, 2006) e il recente e ancor più dispersivo Tingaruda (3d, 2009), che in pratica potrebbero rappresentare dei Boredoms in un universo parallelo fatto del medesimo cerchio attorno al quale macinare loop ma senza la severità Zen sotto la quale sottostare. Inoltre dove per Psycho Baba era l’india, qui il terreno prediletto pare l’Africa sottoforma di Savana a doppia velocità oppure un Magreb bello sessuale e arrapato nei rush tanto che vien da pensare alla Tribal House ma – naturalmente senza cassa (Tower) e senza una personalità ad emergere. Altra caratteristica di tutti i progetti nei quali Yoshimi collabora è infatti l’impersonalità. Tutto il suono è il risultato di un afflato collettivo oppure una pennellata ambientale. Soltanto nelle collaborazioni all’insegna del free jazz è ammesso un solista. E adesso, dopo tanti succulenti antipastini, si ritorna alla portata principale. Loro sono sempre le OOIOO e hanno ancora qualche numero (notevolissimo) con cui sorprenderci... F lamin ' drums Passato Father Float, Yoshimi e compagne incominciano seriamente a pensare cosa fare di loro. Sono grandi. Sanno suonare. E suonano così particolari e uniche. Che fare dopo un secondo disco come quello, così diverso dal primo, ma anche meglio riuscito? La risposta è il terzo album della band: Gold & Green (PSCR, 2000). Un disco inferiore al precedente (e infatti avrà meno successo di quello), ma totalmente immerso nei poliritmi etnici (Brasile, Africa: vedi l'opener Moss Trumpeter), o in giochi avant-garde (già in parte sviluppati nel progetto solista di Yoshimi che, appunto, da lei prende il nome:Yoshimi) come lo scazzo prog-jazz minimalista di Grow Sound Tree; e ci vorranno quattro anni per dargli un seguito. Kila Kila Kila (Thrill Jockey, 2004) è ancora 32 DROP OUT un album incerto, sottotono, ma che presenta delle novità. Novità numero 1: le OOIOO non sono più quelle di prima. No, non intendo le solite menate ontologico-psicologiche-confessionali. Non sono più quelle di prima perché, a parte il deus ex machina Yoshimi (che cura tutti i testi), per davvero non è rimasto a suonarci nessuno dei vecchi membri della band. E così i nuovi si chiamano Kayan (chitarra e cori), AyA (basso elettrico e cori) e Yuka Yoshimura (batterie e cori). Yoshimi alla tromba, all'organo, al piano e alle percussioni e siamo di nuovo in pista. E qui sta la novità numero 2: ma non sembrano neanche loro su questo disco! Paiono una cosa a metà fra Moondog, Cibo Matto, Partch e una band krauta al suo apice jazz-prog (facciamo i Guru Guru di Don't Call Us We Call You, 1974, solo dediti al terzomondismo di Fela Kuti: vedi On Mani). Album di transizione. Ma anche album che mica si capisce verso cosa vuole mai transitare: la lounge? Il prog? L'etnica? La psichedelia? Otto tracce che hanno il loro apice nei 15 minuti di Aster. Estasi zen e persino una strana commistione, astrattissima, di chitarre funk-punk su di un tappeto sbrodolante prog. Nel frattempo, proprio quell'anno a dire il vero, i Boredoms pubblicano un altro dei loro classici (Seadrum/ House Of Sun) e, qualche tempo dopo, qualcuno domanderà a Yoshimi se di quel suo primo gruppo rimpianga qualcosa: "No, per nulla. Non guardo alla mia esperienza con i Boredoms con nostalgia. Certo, con Hira e Yamamoto come membri siamo stati grandissimi, ma abbiamo comunque espresso tutto il possibile con quella lineup".Yoshimi ci ha messo una croce sopra a "quei" Boredoms. Ce lo spiega in un bel servizio al magazine Signal To Noise dello stesso anno. Ma qual è la vera cifra stilistica delle OOIOO? La critica stufa delle canzoni, delle solite mode, e di tutto ciò che si compiace dei cliché, le adora per l’imprevedibilità che ogni brano OOIOO come dio comanda si porta appresso. Le intellighenzie avant le amano per le abilità strumentiste sotto ai panni freakadelici in grado di blindarti un groove per ore come andar di free per altrettanto tempo. Il pubblico, beh il pubblico farebbe bene a non fermarsi ai bei visini e al fascino esotico di queste cinque signorine nipponiche e a lei, Yoshimi, che ne è la famigerata leader. Farebbe bene a smetterla con quello che è un autentico luogo comune che l’associa ogni santa volta a un album al quale ha certamente collaborato ma ha poco a che fare con lei. Quale? Yoshimi Battles The Pink Robots dei Flaming Lips ovviamente, che per la cronaca parla di lei come metafora (sapete i Lips come sono complicati) e poi racconta di un’altra Yoshimi proprietaria di un negozio di dischi e morta in circostanze tragiche e improvvise. I Lips hanno caratterizzato quell’album mettendoci la nostalgia/affetto in un braccio e l’effetto speciale cartoon nell’altro, due aspetti che Yoshimi sembra rispedire al mittente restringendo i ranghi in un suo mondo che semmai dell’infantile cava l’aspetto più cattivello, istintuale e anarchico. Yoshimi è innanzitutto questa bella dicotomia: una ragazza minuta dalle cui bacchette/mani/strumenti esce di tutto e, per giunta in maniera persino impersonale (per noi occidentali ovviamente) e un’enciclopedia musicale tagliata sotto una ferrea idelogia trans-global che unisce tre generazione di hippy. E che passione che ne esce anche se a vederla dal vivo con il suo gruppo storico di riferimento, i mitici Boredoms, suonare un ritmo base di batteria incessantemente per decine di minuti è assolutamente glaciale. E lì in ballo c’è lo zen fatto con i tamburi. Misticismo trans-qualcosa appunto e fate conto che il primo brano del precedente album Taiga (2006) firmato OOIOO è figlio di quell’esperienza. E’ musica di resistenza personale e per chi l’ascolta. Ma è anche la pietra d’angolo per tracciare un’importante differenza tra i progetti di Yoshimi e il gruppo di Eye, a differenza di quest’ultimo infatti il sound di Yoshimi è intimamente freak, un melting pot di esotismi afro-orientali in perenne tensione e qualche rilascio dove non manca neanche la wave e il rock, l’exotica e il kraut. Taiga poi, nasconde delle soprese. Come in Uma, dove compare un frammento corale del Secondo Coro Delle Lavandaie (tratto dall'opera teatrale del 1976 dal titolo La Gatta Cenerentola) di Roberto de Simone. Al che gliene domanderanno pure, a Yoshimi, ed ecco che ne dirà: "Mi capitò di ascoltare un dj mix di un dj tedesco che includeva un sample di quella canzone. Una canzone che sembrava sprizzare amore per la vita da ogni nota. Non capivo di certo il significato delle parole, ma ebbi come una folgorazione: "Devo fare questa canzone [nda: Uma]". Così mi misi a fare qualche ricerca e mi procurai quel cd". A rmoniche hewa A conti fatti, in Taiga c’è talmente tanto che il too much è matrice di un sound che non vuole gabbie e detesta ogni commerciabilità e naturalmente così facendo finisce per farsi riconoscere. Yoshimi oggi è ampiamente riconoscibile sia come parte interdipendente dei Boredoms (il virtuosismo e la severa matrice zen applicata al locked groove strumentale) sia come entità autonoma nei suoi Oh Oh Eye che con Armonico Hewa (2009) sesto album della band firma anche il personale capolavoro. Certamente i riferimenti post-punk, come la maturazione di quelli sanfranciscoani di vecchia data (dai quali il post punk ha a sua volta preso molto), hanno aiutato non poco a stendere un giudizio così lusinghiero, eppure qualcosa di magico nel nuovo lavoro di Yoshimi c’è ed è un equilibrio tra essenze rock e avant al quale definitivamente tutte le altre spezie si piegano. Rispetto a Taiga e ai suoi giochi call and response colati nelle mille fascinazioni afro, Harmonico carica l’urbano e lo mistifica, s’avvicina a esperienze artpunk The Wire e naturalmente slabbrature alla sei corde Gang Of Four. Postilla conclusiva: per i completisti della discografia delle OOIOO, sono almeno da segnare una manciata di dischi: Shock City Shockers 2 (Shock City, 2001), contenente remix su pezzi delle Nostre a firma Yamantaka Eye, Kan Takagi, Kiyoshi Izumi e Nobukazu Takemura; il discretamente interessante e semi-compilativo COCOCOOOIOO: The Best of Shock City 1997–2001 (uscito nel dicembre 2004), un singoletto di remix curato dal solito Eye (OOEYEOO - Eye Remix, Thrill Jockey, 2007) ed infine il dvd, ancora su Shock City OOHOHOOOOIOO Music Video's '99-'07. DROP OUT 33 Recensioni::::novembre:: ►►►► 2562 - Unbalance (Tectonic, Ottobre 2009) G enere : techstep broken house Menù fisso techstep per l’olandese Dave Huismans. Se nel primo Aerial 2652 ci andava di ortodossia emula e non esaltava, oggi il ragazzo si sposta dai binari già battuti dei padri nobili inserendo vocals e ritmi appartenenti alle esperienze trasversali di Flying Lotus e Martyn. Lo step che si sporca con le atmosfere di A Guy Called Gerald (Lost), con l’acidità e gli organetti jazz distopici (Dinosaur e Unbalance), il dub à la O.R.B di Superflight e gli spezzettamenti manieristici di Who Are You Fooling? e per finire con l’ambient ereditata dai Boards Of Canada (Narita). Una scalibratura verso suoni più trancey e progressivi lo accostano idealmente al Belgio e al nord Europa continentale: per far uscire l’anima dalle macchine ci vorrebbe però il culto Joey Beltram. Non siamo ancora a quei livelli, ma ci stiamo avvicinando (vedi la conclusiva Escape Velocity). Il distacco dal citazionismo che promette bene.Take your time, Dave.(6/10) Marco Braggion A Place To Bury Strangers Exploding Head (Mute, Ottobre 2009) G enere : shoegaze rumorosa Presentarsi all'esordio con un disco al limite del tributo da cover band di paese si può perdonare come errore di gioventù. Perseverare col secondo riproponendo - se possibile accentuandola ancor di più l'ossessione per il suono della trimurti My Bloody Valentine/Jesus & Mary Chain/Spacemen 3 può suonare come a) una estrema mancanza di creatività; b) un culto al limite del patologico; c) una clamorosa presa per il culo. Sia come sia, questo Exploding Head esplode letteralmente di suoni e deviazioni (prevalentemente) chitarristiche giocando come al solito con volumi eccessivi ma anche introducendo qua e là - sporadicamente a dire il vero - qualche elemen34 recensioni to diverso nel tessuto da post-shoegaze in totale overdrive che è la cifra stilistica dei tre: non solo dei Black Rebel Motorcycle Club in trip da steroidi (Ego Death), insomma, ma anche un minimo di grezzume r’n’r (ossessivo alla Cramps, per intendersi) come in Deadbeat, una bella spruzzatina di goth-industrial, diciamo sul versante più pomposo e pompato alla Sisters Of Mercy come in In Your Heart o nella title track, rimandi citazionisti alla wave più dark come dei giovani e violenti Cure (Keep Slipping Away). Il risultato, stranoto quasi sino alla nausea, suona però credibile, catchy fino al midollo, impossibile da dimenticare anche e soprattutto per via di una produzione al limite della perfezione che sopperisce in tecnica (oltre che in wall of sound stratificato e a tratti devastante) ad una innegabile limitatezza creativa dettata anche dal recinto di genere. Così alla fine del disco, mentre ci si ritrova imbambolati a far ripartire il lettore, ci si rende conto che forse delle 3 ipotesi di cui sopra, la seconda non è che sia proprio così sbagliata.(7.1/10) Stefano Pifferi AA. VV. - Ciao My Shining Star: The Songs Of Mark Mulcahy (Shout! Factory, Settembre 2009) G enere : indie rock Una vicenda che tocca il cuore e l’anima, l’antefatto a questo disco. Mark Mulcahy era negli anni ’80 il motore creativo degli americani Miracle Legion, formazione tra le più valenti e originali nel seguire le orme dei R.E.M. Lo scorso settembre, poiché la giustizia non appartiene a questo mondo, è venuta a mancare Melissa, moglie di Mark e madre di due gemelle di tre anni. Ci si chiede come l’uomo possa tirare avanti e un contributo lo porge questo “benefit”, dal non indifferente merito di esortare una riflessione sulla classe di quei ragazzi del Connecticut. Che raccolsero poco o nulla economicamente ma sfornarono almeno due lavori consigliati prima di sciogliersi a metà dello scorso decennio, pertanto highlight Bloody Beetroots (The) - Romborama (Dim Mak, Ottobre 2009) G enere : italo post - fidget Dopo una svagonata di remix per chiunque personaggio del panorama ritmo, ecco il disco di Bob Rifo e Tommy Tea. E qui siamo al doppio che riassume un orgoglio italo che non è manco più italo, perché solo dopo aver ottenuto il successo internazionale li abbiamo voluti di nuovo in patria. Tornano come vincitori e il messaggio è chiaro: spaccarsi il culo -alle volte- paga. Ci sta anche il parallelo con i Justice. La cattiveria e la cupezza ci sono, gli inni anche, il fashion non manca (anche se qui è un po' più de noantri). Partire allora alla conquista di infiniti dancefloor: dal loro pulpito ti sparano delle cose del calibro di Romborama, ma anche dei cambi di stile che ti fanno pensare alla melodia di un Benassi (Have Mercy On Us) o al tocco di Mr. Oizo (Storm). 20 canzoni per la generazione post-fidget, per chi ha come idoli i Daft Punk e cavalca la notte incurante di far parte di una catalogazione il più delle volte forzata. Se siamo ancora qui a parlare di fidget, di french touch e di scuola Kitzuné, probabilmente le tracce sono ancora fresche. Oggi siamo così, ascoltiamo e balliamo le cose che tempo fa pensavamo fossero solo per maniaci. Questo disco trasforma in pop tutta quell'eredità acido/nerdy e la innesta con il metal e il breaking. Un disco che chiude in anticipo di un anno la prima decade degli anni 00. Rifo e Tea: orgoglio e pregiudizio.(7.4/10) Marco Braggion quale migliore occasione per (ri)scoprire un talento che trasfigura in chiave favolistica radici e nevrosi new wave. Tutto so eighties, penserete, eppure i Miracle Legion oggi reggono benissimo e lo dimostra il materiale - proveniente anche dal seguito della carriera del Nostro - interpretato da una platea eccezionale per blasone e ricchezza. Scontato un pugno d’inefficaci ben intenzionati (inclusi i Mercury Rev, ormai alla frutta), spiccano Thom Yorke (All For The Best) e Michael Stipe (Everything’s Coming Undone) in bilico tra cuore acustico e abiti elettronici, un Frank Black torbido e convincente come mai (Bill Jocko) e il “solito” Vic Chesnutt che commuoverebbe anche le pietre (Little Man), laddove le contorsioni dei Rocket From The Tombs (In Pursuit Of Happiness) contrappuntano il folk fragrante di Juliana Hatfield (We’re Not In Charleston Anymore) e quello agitato di Elvis Perkins (She Watches Over Me). Apprezzabile anche il resto, soprattutto i Dinosaur Jr. che si appropriano di The Backyard e l’epica sostenibile con cui The National infagottano Ashamed Of The Story I Told.Ventuno in totale i brani che ci auguriamo donino un po’ di sostentamento economico a Mulcahy. Quasi altrettante le ragioni per acquistare Ciao My Shining Star, bello a prescindere dai suoi drammatici risvolti.(7.4/10) Giancarlo Turra recensioni 35 AA. VV. - Quit Having Fun (Boring Machines, Ottobre 2009) G enere : experimental sounds Ci si chiede spesso se ha ancora senso pubblicare compilation più o meno tematiche nell’era della circolazione infinita delle musiche. La risposta è sovente no, con alcune sporadiche eccezioni. Quit Having Fun è una di quelle. Apparentemente senza un filo conduttore che non sia la voglia di riunire artisti amati e amici - non necessariamente apparsi sul catalogo Boring Machines - sotto l’insegna del motto della label che da titolo al tutto, questo doppio cd in edizione cartonata e curata come da tradizione inanella 23 artisti per 143 minuti di musiche sperimentali e fuori asse. Si passa cioè con estrema nonchalance dai flutti droning al field recording più o meno trattato e/o astratto, dall’elettroacustica all’improvvisata più o meno radicale. E il risultato, molto meno disomogeneo di quanto sia lecito attendersi da una compilation che riunisce progetti molto distanti come Arbdesastr e Black Forest/Black Sea o Sparkle In Grey e Ben Reynolds. Un apprezzamento particolare (e personale) va ad un insolito Claudio Rocchetti in vena di nenie sub-atomiche (Be Shy!), alle basse battute atmosferiche degli sloveni Coma Stereo (Ghostly), al crescendo in saturazione di Die Stadt Der Romantische Punks, side project di Jukka Reverberi (Guitar Act. 2) e alle consuete stasi ambientali di Andrea Marutti (A Depressing Study In Wandering Wonders). Insomma, nata come affare di famiglia o quasi, Quit Having Fun rischia di diventare il barometro della scena sperimentale internazionale sul finire degli anni 00.(6.8/10) Stefano Pifferi AA. VV. - Clowns And Jugglers - A Tribute To Syd Barrett (Octopus, Settembre 2009) G enere : vari Esce per Octopus Records questa raccolta di saggi sull'arte musicale del Cappellaio Matto e i motivi di interesse sono molti. In primo luogo perché si parla di Syd Barrett, con tutta l'aura di obliquità chimica che il Nostro si porta dietro e le difficoltà a rielaborare un songbook così particolare. Poi perché a dar voce alla psichedelia slabbrata di The Madcap Laughs, Barrett e Opel è un plotone agguerritissimo di band (più o meno) underground internazionali e italiane. Infine perché i brani proposti sono quasi 36 recensioni sempre reinterpretazioni - spesso radicali - e non a omaggi rispettosi, fatta eccezione forse per le sole It Is Obvious di Moltheni e Love Song dei Roses King Castles. Il che significa ascoltare i notevoli Fuh trasformare una Long Gone in origine chiaroscurale in un assalto sonico spropositato, i Gasparazzo sollazzarsi con una versione reggae di Love You (si, Syd Barrett funziona anche in “levare”), i Super Elastic Bubble Plastic ritagliare una efficacissima Dominoes su un tappeto noise, i Baby Blue “garagizzare” una Dark Globe trasformandone l'innocente disperazione originale in una cavalcata scoordinata e sonnacchiosa di chitarre elettriche. La palma di “miglior talebano delle cover” va a Vanproof (Baby Lemonade), Entrofobesse (She Took A Long Cold Look) e Filippo e Francesco Gatti (Golden Hair), capaci di trasfigurare completamente i brani passati sotto setaccio, mentre quella di “episodio più stiloso” se la aggiudica una Terrapin degli Atari in bilico tra sussurri e elettronica. Oltre alle formazioni citate sono della partita anche Mesmerico (No Good Trying), Low-fi (No Man's Land), Mad Hatters Project (Octopus), From Tropics With Love (Rats) e quei Jennifer Gentle emanazione diretta del verbo del Cappellaio Matto, qui chiamati a spiegare una Opel per tradizione margine estremo della produzione ufficiale di Barrett. In un disco che impone un giudizio più che positivo, visto come si arrischia a maneggiare materiale ampiamente interiorizzato senza scadere nel ridicolo e anzi aggiungendo classe a un canzoniere di per sé già geniale. Quest'ultimo raccolta di spaccati musicali inaspettatamente malleabile, tanto da non temere nemmeno attualizzazioni lontane anni luce dallo stile originale del suo autore.(7.3/10) Fabrizio Zampighi AA. VV. - Variations in white part 1 (White_Line Edition, Settembre 2009) G enere : microsuoni Primo di una serie di meditazioni sul colore bianco, l'uscita White_Line gioca e modella il suono tra melodia e drones, dichiarandosi suggestionata, per semplicità e purezza, dall'elettronica digitale e microsonica. Utilizzando un marcato sottofondo di onde corte, un rallentato e granuloso fraseggio di superficie ed una miriade di fluttuanti particelle, Variations in white Part 1 decide di mettere in mostra l'intensità dei propri cromatismi attraverso la luce, filtrata da un leggero e sospeso correre di minuscoli aghi sonori accorpati poi in quattro tracce, per quattro artisti e quaranta minuti in tutto. Comune denominatore l'ambient, un bianco ascetico e magmatico, divenire di un risveglio per Lawrence English, raccontanto e ritrovato tra accartocciati field recording e contrappunti atonali in Shinkei, sovraesposto al forte contrasto (e sottolineato dalle fisicità del suono) in Miguel a Garcia, oppure narcolettico - e risonante - per Andy Graydon. Magnifici laboratori d'elettronica asciutta da incontrare nel silenzio e assumere quotidianamente alla ricerca di un iniziato rinnovamento.(7.2/10) Sara Bracco AA. VV. - New Moon (Original motion picture soundtrack) (Chop Shop, Ottobre 2009) G enere : indiewaves for the mas ses Non abbiamo visto il primo capitolo della saga di Bella e del vampiro Edward, adattamento del romanzo di Stephenie Meyer. Uno dei fenomeni del momento, come si dice, e infatti accostato da molti al mondo emo-teen, accolto tra beatificazioni e crocifissioni alla Nonciclopedia. Adesso sta per uscire il seguito, New Moon (Bella, mollata da Edward, si avvicina al lupomannaro Jacob), ed eccoci qui ad ascoltarne la colonna sonora. Come per il primo film, canzoni scritte ad hoc da un serie di nomi di richiamo. Lì, tra gli altri, Muse, Linkin Park, Perry Farrell e Iron & Wine. Un prodotto fatto bene. E se non proprio in territori emo, ci troviamo in territori emotional latu sensu, tra poprock enfatico (e con qualche affondo glammie), folk lamentoso o sussurrato alla Giuppy Izzo e derivazioni postpunk. La formula, perfettamente funzionale, si replica. Qui i nomi sono Death Cab for Cutie (forse il pezzo più incisivo), Thom Yorke (pulsante e atmosferico), Killers (col loro retrogusto gospel), Black Rebel Motorcycle Club (niente di che la loro take folkie-blues), Editors (piano, voce, cori) e ancora - Muse (un classico dei loro). Tutti i brani si lasciano ascoltare (e molto meglio di quello che si poteva credere). Rosyln di Bon Iver & St. Vin- cent prende la base di chitarrine dalla Chinese Firedrill di Mike Watt e Black Francis.(6.4/10) Gabriele Marino AA. VV. - Cosmic Balearic Beats Vol. 2 (Eskimo Recordings, Ottobre 2009) G enere : balearica Che gusto nello scrivere balearica tout court per una compilation. Quell’aggettivo è un utopia mai realizzata: il sogno paradisiaco di vivere in una nuvola, di avere albe a disposizione nelle tasche, di poter sorseggiare cocktail guardando il mare, tralasciando il business, accompagnati da qualche visione pompata da coadiuvanti chimici. Il post-Manchester di chi ha passato i trenta, di chi sa che tra poco diventerà adulto e che non avrà più tempo per i tramonti e lo sciabordìo. La compila che abbiamo sottomano surclassa il primo volume di qualche anno fa e si pone come unica alternativa ai party ibizenchi per questo lungo inverno 09. Come nelle migliori selecta, non lo senti il passaggio da traccia a traccia. Le dissolvenze si nascondono in un lento crescendo che va dal piano jazz 80 di Slight Delay (Can You Feel It) ai pizzicati rondovenezianeschi di Nelue (No Strings Attached), dal basso e i synth di Giorgio nel pezzo di Marbeya Sound (Salomon’s Take), alle affinità con l’archeologia dei Chromeo in Zoe Et Heine di Premier Rang. E poi ancora progressioni, uptempo white funkiness (Volgograd), un tocco gitano (YES Maam) e tanta tanta anima. Merita l’ascolto ripetuto. Altro che Buddha Bar.(7.5/10) Marco Braggion Adrian Crowley - Season Of The Sparks (Chemikal Underground Records, Novembre 2009) G enere : songwriting , chamber folk Quinto album in carriera e primo su Chemikal Underground, Season Of The Sparks vede il songwriter irlandese Adrian Crowley raccogliere le fila del suo cantautorato intimistico. Una vena melodica e canzoni che rimandano prettamente da una parte, come atmosfere e vocalità, ai classici Leonard Cohen, Robert Wyatt e Lee Hazlewood, dall’altra si estendono fino a recensioni 37 lambire territori vicini a un Bill Callahan, ma con maggiore solarità e ad un Antony per pathos nonché all'Arab Strap Aidan Moffat. Immerso totalmente in atmosfere bucoliche e pastorali dedicate alla sua terra, con liriche che vanno così a formare un concept, il disco si pone tra canzone d’autore e chamber folk; viola, violoncello, harmonium, mellotron creano atmosfere rarefatte e sospese, tra ballad, pezzi stratificati che richiamano il Brian Eno solista dei primi anni ’70, citazioni (l’omaggio a Ivor Cutler in Squeeze Bees) e in generale una scrittura personale che ben tiene insieme il tutto, facendo assomigliare Crowley solo a se stesso ormai. Season Of The Sparks è allora un album che conferma la crescita di un autore interessante che merita visibilità.(7.2/10) Teresa Greco Ahleuchatistas - Of The Body Prone (Tzadik, Settembre 2009) G enere : hardcore beefheartiano Una foto promozionale li ritrae in un negozio di dischi tra gli scaffali del settore metal estremo, ma non fanno metal. I loro concerti sono tesi - da vene sul collo ingrossate e magliette zuppe di sudore - ma compostissimi. Il sito della Tzadik li etichetta come hardcore improvisers. Loro si definiscono avant-technical, post-Beefheart, improv-core, math-metal, art-damage, punk-rock power trio from Asheville, North Carolina. Ci siamo capiti: una sfibratura rock come la intedeva il Capitano (e quindi come la intende certo post) applicata ad un hardcore cerebralizzato secondo i dettami avant/impro dei Massacre di Fred Frith (ma senza richiami prog). Una demuscolarizzazione delle intuizioni dei Don Caballero, una demat(h) ematizzazione di quelle degli Hella (i cuginetti chitarristici dei Lightning Bolt). Il difetto di questo quinto album del gruppo è lo stesso che affligge i dischi precedenti (come pure gran parte delle produzioni del genere), ed è un piccolo paradosso: ripetitività e dispersività. L'effetto fuffa (soprattutto nei momenti di loungerumorismo aleatorio) di molta radicalshitness.Tre-quattro pezzi comunque si impongono sugli altri.(5.7/10) Gabriele Marino 38 recensioni Alberorovesciato - Tigers In Acid In The Hell Of The Brushwood (Singing Knives, Settembre 2009) G enere : tribal madnes s Sono al secondo disco dopo Ancient Shining Drums of the Covered City su Stunned, ma forse - complice anche una tiratura che dire limitata è eufemistico - in pochi se ne sono accorti. Eppure sono italiani, seppur residenti a Berlino, e gironzolano marginalmente per il giro sommerso della Hundebiss oltre che essere coinvolti nell’ensemble Phonorama con Sinistri, Claudio Rocchetti (a.k.a. Olyvetty), 3/4HadBeenEliminated e altri. Il moniker che si sono scelti è già in sé un neanche tanto velato rimando alle filosofie orientali, cabalistiche e anche classicamente europee. Roba che marchia a fondo le musiche del duo, perché il legame con il mondo naturale evocato dal progetto è nulla in confronto allo stridore primitivo del percussionismo tribaloide, estenuante e brutale col quale Francesco Cavaliere e Marco Lampis annientano chi ascolta. Tutto rigorosamente acustico, magicamente naturale e ossessivamente ritualistico, Tigers In Acid… è nichilismo dada al limite dell’autismo, tour de force percussivo che rasenta il rito voodoo, sabba psicotico che rifugge tecnologia ed effettistica digitale per (ri)piegarsi in un contatto materiale con le fonti sonore più disparate, purché percuotibili. Se si potesse ipotizzare un gamelan occidentale, beh, molto probabilmente sarebbe simile a Alberorovesciato.(7.1/10) Stefano Pifferi Alec Ounsworth - Mo Beauty (ANTI-, Ottobre 2009) G enere : S ongwriter C’è un produttore d’esperienza dietro al debutto del Clap Your Hands Say Yeah, Alec Ounswrth. Steve Berlin ha lavorato con un sacco di gente disparata dai Los Lobos ai mitologici Replacements e il leggendario John Lee Hooker. Poi ci sono dei bravi musicisti: George Porter, Jr. al basso, Stanton Moore alla batteria, Robert Walter (tastiere), e Matt Sutton (pedal-steel) più i sessionmen del luogo, Mark Mullins, Craig Klein, Greg Hicks, Washboard Chaz, Shannon Powell, John Boute, Al "Carnival Time" Johnson e Meschiya Lake; e uno studio, il Piety St. tra i più famosi di New Orleans consigliato dallo stesso Berlin e il solo luogo in cui certe magie possono accadere. Il ragazzo di Philadelphia di suo per quest’esordio, Mo Beauty, c’ha messo il sale. Ce n’ha messo tanto e, per cominciare, una penna inclinata al solito tra folk e wave, ma ben d’altro passo rispetto al gruppo. David Byrne, Bob Dylan, Tom Verlaine, Tom Waits e uno più vicino a noi, Darren Hayman (ovvero Hefner e già mito per il sottoscritto) li troviamo già perfettamente incamerati e assimilati. E le ambientazioni sono incantevoli: dissonanze appena accarezzate nell’operner, country elettrico a passo di marcia per Me And You Watson, bandismi neworleansiani dai sapori stax in una funambolica Idiots in the Rain, latitudini esotiche nell’honky tonk darreniano South Philadelphia (Drug Days) e di più, verso metà scaletta strutture che si fanno più asciutte per una scrittura che ha fame di dire e raccontare e scopriamo una noir Modern Girl (...with scissors), la romantica Obscene Queen Bee #2 (chitarra e tastiere quasi Dire Straits) per poi venire di nuovo travolti dallo studio e dai guest. Soundtrack quasi da piccola opera condensata per That is not my Home (after Bruegel) dove a suonare con Alec pare ci sia un’orchestra intera. Così, arrivati a What Fun e WhenYou've No Eyes, quest’album non può che strapparti il proverbiale “fatto bene come i classici di un tempo” e non è uno scherzo. Produzioni, scrittura e artigianato di questo tipo sono difficili da trovare sotto lo stesso tetto, soprattutto nei Duemila. E del resto Mo Beauty non ha bisogno di paragoni, il sapore di un classico ce l’avrebbe comunque.(7.2/10) Edoardo Bridda Alela Diane/Alina Hardin - Alela and Alina – Alela Diane featuring Alina Hardin (Rough Trade, Ottobre 2009) G enere : folk Un paio di originali di Alela, uno di Alina Hardin (Crying Wolf), una cover di Townes Van Zandt (Rake) e due traditional folk (Bowling Green e Matt Groves) per questo EP uscito in vinile e in digitale realizzato in collaborazione con Alina Hardin, da un po’ di tempo ai cori con la Diane e qui alla sua prima uscita ufficiale. Voce e chitarre delle due folkeuses, tutto in acustico, con la voce della Hardin più sottile ed evanescente rispetto alla profondità della headliner; sei pezzi che richiamano per atmosfere il disco d’esordio di Alela, The Pirate’s Gospel (2007) più che l’ultimissimo To Be Still (2009), per lo scarno folk blues, con il solito retrogusto inquieto. Un’attitudine nude folk che ci piace sempre.(7/10) Teresa Greco Alessandro Grazian - L'abito EP (Trovarobato, Ottobre 2009) G enere : cantautorato da camera L'unico difetto di Alessandro Grazian è sempre stato quello di peccare di auto-indulgenza. Non tanto nelle musiche. Quelle, da Caduto in avanti sono cresciute esponenzialmente trasformando un cantautorato aristocratico un po' à la Branduardi - almeno nell'idea generale - nella musica da camera che abbiamo avuto il piacere di ascoltare nell'ultimo Indossai. Quanto nei testi, spesso sorpresi a contorcersi in un rimpiattino dalle mire fin troppo alte rispetto alle reali capacità comunicative. L'impressione, insomma, è sempre stata quella che fosse necessaria un'asciuttezza maggiore, quando non un centro di gravità semantico che fosse una reale mediazione tra le esigenze dell'autore e l'autorevolezza di un testo proposto a terzi. Ci voleva un Ep perché tutto ciò si realizzasse, il qui presente L'abito, in cui si arriva finalmente alla sintesi perfetta tra musica e parole. Una verità che ne nasconde un'altra: se non ci si trova sempre davanti ai brani più riusciti della produzione di Grazian - ma L'abito e Solo lei sono da applausi -, di sicuro si può godere dei più maturi musicalmente parlando. Tanto che non si scorge un solo difetto nei cinque episodi in scaletta e ci si stupisce della complessità raggiunta da una scrittura coraggiosa e da orchestrazioni - Nicola Manzan al violino, Giambattista Tornielli al violoncello, Riccardo Marogna ai fiati, Nereo Fiori alla fisarmonica, Alessandro Arcuri al contrabbasso, Tommaso Cappellato alla batteria, - raffinatissime. Un incedere elegante che tra le accelerazioni quasi orientaleggianti di Incensatevi e gli archi suadenti di Sulla via conferma il peso specifico di un autore elaborato ma (finalmente) non pretenzioso, sulla via della maturità artistica.(7.4/10) Fabrizio Zampighi Amor Fou - Filemone e Bauci (Autoprodotto, Giugno 2009) G enere : pop d ' autore L'aurea mitologica del titolo non segna nostalgie museali o sterili classicismi ma un'intenzione narrativa nei confronti di una storia d'amore estinta come tutte le cose sacre del nostro tempo ed evocata per recensioni 39 via di una tradizione il più possibile condivisa. Gli Amor Fou post La stagione del cannibale - buon esordio di due anni fa per la compianta Homesleep - così ripartono dopo la fuoriuscita di Cesare Malfatti e Luca Saporiti dal gruppo, andando verso un suono che pianta stabilmente in Italia le sue tende. Nelle Metamorfosi di Ovidio Filemone e Bauci invecchiano insieme in una capanna di canne e fango lasciando che il loro amore renda meno invivibile la povertà. Sono gli unici ad accogliere Zeus ed Ermes scesi sulla terra in sembianze umane e il re degli dei li premierà trasformandoli in una quercia e un tiglio uniti per il tronco, esaudendo così il loro desiderio di morire insieme. Queste poche immagini servono ad Alessandro Raina e compagni per raccontare la fine di un legame persosi nelle paure e negli errori di una generazione, quella dei trentenni, impossibilitata e incapace di un oltre che non sia fatto d'eterno e immutabile presente. Gli Amor Fou lasciano nel ripostiglio le ascendenze Morr dell'opera prima e si concentrano su un songwriting che riqualifica con linguaggio e tonalità attuali ma gusto retrò il ventennio migliore del cantautorato nostrano, ovvero i sessanta-settanta. Il Lucio Battisti con coda strumentale in drumming raveliano sempre sul punto di esplodere della splendida title-track (sicuramente una delle canzoni italiane dell'anno); la nudità erosiva di Piero Ciampi nei cori cangianti della brevilinea Il ticinese; in ultimo, la rilettura convincente, soprattutto sotto il profilo vocale, de L'ultima occasione scritta nel 1965 da Jimmy Fontana e Tony Del Monaco per Mina e rifatta recentemente anche dai Non Voglio Che Clara. Tre brani per ridisegnare un percorso che sull'onda dei vari Baustelle e Paolo Benvegnù, e nella prospettiva di un nuovo disco sulla lunga distanza, si fa ancora più consapevole e personale. Ne sentiremo delle belle.(6.7/10) Luca Barachetti Annie Hall - Carousel (Pippolamusic, Ottobre 2009) G enere : folk pop Due anni dopo il buon Cloud Cuckoo Land riecco tra noi gli Annie Hall. Fa piacere che siano cresciuti come e quanto potevamo augurarci. Ascoltando le undici tracce di questo Carousel ti viene infatti da pensare che abbiano riflettuto bene sugli argomenti giusti, concentrandosi sui punti di forza, sulle inclinazioni, sulle declinazioni possibili. Auspi40 recensioni cabili. Hanno tirato le fila delle esperienze con risoluta tenerezza, così da far quadrare le coordinate espressive e sentimentali. Scrittura e interpretazione si sono fatte un bel giro fuori dalla cameretta guadagnandone in credibilità. Quel che gli senti tremare dentro è un adulto stare tra le cose, ciò che vale tanto per l'ebbrezza beat da cuginetti scabri degli Oasis di Paralyzed che per la preziosa trepidazione Magnetic Fields via Mojave 3 di Lips. Quella brama pop che tremolava tra brit e psych, con esiti invero già abbastanza intensi, s'ispessisce oggi di accorto malanimo Wilco e delicati indolenzimenti Eels (vedi Jelly's Dream), caracolla tra tepori Elliott Smith (Here Is Love) concedendosi d'amblé un impeto accorato Lou Barlow (Letters). Archi, steel guitars, pianoforte, wurlitzer, glockenspiel, fisarmoniche, contrabbasso, hammond, farfisa, mandolini, coretti kinksiani: sono i molti ingredienti di un linguaggio che riesce comunque a suonare essenziale. Ne hanno fatta di strada, gli Annie Hall.(7.2/10) Stefano Solventi Appaloosa - Savana (Urtovox, Ottobre 2009) G enere : electro math Un terzo di furia, un terzo di calcolo, un terzo di goliardia. Poi, siccome le somme in questi casi trascendono l'unità, aggiungete un pizzico di delirio e un'oncia d'imponderabile. Ecco, più o meno, quel che sembrano gli Appaloosa atto terzo: una compagine solida e screanzata al servizio di un estro funkwave dalla strana drittezza che diresti dance, con una febbre acida annidata nei morsi dei due bassi e delle chitarre e tra le sciroppose aperture spacey. Divertirsi aggrappandosi alla fregola d'un groove non sembra affatto un movente da poco, meglio se la collusione ritmico-armonica è di quelle che ti spettinano con serrata baldanza (Genny, Civilizzare) o ti provocano spasmi spezzettati come math-funk irriguardosi (i connubi tra Shellac e Parliament di Bostongigi e Tg). Il cuore del programma cela poi sorprendenti escursioni che diresti ereditate da attitudini funk-soul cosmicheggiante Zero 7 (Mons Royal Rumble), per non dire dei garruli orientalismi in passo marziale come certi spurghi Flaming Lips di Chinatown Panda e del pulsante sfrigolio techno-industrial della title track. L'effetto è disturbante, come un viaggio su un ascensore supersonico che ti porta al piano highlight Broadcast/Focus Group (The) - Investigate Witch Cults Of The Radio Age (Warp Records, Ottobre 2009) G enere : elettro psych James Cargill e Trish Keenan avevano bisogno di uno come Julian House, la mente che sta dietro il progetto The Focus Group (nonchè uno dei luminari che tengono le fila della Ghost Box). Ne avevano bisogno per tirare fuori i Broadcast da una dimensione stanca fatta di luci e pailette sempre meno accecanti. Questo mini album, che si fa parecchio vanto della componente sperimentale, cala l'asso della liturgia psichedelica e acida consegnando alle stampe un patchwork di micro vignette deviate dall'umore allucinato e allucinante. Salvo qualche caso maggiormente meditato - come il singolo The Be Colony e la nenia iper psichedelica Make My Sleep His Song - il proposito del trio non è tanto quello di concepire musica pop, quanto proprio quello di creare un umore, un'atmosfera, un brivido. Si uniscono così cadenze tipicamente britanniche a venature algide ed eteree a metà tra Stereolab e Pram che hanno fatto la gloria dei Broadcast, un'inquietudine costante che sa di paganesimo folk modello The Wicker Man, registrazioni e strumentazioni analogiche, field recordings, farfisa, arpe, ciondoli, cori di bimbi. All'inizio si rimane frastornati e storditi da un simile groviglio di idee, salvo poi lasciarsi prendere dalla malia dell'operazione: certe trovate inquietanti da psichedelia negativa meritano di entrare nella collezione degli orrori della musica rock, a due passi dagli incubi più neri di Ummagumma dei Pink Floyd. In altre circostanze, la mano di Julian House prende oggettivamente il sopravvento portandoci per terreni decisamente Ghost Box a certi misteriosi strumentali sempre ricchi di soluzioni e incanto (library music, colonne sonore di film perduti di serie B, repertori classici straniati, inserti psichedelici da ogni latitudine). Se è il lasciapassare per un nuovo percorso all'insegna della bizzaria più programmatica allora i Broadcast avranno una vecchiaia delle più eccitanti. Dal canto suo The Focus Group si conferma uno dei nomi più elettrizzanti dell'attuale scena sperimentale.(7.8/10) Antonello Comunale prestabilito attraversando due o tre corti dei miracoli. Partecipano al baccanale tra gli altri Andrea Appino degli Zen Circus (in Glù) e Giulio "Ragno" Favero ad incisione e missaggio. (7.2/10) Stefano Solventi Armstrong? - Collateral (70 Horses, Ottobre 2009) G enere : indie dream shoegaze Li ascoltammo tre anni fa in versione demo e ci lasciarono intravedere qualcosa di buono in una coltre di cliché post-post rock. Oggi che esordiscono sulla lunga distanza, possiamo dire che quelle premesse hanno trovato conferma con l'aggiunta di qualcos'al- tro. I piemontesi Armstrong? riescono a lanciarsi oltre l'ostacolo azzardando una sintesi tra istanze dream-pop, noise-wave e sadcore capace in qualche modo di riallacciare i contatti ossidati del post-post alla centralina esausta dello shoegaze. Con tutto ciò che questo comporta: siano certi spurghi di watt ereditati da sani ascolti Sonic Youth (vedi la tensione wave sincopata di Aftermath), siano le fregole caliginose Clientele o una stordente gelatina My Bloody Valentine, o ancora il riffone contrito da primi Radiohead sedato dallo struggimento dei più carezzevoli L'Altra (in What Control). Tra canto fiabesco, jingle dolciastro, drumming febbrile e spurghi elettrici si consuma quindi una scaletrecensioni 41 ta ben congegnata, un alternarsi di languore e furia, di foga tagliente e soffici malinconie, quale contorno di una scrittura abile a ravvivare circostanze altrimenti desuete. Come in quella Shivers che parte da un cincischio jazz-folk quasi Jim O'Rourke e finisce tra pensose aperture pastello non lontane dai Mogwai altezza Rock Action. O come quella Winning You che ipotizza twee pop per post-adolescenti col background che s'allunga fino ai sixties. A suggellare la scaletta arrivano gli scorci folktronici introdotti da High Precision Work, come a dire: aspettatevi ulteriori sviluppi. E noi aspettiamo.(6.9/10) Stefano Solventi Au - Versions (Aagoo Records, Ottobre 2009) G enere : freak - folk Avevamo apprezzato, a metà di quest’anno, a Verbs, seconda uscita di Au. Ne avevamo colto uno statuto collettivo (animalesco?) e pensato come di un ottimo prodotto-summa del decennio. Nessuna individualità, flussi fatti di sciami. Nell’EP Versions gli Au sono invece più grandiosi, che collettivi. Emerge un’individualità, quella di Luke Wyland, voce e polistrumentista della band, che in realtà è un duo - con Dana Valatka (Jackie 'O Motherfucker, Mustaphamond) alla batteria. E quando il tenore diventa individuale, l’arrangiamento diventa opulento, da corale. Niente di più facile per fare il confronto con l’episodio precedente, dato che una buona metà delle tracce sono nuove versioni di brani già apparsi su Verbs. Ciò che emerge di più plateale è la voce di Luke, che prima si perdeva nei rivoli dei cori, e ora va in primo piano - comprese le chiare ascendenze Antony & The Johnsons - anche quando (Are Animals) quelle corde vocali individuali vengono accompagnate da consimili. Persino nello spirito delle esplosioni free-form di Death. La differenza è poi che prima gli arrangiamenti erano sfrangiati da un senso di comunità, ora sono più netti, anche se corali. Eppure, punto primo, le canzoni (di questo si tratta), nella nuova veste para-cantautoriale, rimangono convincenti. E, punto secondo, qualcosa rimane, di collettivo, polistrumentistico, a volte libero, di vastità freak-folk, insomma proprio di 42 recensioni questi Duemila indie. La domanda prima era: siamo in presenza di un residuo (per quanto pregevole) di decennio? Ma ora diventa: siamo in presenza di un potenziale classico di fine decennio?(7.2/10) Gaspare Caliri Be Maledetto Now! - Abisso Del Passato Pt.1 e 2 (Boring Machines, Ottobre 2009) G enere : kosmische sound Be Maledetto Now! è creatura a due teste, insana unione di spiriti affini al limite dell’incestuoso come Be Invisibile Now! (a.k.a. Marco Giotto) e Nihil Is Me/Maledetto (a.k.a. Andrea Giotto). E come giano bifronte offre due lati di sé sotto forma di due dischi separati: uno, la parte prima, in free dwld e/o vinile, l’altro, la seconda, in cd. La materia però è in sostanza unica: drone-ambient dal sapore materico, umano, terrestre ma insieme spaziale, cosmica di vaga ascendenza krauta (depurata, però, di ogni ombra di ritmo) e pesantemente infiltrata di dosi sci-fi, cinematografiche e letterarie. Come guardare il cosmo oggi attraverso la lente deformata di un fanta-b-movie dei ’60. Retrofuturismo, in una parola (almeno in apparenza): tributo non esplicito all’anniversario dell’allunaggio, in cui uomini con mezzi (oggigiorno) datati sfidavano le oscurità del cosmo in viaggi dal ritorno incerto. Nello stesso modo i due Giotto si armano di strumentazione desueta - in prevalenza synth ed effettistica analogica - e indagano gli abissi di un passato che mai come ora, in questa età di mezzo, diviene attualità. Lunghe, sinuose, (e)statiche cavalcate deumanizzate a rappresentare il sogno più umano tra tutti: quel desiderare mondi lontani che etimologicamente è de-siderare, togliere lo sguardo dalle stelle e ricrearle con la propria arte. Nel suo genere, un disco (anzi due) della madonna!(7.5/10) Stefano Pifferi Beak> - Beak> (Invada, Ottobre 2009) G enere : kraut - cosmic Ci tengono molto i Beak> (Geoff Barrow, Billy Fuller, Matt Williams) a far notare quanto poco tempo ci abbiano messo a scrivere e registrare i pezzi del loro Self Titled. La notizia è affascinante perché non di cose facili si parla; l’album con cui il trio fa la comparsa è un incastro complesso di tutto ciò che questi anni stanno riprendendo dal kraut più angolare e macchinico (leggi Faust e This Heat), con qualche inserto di Pink Floyd versione Ummagumma Live (Backwell, con seconda parte motorik alla Neu!) e in generale la via cosmica anglo-tedesca primi Settanta. Il che, per una band che viene da Bristol e i cui componenti hanno bazzicato in ambienti Portishead / Massive Attack, desta curiosità. L’argomentazione iniziale è tanto forte che il modo in cui gli interessati descrivono le 12 tracce dell’album è “registrazioni dal 5 al 17 gennaio 2009”. Dodici giorni di session nei Soa Studios bristoliani, presa diretta, niente overdubs né produzione, al massimo aggiustamenti a partire da edit già presenti. Detto e ri-detto questo, non si è spiegato nulla. Una persona può provare due anni la stessa cosa e poi entrare in sala di registrazione e dire “ho registrato in 100 minuti il mio disco da 100 minuti”. L’ascolto di Beak> diventa allora una caccia alle tracce lasciate nella musica di quanto è emerso nelle sessioni e di quanto invece fosse praticamente pronto all’uso. Il solo per synth rumorista di Burrow Gurney è evidentemente un’invenzione ispirata dal momento genetico della produzione del suono. Al contrario i frequenti motorik erano presumibilmente già pronti (come le seppur pregevoli variazioni sul tema del riff paranoide alla Faust di Blagdon Lake). Ma il motorik, si sa, di fatto nasce come canovaccio e rimane tale, un’idea percussiva, e in questo sta la sua forza. Le dilatazioni (come in Dundry Hill) probabilmente no, e va detto che affascinano di più. Tutto sommato, è nell’equilibrio di forze e inerzie che si reggono i Beak>; nella relazione tra strutture più o meno tese. Non importa quanto ci abbiano messo.(7/10) Gaspare Caliri Beatallica - Masterful Mystery Tour (Oglio, Ottobre 2009) G enere : M etal P op Con piglio goliarda Dictators aggiornato nerd, è la seconda volta che la band di deficienti ci prova con il cut up a base di Metallica e Beatles (i primi che coverizzano i secondi). Masterful Mystery Tour è Masters Of Puppets e Magical Mystery Tour assieme, la chitarra di Hetfield con il basso di Paul incrociati, ancora (e solo) cover prese a coppie e fuse dentro un corpo solo, testi e arrangiamenti - non solo da quei due dischi però - fusi uno dentro l’altro. E con il titolo dell'album e una cover art (quasi) geniale la curiosità di sentirlo ti viene. Inutile resistergli. Non c’è niente di più buffo che infinocchiare il machismo dei primi Metallica con il kitsch firmato Fab Four; mandare gli intellettuali che amarono le cover latine dei Kraftwerk in campagna ad ascoltare T(h)rash Metal. E infatti, le idee e lo humor ai Beatallica non mancano, peccato che la realizzazione (abbondantemente pallosa) e i ringtone (a pagamento sul sito) confermano che il bel gioco è durato anche troppo. Si salva Fuel On The Hill (bella quanto il titolo - e finalmente qualcuno che gli desse fuoco a quella canzone...). E Let It Be (adesso so da dove vengono tutte quelle ballate hair metal...)(5.5/10) Edoardo Bridda Bibio - The Apple And The Tooth (Warp Records, Novembre 2009) G enere : electro folk Un'eppì tanto per confermare la nuova stella di casa Warp. Stephen Wilkinson ci sforna 4 tracce (+1 remix pseudoacustico) veloci, senza discostarsi troppo dalla proposta di Ambivalence Avenue: atmosfere soffuse e cori beachboysiani in Steal The Lamp (attenzione però alla chiusa che richiama il drill'n'step di squarepushiana memoria), le chitarrine in glitch'n'loop che fanno tanto Tarwater nella traccia omonima, il break pulito e white di Rotten Rudd e per finire l'inevitabile ricordo targato Boards Of Canada, mentori che probabilmente avrebbe voluto pure come remixatori. Ma non c'è riuscito. Nelle altre 8 tracce troviamo infatti il buon vecchio Clark (bello il bbreaking di S'vive), l'amico Rob Lee (che di solito bazzica nel giro Friendly Fires) che a nome Wax Stag rilegge attraverso il vocoder wonky pop Sugarette con un vago sapore ereditato dal culto Computer Love dei Kraftwerk. C’è poi Eskmo, un brutto ceffo dagli slums del dubstep che riporta gli echi del primo Burial e qualche rasoiata acida in Dwrcan. Per finire il lavoro del produttore Lone che inserisce un po’ di glitch in quel singolone che è (e che sarà) All The Flowers. Se lo coccolano così, ci sarà un motivo. In casa Warp han capito di avere un musicista che vale. L’EP non aggiunge molto rispetto all’album. Solo per completisti? Se non fosse per quella deriva drill e per il recensioni 43 remix di se stesso (Palm Of Your Wave vale l’ascolto e il brivido) direi di sì. Stai a vedere che non si converte alla techno pure il Bibio. Per i pazzi c’è pure un’edizione limitata a 1000 copie ricoperta da un folder dorato.(6.5/10) Marco Braggion Black Boned Angel - Verdun (Riot Season, Ottobre 2009) G enere : D rone Verdun è il luogo di una battaglia tra le più sanguinose dell'umanità: durata undici mesi, dal Febbraio 1916 ha tolto la vita a quasi un milione di persone, tra francesi e tedeschi. Che il riferimento storico abbia qualche significato politico o sia dovuto soltanto alla volontà di intensificare il potere evocativo dell'album, non è dato sapere. Anche se le origini di Black Boned Angel - Nuova Zelanda - fanno propendere per la seconda ipotesi. Musicalmente si ha a che fare con 50 minuti di autentico drone: lenti riff cavernosi, chitarre lasciate reagire, percussioni marziali. Dalle parti di Earth 2, per intenderci. A un certo punto funerei cori di voci femminili emergono dal magma sonoro e infine, la guerra: campionata chissà quando e riprodotta per l'occasione. Il disco procede senza sbavature lungo gli stilemi del genere, e un impeccabile scrittura e cura dei suoni ne valorizza a pieno le possibilità drammatiche. Piacerà a chi i Sunn 0))) li preferiva senza superproduzioni, collaborazioni accademiche, riferimenti colti, corni e apparecchi rotanti.(6.5/10) Leonardo Amico Blk Jks - After Robots (Secretly Canadian, Ottobre 2009) G enere : afro - rock Non convince del tutto l’esordio del quartetto sudafricano Blk Jks. La spinta è ovviamente verso un afrofuturismo rock a 360 gradi mai come ora sulla cresta dell’onda, ma nonostante la tavolozza di colori usata dal quartetto sia ampia spesso le tinte che ne risultano sono monocromatiche. Le coordinate sono troppo incentrate su un miscuglio tra i passaggi più etno-prog di Mars Volta e quelli da terzomondismo (quello sì, hype) pompato e massimalista di Tv On The Radio, e spingere sull’acceleratore (Taxidermy) non giova più di tanto. C’è di buono che almeno in questo caso, vista la provenienza, l’attitudine afro non è semplice e paracula necessità da hype ma reale melting-pot tra tradizione e influenze/ascolti occidentali: gli intarsi etno44 recensioni vocali dell’opener Molalatladi, le dubbosità da Kingston londinese di Skeleton e la cantilena da mother africa della conclusiva Tselane su tutte sono ottimi esempi della musica globalizzata dei quattro. È però oggettivamente poco per consolarsi dopo le ottime premesse/promesse dell’ep Mystery.(6/10) Stefano Pifferi Blues Control - Local Flavor (Siltbreeze Records, Ottobre 2009) G enere : kraut - york Sono meno oscuri, meno putrescenti, i Blues Control. Local Flavor è lì per dirci quanto improvvisata forse è stata l’etichetta shit-gaze a loro affibbiata. Già il self-titled ci aveva parlato delle passioni del duo, che fanno - con tutta probabilità e semplicemente - i newyorkesi che fagocitano il passato e lo re-immettono nel presente. Adesso, tolti anche gli spigoli più noise, che operavano da evidenti distanziatori, le quattro tracce del terzo album trasudano quasi senza intermediari di quei mondi andati; quasi, perché la lente applicata dai due conserva una presenza che non è poi così difficile rilevare. In Good Morning, cavalcata psichedelica su riff hard-kraut-blues con tanto di citazione ai 13th Floor Elevators, le chitarre primi anni Settanta sono coperte da una patina di sporco che sgrana l’effetto di insieme. Rest On Water parla con le atmosfere dei Popol Vuh, ma senza la colossale mistica tedesca. Tangier si prende sotto braccio i primissimi Kraftwerk (pre Autobahn) miscelati alla solita pratica del motorik, e fa da anticamera alla suite dove tutto viene messo a frutto, la finale On Through The Night, sogno cosmic-REM alla Tangerine Dream (con gli occhi che si muovono lentamente) su cui viene innestata una drum-machine d’accatto (al posto di Schulze, niente male come scarto fonico). Vedendoli dal vivo ci si rende conto che nel compost del krautrock ciò che più è messo in presenza e parla dello specifico Blues Control sono l’uso propriamente Duemila della seicorde distorta e il costante reminder cheap dell’elettronica. Vale a dire, una summa degli ultimi due album della band, se applichiamo l’economia dei mezzi del secondo elemento alla produzione di Local Flavor. Aspettiamo la sintesi, dopo tesi e antitesi.(7.1/10) Gaspare Caliri Bobo Rondelli - Per amor del cielo (Live Global, Maggio 2009) G enere : C antautore Mentre nel documentario a lui dedicato dal conter- highlight Comaneci - You A Lie (Madcap Collective, Ottobre 2009) G enere : folk “Comaneci” è un marchio di registrato, più che una band. Anche perché attualmente la band non esiste più, eccezion fatta per una Francesca Amati sempre più Cat Power e sempre meno pop con la sua chitarra classica a tracolla. Un brand che significa semplicità, home made, nude lentezze acustiche, house concerts, tour nei luoghi più improbabili, spesso col minimo indispensabile e magari per il puro gusto di suonare. Una scelta volontaria e al tempo stesso imposta. L'artista che si confonde col pubblico e il pubblico che diventa un cosa sola con l'artista - come accadeva col folk dei Sessanta - in un rito che è esperienza collettiva prima di essere spettacolo. Tanto che la parola “indie” sembra quasi di una taglia più grande. Tanto che ci si scopre quasi iniziatori di una corrente minimalista che fa pure proselitismo (Le-Li). Appurata la valenza sociale del brand, ci spingiamo oltre e vi diciamo che paradossalmente dal cambio di line-up il suono trae giovamento. Guadagna in intensità e agilità, prescindendo da quell'approccio cameristico che aveva tenuto in ostaggio Volcano - elegante ma ampiamente contestualizzato - e scendendo a patti con la semplicità alla base del progetto. Voce e chitarra, insomma, con un Glauco Salvo - a tutti gli effetti parte integrante del gruppo alle decorazioni (elettriche) e Bruno Dorella, Mattia Coletti, Bob Corn e Pete Cohen dei Sodastream a dare una mano a rassettare. Tra pianoforti rinsecchiti e timidi banjo, violoncelli sparuti e arpeggi acustici nascono alcuni tra i migliori episodi della storia del gruppo. Inquietudini rurali già presenti nell'Ep Girl Was Sent To Grandma's In 1914 pubblicato questa estate (Like, Promised, Satisfied Girld, On My Path, Not) o brani del tutto inediti (Green e Good Company). Col classicismo english degli esordi che lascia il posto a un'America (dentro) desolata, a un blues imperfetto in combutta con la psichedelia, a una malinconia invernale che diventa tratto distintivo della formazione ravennate. Unico rimedio contro la solita provincia fatta di solitudine a cui un po' tutti apparteniamo.(7.5/10) Fabrizio Zampighi raneo Virzì si celebra la sua figura esaltandone la teatralità beffarda e lo spirito caustico, nel nuovo disco troviamo invece Bobo in vesti cantautorali sommesse e malinconiche, tra certo Gaber e morbidezze stordite Nick Drake nelle quali l'ironia è limitata a pochi tratti (il punto di vista de La marmellata e dell'intenso omaggio a Livorno di Madame Sitri, e la chiusa della conclusiva Niente più di questo è l'amore) e l'ispirazione volge al lato meno teso delle muse di Tenco e dell'altro conterraneo Ciampi. Curioso ma non più di tanto: si tratta infatti di un equivoco alimentato dal modo in cui il Nostro si presenta dal vivo e da una discografia da sempre poco rispettosa delle date di composizione delle singole canzoni, al punto di nascondere il fatto che in quelle effettivamente scritte negli scorsi 15 anni circa (a parte l'ultimo Ottavo Padiglione Ultimafollia, 2003) aveva prevalso il lato amaro e rabbioso su quello comico, tra l'altro non senza qualche eccesso di seriosità e qualche caduta di tono. Per amor del cielo invece, presentando nove pezzi recenti senza cover, ripescaggi o altro, per una volta rappresenta lo stato dell'arte dell'autore il quale, abbandonata la rabbia e aiutato dalla produzione delicata da Filippo Gatti degli Elettrojoyce, si trova a suo agio a cantare con un'aria sospesa da domenica pomeriggio ma col sole, guardando ai ricordi o all'oggi con partecipazione ma da un passo indietro. Nel disco convivono la vivacità degli arpeggi di chitarra e piano o del sax di Dimitri Espinosa con l'atmosfera generale quasi dimessa, in un flusso nel quale entra alla perfezione anche l'innocenza sorrecensioni 45 presa de Il cielo è di tutti di Rodari, unico testo non originale del disco. Non si tratta del Bobo della leggenda, perciò, ma l'asse in realtà si è spostato di poco; un autore che dopo qualche anno di silenzio discografico ritroviamo in piena salute.(7.2/10) Giulio Pasquali Brothers movement (The) - self titled (Rocket Girl, Ottobre 2009) G enere : retro brit - pop Pur essendo una formazione di recente nascita, i dublinesi Brothers Movement hanno fatto in fretta a mettersi in mostra e aprire i concerti dei pezzi da novanta Chemical Brothers e Sonic Youth. Curioso assai, specialmente in ragione del fatto che con entrambi c’azzeccano nulla e preferiscono battere i territori del classico pop britannico. Nulla di male, non fosse che - come in qualsiasi altro ambito - bisogna sapersi scegliere i numi tutelari con accortezza. Se l’immagine di copertina e il libretto possono richiamare l’approccio smaliziato verso gli anni ’60 dei Coral, l’ascolto consegna viceversa un incrocio enfatico e pompato (quella produzione meticolosa che cerca di ingraziarsi il pubblico major con l’approccio “indie”) tra Oasis e Verve. Meglio se punteggiato da sbiadite contraffazioni Spiritualized, camuffato prelevando dai primi Settanta organo e pianoforte imponenti e un pizzico di baldanza Faces; oppure tirato per i capelli, con un salto nel decennio successivo, a inseguire l’epica dei James e lo scintillio degli Stone Roses. Senza, alla fin fine, cogliere un bersaglio che sia uno e nemmeno segnalandosi come comunicatore sociale e/o di costume. Roba da incasellare nella categoria “dimenticati presto e bene” per far sentire meno soli i Kasabian. La stessa casella in cui, anni fa, infilavamo analoga e scarsamente qualificata manovalanza come Cast, Bluetones, Hurricane #1.(5/10) Giancarlo Turra Built To Spill - There Is No Enemy (Warner Music Group, Ottobre 2009) G enere : rock 46 recensioni Si ostinano a non deludere, i Built To Spill. Una turbina indomita lanciata a bomba su una strada che credevamo senza uscita, e forse lo è. Da quei nineties di mezzo che li videro nascere e scorazzare, il mondo è cambiato parecchio. La generazione a cavallo tra X e Y cui prestarono suoni e voce (non certo da soli), si è spostata, non abita più qui. Lo scetticismo aspro condito a straniamento, escapismo e un pizzico di sacro furore ha lasciato il posto ad uno strano impasto di angoscia ed eccitazione, un'effervescenza di cui nel tempo valuteremo esiti e sostanza. Fatto sta che non si capisce bene a chi si rivolga il Doug Martsch appassionato, volitivo, contrito, onirico e feroce che impazza tra queste nuove undici tracce. è un po' quel che accade ascoltando il nuovo disco dei redivivi Phish, fatte le debite proporzioni. Eppure, in questo caso e come spesso capita, la convinzione si basta da sé (col non piccolo aiuto - of course - del ben noto talento). Sentire con quanta fiera risolutezza incalzino gli assolo, con quale cuore le melodie si accartoccino, quanto sciroccato struggimento pervada quel ciondolare dolciastro e indolenzito, che razza di impeto ribolla nei pugnaci intrecci di basso e batteria, è di per sé uno spettacolo. Una mischia in cui fanno buon gioco vampe di tromba, trepidi bordoni d'organo e un violoncello a pettinare il malanimo. I Wilco via Grandaddy di Hindsight, una Oh Yeah nel guado tra torvo tremolio Crazy Horse e solenne rapimento Smashing Pumpkins, il tumulto Hüsker Dü di Pat (che annichilisce d'amblé gli ultimi Pearl Jam) e l'assorta gravità quasi Black Sabbath (!!!) di Things Fall Apart sono gli episodi migliori di un programma di tutto rispetto. Che forse non ha molti appigli nel presente, ma sa abitarlo con entusiasmo ammirevole. (7/10) Stefano Solventi Camillas - Le Politiche Del Prato (Wallace Records, Ottobre 2009) G enere : pop Ruben e Zagor Camillas sono due fratelli (ma anche no) finto-deficienti che vanno di surreale e grottesco a go-go, se ne sbattono di stili e cliché perché loro “sono” lo stile e i cliché li rielaborano rivoltandoli dal di dentro. Roba che non si deve essere proprio a posto con la zucca (svuotata in pieno clima halloween) per pensare soltanto a musiche del genere, fatte di calembour sonori e lirici a incastro simil-cubo di Rubik, metà teatro dell’assurdo e metà cabaret degli anni andati, ipotetica colonna sonora per ludoteche composta da bambini troppo cresciuti in altezza e larghezza, di pop fuori asse e demente di una demenza che sfiora il geniale, tanto è semplice e insieme candido come zucchero filato alla fiera del paese. Le Politiche Del Prato è un comeback in coproduzione (da Wallace a Tafuzzy…) e apparentemente vive di genialità a basso costo: qualche tastierina, qualche percussione, una chitarrina, moltissimi intrecci vocali e una capacità compositivo-creativa (auto)ironica e grottesca da spavento. Ma altro che povertà; qui si moltiplicano pani e pesci e si va di pop a 361 gradi, tanto che ci sarebbe da scrivere un saggio di sociologia della musica per intendere un minimo (ma proprio poco, perché quando pensi di aver capito loro sono già altrove) dell’universo buffonesco dei Camillas, tanta è la roba da dire sul cantautorato “all’italiana” e il folk agreste sui generis, sul cabaret autistico-esistenziale e l’elettronica da fritto misto, sul Bugo centrifugato a forza di cartoni animati tra 70 e 80 e il Cochi e Renato meets Devo del 2.0. O, per finirla, per comprendere l’immaginario pop deforme, allegro fuori e triste dentro, di un duo che merita incondizionatamente tutto il rispetto del mondo. Ché alla fine scrivono pure delle signore canzoni.(7.5/10) Stefano Pifferi Chaos Physique - The Science Of Chaotic Solutions (Jestrai Records, Ottobre 2009) G enere : kraut - psych - noise Dici Amaury Cambuzat e pensi Ulan Bator e Faust. Ovvero post-rock liquido, kraut destrutturato e sperimentazioni sulla stratificazione dei suoni. Più che un'opinione, una questione di assiomi e di teoremi dimostrati, per chi ci sta dentro. Tanto che nell'ennesima trasfigurazione sonora del musicista francese - questa volta sono della partita Diego Geko e Pier Mecca - si arriva a parlare apertamente di “scienza”. “Fisica del caos”, per essere precisi, che in termini più prosaici e meno ad effetto significa unire alle solite dilatazioni oniriche - riprendetevi anche l'ultimo Marigold Tajga (Acid Cobra, 2009) a cui Cambu- zat ha prestato chitarre e produzione, se volete farvi un'idea dello stile - una quadratura cosmica Neu! (Spaghetti Frogs) e una psichedelia fatta di landscapes elettrici (Jeaux De Promesses). Materiale che trasforma il post-rock di base del Cambuzat-pensiero nei tredici minuti in riverbero di Socraterock, nel noise intorpidito di Arum Titan, nel crescendo indistinto Carla Bozulich via For Carnation di Cul De Sac.Tra chitarre, voci sommerse e una cassa in quattro quarti statica ma inarrestabile. Più che di caos, insomma, si parla di un fluire ricercato in cui si innestano particolari sonori capaci di razionalizzare la natura dispersiva dei suoni in un'inquietudine che sa di mesmerico e universale. Lontana, tuttavia, dal perdersi o dal suonare autoreferenziale, nonostante - o forse proprio per quello - i soli cinque giorni impiegati dai musicisti per registrare le otto tracce di questo The Science Of Chaotic Solutions.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Chll Pll - Aggressively Humble (Porter, Ottobre 2009) G enere : experimental pop La rivincita degli Zach, verrebbe da dire. Ce lo aveva accennato nel corso dell’intervista di qualche tempo fa, Zac Nelson aka Hexlove che avrebbe pubblicato a breve un nuovo disco con un nuovo progetto, ma non pensavamo che fosse di tale levatura. Innanzitutto, Chll Pll è basicamente un duo condiviso con un altro Zach, che di cognome fa Hill e che, tra le mille altre cose, percuote(va) tamburi con i funambolici Hella. Se aggiungete che in un paio di tracce è ospite un terzo Zach - in realtà si presenta come Zachariah Dellorto Blackwell (Danava) - capirete il senso della frase d’attacco. Aggressively Humble è un 10 tracce come immaginabile frastagliato e dirompente, ovviamente ricco dal punto di vista ritmico, potente sotto quello della stratificazione ma pur sempre agile e scattante tra le mille curve a gomito che i due disseminano senza soste. Immaginate il portato-base delle band madre dei due - il massimalismo experimental-pop di Hexlove e l’irruenza scattosa degli Hella - fuso insieme ad una idea balearica di elettronica e ad un gusto surreale per la composizione. Ne escono frammenti e schizofreniche citazioni che si accavallano le une sulle altre in estatica fusione, frullando Mercury Rev dei primordi e procedere Zappiano, coralità Broken Social Scene e tropical-punk d’accatto, teatralità farsesca e Arcade Fire ubriachi e derecensioni 47 highlight Dixon - Temporary Secretary (Innervisions, Ottobre 2009) G enere : compil ation minimal tribal deep Steffen Berkhahn si è fatto le ossa nel circuito house con svariate compilation tra cui l’acclamata Body Language Vol. 4 su Get Physical. Nel suo curriculum vanta poi una collaborazione duratura con Âme e Henrik Schwarz. Oggi torna a fare il suo mestiere di artigiano con l’esperienza tecnica di un patron (è lui una delle menti in casa Innervisions) e il giusto savoir faire che si confà a un berlinese. Il titolo della compilation è una citazione a un pezzo dell’80 di Paul McCartney: la traccia era una specie di sperimentazione dove l’ex-Beatle mescolava sintetizzatori, pezzi di chitarre acustiche e testi deliranti. Anche qui si crea quindi qualcosa di nuovo da pezzi di amici e colleghi, tagliando, cucendo e rimescolando a più non posso. Dato che il nostro ha nel suo archivio tutti i nastri originali, quello che ne esce è uno dei mix più originali di questa fine 2009. Sembra quasi che siano tracce nuove, coerenti in un tutt’uno che solo i grandi riescono a sostenere dall’inizio alla fine. I nomi sono comunque dei pezzi grossi: Danny Tenaglia sotto il moniker Code 718 nella deeppissima Equinox remixata dall’amico Schwarz, The Machine con un gregoriano misto tribale da pelle d’oca (Fuse), il retrò color sepia dei Tokyo Black Star, la precisione della maga Kiki (Good Voodoo), il touch balearico nell’incipit di Icasol (Ongou), il romanticismo degli Junior Boys nella rivisitazione di Ewan Pearson (Hazel) e la bossa al cardiopalma di Peter Kruder in salita (Law Of Return). Sarà anche una compilation, ma sfido a trovarne una così compatta e stilosa. Siamo in odore di alta classe deep: il livello ricorda Carl Craig, Ricardo Villalobos e gli Apparat. Ottimo lavoro Dixon.(7.5/10) Marco Braggion Criminal Jokers (The) - This Was Supposed To Be The Future (Ice for everyone Records, Novembre 2009) G enere : F olk - punk wave C'è un altro trio pisano amante dei Violent Femmes in giro: si tratta dei poco più che 20enni Criminal Jokers, già messisi in luce come spalla degli amici e concittadini Zen Circus e ora all'esordio con Appino dietro la consolle insieme a Manuele Fusari, bravi nel rendere l'energia live del trio. Il disco testimonia l'amore per Gano e soci (Burning e Song For Lovers potrebbero mimetizzarsi onorevolmente nel canzoniere del trio di Milwaukee) ma anche le capacità del gruppo di emanciparsi, grazie a una scrittura abbastanza disinvolta da maneggiare tranquillamente altri spunti: i tempi di 4/4 con i riff in 3 di harveyana memoria nell'apertura massiccia della title track (sorta di I'm Waiting For The Man con la cassa doppia e bassi con profondità quasi grunge); gli anni '50 visti dai Television in birreria di Killer, i cori Devo di This Song Is Dead, i Clash di Sightseeing, la psichedelia di Deep Rider che morbida nasconde un altro beat raddoppiato (retaggio dei live nei quali il batterista-cantante si presenta con un rullante e basta). Ne risulta una scaletta nella quale i riferimenti wave mantengono le distanze dalla maniera di tanti contemporanei, arricchendo un rock classico suonato con la scioltezza dei Grant Lee Buffalo, senza starci troppo a pensare.(7/10) Giulio Pasquali menti, ecc. ecc. ecc. Insomma, se siete alla ricerca di un pop sperimentale mai banale e variopinto, drogato il giusto e visionario quanto basta Chll Pll è il nome che fa per voi. Massimo rispetto.(7/10) Stefano Pifferi Cinematics (The) - Love and Terror (The Orchard, Ottobre 2009) G enere : W ave Scuro e dandy come gli Interpol ma senza disdegnare le tastiere degli ultimi Editors e un'enfasi tutta Arcade Fire, il quartetto si presenta al secondo appuntamento discografico con una buona verve superando così l'effetto derivazione dell'arrangiamento. I ragazzi originari di Dingwall, Scozia, e ora residenti a Glasgow, hanno dalla loro un guitar sound solido e altrettanto gusto per le citazioni: ne è un esempio l'umbratile road song che è anche il singolo apripista, l'omonima Love and Terror: pennate 48 recensioni The Edge altezza October e bell'intreccio sul finale di Scott Rinning (anche cantante) e Larry Reid (il main guitarist).Anche le liriche si difendono e proteggono benone il nucleo wave rock delle loro composizioni: in Wish (When the Banks Collapse), la band gioca garbatamente un serpente a due teste, Echo & Bunnymen (nella prosopopea) e Smiths (nei falsetti), in She Talks to the Trees e Moving To Berlin a colpire invece è la scioltezza melodica, come dei Rakes al massimo della forma. Disco riuscito Love and Terror ma non tempista. Arrivato sulla coda di un revival wave che ha lasciato perplessi molti, avrebbe potuto fargli fare un ulteriore guizzo, ma è semplicemente un lavoro di genere quando per questo "mondo" ci vorrebbe quel qualcosa di generazionale. E come potrebbe essere diversamente con northern story come quelle di Joy Division, Bunnymen e Teardrop Explodes?(6.5/10) Edoardo Bridda Damien* - Crippled Cute (Suiteside Drive, Ottobre 2009) G enere : post punk _ wave è irruenza giovanile che si cristallizza, quella che leggiamo nella seconda prova dei Damien*. Un imborghesimento portato a termine senza grosse crisi di identità, rubacchiando qualche sussulto agli Strokes (Softcore e Confidants) e contando sulle stesse chitarre sotto speed (On Ice) già utilizzate in passato. Viene da pensare che da un lato si vivacchi un po' troppo di rendita sulle buone capacità di scrittura messe in mostra ai tempi dell'esordio Mart/Art (Suitside, 2008) e dall'altro si corra il rischio di essere assorbiti dal mare magnum delle produzioni sul genere che quotidianamente intasa un mercato discografico saturo come il nostro. Un universo parallelo, quest'ultimo, in cui guardarsi allo specchio per un momento può significare perdere il bandolo della matassa. La band pesarese dimostra ancora una volta di saperci fare quando si tratta di collezionare saltelli vigorosi e battere da dancefloor su melodie uncinanti ma dimentica che a maneggiare certo post-punk/ wave ci si può anche scottare. Che ritrovarsi avvinghiato a una “maniera” un po' soporifera nonostante buone capacità espressive non è cosa difficile, soprattutto in un genere in cui a uno sgambettare adolescenziale non corrisponde, sempre, una florida creatività. Si coglie un passo in avanti rispetto al primo disco, in primis nella cura dei dettagli tecnici - suoni e arrangiamenti -, ma è un alzare la voce in un dialogo di cui si conoscono quasi tutte le battute a memoria.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Daniel Johnston - Is And Always Was (Feraltone, Ottobre 2009) G enere : low - fi songwriting Fin troppo facile trovare per questo nuovo album di Daniel Johnston un referente diretto in Fear Yourself. Nel senso che come colà, si affida una cifra stilistica efficacemente sbilenca e unica nel suo genere a un produttore. A un elemento esterno convocato a colorare la scrittura e le visioni dell’Uomo e nello specifico si tratta di Jason Falkner, già dietro il banco con Beck, Air e Paul McCartney. Una notizia da indurre il sospetto che si voglia snaturare Johnston per - viene da ridere al solo pensiero! renderlo accettabile a un più ampio pubblico. Tranquilli: nulla di tutto ciò qui, nel senso che (come accadeva col competente discepolo Mark Linkous e, ancora prima, nell'album Fun cui presiedeva Paul Leary dei Butthole Surfers) la splendida calligrafia del Nostro emerge anche lavorando in eccesso o difetto sulla “fedeltà” sonora. Falkner espande come da curriculum tutto in technicolor, tuttavia scava da archeologo per portare alla luce l’anima popedelica del texano. Quel che fa di Daniel un Genio è - oltre all’umanità profonda e alla penna sublime - la capacità miracolosa di vivere al contempo dentro e fuori da sé e dalla sua musica. L’affascinare proprio in virtù di una perenne oscillazione che qui non va perduta. La questione è semmai che dopo un’ottima partenza il disco un po’ finisce per afflosciarsi compositivamente. Mind Movies è un traslucido capolavoro barrettiano e Fake Records Of Rock And Roll un boogie apparentemente scolastico, viceversa pugnalata al vetriolo che consegna Neil Young al glam; Queenie The Doggie scorre da tenerissima filastrocca bubblegum countrecensioni 49 ry e High Horse come sontuoso pop anni ’70. Un poker da maestro, insomma, con l’unico difetto di oscurare la vacua cavalcata Without You e la malinconia all’ingrosso di Tears, di far apparire le brevi I Had Lost My Mind (i Grandaddy dei bei tempi) e Freedom (come sopra: aggiungete un’oncia di Frank Black) meno pregiate di quanto siano. Quando poi la title-track e Lost In My Infinite Memory chiamano a testimoniare rispettivamente gli ultimi Guided By Voices e il collettivo Elephant 6, il giudizio si blocca a mezz’aria e le carte sparse sulla tavola si confondono vieppiù. Ciò nonostante, i Flaming Lips maturi però minimalisti - se vi pare, gli Air sul serio floydiani - dipinti dalla conclusiva Light Of Day persuadono che, come recita il titolo, Johnston “è e sempre fu”. Un songwriter immenso, vale a dire, che rende migliore questo scriteriato mondo. A prescindere da chi siede al di là del vetro, ovviamente.(7.4/10) Giancarlo Turra Dead Man's Bones - Dead Man's Bones (ANTI-, Novembre 2009) G enere : ghost - rock Più che un album sui fantasmi, questo dei Dead Man's Bones è un album sull'ossessione al tema dei fantasmi. Zach Shields e Ryan Gosling si incontrano nel 2005 e che passione scoprono mai in comune? Donne, motori, gioie, dolori? No, niente affatto. Gli ectoplasmi! Questo affascina i futuri membri e fondatori del gruppo. Teniamo presente che Gosling (che proviene dal Canada) ha alle spalle una carriera da attore non da poco e che, invece, fra le sue influenze musicali cita tanto i Beatles e i Beach Boys quanto Shags, Shangri-Las, Misfits, Joy Division e Daniel Johnston. Ciò detto partiamo con Dead Hearts, sonnambula e ectoplasmatica che farebbe invidia a certi Black Heart Procession. E proseguiamo col rock'n'roll alla Screaming Lord Sutch (ma più serioso) di In The Room Where You Sleep. Produce Tim Anderson degli I’m A Robot. Canta il coro dei bambini del Silverlake Conservatory (la ballata macabra Buried In Water). E questo è quanto.(7/10) Massimo Padalino 50 recensioni Del tha Funkee Homosapien/Tame One - Parallel Uni-Verses (Gold Dust, Ottobre 2009) G enere : HIP HOP Due rapper, underground di quello marcio, di quelli che li vedi e pensi subito che sono due "mangiati". Per dire, Tame ha dedicato tutto un disco alla polvere d'angelo. Drogatissimi e talentuosi, sempre coinvolti in progetti di culto. Del, cugino di Ice Cube, un primo disco solista freakissimo (e ottimo), a capo poi degli Hyerogliphics (collettivo di Oakland vicino al classicismo Native Tongues, altro che Anticon), scrive i testi per l'all star project Deltron 3030 (prodotto da Dan The Automator), e lì conosce Damon Albarn, che lo vuole a rappare sulla Clint Eastwood dei suoi Gorillaz. Tame, prima il duo Artifacts, il supergruppone Weathermen (Aesop Rock, El-P e altri), poi l'avvio da solista e il duo assieme a Cage a nome Leak Bros (e con questa sigla licenzia il dopatissimo disco di cui sopra, ottimo e con pruriti sperimentali). Su questo Parallel Uni-Verses, pochissimo da dire. è un discone hip hop classico, attaccato alle sue radici funk. Lo dice Del, in Flashback, e c'è poco da aggiungere: Rap is the funk, our music is the funk. Le evoluzioni di Del e di Tame, ma senza eccessi di tecnica, servite alla perfezione dal funk-lounge del duo Parallel Thought e dagli scratch di Zac Hendrix. Punto. Ha fatto bene la Gold Dust a non inseguire qui le mode, ma a dare voce a due outsider di classe. Quando il classicismo non è maniera, né retroguardia, ma solo stile. Come dicono i bboyz, Dope!(7.3/10) Gabriele Marino Devendra Banhart - Baby EP (Warner Music Group, Ottobre 2009) G enere : soul rock Non c'è da stupirsi che l'uscita del nuovo lavoro di Devendra rappresenti un evento nel panorama sclerotico del rock "alternativo". E che quindi il relativo antipasto susciti curiosità, effervescenza, eccitazione. Baby EP è un singolo che propone tre tasselli dei quattordici (pare) che comporranno la scaletta dell'imminente What Will We Be, primo titolo per la Warner dopo il commiato dalla XL. Album che, con queste premesse, dovrebbe riservare non poche sorprese. Esaurito il "naturalismo" da naftalina e vecchi (ectoplasmatici) merletti, sbrigliata la vena bossa, sfogata la truce goliardia, il buon Banhart finalmente si concede: una digressione soul-pop sorniona e vagamente esotica (Baby); un post-glam tra marciapiede e dancefloor (16th & Valencia Roxy Music); un countryerrebì meno oppiaceo che sciropposo (Goin Back). Su una ideale cartina geografica potremmo stringere le coordinate tra Badfinger, M.Ward, Marc Bolan e... Mika, una mischia mantecata con tutto il senso di pantomima che è lecito supporre. L'impressione è di un artista nel guado, e non è chiaro quanto ci si trovi bene. Ovvero, questi tre pezzi non bastano a farci capire se Devendra sia più sbrigliato o incerto, se vivacchi oppure se la crisi gli faccia un baffo e se la stia passando alla grande. Attendiamo gli sviluppi. Abbastanza fiduciosi.(6.3/10) Stefano Solventi Devendra Banhart - What Will We Be (Warner Music Group, Novembre 2009) G enere : psych soul bos sa Le 14 tracce del nuovo What Will We Be chiariscono finalmente portata e direzione della "svolta" preannunciata dal singolo Baby. Ebbene, il Devendra griffato Warner si presenta con un album che sembra lo spettacolo d'arte varia di uno cui sono rimaste più fissazioni che ispirazione. C'è da dire che le fissazioni sono di quelle che intrigano, anche se il modo in cui si accavallano e impastano non sempre convince: talora ti sconcerta, talaltra disturba, altrove ti ammalia. Detto della vena latin soul e dello spasmo glam nelle tracce anticipate dal suddetto singolo, aggiungiamo che le recenti sbandate garagepsych sembrano come metabolizzate in una vena folk madreperlacea che sì riconduce all'originale "naturalismo", però fermandosi da qualche parte tra il Neil Young più oppiaceo (vedi le due Song For B) ed il Caetano Veloso londinese (Brindo, Angelika), per poi ciondolare da qualche parte tra Canterbury e Macondo (nella ineffabile Maria Leonza). Ama stupirci restando seduto nella sua cameretta assieme agli amici neo-hippy, il caro Banhart. Fa l'estroso e si diletta a stemperare languori jazz Chet Baker nell'avanspettacolo latino di Chin Chin & Muck Muck. E cosa dire dei Black Sabbath speziati Ultimate Spinach di Rats? In definitiva, è un disco ricco di espedienti e qualche buona idea, ma in mezzo a tutto questo non riesce a farsi battere un cuore. E, di conseguenza, fallisce l'appuntamento con la magia. (6.1/10) Stefano Solventi Diana Torto/John Taylor/Anders Jormin - Triangoli (Egea, Ottobre 2009) G enere : jazz Metti una straordinaria vocalist italiana tanto apprezzata nel giro del jazz quanto misconosciuta al grande pubblico, un pianista di Manchester che se la gioca per il titolo dei più sensibili e arguti interpreti degli ottantotto tasti contemporanei, e un contrabbassista svedese dalla diteggiatura "senziente": ne viene fuori un triangolo meravigliosamente imperfetto, dai vertici smussati, aperti, generosamente disposti ad accogliere e dare. Lei è Diana Torto, voce flautata e intensa come una cantante di fado con tentazioni liriche e blues, da oltre dieci anni sulle scene e già al lavoro con calibri quali Steve Coleman, Mike Stern, Enrico Rava e Kenny Wheeler, per citarne solo alcuni. Il pianista è quel John Taylor che da un quarantennio mette a segno lavori sempre più egregi e raffinati, prima nel trio Azimuth (con Kenny Wheeler e Norma Winstone) e poi con Jan Garbarek, Lee Konitz e Gil Evans tra gli altri. Infine c'è Anders Jormin, classe '57 da Göteborg e una marea di dischi sia come leader che a nome Don Cherry, Elvin Jones o Rita Marcotulli. Al di là dei rispettivi pedigree, questo Triangoli è il frutto di un'intesa straordinaria che salda la combinazione di calligrafie così peculiari e così affini: languori latini, romanze pensose, trame distese e geometrie dinamiche, swing che covano e d'improvviso prendono la mano: nove originali più la rilettura di Summer Night e una Deseo scritta da Stefania Tallini (altro nome da tenere d'occhio) con liriche di Garcia Lorca.(7.3/10) Stefano Solventi Diverting Duo - Lover/Lover (Zahr, Ottobre 2009) G enere : pop minimale Dalla scuola svedese - Labrador e dintorni - riprendono l'elettronica epiteliale e certe melodie allo zucchero filato; dai Galaxie 500 la psichedelia vaporosa; dall'indie-pop nostrano la capacità di creare suggestioni che operano sulla sottrazione e sull'ordine formale. Insomma, poche idee ma chiare, il recensioni 51 suono prima di tutto e un'emotività screziata che si sostituisce alla compattezza del messaggio. Materiale che nella sua semplicità rapisce e gratifica fin dal primo ascolto, ma che pare indirizzato soprattutto agli indie lovers più embedded. I segnali, in questo senso, ci sono tutti e vanno da una formazione minimale - Gianmarco e Sara armati di organo, chitarra, violoncello, elettronica - alle tessiture onirico/medidativo/dimesse che costituiscono la base del suono, da brani da un paio di accordi all'attitudine da losers (ricercati) che traspare dalle foto ufficiali. Dietro al disco c'è una Sardegna musicalmente spumeggiante e pure lo zampino dei Le Man Avec Les Lunettes, visto che lo studio in cui si è registrato tutto pare sia il loro. Per suoni che se da un lato preannunciano un futuro artistico di ripetizione ad libitum, dall'altro non possono che raccogliere i giusti consensi tra i cultori del genere.(6.9/10) Fabrizio Zampighi Dizzee Rascal - Tongue N' Cheek (Dirtee Stank, Settembre 2009) G enere : hiphop - grime based dance Premesso che, se c'è un genere che il sottoscritto proprio non riesce a digerire (capire, sopportare, sentire filtrare lontano dal walkman di qualcuno, fate voi), questo genere è il grime (persino nella sua declinazione "intellighenzia" a firma di gente come Kevin Martin aka The Bug), Dizzee Rascal resta un tipo con cui è obbligatorio confrontarsi. Per il primato nel campo, le capacità tecniche come singer rap e (soprattutto?) i numeri che riesce a smuovere. Un primo album, Boy in da Corner (2003), definito da molti come un "punto di svolta nell'HH europeo", acclamato da gente come Mos Def ed Eminem (si spiegano così molte cose), bagnato - come i successivi - da un incredibile successo di critica e di pubblico (si spiegano così molte cose). Rascal ha dato fama mondiale al grime (rap-ragga+elettronica technoindustrial+step & dance in varie salse), traghettandone il passaggio da musica underground a genere sdoganato sulle piste da ballo. E questo quarto disco pare confermare una definitiva svolta in senso pop-commerciale, con una forte riduzione dei passaggi di grime duro e puro. Tolta l'antipatia per il cantato (un rappato-raggato velocissimo, gommoso e viscido), per i testi (che a riassumerli viene fuori qualcosa tipo ribellismo street-discotecaro tra consciousness e rigurgiti papponi & gansta-style), gli effettacci elettronici a profusio52 recensioni ne, e due-tre pezzi sul ciglio del cassonetto, tolto tutto questo, abbiamo canzoni costruite in maniera scientifica per essere perversamente ficcanti. Come poteva esserlo, per dire, Believe di Cher: a metà cioè tra coltivazione in vitro dell'orrido, motivetto supercatchy ed innegabile bravura di chi siede dietro al mixer (qui Armand Van Helden, Tiesto, Calvin Harris, Cage). Per gli scopi che probabilmente si prefigge, e cioè alto intrattenimento tamarro per una notte tra casse a palla e piste (...) a base di hip-hop commerciale, dance primi Novanta ed elettro Duemila, si metiterebbe un sette. Però non scherziamo con le cose serie. Voto ideologico? è ottima brutta musica. Solite lodi sperticate sui vari Times, Pitchfork e NME.(6.4/10) Gabriele Marino Do Make Say Think - The Other Truths (Constellation Records, Ottobre 2009) G enere : post - rock Ispirano parecchia simpatia, Do Make Say Think. Per il semplice fatto che li si è sempre trattati con sufficienza, come fossero la ruota di scorta - debitamente sgonfia e impolverata - del carrozzone postrock mentre in giro c’era e c’è ancora ben peggio; poi, perché quando si cerca di dimostrare il coma profondo del suddetto genere, si finisce sempre per tirare in ballo loro. Zimbelli senza un’autentica ragione, in definitiva, e lo chiarisce questo sesto album in cui appaiono invecchiati meglio dei Tortoise. Si dirà: bella forza, se uno vola alto fa alla svelta a precipitare, mentre i mediocri giammai decollano e pertanto neppure rischiano lo schianto. Vero, non fosse che la limitatezza dei Nostri resta da dimostrare: non è da tutti ergersi dalla cintola in su a prescindere da un genere che fu glorioso e ora pare non aver più nulla di rilevante da dire (e le cose stanno in parte anche così, benché ogni corrente viva su una spinta iniziale che si smorza progressivamente finché non riaffiora…). In ragione di ciò ti scopri a farlo girare spesso, The Other Truths, alternandolo con la nuova fatica di Jim O’Rourke e apprezzandone, se non un’impossibile freschezza, l’indubbia e piena classicità formale che al pari di quella offre. In una Do cavalcante verso Düsseldorf con al fianco i Pell Mell e che, avvistata la fine dell’autostrada, rallenta per spegnersi nel tumultuare di Make; nel pulsante jazz industriale Say che diventa western alla Ennio Morricone e sfocia in Think, commiato toccante e credibile ipotesi di un highlight Half-handed Cloud - Cut Me Down & Count My Rings (Asthmatic Kitty Records, Novembre 2009) G enere : lo - fi Un disco composto da 46 tracce lo-fi di un minuto, fatte di frammenti; un disco di facili melodie indie-pop. Può sembrare un’opposizione irrisolvibile, eppure Cut Me Down & Count My Rings, summa della produzione di John Ringhofer dal 2000 al 2009, contiene entrambi i mondi nella stessa misura. Il primo elemento di questa sintesi disgiuntiva ci fa subito pensare a Captain Beefheart e al suo Trout Mask Replica; in effetti Ringhofer, mente e braccio di Half-handed Cloud, ha qualcosa di Van Vliet; ma qui abbiamo una musica di punti senza contrappunti, concettualmente identica e opposta a quella della faccia di trota. I brani sono degli sketch multipli, e la brevità ne è testimonianza. Hanno una schizofrenia melodica che ricorda per certi versi il modo di arrangiare del David Thomas di Monster Walks the Winter Lake. E probabilmente questo è un disco che interesserebbe moltissimo a Thomas. Così come a tanti fan dell’obliquità. Ma, ancora, Was He Really Doubting ricorda i Pavement, nel tipo di melodie, con perturbazioni che citano gli Animal Collective e un modus operandi patafisico. Tutto il disco è una proliferazione di melodie talmente accumulate che è impossibile ricondurle a un baricentro melodico. Eppure sono docili linee vocali che ce la fanno cercare, la pietra angolare, in ogni canzone. Come se i cut-up dei Fiery Furnaces (Once, Twice, Seven Times a Werewolf) fosse virato in un flusso di continua permutazione che crea cacofonia, a forza di continuare a installare microstrutture su microstrutture, tutte da canzone pop e tutte acustiche, con quel poco di suoni quasi glitch e una mini-sezione di fiati modello fagotto. E quando per Bees Are Trying To Build Their Nest In You segue le regole della canzone melodica e leggera, John riesce a rifarsi felicemente alla tradizione indie-pop più giocosa, con tanto di tuba e diamonica. Cut Me Down & Count My Rings viene dall’indie-pop e nell’indie-pop lavora, ma corrodendolo dal di dentro, come se la corrosione partisse dal centro del metallo. Un disco che va direttamente ai posteri.(7.6/10) Gaspare Caliri Laughing Stock desertico e non brumoso. Argomenti ed esposizione ben oltre lo svogliato mestiere. Sarebbe ora di dirlo chiaro e forte.(7/10) Giancarlo Turra Dominique Leone - Abstract Expression (Important Records, Novembre 2009) G enere : art rock Se ne esce storditi, confusi, straniti. Divertiti, senza dubbio. Il nuovo lavoro di Dominique Leone è un opera balistica. Genio illuminato o truffaldino da marciapiede il ragazzo venuto dalla Louisiana? Noi ci divertiamo a scovare paralleli, tangenze tra questo e quell’artista. In un Leone tirato a nuovo convergono e si scontrano progressive e pop. Forse progressive nel pop. Oppure pop applicato al progressive. Musica stupefacente nel senso di sostanza: erotta, probabilmente, nel rush del Mdma. Prendete King Crimson, Genesis, Battles, Boredoms, Electric Light Orchestra, Brian Wilson, Todd Rundgren e consegnateli nelle mani di Carl Stalling (l’Uomo dietro i Jingle Looney Tunes). è Art rock caricaturale suonato a 45 giri. Un disco giocattolo, Abstract Expression. Accelerato e frenetico. Poca quiete e tanta goliardia. Per prinrecensioni 53 cipio, non citiamo un pezzo che sia uno. Toccherà a voi ascoltare. Farvene una ragione. Con i dovuti distinguo, il fratellino dispettoso di Repo dei Black Dice.(7/10) Gianni Avella Doseone - Be Evil (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : R ap freestyle Collezione di freestyle in edizione stralimitata (cd-r con copertine realizzate a mano dallo stesso Dose) venduta ai concerti 2009 dei Themselves. La maggior parte dei pezzi è stata registrata durante le freestyle classes che Dose, assieme a Jel e Kevin Akhidenor aka Kev, ha tenuto alla Youth Movement Records di Oakland, organizzazione che si occupa di coinvolgere in progetti di educazione musicale i ragazzi delle zone metropolitante "a rischio". Ci sono momenti interessanti (si parla molto di rapper famosi) e ci sono momenti divertenti (soprattutto nelle battles con gli studenti). Basi pauperistiche (loop cheapissimi, un semplice beat di batteria), qualità audio da bootleg. L'idea di mostrare la faccia più rap-based della faccenda Anticon (l'altra è evidentemente quella elettronica) non è male, ma il risultato è molto meno pirotecnico di come si poteva immaginare, conoscendo la fama e le doti di Dose. Per paradosso, interessante più per il lato - per così dire - antropologico che per quello tecnico.(6.2/10) Gabriele Marino Ducktails - Landscapes (Olde English Spelling Bee, Ottobre 2009) G enere : T ropical - psych Forse la finalità ultima di Matt Mondanile aka Ducktails è proprio questa: appoggiarsi alla sensibilità di chi ascolta per evocare nostalgicamente il tempo che fu (qualunque esso sia). È proprio quando ci si trova ad ascoltare quello che è ufficialmente il nuovo album dell’americano dopo la raccoltona di stramberie Backyard, che ci si rende conto pioggia battente, foglie che cadono, autunno che si trasforma in inverno che il meccanismo scatta senza remore. A tornare in mente sono tramonti (spettrali) sulla spiaggia, sfumature (inacidite) di colori estivi, rumorio 54 recensioni (quasi droning) di flutti marini e, perché no?, drink (drogati) con ombrellini da gustare a piedi scalzi sulla sabbia. Troppo banale? Beh, provate ad ascoltare la lunga Deck Observatory dagli umori quasi ambient-orientali, l’opening onirico di On The Boardwalk, il cantautorato psych subacqueo della conclusiva House Of Mirrors, le stratificazioni hypnagogic-pop di Seagull’s Flight. Converrete con me che è un gran piacere lasciarsi cullare dalle note a metà tra psichedelia da spiaggia al tramonto e cantautorato (quasi) speechless per giovani freakettoni messe su da Mondanile in un full length in cui l'accento sul versante pop è, se possibile, ancor più evidente.(7.2/10) Stefano Pifferi Echo & the Bunnymen - The Fountain (Ocean Rain, Ottobre 2009) G enere : P op Annunciato più di un anno fa, The Fountain esce sul mercato soltanto ora. Ad accompagnarlo zero promozione e un fattaccio brutto. Il tastierista Jake Brockman muore in un incidente motociclistico nell’isola di Man in circostanze simili a quelle che provocarono la morte di Pete De Freitas, allora batterista della band, esattamente vent’anni fa. Il singolo non è niente male, Think I Needed Too ha il sapore di una dedica. Commovente addio di quelli firmati McCulloch in chiodo e motocicletta che se ne va dal pub con grandi sogni e la certezza in fondo al cuore di non poterli realizzare e… whatever. Come direbbe lui. Per The Fountain in cabina c’è John McLaughlin (produttore di gruppacci quali Busted, Worlds Apart e 911), mentre l'ospite di lusso è un ragazzo che è cresciuto a pane U2 e Bunnymen, Chris Martin; ed è un lavoro diretto, essenzialmente pop e curatissimo nelle parti di chitarra da un Will Sergeant che fa il session man più che se stesso. Il disco lo tiene su il solito Ian, in eterno trip rockabilly colato nella sempiterna scrittura Ottanta. Per lui come per Bernard Sumner (e i suoi Bad Lieutenant) vale la medesima critica: classe, voce e attitudine sono rimaste a livelli incantevoli, eppure le canzoni servono sempre a livelli difficili da garantire quando le nuove tracce vengono continuamente confrontate con il passato. Traccia laterale e proprio per questo preferibile è una Life Of 1,000 Crimes: sembra un giochetto di produzione e invece regala di più dell’ennesima ballatona nicotinica, The Fountain, con il Coldplay guest a dimostrarci come possiamo fare a meno di entrambi i lati di questa medaglia. Insistendo sull’amore per i Sixties e sul Nicolas Cage che è in lui, McCulloch potrebbe sfornare album concentrandosi proprio sugli aspetti di nostaglia e mito, macchine e strade, che in tracce come Drivetime sono solo abbozzati (o comunque mai sviluppati in formato album); avrebbe la licenza per fare se stesso, o perlomeno un sé meno prigioniero dei Bunnymen. In questo Sumner è stato più coraggioso. I fan non temano: un terzetto di tune piaceranno sicuramente e Siberia meritava leggermente di più.(5.5/10) Edoardo Bridda Edda - Semper Biot (Niegazowana, Settembre 2009) G enere : musica d ' autore Vorremmo parlare di Stefano “Edda” Rampoldi diversamente da quanto verrebbe da fare leggendo la sua biografia. Lasciando perdere cioè i problemi di tossicodipendenza superati dall'ex front-man dei Ritmo Tribale e quell'immagine da sopravvissuto che l'assenza prolungata dalla scene da una parte e la mitologia spicciola dall'altra tendono ad affibbiargli. Quasi fosse un nuovo profeta di una qualche strana religione e non un “ragazzo” di più di quarant'anni con una vita alle spalle notevole e tragica al tempo stesso. Anche perché abbiamo tra le mani un disco che parla per lui e dice che altro modo di ripresentarsi non ci poteva essere. Così lontano nei suoni e nell'approccio dalla giovinezza sconvolta della band che in passato gli ha dato notorietà e l'ha infine costretto a mollare tutto, ma anche legato indissolubilmente a un percorso musicale oggi affrontato quasi sottovoce. Con l'obiettivo di conciliare l'equilibrio ritrovato con le passioni di un'anima “sempre nuda” che a distanza di anni non ha perso un grammo della sua poetica. Dodici tracce acustiche, in cui si respira una tensione emotiva terrificante stemperata soltanto in parte dai contributi di Andrea Rabuffetti, Taketo Gohara, Walter Somà - quest'ultimo coautore con Edda della maggior parte degli episodi in scaletta - e del violino di Mauro Pagani. Brani in cui si respira l'India Krishna così cara al musicista (Yogini) ma anche un esistenzialismo autobiografico spietato (Amare te, Io e te, Milano), su uno stile vocale spesso sopra le righe e vicino a certi teatri di Demetrio Stratos. C'è il passato di Edda in Semper Biot, ci sono le paure e c'è la spiritualità, ma ci sono anche gli anni novanta degli esordi. Con la loro complessità, la materialità sofferta e il peso specifico della sostanza contrapposta alla forma fin troppo leggera che si coglie in certe nuove leve figlie dell'inconsistenza del virtuale. A dar voce a un ritorno inaspettato e sorprendente che qualcuno si azzarda già a chiamare commiato.(7.6/10) Fabrizio Zampighi Elio e le Storie Tese - Gattini (Hukapan, Ottobre 2009) G enere : E lio puts rent smoking Note tecniche: in assenza di promo fisici, abbiamo fatto riferimento allo streaming integrale disponibile su deejay.it. E non c'è stato modo di far "partire" la traccia 11, Psichedelia, uno dei pezzi più belli di Elio, ospite - qui come nell'originale - Lucio Dalla. L'album è cd + dvd, e il dvd ancora non s'è visto, e neppure si sa bene cosa ci sia dentro (backstage, prove, live?). Vent'anni dal mitico esordio (il tempo passa per tutti e "il visagista delle dive... adesso è un altro") e gli Elio festeggiano facendo orchestrare alcuni pezzi storici ad Alessandro Nidi e affidando l'esecuzione a Danilo Grassi (musicisti classici dal curriculum prestigioso che hanno già avuto modo di collaborare con Elio-Stefano Belisari). Rock + orchestra è un binomio pericoloso, il rischio quello dell'appesantimento o comunque dello snaturamento dei pezzi. Qui il repertorio è salvo, non si tratta della solita pacchianata, ma il disco delude lo stesso, e molto. I brani non nascono a vita nuova con l'inserimento di archi e fiati, sono anzi in una dimensione come trasparente - una sorta di doppione orchestral-pop degli originali - che nulla aggiunge al mondo musicale creato dagli Elio, e che neppure riesce a dire le stesse identiche cose ma in modo particolarmente nuovo o interessante. Un'operazione un po' inutile, per dirla tutta, col retrogusto del capriccio elegante. Una Shpalman dai toni crepuscolari, solo piano (Rocco Tanica in punta di dita) e voce (un Max Pezzali calibratissimo), bagatella di chiusura, è l'unico pezzo illuminato da una luce diversa, recensioni 55 highlight Il Teatro degli Orrori - A Sangue Freddo (La Tempesta Records, Ottobre 2009) G enere : rock Mostrandosi in tutta la sua maturità, A Sangue Freddo ricomincia (materialmente) da dove finiva Dell’Impero Delle Tenebre, portando comunque a compimento un ulteriore scarto lirico-produttivo. Assodato l’impatto strumentale tecnicamente devastante, come si confà a una macchina da guerra rodata, a caratterizzare il comeback troviamo suoni levigati e ricercati, in apparenza più accessibili e meno ostici che, però, nulla tolgono al potenziale anthemico di un quartetto portentoso, a cui non dispiace nemmeno concedersi momenti altri; si veda la riscrittura in divenire offerta dai Bloody Beetroots in Direzioni Diverse. Le bombe da potenziale hit dell’underground comunque ci sono e si vestono di abiti diversi: spesso aggressive e brucianti come Due, Mai Dire Mai (slide jesuslizardiana e midtempo assassino), Il Terzo Mondo (batteria monstre e interplay da urlo); a volte diluite e poetiche, al limite del sognante come l’opener Io Ti Aspetto e È Colpa Mia; altre volte ancora, emotive e struggenti come La Vita È Breve o la conclusiva, devastante seduta psicanalitica a cuore aperto Die Zeit (ospiti Richard e Roberto Tiso e lo Zu Jacopo Battaglia). Tutta visceralità e passione, sudore e coinvolgimento, con liriche che ci vanno di stomaco e un Capovilla ai massimi livelli: sputa sentenze e vomita bile giocando - lui ancora sì - direttamente o di sponda con uno spettro ampissimo della tradizione letteraria e musicale italiana e non, dal teatro-canzone di Gaber a Majakovskij (di cui si parafrasa All’amato se stesso…) e Pino Daniele, da Celentano a Battiato, dagli immancabili De André a Carmelo Bene e infilandoci in mezzo pure il Padre Nostro (nel pezzo omonimo) e il poeta nigeriano Ken Saro Wiwa. Tagliando corto. Se di rock applicato alla canzone d’autore si leggeva un po’ ovunque in merito all’esordio, con A Sangue Freddo abbiamo il classic album italiano per il terzo millennio.(8/10) Stefano Pifferi inaspettamente bellissimo. Il singolo, l'inedito Storia di un bellimbusto, è un poppettino funkydiscobalera, facile ma carino, sulla Milano da bere/dabbene. Sarebbe stato interessante tentare la resa di un pezzo di per sé già sinfonico come La vendetta del fantasma formaggino, capolavoro della meta-musica elica (un po' il Greggery Peccary de noantri). Gli Elio sono dei classici, ma per dire questo non c'era davvero bisogno di scomodare l'orchestra. Neppure gli hardcore fanatics (il sottoscritto nel mucchio) saranno contenti.(5.5/10) Gabriele Marino 56 recensioni Elisabetta Fadini - Desmodus (Discipline, Luglio 2009) G enere : reading Primo album per Elisabetta Fadini, attrice e ricercatrice vocale già da anni dedita a un’esplorazione musical teatrale variegata e a numerose collaborazioni (dal Living Theatre a Stefano Bollani, Paolo Fresu, Mauro Ermanno Giovanardi, Cristiano Godano tra gli altri). Il progetto Desmodus nasce da musica e soggetto di Garbo, con l’intento di creare un personaggio anche letterario, impersonificato dall’attrice; si è immaginato un protagonista che rappresentasse le varie tensioni del’artista, viste nello scorrere del tempo, quindi l’immortalità dell’arte e dei suoi personaggi, in pa- rallelo alla mortalità degli uomini. Trenta minuti di musica ipnotica, a tratti iterativa, atmosferica, per un dramma gotico del quale è protagonista assoluta la voce della Fadini, nelle sue più diverse modulazioni, che dà anima al vampiresco personaggio. Un’opera ambiziosa allora, che si pone al confine tra musica, recitazione e teatro, fondendole in un ibrido certamente affascinante e ben calibrato.(7.2/10) Teresa Greco Factums - Flowers (Sacred Bones, Ottobre 2009) G enere : I ndustrial W ave Quinto album nel giro di pochi anni per il trio di Seattle che, dopo il debutto del 2007 su Siltbreeze, ha macinato release e feedback positivi da tutti i freak delle realtà musicali più out e disturbanti del globo; e per tornare i Factums scelgono una generosa manciata di brani registrati tra il 2006 e il 2007 che solo ora vedono la pubblicazione. Benché i pezzi non siano di recente fattura, qualche novità è comunque presente su questo Flowers: viene ridotto il numero di skit e collage rumoristici, con cui da sempre il gruppo taglia e cuce brandelli di realtà e finzione sonora, ed aumentano le canzoni propriamente (o quasi) dette. Suonano infatti piuttosto nuove le aperture melodiche ed al passo coi tempi di See Inside e Split Screen, così come le schegge impazzite di post-punk (When, Sod), noise (Secret Police, Bend) e simil sludge (Mumbles) sparse in giro per i solchi. Un album che ha senza dubbio nella sua varietà la sua più evidente caratteristica, specialmente se raffrontato ai più monolitici precedenti; se ciò sia un bene, e conceda il giusto respiro, o sia piuttosto un limite, e renda il disco dispersivo e pretenzioso, è un giudizio che ognuno può formulare da sé dopo un attento ascolto delle 22 tracce che compongono questo LP. (6.8/10) Andrea Napoli Falty Dl - Bravery EP (Planet Mu Records, Ottobre 2009) G enere : A mbient , wonky Lo senti da subito che il nuovo ep di Falty Dl suona più coeso e maturo del precedente Love Is A Liability recensito lo scorso giugno. Riferimenti wonky - e soprattutto memorabilia '92 - sono sotto controllo e dalle casse esce una calda jam fatta di campionamenti black à la Bibio e quel fare zoppicante che piace tanto dopo che Harmonic 313 l'ha sbanca- to superando in notorietà e fama il più longevo (ma sempre troppo nerd) Neil Landstrum. Il meglio Falty lo dà però quando si allontana dal battito oramai moda: Play Child mescola la zampa del capo MuZiq con tagli jazzy e old skool Chicago, Tronman infila una vecchia diva house in uno scenario rave. Le basi sono sempre piuttosto dritte, o drittissime con nel caso del bel funky-dub afoso chiamato Pressure. Ce n'è ancora prima di chiamarlo nome e cognome ma il ragazzo impara in fretta e guarda già oltre i vestiti...(6.9/10) Edoardo Bridda Felix - You Are The One I Pick (Kranky, Novembre 2009) G enere : chamber pop Lucinda Chua (violoncello, piano e voce) e Chris Summerlin (chitarre e drones) ovvero Felix, duo di Nottingham che esordisce su Kranky con You Are The One I Pick, con alle spalle variegate esperienze, la prima come pianista /violoncellista per Stars Of The Lid, il secondo come chitarrista dei Lords. Formazione classica alle spalle per un esperimento a cavallo tra ambient e chamber pop; la scommessa (vinta) dei Felix sembra essere quella di aspirare ad una maggiore leggibilità della materia trattata, una divulgazione, ma sempre mantenendosi entro certi canoni di musica piuttosto colta. Strutturazione e svolgimento sono allora prettamente chamber, con coloriture ed aperture verso il pop alto e il droning; la scrittura risulta varia, centrandosi su una contrapposizione tra il piano e il violoncello della Chua e l’accompagnamento chitarristico di Summerlin e giocando sulla sottrazione, piuttosto che sull’accumulo di elementi. Si aggiunga poi un carico emozionale bilanciato che non guasta mai in questo genere e il risultato è piuttosto equilibrato. La Joni Mitchell “mingusiana” più jazzata ed elaborata dei tardi Settanta, l’espressività e gli umori colorati di una Shannon Wright, l’emotività di Antony & The Johnsons, qualche eco di Nico insieme ad aspirazioni da soundtrack ambient, e tanti richiami alla musica che ha fatto la fortuna della Kranky. Richiami anche a un dream pop rielaborato alla loro maniera. Dei Low più ambient. Non difetta di certo la personalità ai Felix.(7.2/10) Teresa Greco recensioni 57 Fire! - You Liked Me Five Minutes Ago (Rune Grammofon, Novembre 2009) G enere : free rock Groove melmoso. Crasi tra Black Sabbath, Guru Guru e la new thing di John Coltrane e Archie Shepp. Nuovo gruppo di stanza Rune Grammofon. Nuovo per modo di dire, dacché il nucleo è familiare: Mats Gustafsson al sassofono e Rhodes; Johan Berthling (Tape) alla chitarra, basso e hammond; Andreas Werliin (Wildbirds & Peacedrums) alla batteria. Come un mantra indemoniato. Musicisti col diavolo in corpo, letteralmente. You Liked Me Five Minutes Ago apre al funk-doom con If I Took Your Hand. Il sax di Gustafsson pare tarantolato: Stride. Urla. Ansima. Spaventa. But Sometimes I Am fa anche meglio. Diciassette minuti dove il blues incappa nel krautrock dei primi e selvaggi Can. Un tour de force lancinante. La voce femminile, a noi sconosciuta, biascica lamenti a là Damo Suzuki. Il sax ormai è andato. In Can I Hold You For A Minute?, il kraut-sabbath - Julian Cope ci perdoni la citazione! - dei Guru Guru apre al Coltrane di Ascension. Jazz libero impantanato nel doom. Dopo cotanto inveire sul malcapitato udito, You Liked Me Five Minutes Ago chiude all’insegna di un notturno hard-boiled. Fatevi rapire.(7/10) Gianni Avella Foot Village - Anti-Magic (Upset The Rhythm, Novembre 2009) G enere : tribal madnes s Torna la thunderous drum'n'shout assembly in tutta la sua irruente potenza di fuoco da no-electricity hardcore. Il nuovo album attraversa l’oceano (il marchio è quello di qualità della Upset! The Rhythm) e sposta di un passo ancora le coordinate ideologiche che da sempre caratterizzano l’incompromissoria proposta del quartetto losangelino. Se nelle prime prove centrale era, infatti, prima la riflessione su altri stati (World Fantasy) e poi la costituzione di una propria nation under one drum (Friendship Nation), ora la “matura” nazione Foot Village si confronta con l’idea della guerra. Anti-Magic diviene così una specie di concept guerresco che vive sempre di costante tensione, come dimostrano Reggae Warzone (“This is the war for the human race…” urla sguaiata l’unica signorina del gruppo…) o National Jamthum in cui le sirene antisommossa che qua e là fanno capolino ri58 recensioni evocano il clima riottoso dell’intera faccenda. La conclusiva, lunghissima jam collettiva Chicken And Cheese 2 - in cui si celebra la fine della guerra e la “rivelazione delle virtù della musica” con amici di vecchia data e spiriti affini (da Aids Wolf a Tussle passando per Blue Sabbath Black Fiji) seppur nella sua naturale frammentazione mantiene sempre in nuce quel ribellismo anarcoide (stilistico e ideologico) che è ormai segno caratteristico di Foot Village. Insomma, esperienza estenuante ma fascinosa.(7.2/10) Stefano Pifferi Former Ghosts - Fleurs (Upset The Rhythm, Novembre 2009) G enere : synth - wave In epoca di collaborazioni trasversali e commistioni stilistiche come l’attuale, parlare di supergruppo non è che abbia molto senso, soprattutto in ambiti realmente underground. Quando però ci si trova di fronte a formazioni (non estemporanee) come Former Ghosts, beh, un pensierino tocca farcelo. Nato da una idea di Freddy Ruppert titolare della sigla This Song Is A Mess But So Am I, Former Ghosts vede infatti come restanti vertici del trio Jamie Stewart (Xiu Xiu) e Nika Roza (Zola Jesus). Un trio di piccoli fenomeni totalmente immolato al culto di Ian Curtis e della synth-wave in modalità lo-fi. Non c’è, difatti, una singola nota (tutte rigorosamente synthetiche come da manuale del nerd 2.0) in queste 12 piccole gemme che non trasudi un immaginario nero-pece, tetro e accorato, fatto di disperata e depressa poesia urbana quale era quello dei Joy Division. Non di mera imitazione si tratta, però, come spesso accade ultimamente. Qui, sarà il trasporto nelle parti vocali, sarà la plumbea ma ricercata atmosfera evocata dalle musiche, la sensazione è che di reale comunanza di sentire si tratti. Quasi che quella tra i tre - col proprio, rispettivo background - e il ragazzo di Manchester sia una questione di reali affinità elettive più che di semplice (e genuina, sia chiaro) imitatio. Molto più spontaneamente vissuto, sentito e sofferto di molto del synth-pop ascoltato di recente (Cold Cave e tutto il giro minimal-wave per fare un nome). La sensazione è che il gruppo sia tale e non uno one-shot. La speranza (speriamo di molti) è che lo sia realmente perché Fleurs è uno dei dischi più belli ascoltati ultimamente.(7.3/10) Stefano Pifferi Gary Higgins - Seconds (Drag City, Ottobre 2009) G enere : folk rock Un altro della schiera degli scomparsi eccellenti e poi riscoperti di recente, come Vashti Bunyan e Linda Perhacs, Gary Higgins aveva beneficiato nel 2005, sotto il patrocinio di Ben Chasny (Six Organs Of Admittance) dei riflettori ancora puntati sulla sua musica con la ristampa - a cura di Drag City - dell’unico disco, il gioiellino folk Red Hash (1973), finalmente disponibile con un paio di bonus. Il Nostro quindi si rimette on the road ed ecco questo Seconds, dal titolo che più anodino non si potrebbe. Con il ritorno di alcuni vecchi sodali (Dave Beaujon e Jerry Fenton) ma anche dal figlio alla chitarra, Higgins sorprende ancora per intenti e attitudine; con un folk rock diretto e senza fronzoli, accompagnato dalla voce avvolgente che ben gli si conosce, fa il suo ingresso tra ballad, numeri psych, talking blues e la sublime ed articolata 5 A. M Trilogy, un gioiellino tra sussurri e malinconie, qualcosa a metà strada tra il suo passato e un presente recente che potrebbe richiamare il Will Oldham classico. Non tutto è però all’altezza, ma un paio di numeri oltre al già citato fanno la differenza (Demons, Ten-Speed quest’ultima un vecchio pezzo rimesso a nuovo), in un album che non compete certamente con Red Hash ma ha la sua ragione d’essere nella continuazione di un percorso artistico di tutto rispetto.(7.1/10) Teresa Greco Gerardo Balestrieri - Un turco napoletano a Venezia (Egea, Ottobre 2009) G enere : etno folk Un po' guappo e un po' guitto, Gerardo Balestrieri si cala nella parte dell'apolide veneziano. Metà del cuore rivolto a Napoli, la natia Napoli. L'altra verso il Bosforo, d'onde proviene l'Arif Azerturk Ensemble, quintetto tradizionale turco che condisce di folto esotismo l'estro e i languori mediterranei di pezzi storici del canzoniere napoletano quali Maruz- zella, 'O guappo 'nnammurato e Caravan petrol. Non contento, Balestrieri ha chiamato a collaborare Paola Fernandez Dell'Erba, cantante argentina di origini lucane, col risultato che già con l'iniziale A Marecchiare siamo ubriachi di latinerie tanghesche partenopee orientaleggianti, roba che fatichi a tener dritta la testa. Così, con Gerardo che volutamente spende una voce più blues possibile - tanto per squadernare ulteriormente le coordinate - si compie questo lungo e denso cerimoniale contaminato e contaminante, dove il mistero è una melma felpata e struggente (sentitevi la straordinaria Scetate), dove una Tammurriata nera può ritrovare il senso di dramma perduto nelle troppe versioni macchiettistiche, dove una Nascette mmiezz'o mare si aggira laconica e fatalista pennellando il ritratto d'una città-mondo come avrebbe potuto (e amato poter fare) Fabrizio De André. Balestrieri è un visionario che non si fa troppe illusioni, uno che coltiva il proprio golfo mistico di suggestioni e lo porta in giro con amore tanto appassionato quanto discreto. Tuttavia, non è uno che si tira indietro se, come in questo caso, c'è da spendere il proprio cent riguardo al tema (scottante) del sincretismo culturale. Certo, mi piacerebbe risentirlo più "cantautore", ma sospetto che farà sempre semplicemente quel che gli parrà opportuno. Bontà sua.(7.2/10) Stefano Solventi Gerda - Self Titled (Bloody Sound Fucktory, Settembre 2009) G enere : post - hc Ritorna il combo forse più disturbante e incompromissorio delle Marche rumorose con una mezzora di viscerale post-hardcore devastante. Se rimaniamo convinti che ci sia del marcio in quel fazzoletto d’Italia, altrettanto certi siamo del fatto che ad animare la formazione jesina sia una rabbia furibonda e primordiale, ferina e incontrollabile. Cinque pezzi untitled che sono un urlo munchiano senza soste né possibilità di redenzione non solo per chi ascolta ma soprattutto per chi suona. Certo, non di solo screamo vive questo omonimo vinile (+ cd, come da prassi), perché sarebbe limitativo e banale, visto il passato della band. E così riechegrecensioni 59 gia, tra brutalità da dopo hardcore svedese (altezza Breach) una tendenza alla dilatazione disperata e alienante che si riverbera negli spasmi dei pezzi del lato b. La tensione sembra allentarsi specie negli 11 minuti di 04, che parte pestona e greve per poi diluirsi in contrazioni quasi psycho-sludge, ma è un falso allarme: la cieca e iconoclasta furia della conclusiva 05 riconduce i Gerda sul loro terreno. Quello di portabandiera del dopo hc italiano.(6.8/10) Stefano Pifferi Giuliano Dottori - Temporali e rivoluzioni (ViaAudio Records, Novembre 2009) G enere : songwriting Chitarrista che vanta numerose collaborazioni (Amor Fou e Atleticodefina tra le ultime), Giuliano Dottori arriva con Temporali e rivoluzioni al secondo album solista, con la produzione artistica di Giovanni Ferrario, dopo l’esordio del 2007 con Lucida. Autore di un songwriting sommesso e morbido, di base rock, fatto di ballate e pezzi più mossi, il disco si muove tra ispirazioni di songwriting classico, italiano in primis, dagli storici Francesco De Gregori e Lucio Battisti ai più recenti Moltheni si sentano per esempio le iniziali Chiudi l’emergenza nello specchio e Amuleto - e Riccardo Sinigallia, fino ad umori psichedelici pieni di echi battistiani (Catene e gioie fragili). Riflessioni amare e disincantate su attualità e società (Inno nazionale del mio isolato), tra intimismo ed aperture, sempre con uno sguardo piuttosto ironico e sottile sulla realtà, per un album realizzato con eleganza ed arrangiamenti sempre impeccabili.(7.1/10) Teresa Greco Goose - 30:40 (Seahorse Recordings, Ottobre 2009) G enere : pop - rock Ci mancava solo la band indie con le crisi di identità da over trenta. Per di più capitata a uno che con quel tipo di crisi ci convive tutti i giorni e nemmeno troppo serenamente. Si, perché il 30:40 del titolo starebbe ad indicare il passaggio critico dagli -enta agli -anta (sorta di vero e proprio concept per il disco), vissuto come un momento utile per tirare le somme - quasi sempre poco soddisfacenti - o magari soltanto per riflettere sul vissuto fin lì condotto. Fortuna che i Goose sono artisti abituati a vedere 60 recensioni tutto con leggerezza, a masticare tematiche importanti con piglio ironico, a non prendersi troppo sul serio anche quando la situazione non è delle migliori. Grazie a scelte musicali che ne sottolineano l'approccio easy ma non superficiale, in bilico tra rock di impronta Pearl Jam (Sogna) e country svogliato (La vita a trentaquattro anni), power pop (Qui per te) e ballate in stile Perturbazione (Quando ero felice), parentesi elettroacustiche senza pretese (Indietro) e fingerpicking della buona notte (Neve). Vengono in mente i Mr Brace, se non nei suoni almeno nell'approccio, anche se qui l'ironia è meno manifesta e più sottile. Sostenuta da testi che parlano di quotidianità e odorano di canzone d'autore, significativi nella loro essenzialità e ben lontani dall'apparire noiosi o eccessivi. Insomma la seconda fatica dei Goose è un bel disco. Un'opera democratica - perché non pretende conoscenze specifiche da parte di chi ascolta - e fondamentalmente popolare, ma assemblata con intelligenza e acume.(7/10) Fabrizio Zampighi Grant Lee Phillips - Little Moon (Yep Roc, Ottobre 2009) G enere : folk rock pop Anno 1994. Programma pomeridiano di Videomusic. Ospiti: i Grant Lee Buffalo. Eseguono un paio di pezzi di Mighty Joe Moon, se non ricordo male Side By Side e Lone Star Song. Gli astanti si spellano le mani. Dopodiché, la canonica intervista. Anzi, non troppo canonica. Il conduttore lascia la parola ai ragazzi del pubblico. Un tipo barbuto dall'aria abbastanza competente chiede loro: siete consapevoli d'essere in questo momento la migliore band al mondo? Grant Lee Phillips si schernisce, risponde smozzicando parole di circostanza. Mi colpiscono però i suoi gesti, il suo sguardo. Si ciondola senza posa aggrappato alla chitarra arpeggiando note imperscrutabili, come se solo quello gl'importasse: un suonare necessario, cardiaco. Nei suoi occhi cova un lampo scuro raggelato, una consapevolezza morbida e profonda di mistero. Quei tre forse non erano la migliore band al mondo, però in quel preciso momento tenevano il fulmine al guinzaglio, cavalcavano una bestia antica aggirandosi come minacciosi fantasmi contemporanei. In qualche modo, partecipavano di una stirpe formidabile che univa trasversalmente Leadbelly e Howlin' Wolf, Gram Parsons e la Band, Blasters e Gun Club, Dream Syndicate e highlight Lucky Elephant - Star Sign Trampoline (Pias, Ottobre 2009) G enere : indie pop Una solarità e un’attitudine al divertimento rendono interessanti a un primo ascolto questi esordienti inglesi Lucky Elephant. Elementi essenziali man mano che si procede con Star Sign Trampoline sono una musicalità pop e un uso estremamente intelligente degli elementi a disposizione. Arrivano dall’isola di Wight e il cantante e frontman Emmanuel ‘Manu’ Labescat è di origine francese e si sente, anche nell’accento deliziosamente nasale. Cosa ci propongono è presto detto: pop all’ennesima potenza, una scrittura sicura, una miscela in equilibrio di emotività ed espressività prettamente brit, coniugata in parte con elementi di chanson francese (ah quell’organo!) e songwriting d’autore, diciamo dalle parti di un Morrissey o di un Paul Weller, con ritmiche anche jazzy. Si aggiungano poi anche elementi sparsi di afro beat e tropical alla Vampire Weekend, insieme a una malinconia che ben si associa di contrasto al sunny side ed è fatta. Una sobrietà di fondo nei suoni, vecchi synth, un piano Wurlitzer, un harmonium, ukulele e chitarra spesso acustica. È nella fusione il segreto dell’album, sia quando nel pezzo migliore Modern Life, Changing People si pongono in sospensione tra uptempo e ritmiche dub, sia quando viaggiano su blues e shoegaze (The Beginning), sia nella facilità alla melodia, caratteristica del gruppo. Un esordio interessante allora Star Sign Trampoline, che ci fa rivivere alla grande il calore dell’estate da poco trascorsa.(7.2/10) Teresa Greco Thin White Rope. Tre lustri dopo, dimenticati oramai i GLB, sperimentate digressioni electro-pop e carezzevoli nenie da front porch, il caro Grant Lee Phillips si ritrova immerso nelle dolcezze della neopaternità, da cui trae oggi ispirazione per regalarci un disco "ennesimo". Ben suonato, ben scritto, ben interpretato. Sapientemente in bilico tra folk-rock e chamber-pop con un pizzico del solito vaudeville. Uno dei suoi migliori lavori da solista. Gradevolmente innocuo dalla prima all'ultima nota. Così vanno le cose, così devono andare. Non so se riuscirò mai a perdonarlo. (6/10) Stefano Solventi Grischa Lichtenberger - Treibgut (Raster Noton DE, Maggio 2009) G enere : G licth Un ritorno si sperava e in perfetta forma se lo attendeva. Pronta ancora una volta a non deludere la Raster Norton si concede un seguido in nove libera- zioni a breve dagli ultimi SND e Atom™. Una serie intitolata unum (dal greco numero atomico) che prende spunto dagli elementi chimici 111-119 della tavola periodica arrivata qui alla seconda uscita con Treibgut (unumbium r-n 112) del giovane artista Grischa Lichtenberger. La sostanza è sin da principio forte ed inaspettata, field recordings e texture più o meno concrete lasciate al loro naturale stato - acerbo, animato, denso e rumoroso - a seguire i territori più sperimentali (quelli per cromatismi ed impatto sonoro più vicino ad un Alva Noto o per destrutturazione di ritmo agli Autechre) percorsi prima in stati tortuosi, interrotti poi o abbandonati alle tempeste ritmiche. Non è necessario all'ascolto di Treibgut cercare una continuità di significato, per queste cinque tempeste di droning e glitch organizzate sotto forma di residui industrial o per certe circostanze rappresentate al limite della dancefloor, l'espressività maggiore recensioni 61 sta nella deriva e nella collisione degli elementi. Da 0406_01_RS_! a 0106_12_LV_3 Sand Ausheben, grammattiche anomali che non scendono a compromessi con la funzionalità ma ne cercano dichiaratamente esilio. Un esilio impossibile da dimenticare.(7/10) Sara Bracco Guano Padano - Guano Padano (Important Records, Novembre 2009) G enere : calexico - style Ecco: Alessandro "Asso" Stefana, uno per cui vale spendere davvero un po’ di parole. “Sei passato da un grande nome come Marc Ribot, a due musicisti italiani giovani". Uno di quei due giovani di belle speranze è Asso. "Perché questa scelta?". Qualcuno a Capossela, ai tempi di Da Solo, questa domanda la pone. E lui così risponde: "Credo che Asso sia uno straordinario chitarrista e che possieda anche un eccezionale senso estetico e un grande amore per il suono. Era quindi il compagno perfetto per un viaggio come questo. Le persone con cui ho lavorato all’inizio sono anche quelle che avevo già molto vicine: non c’è stato bisogno di andare a cercare all’esterno delle mie conoscenze per trovare collaboratori. Questo mi ha permesso da subito di lavorare bene e con affiatamento. Sono quindi molto contento di aver riscontrato questa vicinanza, così come sono molto contento di aver lavorato con un musicista bravo e geniale come Enrico Gabrielli. Perché fino a ora ho parlato di rapporti, di conoscenze, di vicinanza, ma di fatto il motivo principale per cui li ho scelti è un altro ed è molto semplice. Ho lavorato con loro perché sono i più bravi. Punto". Di Stefana, chitarrista davvero talentuoso, si potrebbero dire un’infinità cose; ad esempio che è nato a Brescia nel 1981. Ad esempio che sa suonare una miriade di strumenti oltre la chitarra (steel e pedal steel guitar, kalimba, omnichord, ukulele, balafon, banjo, eccetera). Ad esempio che ha accompagnato moltissimi nomi celebri, oltre Vinicio o i Calexico: Matteo Salvatore, Shane McGowan, Flaco Jimenez, Emidio Clementi, Marco Parente. Ma soprattutto Marc Ribot, del quale, per molti aspetti, è l’erede nei nuovi la62 recensioni vori firmati Vinicio Capossela. Chi cercasse il vero passaggio di testimone dall’uno all’altro può andare ad ascoltarsi un disco di Stefana uscito nel 2007 per l’etichetta indipendente statunitense Important Records: è un lavoro di musica sperimentale, si intitola Poste e Telegrafi, e dentro ci suona anche Mastro Ribot. Un maestro che per Vinicio è garanzia di qualità sulle scelte delle sue collaborazioni. Adesso ci sono i Guano Padano negli orizzonti artistici del Nostro. Un soldalizio nato fra i banchi di scuola. E la scuola è sempre quella, quella di Vinicio Capossela. I Guano Padano sono infatti un terzetto: Danilo Gallo al contrabbasso, vibrafono, piano e organo, Zeno De Rossi alla batteria e ammenicoli vari oltre allo stesso Stefana alla chitarra. Come suona questo loro esordio comune, per il quale lo stesso Joey Burns si è scomodato a recensire (dare un'occhiata al booklet del cd, please) ogni canzone una per una? Suona come i Friends of Dean Martinez non sono mai stati capaci di suonare: desertico ed evocativativamente surfy (Guano Padano), teso sulle corde d'un banjo 'd'assenza' (A Country Concept), fischiettato su melodie spaghetti western di Morricone (El Divino, con lo storico Alessandro Alessandroni, fischiatore storico di Ennio), o ancora come un pezzo da colonna sonora hollywoodiana che pare i Ventures alle prese con Tarantino (Epiphany). E non finisce qui: lo strumentale folle di Bull Buster, o magari la splendida cover di Ramblin' Man, con un Bobby Solo spezzacuori da urlo. Partecipano al disco anche il grande Gary Lucas e Chris Speed. Chapeau.(7.5/10) Massimo Padalino GusGus - 24/7 (Kompakt, Settembre 2009) G enere : technohouse b / n Da collettivo multimediale a trio concentrato sull'elettronica, dall'intelligent house a colori acidi di Polydistortion (1997, ottimo, e con momenti già indicativi degli sviluppi futuri) al minimalismo biancoenero di questo 24/7: i GusGus hanno lavorato di sottrazione, o meglio, per asciugamento. Tra i due estremi, una manciata di dischi e collaborazioni rivelatrici come i remix per Björk, Sigur Rós (naturalmente) e Depeche Mode (ovviamente). Il disco è austero ed elegante, fin dalla formula scelta, pochi pezzi tutti medio-lunghi, ben visualizzato da una copertina ambiguamente ammiccante e praticamente surrealista, animato dai piccoli palpiti di una tensione sottopellesottoghiaccio che non viene mai risolta. Lo strumentale deeptechno Bremen Cowboy a un certo punto "parte", ma senza esplodere davvero. Una tensione innervata di soulness bianca (una voce a tratti Bono primi anni Novanta), che è una tensione sicuramente sensuale-sessuale, con l'idea di un orgasmo che monta ma viene solo sfiorato, e quindi frustrato. Il risultato sono pezzi come Take Me Baby, con quella voce Eyes Wide Shut-izzata che comunica epidermicamente un momento di torbido voyeurismo. Disco intimamente notturno, fatto di attese disattese e di vuoti, tutto giocato sul concetto di stilizzazione.(7.2/10) Gabriele Marino Hecuba - Paradise (Manimal Vinyl Records, Ottobre 2009) G enere : electro rock pop Un accenno vagamente radioheadiano con la voce di Jon Beasley che si stiracchia in lamenti (Paradise), mentre Isabelle Albuquerque richiama Madonna (Even So, Miles Away), l’elettronica che non disturba, la produzione raffinata che gioca sul dettaglio. In una parola Hecuba. L’esordio per il duo losangeliano riassume le esperienze dell’ultimo pop femminile che guarda agli 80 (Bat For Lashes) e le trasfigura in un mix arty à la Yacht (guardacaso anche qui si gioca in due). Sembra di stare in un quadro di Andy Warhol, litografie che si ripetono identiche a se stesse, ma in questa ripetizione (di ritmi, di tecniche, di strumenti e di riff) sta il bello. Il minimalismo che inconsciamente (?) deriva dalla tradizione newyorchese di Philip Glass e soci gioca sullo scarto minimo, sull’insistenza ossessiva per il particolare e su atmosfere lievemente minori. Il tutto è amalgamato con le ultime cose che ha proposto quella potenza rediviva che è Yoko Ono: in La Musica e in Extra Connection rivive quel sentimento di sperimentazione calibrato Now, con l’introduzione a cappella, il crescendo un po’ acido un po’ acustico e lo spoken word sulla base visionaria. Se i riferimenti non bastavano, c’è pure il fantasma LCD Soundsystem. Pronti insomma a sbancare il dancefloor con successivi e (speriamo) gordi remix, qui si prosegue e si costruisce un suono che eredita ma che non emula. Una buona prova di surfing degli ‘stili che fanno stile’. Poshy con l’anima.(6.8/10) Marco Braggion I Melt - Il nostro cuore a pezzi (La Tempesta Records, Novembre 2009) G enere : indie rock pop Dopo ben sei album all’attivo, tornano con Il nostro cuore a pezzi i vicentini I Melt; presenti nel panorama indie italiano dal lontano 1992, si sono distinti per collaborazioni con Giorgio Canali (che ha prodotto alcuni dei loro dischi precedenti) e Tre Allegri Ragazzi Morti tra gli altri. Autori di un indie rock con influenze che vanno dal brit pop al post punk e all’indie americano, insieme alla musica italiana più o meno recente, si caratterizzano innanzitutto per il cantato in italiano e per una vena melodica spiccata che emerge prepotente anche nei pezzi più insospettati. Sono soprattutto le melodie che poi restano in testa (Anidride, la title track) e alcune soluzioni più aggressive (Raccontami il tuo inverno) e personali (l’acustica Non mordo più e Il cielo sopra Francoforte). Cantori disincantati del quotidiano, I Melt realizzano un disco eterogeneo per sonorità che ha il suo perché nella cifra personale raggiunta.(6.8/10) Teresa Greco Ian Brown - My Way (Polydor, Ottobre 2009) G enere : pop Il sottoscritto non ha sottomano i dati di vendita, ma sospetta che The World Is Yours di due anni fa non sia stato per Ian Brown quel che si dice un trionfo di vendite. Disco convincente il quinto dell'ex Stone Roses, pieno di belle canzoni tra modern soul, r'n'b e hip hop con qualche sbirciatina al (glorioso) passato, ma non abbastanza probabilmente da pagare al botteghino. Non si spiegherebbe altrimenti l'esegesi di questo My way (titolo in omaggio dichiarato a Sid Vicious) che a dispetto del predecessore calca la mano su archetipi quasi sempre poppeggianti, per dodici canzoni che scalano definitivamente il decennio - dai settanta agli ottanta - e si assestano su coordinate tanto derivative (vedi in primis alla voce Michael Jackson) quanto succulente, visto il talento da “fine melodista” del nostro. Peccato però che il risultato sia ben diverso da quanto lasciato intendere dalle premesse: si arriva in fondo facilmente alla track-list, ma che noia. Dave recensioni 63 highlight OOIOO - Armonico Hewa (Thrill Jockey, Ottobre 2009) G enere : P ost -P unk Tribale come le cose che ci sono piaciute nell'america dei tamburi del nostro speciale, psychedelico come l'altro fiume in piena undergound, sempre analizzato in queste pagine, cerebrale e scherzoso come un parto di San Francisco fine Settanta, e infine post-punk, parola chiave e ombrello attorno al quale gira tutto ciò che nell'(avant)rock ci è sempre piaciuto. A tre anni dal già notevole Taiga, Yoshimi si ripresenta in quartetto e con il sorriso tranchant proprio solo dei grandi. In pratica ci dirà che tra Gang Of Four, Wire e il mondo krauto più fricchettone non ci sono né barriere né impedimenti. E che le cose possono anche lievitare e diventare misticheggianti senza perdere in forza e impatto. Poi, se le energie in campo sono quelle dello yang piuttosto che dello ying, la sensibilità apre prospettive e traiettorie imprevedibili e davanti alle orecchie hai un souno totale che non dimentica neppure la lezione gli ultimi Boredoms in veste live: si può essere punk partendo da ferree discipline orientali. E se qui di regole non ce ne sono, e fare ritmo significa liberarlo in cielo, è ancora il pensiero a orientare le azioni, seguendo l'intimo carattere play(ful) della musica, e così coordinando braccia e spirito. Le Oh oh eye oh oh si muovono talmente bene che pensare in grande viene spontaneo. è il corpo rock, bruciato sotto l'altare di chissà quale panteismo, a resuscitare. E ancora una volta ne esce rinnovato, come dei Pop Group per i Duemila, e senza imbarazzi di paragone sentita quella chilata di funk ancestrale (motore Mark Stewart per eccellenza) unito a un tribale che le Slits possono (e potevano) soltanto immaginare. E infine, cari progger, questo è anche un disco per voi, fatto com'è di cambi ritmo, altri stili ancora, accelerazioni, incastri, Ibiza, fare da concept dedicato a Gaia ecc. Tagliando corto: una delle band '00 con il più alto peso specifico in circolazione.(8/10) Edoardo Bridda -, altre volte è lo specchio fedele di chi ci suona dentro. è il caso dell'esordio de Il disordine delle cose, opera a cui partecipano, tra gli altri, Paolo Benvegnù, Marco Notari, i Perturbazione e Carmelo Pipitone dei Marta sui tubi. Per una formula che abbraccia in pieno il mood dei musicisti coinvolti, confezionando melodie sul modello di quelle della formazione torinese, affidandosi a un impianto fondamentalmente acustico, cedendo a un'eleganza formale retaggio del Benvegnù-pensiero ma risultato del lavoro in fase di produzione dello stesso Marco Notari, Gigi Giancursi e Luigi Giotto Napolitano. Tra pianoforti al rallentatore e voci suadenti, violoncelli e violini, trombe e rhodes, ci si ritrova invischiati in certo pop à la Beatles/ Radiohead prima maniera (La mia fetta, Muscoli di carta) come in una ricerca melodica formalmente impeccabile (il Moltheni de Il colore del vetro, ma anche L'altra metà di me stesso, Infezione, Lacrime e fango) figlia della tradizione autoriale degli ultimi anni. In uno scarto generazionale che innalza i “nuovi” cantautori (quelli citati in apertura) a modello da imitare. La formazione novarese non si tira indietro quando c'è da sfruttare la gloria riflessa di un'estetica ormai istituzionalizzata, confezionando un'opera certamente di richiamo. Per poi peccare, alla lunga, di eccessivo conformismo, in un disco che è intuito e gusto melodico ma anche vanitosa innocenza.(6.9/10) Fabrizio Zampighi McCraken, vent'anni dopo l'esordio Stone Roses, mette tutto a posto a livello di produzione; Brown di suo canta come sa fare, crooner moderno qui spesso al servizio di impasti vocali passati a macchina. Sono gli spunti decisivi invece a mancare. 
In sintesi, ma neanche poi tanto, il canovaccio è quello di un pop fortemente cadenzato nelle ritmiche, che di volta in volta sceglie di affidarsi alle didascalie più ruffiane (un bozzetto da Moby elegante in Marathon man, un synth-pop tipo Depeche Mode illuminati in Own brain, dei Coldplay danzerecci per By all means necessary e via dicendo) senza neanche sforzarsi troppo per trovarne di troppo inaspettate, e anzi scovandone alcune da brividi alla schiena (la grana hip hop di Crowning of the poor, per intenderci, ricorda i Bomfunk MC's). Altrove il risultato è un po' più confortante, come 64 recensioni nel ben singolo Stellify in cui Brown gioca a fare il Robbie Williams della situazione innestando fiati Motown su una pop-song piuttosto appiccicosa o nella ballad strappacuore Always remember me, immersa in una profondità di tastiere ed elettriche assai composte. Però l'impressione generale è di un deficit di idee proprio quando c'era anche il bisogno di fare cassa. Il re scimmia per questa volta è nudo, speriamo si (ris)copra.(5.2/10) Luca Barachetti Il disordine delle cose - Self Titled (Tamburi Usati, Ottobre 2009) G enere : folk - pop d ' autore Spesso un disco va oltre la somma delle parti che lo compongono - musicisti, ospiti, produttore, ecc Jookabox - Dead Zone Boys (Asthmatic Kitty Records, Novembre 2009) G enere : B ig kitch Si permette un po’ di tutto, David Adamson. Apre (Phantom Don’t Go) con una finta percussione da pellerossa e mette subito sul piatto la sua estetica: hip-hop, indie obliquo, e tanta, tanta disinvoltura. Un cantato tipico del bianco che cita il nero e la classica esplosione dell’indie da cameretta che non sta nella pelle ed esce per strada, nel mondo, negli altri mondi. Disinvoltura, si diceva, per molti versi figlia di quella inaugurata da Beck ma qui tutta interna all’universo che sta sotto alla linea che separa dal mainstream. Anche quando i Jookabox tentano Evil Guh, una sorta di ballata meditata su un tappeto di inquietudine, il prodotto non è rettilineo e - cosa gradita qui a SA - non ci fa certo puntare al tavolo su come la vicenda potrebbe finire. Il protagonista di Dead Zone Boys è un fantasma birichino (eufemismo per spaccone) che si apposta nelle tracce per fare loro attraversare i muri. E Don’t Go Phantom se ne fa portavoce, rendendo evidente, fra l’altro, il contributo di un altro personaggio che non sta quieto neanche un attimo, e che gioca come David costantemente con l’accumulo, piuttosto che con la sottrazione. Parliamo di Rafter, che qui è responsabile di missaggio e masterizzazione, come anche forse di un’atmosfera condivisa con Jookabox. Senza dire chi ha donato cosa o chi ha influenzato chi; i due vanno insieme per sensibilità ipertrofica e divertimento tronfio. I quattro Jookabox sono dei bear (con bearesse) che amano smuovere le acque, ma di fatto è possibile spogliare il loro operato, e scoprire che sotto ci sono canzoni indie. Grossa differenza con l’hip-hop da cui questa musica sembra a ogni traccia provenire con più forza. Eppure l’operazione è ingiusta. Se anche questo è folk o indie-pop per gente che ha una soglia del popolare molto alta (East Side Bangs/ East Side Fade), è nella smania produttiva che si articola la cantautorialità da cameretta di Adamson. Ed è così che You Cried Me sembra una facile canzone con tutti i crismi, ma in realtà è appena più veloce del dovuto, ha fretta e non può fare a meno di farcelo notare, finendo per non essere banale come sembrava. Stesso discorso per l’elettropop di Zombie Tear Drops. Stessa analisi per il disco: è il fantasma che si aggira a diventare elettronico, artificiale, eppure tanto terreno…(7/10) Gaspare Caliri Jules Not Jude - Clouds Of Fish ep (Rec Bed Room, Ottobre 2009) G enere : pop psych Il nome mette il dito nella piaga tra immaginifico e reale - una delle tante - della produzione beatlesiana, laddove il nomignolo "vero" del figlio di Lennon venne dissimulato da McCartney nel celeberrimo Jude, perché forse una "Hey Jules" non si sarebbe staccata abbastanza dalle cose terrene. C'è bisogno di un pizzico di finzione per alzarsi in volo fino all'iperuranio, come la polverina di fata per gli amichetti di Peter Pan. Ma restiamo coi piedi per terra, magari dalle parti di Brescia, dove dal 2007 agisce l'arguta cospirazione dei Jules Not Jude, ovvero Simone Ferrari e Mirza Sahman, un duo col pallino del beat popadelico da ravvivare ad uso e consumo dei trepidi visionari d'oggidì. Debuttano con Clouds Of Fish, cinque tracce per recensioni 65 un ep zeppo di stuzzicanti premesse a base di emulsioni sfrigolanti e languori vibratili, battito sbrigliato e cambi di scena, tutto un pullulare di trovate in fase di arrangiamento - farfisa, diamonica, glockenspiel, chitarre a plettro duro e arpeggi luccicosi, coretti distorti e violino... - che si spalmano come una glassa sulle melodie indolenti e beffardelle, toccanti e circospette. Coprendo un ventaglio di riferimenti che vanno dai primi Small Faces al Billy Corgan più bucolico, dalle più morbidi propaggini Elephant 6 all'estro pop dei Belle And Sebastian, dal ciondolio asprigno d'un Robyn Hitchcock ai languori lisergici Zombies, piazzano molte idee al servizio di una scrittura ispirata, che fa quasi fatica a tenere a bada l'esuberanza però tutto sommato ci riesce. Basterebbe la title track, col suo folk-psych che va ad espandersi tra vaudeville e stravisioni flaminglipsiane, a farceli catalogare tra i runners più promettenti.(7.3/10) Stefano Solventi Julian Casablancas - Phrazes for the Young (RCA, Novembre 2009) G enere : W ave P op La barca Strokes era un capello di carta e loro lo avevano capito prima di tutti. I boys che ieri furono Re ora possono soltanto sventolarci una fama virtuale. L'every kid indie simpatizzante gli voltò le spalle e i side project (sempre meno side) dimostrano interessi reali in seno a una band che nel lontano 2006 ci lasciò con un pugno di mosche chiamato First Impressions of Earth, stroncato quasi ovunque e salvato soltanto da chi aveva qualche interesse di booking. Così i fatti riportano family life per Fraiture e Valesi (ammogliati e neo babbi), carriera solista (e già due album all'attivo) per il bravino (ma non troppo) Albert Hammond Jr., i giochi di sponda à la Ringo Starr per il Moretti tirato per la camicia da mille parti che se non altro ha prodotto due belle collaborazioni a nome Little Joy e Megapuss. E Julian? Già, mancava lui. Il brandizzante/cristallizzante di un'esperienza che poteva contare sugli incastri - altezza sophomore - di Valesi-Hammond e che invece buttò alle ortiche pure quelli. In Phrazes for the Young, Casablancas non farà che avvalorarci la tesi. Converte elettro-wave il formato rockish della band cantandoci esattamente come sa e sfornandoci una tracklist di otto canzoncine nelle quali la maturazione artistica è ferma all'esordio strokesiano. In Out 66 recensioni Of The Blue parrebbe prendersi di petto Is This It? e suonarcelo syntetico, magari Blondie-style, ma è soltanto un miraggio. Lo troviamo intento in scialbe versioni di vecchi hit con le macchine (Glass), oppure in ballate autoironiche per salvarsi le chiappe. Rari i momenti di nota (Tourist), pur con una produzione di pregio e di carattere (quello che manca a lui). Dopo il deludente - ma non insufficiente - Paul Banks / Julian Plenti, solista di un'altra band su cui si era puntato molto (gli Interpol), abbiamo un esordio senza uscita e la garanzia di un brutto album firmato Strokes per il futuro.(4.5/10) Edoardo Bridda K-Conjog - Il nuovo è al passo coi tempi (Snowdonia, Ottobre 2009) G enere : electro folk Fabrizio Somma è K-Conjog. Uno che si prende la premura di specificare: "nessuno strumento o campione è stato maltrattato durante la realizzazione di questo disco". Insomma: snowdoniano doc. A partire dal titolo di questo suo album d'esordio: Il nuovo è al passo coi tempi. Che altro aggiungere? Ah, già: il disco è ottimo, strutturato su intuizioni semplici ma profonde e ben realizzate. Il bestiario imbastito a furia di campioni e field recordings in loop diventa tessitura astrusa tra le cui maglie spuntano ricami melodici minimali ma ficcanti (di piano, chitarra, ukulele...), nella cui ombra si agitano fantasmi ora blues/jazz ora rumba ora country-folk oppure mambo, con un fare da slacker reso cinico dal circolo vizioso della post-modernità, tuttavia disperatamente incline a trovare conforto nel potere lenitivo d'una melodia. Potrebbe passare per il cuginastro scostante dei Mùm (Distesa), per il guru in incognito delle Cocorosie (Ippopotami), per il nipotino scellerato della Penguin Cafe Orchestra (Uno stupido) e forse anche di zio Brian Eno (la bellissima Il pensiero resta sempre da solo). Sensazioni di leggera follia, come diceva quel tale. Ma c'è sempre un po' di ragione nella follia, diceva il tal altro. In ogni caso, l'importante è stare al passo coi tempi. (7.2/10) Stefano Solventi Karen O - Karen O And The Kids - Where The Wild Things Are (Interscope Records, Settembre 2009) G enere : K id ' s P op Dopo averla vista, insolitamente friendly e simpati- ca, fare i gesti degli animali nel nuovo video dei Flaming Lips I Can Be A Frog, Karen - Yeah Yeah Yeahs - O torna a indagare l’infantile siglando la colonna sonora di Where The Wild Things Are, il nuovo film di Spike Jonze. Ad accompagnarla, oltre ai due YYY Brian Chase e Nick Zinner, uno stuolo d’hypissimi kid: prezzemolo Bradford Cox (Deerhunter e Atlas Sound), Dean Fertita (Queens of the Stone Age,The Dead Weather, The Raconteurs), Aaron Hemphill (Liars), Greg Kurstin (The Bird and the Bee), Jack Lawrence (The Dead Weather,The Raconteurs,The Greenhornes), Oscar Michel (Gris Gris), Imaad Wasif (New Folk Implosion, Alaska) e per ultimo Tristan Bechet (Services). Poi ci sono i bambini veri: un coro che senti particolarmente nell'anthem puberal-punk all'inizio della scaletta, nonché singolo prescelto per rappresentarla (All Is Love). La notizia vera però è la bellezza di una tracklist con protagonista una Karen O maturata e perfettamente a suo agio sia nella pletora di stili rivisti sotto la lente dei bimbi, sia in ballatone adulte a contrappeso (Worried Shoes, Hidaway). Sui primi ci si aggiudica già molto del buon giudizio dell'album: folk magico, lo-fi, indie, tribale, oriente e wave come in un album di Kimya Dawson, Daniel Johnston (All Is Love), Pavement, Atlas Sound, Go! Team messi assieme (e una freschezza che raramente si sente in esperimenti del genere spesso troppo stucchevoli o eccessivamente naif). Sulle seconde, interpretazione e afflato sono le chiavi di lettura e non manca neppure una bella fumata con i freak dell’Arizona sottoforma di desert-psych, la chicca Animal. Un gioiello d'album che più ascolti e più sfugge, come un’infanzia perduta e poi ritrovata e ancora perduta...(7/10) Edoardo Bridda Langhorne Slim - Be Set Free (Kemado, Ottobre 2009) G enere : folk rock Se tra l'album d'esordio e l'omonimo sophomore passarono quattro lunghi anni, quindici mesi sono bastati a Langhorne Slim per sfornare il terzo lavoro lungo. In questo Be Set Free - nel quale la consueta formazione in trio (basso-chitarre-batteria) si apre al multistrumentista nonché producer Chris Funk dei Decemberists - il circa trentenne folksinger della Pennsylvania sgombera il terreno dagli equivoci che ne hanno accompagnato lo sbocciare, licenziando un programma che poco concede ad ipotesi "prewar". Rispetto al rurale invasamento con cui si presentò al mondo, tutto appare un bel po' addomesticato in direzione folk-errebì, senza con ciò venir meno all'entusiasmo, ad un senso di necessità basale. I riferimenti appaiono abbastanza chiari: c'è l'impeto sanguigno Animals (nell'ipercinetica Cinderella, nella tesa For A Little While), c'è una ruspante intensità Dylan (in Boots Boy, in Back To The Wild), c'è il trasporto languido e pettoruto d'un giovane Van Morrison (I Love You, Goodbye), il cruccio dolciastro di Cat Stevens (Leaving My Love) e la lena febbrile del John Mellencamp più gioioso (nell'incalzante Say Yes). Ambiti sonori grattugiati dal muro degli archetipi, su cui gli archi, il piano e l'organo proiettano bambage cinematiche che talora rimandano agli Eels (come in Sunday By The Sea) e talaltra bazzicano un'epica terrigna tra Springsteen e Arcade Fire (in Land Of Dreams). Alla fine però l'entusiasmo finisce strozzato dalla sensazione che il buon Sean Scolnick da Langhorne stia piegando la barra verso una carriera soltanto dignitosa, che lo vedrà buon interprete di buone ballate (la title track, quella So Glad That I'm Coming Home che non spiacerebbe a Will Oldham). Lo credevamo un indemoniato, invece (forse) è un buon diavolo.(6.8/10) Stefano Solventi Lee Everton - Sing a Song for Me (Rootdown Records, Settembre 2009) G enere : reggae - folk - blues L'immagine di copertina sottende ambientazioni bucoliche dell'ennesimo folksinger di turno che imbraccia la chitarra dopo aver parcheggiato il trattore. Invero Lee Everton, svizzero di Zurigo, ai pascoli della patria natale ha preferito le spiagge di Kingston, trasferendosi in Giamaica qualche anno fa prima di un non meno fondamentale soggiorno a New York. E lungo queste due direzioni, con una recensioni 67 highlight Raveonettes (The) - In And Out Of Control (Fierce Panda UK, Ottobre 2009) G enere : noise - pop Sin dai primi passi, sul capo di Sharin Foo e Sune Rose Wagner pende la spada di Damocle dei Jesus & Mary Chain spiaccicati contro il muro del suono. Solleticano l’ipotesi di un lp mai uscito collocabile tra le psicocaramelle e l’affilato glam ‘n’ roll di Automatic (si vedano Bang! e Break Up Girls!); che, saltato con slancio Darklands, mostra chi comanda ai cloni frattanto venuti al mondo. Grossomodo, perché l’ascolto attento rivela interessanti sfumature e persuade come, per conquistarsi il rispetto di Alan Vega e Moe Tucker (altri santini di peso rilevante), qualcosa devi averlo; idem per non finire come The Kills, inghiottiti da un glamour senza sostanza. E, già che ci siamo, anche e soprattutto per risultare freschi, riciclando con arguzia quando tratteggi cartoline anni ’50 avvolte in lynchiani stridori (facile immaginare Julee Cruise alle prese con Oh, I Buried You Today e Wine), quando allestisci un twang modernista per motociclisti intellettuali (Heart Of Stone) e quando cali l’asso Gone Forever (i Ramones di Pet Semetary cosparsi di lustrini del duemila). Come a dire che il duo guarda indietro spesso e volentieri, eppure creandosi una nicchia personale e sovrapponendo le epoche una sull’altra, ri-creando in laboratorio la nostalgia per tramutarla in sfuggente “attualità”. Ecco spiegati i riverberi techno-pop in ricercata bassa fedeltà che non potevano darsi negli ‘80 e oggi invece sì (D.R.U.G.S., Breaking Into Cars); ecco quel discettare di suicidi e violenze col sorriso sulle labbra, riproponendo lo scarto tra parole e musica appartenuto ai Phil Spector e Brian Wilson che presenziano all’ottimamente congegnata Boys Who Rape (Should All Be Destroyed) e a Suicide, stellare riassunto delle influenze sin qui nominate. Non geni ma neppure ordinari mestieranti, i Raveonettes. Dei birbanti dotati di intuizioni di pregio e stile da vendere, casomai, scivolati fuori da un “remake” a cartoni animati di Velluto Blu.(7.2/10) Giancarlo Turra decisa virata verso Detroit per quanto riguarda la parte americana, si muove Sing a Song for Me, seconda fatica dopo Inner Exile dell'anno scorso e nuova miscela di reggae, r'n'b e folk-rock che fa apparire l'elvetico come un emulo del Ben Harper di Diamonds On The Inside, ma più solare e positivo. Non c'è difatti un momento di ombra vera e propria in queste undici tracce, e pure quando ciò che viene raccontato prova a virare verso il piagnisteo ci pensano hammond e wah-wah gioiosi a tirare su il morale della truppa. Ma tanta positività è forse l'unico tratto peculiare di una scrittura indebitata verso riferimenti precisi ancora tutti da ripagare: vedasi l'alone Wailers presente un po' ovunque, lo spirito Van Morrison di Don't make it too hard e il soffio Marvin Gaye di You've still got a hold on 68 recensioni me - così come le riletture un po' troppo costrette da Bob Dylan (If not for you) e Tom Waits (Anywhere I lay my head). Insomma: il nostro sa fare al meglio e con massima onestà il suo mestiere. Ma appunto di onesto mestiere si tratta.(6/10) Luca Barachetti Lemmings - Lemmings (La grande onda, Novembre 2009) G enere : patchanka Dal punk al surf al rock’nroll allo ska al folk al reggae al citazionismo a piene mani, questa la miscela proposta dai Lemmings - progetto di Ra-B, autore e produttore - con l’omonimo e primo album. Una mescolanza che ripropone essenzialmente l’essenza live del giovane gruppo romano e le sue influenze composite. Una band che fa subito pensare all’anarchia dei Gogol Bordello, a quella patchanka ingovernabile etno-folk e a corrispondenti progetti italiani passati e presenti, girando anche dalle parti nostrane di un Vinicio Capossela e dei gloriosi Africa Unite, per fare qualche nome. Uso di strumenti vintage e un sentore pulp costituiscono poi l’estetica della band. Quello che distingue i Lemmings e quest’album è una certa freschezza compositiva e l’impatto da “concerto” dei pezzi, che rende l’ascolto godibile.(6.5/10) Teresa Greco Lomé - La Ragione (non ce l'ha nessuno) (L'Eubage, Ottobre 2009) G enere : funk , jazz , elettronica , musica d ' autore ... Hanno un curriculum lungo un chilometro i Lomé da Biella, tra studi accademici sulla voce e il pianoforte, il contrabbasso e la batteria. Con in più un disco d'esordio alle spalle (Fiori su Marte) e una partecipazione al doppio CD Bruno Lauzi e il Club Tenco. Tutto in linea con un percorso istituzionale che ovviamente trova la sua massima espressione nella musica del gruppo, anch'essa impeccabile, pulita, tradizionalmente sperimentale, tecnicamente ineccepibile. Un coacervo di funk, jazz, elettronica, musica d'autore, progressive, rock - si, c'è tutta questa roba dentro a La Ragione (non ce l'ha nessuno) - che mette in mostra un bagaglio tecnico da far paura pur suonando, allo stesso tempo, piuttosto sterile. A meno che non siate affezionati cultori del Conservatorio e delle sue politiche, non abbiate bisogno di un modello per verificare i vostri progressi nello studio dell'armonia o non siate tra i tanti che pensano ancora che per fare buona musica si debba per forza “smanettare” il più possibile sullo strumento. Fa specie che uno dei migliori episodi del disco sia una Anche gli scheletri possono salvarsi teatrale e visionaria (alla maniera degli Avion Travel, per intenderci) ma non a caso grammaticalmente poco affascinante. Come fanno riflettere i continui rimandi alla tecnica (vocale, pianistica) che si leggono sul MySpace del gruppo e su cui si potrebbe essere anche essere d'accordo, se fossero accompagnati da contenuti di valore (Quintorigo docet). Il fatto è che in questo senso La ragione (non ce l'ha nessuno) non soddisfa le richieste, pur non potendosi definire in assoluto un brutto disco. Lo specchio di un modo di intendere la musica che fatica a stimolare qualsiasi tipo di reazione, pero', si.(6/10) Fabrizio Zampighi Lymbyc Systym - Shutter Release (Mush Records, Novembre 2009) G enere : post rock Che tiri aria di revival del post-rock, a dieci anni circa da che esso entrò nella maturità? Forse, ma in considerazione di un’attualità dove tutto si accavalla incurante della ciclicità di tempi e mode, saremmo più propensi a parlare di una corrente mai esauritasi, che casomai ha preso a scorrere sottotraccia allorché i riflettori si volgevano altrove. Lo provano quelle nuove generazioni che, mentre i maestri del genere si scioglievano o dilatavano cronologicamente le uscite, hanno cercato di raccogliere il testimone. Tra i tanti vi sono i Lymbyc Systym dei fratelli Jared e Michael Bell, partiti nel 2001 da Tempe, Arizona, per collezionare un discreto curriculum di un album debitamente edito anche in versione remix e due mini, più svariati tour con Broken Social Scene, Books e Album Leaf. Scordatevi però contaminazioni “folktroniche” e grandeur pop, giacché il risultato rimanda smaccatamente - per tramite dell’ultimo nome succitato - ai Tortoise di TNT, quelli sì a tratti manierati ma ciò nonostante ancora capaci di convincere. Il duo, prodotto e si sente da “prezzemolo” John Congleton, maneggia disinvolto i fondamentali e non si fa mancare nulla di quanto ti aspetti: elettronica integrata a sonorità organiche e ritmica vigorosa; slanci in transito dall’ambientale al grandioso; accorti riferimenti al kraut, a certa new wave e al prog meno sbrodolone; un rintanarsi in sospensioni intimiste che offre la cosa migliore della scorrevole scaletta, la delicata Late Night Classic. Studenti diligenti seppur privi di personalità, i ragazzi, in ciò perfetti figli di quest’epoca ipertrofica.(6.6/10) Giancarlo Turra Madlib - The Last Electro-Acoustic Space Jazz & Percussion Ensemble - Fall Suite (Stones Throw, Settembre 2009) G enere : funk - l atin - lounge La seconda delle ambiziose suite stagionali di Madlib arriva puntuale a fine settembre. Siamo qualche gradino sotto la prima (che era ottima), per freschezza dell'ispirazione e generosità dei momenti musicali, con più vuoti, più ripetizioni (e autoricicli) e qualche passaggio fuori fuoco. Se di solito la tecrecensioni 69 nica artigianale di Madlib come strumentista diventa valore aggiunto, qui risulta a tratti un po' d'impaccio. Restano i soliti ottimi spunti latin-jazz e funk da colonna sonora. Quaranta minuti di lounge rilassata e imperfetta innervata di effetti atmosferici che sembrano presi da Eskimo dei Residents, con una chitarrina dalle timide evoluzioni quasi-prog che, forse per la prima volta, fa capolino verso la fine. Da uno come lui però ci si aspetta molto di più. Cd e digital download, con la prospettiva probabile di un box di vinile a progetto completato.(6.3/10) Gabriele Marino Madlove - White With Foam (Ipecac Recordings, Settembre 2009) G enere : M ainstream rock revisited Se dicessimo che questa band è in realtà un progetto di Trevor Dunn, sarebbero in molti a sgranare gli occhi dalla sorpresa. Trevor chi?? Gli basterebbe sapere che dietro questo nome si cela il co-fondatore, insieme a Mike Patton, di Mr. Bungle e Fantomas, per far loro aumentare le attese, senza tuttavia riuscire ad arginarne la sorpresa al momento dell’ascolto. Cosa c’entra l’estremismo eclettico dei Mr.Bungle e il metal cut-up dei Fantomas, con questa band di pop rock senza grandi pretese? Niente. O, più semplicemente, è la riprova della smania creativa di Dunn, che, dopo le esplorazioni jazzistiche del Trio Convulsant, ritorna al rock per la porta più grande, quella del mainstream. A parte l’origine “colta” del nome della band (che sarebbe la traduzione inglese de L’Amour Fou, opera del surrealista francese Andrè Breton) i punti di partenza di Dunn sono molto più “volgari”: Blondie, Cheap Trick, Pretenders. Il pop-rock anni’80 all’americana, insomma, filtrato dall’irriverente imprevedibilità dei primi Faith No More. Rintanato nel suo abituale ruolo di bassista, Trevor Dunn lascia la scena alla coreana Sunny Kim, cantante la cui voce sensuale e ricca di armonici fa pensare a uno strano incrocio tra Joni Mitchell e Sade . Ma la mano creativa è tutta dell’ex Mr. Bungle. E si sente. Ad un primo ascolto, il disco da l’impressione di non avere alcunché di interessante. Ma basta poco a rendersi conto che la vacuità di canzoncine 70 recensioni di buona fattura (Rats With Wings; As Sad As It Was Beautiful; Thread), rappresenta solo un divertissement di buon mestiere, bilanciato da episodi più intensi e “progressivi” come Knowing e la schizofrenica All The Nerve Endings. Un album di buon rock senza aggettivi, conciso e diretto, che sfida la banalità di certo mainstream, provocandola con soluzioni mai troppo prevedibili. Peccato solo che i Faith No More un tentativo del genere, anche meglio riuscito, lo avevano già fatto quasi trent’anni fa. Mammamia come passa il tempo!(6.6/10) Daniele Follero Magda - Fabric 49 (Fabric, Novembre 2009) G enere : minimal cinematica L'avevamo già sentita nel 2006 nell'affollatissimo mix d'esordio She's A Dancing Machine. L'avevamo vista sui palchi di molti festival e dancefloor. Oggi la lady della minimal torna sull'olimpo del Fabric adattando la bandiera inglese ai colori della Minus. E dunque eccoti gli amici: Gaiser, Marc Houle ed Heartthrob, i remix della ragazza, e il gotha del ritmo indie di Circlesquare e Pronsato. A colpire è l'aspetto cinematico di spezzoni degli italianissimi Goblin (super disco horror '70 tagliato minimal), oppure gli spigoli di Berlino affusolati da Simonetti & Co. Visione e intelligenza per Mag.(7.2/10) Marco Braggion Mark Eitzel - Klamath (Decor, Settembre 2009) G enere : elettro - folk Non si capisce per quale motivo un musicista dotato come Mark Eitzel continui a baloccarsi con dischi inconsistenti come Klamath. Per di più pubblicati a suo nome, il che certo non giova alla reputazione di songwriter di razza che lo accompagna fin dai tempi degli American Music Club. Insomma, cosa avrà di così fascinoso l'elettro-folk generalista e evanescente filtrato da una voce che è tutto un sussurro - o un mono tono, fate voi - di brani come Buried Treasure o I Know There's Someone Waiting? La risposta è “nulla”. Tanto che lo sbadiglio è dietro l'angolo e lì rimane per tutta la durata del programma. Rispetto al precedente Candy Ass ci si sposta verso la parte acustica del binomio, tra gli arpeggi di Why I'm Bullshit e le eteree pianure di Remember, ma i risultati sono tutt'altro che convincenti: mestiere e nemmeno un oncia di personalità a cui aggrapparsi. In un'opera che confonde l'arte col lavoro impiegatizio, spingendo a tal punto sul pedale dei chiaroscuri da farci chiudere gli occhi sul serio.(5/10) Fabrizio Zampighi Marta Collica - About Anything (Desvelos, Novembre 2009) G enere : folk rock psych Il mio problema con questo About Anything, secondo lavoro per la catanese trapiantata a Berlino Marta Collica, è che non riesco ad ascoltarlo senza pormi domande. Ad esempio, mi chiedo se il ricorso ad un sound scarno, intimo, minimale anzi frugale - la maggior parte delle incisioni è avvenuta sul 4 piste casalingo della Collica - obbedisca ad un precisa scelta poetico/formale, affine alla sensibilità dell'autrice, o non si tratti piuttosto di una specie di fuga autarchica dalle iperproduzioni formattate, una dimostrazione di languida e fiera insofferenza. O ancora d'una sorta di sfida estetica a se stessa, un misurarsi con la capacità di creare incantesimi con poche cose, giusto quello che indossi vivendo. Più probabilmente, è una mischia di tutto ciò, come mi sembra ribadire il contributo degli amici Hugo Race (chitarra in Number08925) e soprattutto John Parish (nella cui casa-studio di Bristol Marta si è recata per incidere alcuni brani), la cui presenza sembra quasi una certificazione d'appartenenza al versante schivo di certo rock d'autore, dove le meraviglie accadono senza clamore. Parish è oltretutto il trait d'union con quella Goldfrapp alle cui malie riconducono le mesmeriche suggestioni di Lessons And Games e della strumentale Where Was I, pervase d'un senso di frusta psichedelia che altrove s'accascia blasé (Just Water Just Air) e poi va a struggersi come una rumba ombrosa tra Howe Gelb e Francoise Hardy (Future #1). Rimandi fin troppo evidenti, al punto che sospetti facciano parte di una strategia di maschere, un enigmatico gioco di ruolo. Ancora domande, dunque. Ma forse il problema vero è la scrittura, che mi sembra un passo indietro rispetto all'intuizione sonora, alla voglia di cucire loro addosso quell'aria da interno berlinese. Non starei a pormi tutte queste domande se Marta azzeccasse sempre gioielli come Never Look Back, una roba tipo dei Portishead lo-fi conditi di fragranza obliqua Lisa Germano. Inoltre, a forza di pedinare l'aura Velvet Underground & Nico, finisce che in Giulia l'imitatio Femme Fatale si fa quasi imbarazzante. è un disco insomma che ribadisce il peso specifico di Marta Collica, ma non le fa compiere il balzo che mi attendevo. Ci sono fantasmi di cui si deve liberare, ammesso che lo desideri. (6.4/10) Stefano Solventi Mary Onettes (The) - Islands (Labrador, Novembre 2009) G enere : crap pop Storia travagliata, quella dei The Mary Onettes, svedesi di Jönköping in circolazione dagli albori del decennio. Formatisi sul comune interesse per il suono britannico degli Ottanta e Novanta, hanno visto alternarsi numerosi membri attorno al leader - e produttore, e responsabile della scrittura - Philip Ekström. Servivano però ben quattro anni per ottenere un contratto discografico, stracciato dopo sei mesi senza pubblicare alcunché. Interveniva poi addirittura la Sony/BMG, dando alle stampe un e.p. che non andava da nessuna parte, cosicché i ragazzi restavano nuovamente a piedi, salvo decidere infine di autoprodursi. Un demo planava negli uffici della connazionale Labrador e nell’aprile 2006 il debutto era cosa fatta. Questo per la gioia di Pitchfork e degli sceneggiatori di Grey's Anatomy che ne prelevavano la bellezza di due brani. Che dite? Che non sono attestati di stima bastanti? Che nemmeno in Svezia tutte le ciambelle escono col buco? Esatto: non ce ne vogliano i Mary Onettes, ma dell’anello mancante tra A-Ha e ultimi Killers non sentivamo il bisogno. Quando va di lusso, si ha di fronte la versione ipoglicemica - un pop epico strangolato da arrangiamenti elettronici d’impatto orchestrale - dei Railway Children. Chi? Ecco, appunto. Una volta tanto, le case discografiche avevano visto giusto.(3/10) Giancarlo Turra Melvins - Chicken Switch (Ipecac Recordings, Settembre 2009) G enere : N oise Chicken Switch tenta la carta del remix album stravagante come piace agli elettronici noise. Buzzo e Crover hanno chiesto ai loro mille amici musicisti di scavare nel repertorio, di pescare una traccia sola da ciascun album, naturalmente remissarla e, giurecensioni 71 sto per confondere un po' le acque, chiamarla in un altro modo e riconsegnargliela. Fin qui niente di così strano ma fate caso ai nomi coinvolti che per primi saltano all'occhio: John Duncan, Merzbow, Yamatsuka Eye. Accade che ti ritrovi una melma di tracce puzzolenti da far friggere le sinapsi che hanno scarsi (o assenti) riferimenti rispetto ai brani originali. Tra i vip presenti allo scempio, gli ottimi Matmos: in Linkshänder si cimenteranno in un minimalismo metal cosmico con tanti saluti agli Hawkwind. Deludente invece Lee Renaldo nella trilogia EggNog Trilogy: I) She's Ivanhoe, II) Cancer, III) Inebriated, un pastiche ultra punk senza scossoni. In buona sostanza: la solita compila griffata con i suoi tratti inevitabilmente gratuiti da prendere un po' con il taglio del noiser radical chic oltre l'ortodossia delle cassettine. E rimarrei con le cassettine. Più fascinose.(6.4/10) Edoardo Bridda Mew - No More Stories / Are Told Today / I'm Sorry / They Washed Away // No More Stories / The World Is Grey / I'm Tired / Let's Wash Away (Columbia Records, Ottobre 2009) G enere : art rock Beach, credeteci, è il singolo perfetto in un mondo migliore. Tre-minuti-tre di passione. Non un secondo fuori posto. Nessun calo di tensione. E l'album incredibilmente raddoppia in un campo quale il neoprogressive declinato europop. Debuttanti sul mercato con sotto il culo una major e uno dei titoli più lunghi della storia, i danesi stanno sulla scia dei Menomena e paiono dei Phoenix cresciuti a pane e Yes. Un ballad come Silas The Magic Car traccia sentieri post emo, laddove potevano gli smarriti Sunny Day Real Eatate di The Rising Tide se solo avessero voluto. Cartoons And Macrame Wounds, ancora prossima ai SDRE, concede una coda degna dei Supertramp: falsetti e striduli per un finale che sa di eroico e kitsch insieme. Hawaii poi, esagerato pop esotico dal refrain infallibile, è il vertice più alto: umori epici in fattezze Yeasayer ai massimi livelli. Di prog sovvengono certe dinamiche sbieche (la ritmica di Introducing Palace Players) o la struttura di talune sortite (vedi New Terrain), ma la vera sorpresa è prendere atto che l’idilliaca Reprise (come i migliori Sigur-Rós, solo meno pachidermici) e Tricks (synth pop sulla scia degli ultimi Radio Dept.) sia72 recensioni no farina della stessa banda. Si chiama estro. E loro si chiamano Mew. E sono una stella.(7.5/10) Gianni Avella Misero spettacolo L'inconcepibile (Zeta Factory, Settembre 2009) G enere : folk - rock - popol are Non si capisce se il percorso intrapreso dai Misero spettacolo con L'inconcepibile sia indirizzato verso una canzone d'autore con inflessioni etniche (le cadenze cubane di 78 mesi) o dalle parti di un Ligabue autore di ballate (Il Ponte dei Sospiri), tra le braccia un rock dozzinale (Delitto e castigo) o su un palco sanremese (Il gioco delle parti), vicino a certa elettronica ad ampio spettro (La maculata di Laura) o nei paraggi di un folk à la Modena City Ramblers (La druda e il soldato). Ciò che è certo è che le pretese sono molte - più di un'ora di musica per quindici tracce totali, tra cui una “Trilogia del mare in tre atti” - e la carne al fuoco troppa, senza che alla quantità si affianchi una qualità altrettanto evidente. Dovessimo valutare un disco dalle capacità di chi suona vi diremmo forse che la band bolognese si impegna e non poco per dare di sé un'immagine artisticamente consona, riuscendo pure a far funzionare qualcosa. Il problema è che le variabili fondamentali per la buona riuscita di un prodotto musicale coinvolgono concetti come la personalità, il carattere, l'originalità e non il gesto tecnico, tanto più in un mercato discografico abnorme come quello in cui ci troviamo ad operare. Tutte cose che fatichiamo a cogliere in un'opera che suona “stanca” fin dalla copertina.(5/10) Fabrizio Zampighi Mission Of Burma - The Sound the Speed the Light (Matador, Ottobre 2009) G enere : old school wave Ciò che continua a lasciare stupiti e ammirati nei Mission Of Burma è la solidità con la quale si riaffacciarono sulle scene un lustro fa. Li guida un atteggiamento riservato e attento alla sostanza e, molto probabilmente, il loro segreto sta in buona parte lì: nel sempiterno interesse ad aprire il rubinetto e lasciar scorrere le idee, nella voglia di coniugare senza sforzo impeto e cervello, nel convincere che intellettualismo e muscolarità possono convivere felicemente. Poiché non devono dimostrare nulla a nessuno, una miscela di distacco e partecipazione gli consente ogni volta di uscirsene con qualcosa che è familiare e nondimeno possiede contorni cangianti. Se dunque lo splendido The Obliterati tre anni or sono poggiava sulla varietà delle angolazioni e OnOffOn restituiva nel 2004 uno stile senza rughe, questo terzo atto rinforza - e al contempo ritocca in modo sottile - l’Arte dei signori Miller, Prescott e Conley. Sempre aiutati dal prezioso Bob Weston in cabina di regia e alla manipolazione di nastri, i bostoniani guardano indietro e pure avanti allestendo una suite in quattro parti, dove i brani scorrono uno dentro all’altro senza soluzione di continuità tra schiumare di ritmiche, chitarre qui rovinose e là contorte e favolose melodie a lento rilascio. Ci sentirete gli Hüsker Dü - loro coetanei - maturi e struggenti (After The Rain, Good Cheer), ipotesi di Jam (So Fuck It) e Joy Division nati sull’altra sponda dell’Atlantico (Blunder); al di là di ogni paragone, apprezzerete l’aggressività innodica del punk corretta dallo spirito avventuroso del suo “post”, soprattutto nell’articolata Ssl 83, in una One Day We Will Live There che brutalizza Bo Diddley e nei cadenzati capolavori Slow Faucet e Feed. E, mi raccomando, niente tiritere sui dischi/gruppi “di una volta”, ché questa è musica attuale come pochissime altre. Per un (impietoso) confronto, vi basterà mettete queste dodici tracce accanto a Franz Ferdinand, Interpol e anemica compagnia. Li scioglieranno come il sole con la neve.(7.5/10) Giancarlo Turra Modeselektor - Body Language Vol. 8 (Get Physical, Settembre 2009) G enere : compil ation minimal techno deep step Li avevamo lasciati nelle nebbie del minimal romanticismo di Apparat con il progetto (e disco annesso) Moderat: Gernot Bronsert e Sebastian Szary i nomi dietro al discorso Modeselektor. Si godono il momento di popolarità e ritornano alla dura arte del mix. Spaccano qui con una compila fatta di certezze per il dancefloor (Felix Da Housecat, Robert Hood), ma anche con qualche minuto lasciato ai dubsteppers (Rustie, Benga, Scuba), ai fidgettari (Boys Noize, Major Lazer) o stranamente alle melodie del pop (Missy El- liott, Busta Rhymes). Il giro di boa che sorpassa l’(ormai dubbio) incasellamento berlinese e che sfora nelle soleggiate praterie del ritmo tout court. C’è sempre una buona dose di deepness (vedi la space trance di Huyendo Pt. 2), ma l’impressione che si ha dopo un’ora di beats è di essere di fronte a un’ottima selecta che non si sbilancia su nessuna corrente in particolare e che sposa l’eterogeneità senza strafare. In più c’è anche la sapiente arte del mix che contribuisce con dei passaggi da urlo (vedi l’apertura per il pezzo degli Animal Collective, il passaggio fra Lick Shots/The Count/Cricket Scores o il finalone con l'autocelebrativa A New Error) alla riuscita di uno dei migliori mix dell’anno. Ben fatto ragazzi.(7.3/10) Marco Braggion Moon Duo - Killing Time EP (Sacred Bones, Ottobre 2009) G enere : K raut W ave Dopo il primo, autoprodotto singolo su 12 pollici, presto esaurito e prontamente ristampato, il progetto (semi)solista di Ripley Johnson dei Wooden Shjips raddoppia e lo fa, questa volta, per la label più attiva nella rinascita delle sonorità wave in quel di New York, ovvero Sacred Bones; e l'accostamento al roster di Caleb Braaten sembra indurre effetti congeniti, benché probabilmente involontari, sulla natura dei pezzi rilasciati con questo EP. Se infatti il primo Love On The Sea si era caratterizzato per due lunghe jam dal sapore spiccatamente kraut rock, questo nuovo Killing Time si sporca maggiormente di quei riverberi che da due anni a questa parte abbiamo imparato a riconoscere come il marchio di fabbrica delle ossa sacre. Così i (quattro) pezzi si fanno più brevi e al contempo meno ossessivi e più ambientali, più narcolettici e sfuocati, con la voce di Johnson a citare in più di un passaggio il celebre cyber-crooning di Alan Vega; e se il compito di un EP è quello di fornire un assaggio e nel contempo di invogliare l'ascoltatore a chiedere di più, beh, non c'è che dire: bersaglio centrato.(7/10) Andrea Napoli Mr. Henry - Ornery (Terra Desolata, Giugno 2009) G enere : folk post - apocalittico L'eredità Tom Waits non in carta-carbone ma riplasmata su una poetica urgente, che cattura le fitte dell'istantaneità e le rimescola con ululati Mark recensioni 73 Lanegan, barcollamenti Violent Femmes, abrasioni di vario genere. Questo nei primi due dischi - soprattutto il secondo, splendido, da avere - di Enrico Mangione alias Mr. Henry da Varese, folksinger che fa dell'autarchia una reazione-denuncia al desolato stato delle cose e scrive, produce, pubblica con una sua etichetta (La Terra Desolata, appunto) questo Ornery. Lavoro che butta per aria le influenze precedente e riutilizza quelle che cadendo si sono rotte di più. Molto meno Waits dunque, e molti più scompaginamenti in zona Captain Beefheart uniti a larghe dosi di povera elettronica industrial trattata con piglio da artigiano e tante idee, si prendano ad esempio il beat scuro e siderale dei primi Nine Inch Nails in Sols Icker, le asperità da ciclo produttivo tipo Throbbing Gristle in Fre Imef Dedei, ma anche i delay intercostali nella ballad spezzagambe Ber Naut. Henry racconta, con le poche macchine sopravvissute e un'elettrica da maltrattare, cosa è rimasto dopo l'esplosione che ha raso al suolo tutto: non le parole (i testi sono lessico sonoro a cui attribuire un senso), non le canzoni come la conosciamo oggi, ma il vuoto e la solitudine - che da condizione necessaria diviene rigenerante - di bozzetti non finiti da registrare all'istante e sotterrare a terra per chi verrà poi, come testimonianza e monito. Un disco piccolo capolavoro di cui ci si sarebbe dovuti accorgere prima.(7.5/10) Luca Barachetti N.A.M.B. - Bman (Monotreme, Novembre 2009) G enere : electro - rock Il secondo disco del combo torinese vive di eclettismo electro-rock spinto e elefantiasi dell'esistente. Quelle del quartetto sono musiche incostanti tanto quanto è variabile il loro umore e il significato dell’acronimo che si scelsero ormai un buon lustro fa. Diciamo che di base hanno come referente potenza ed eterogeneità alla Nine Inch Nails / Faith No More, depurati però della verve schizoide della band di Patton e della monolitica presenza ieratica di Reznor, ma con in più una particolare predilezione per la totale mancanza di misura e paletti. Bman inanella in un concept sulle avventure del robottino Bman musiche che dire varie è poco, tanto si ondeggia nei 18 pezzi tra elettronica spinta, industrial-sound, psichedelia liofilizzata e rock sui generis. Prendete Radiorace: va come un treno, 74 recensioni ma sotto c’è quel ritornello yeyè che non sai se ti stanno prendendo per il culo o no. Eppure funziona eccome. O il superfunkettone di derivazione industriale di TV Invasion che, non c’entra un granché, ma ricorda i primigeni Bluevertigo, con quell’alternanza tra alto e basso, serio e faceto. O ancora l’industrial in modalità sci-fi di Running, le (in)quiete evanescenze di L.O.N., le psichedelia liquide di Bye Bye Sides, il reminder radioheadiano di Work It Out. Troppa carne al fuoco, direte voi. E purtroppo sì. Perché il problema di fondo è riuscire a mantenere la stessa ispirazione per i 70 lunghi minuti dell’album. Cosa piuttosto difficile e che in Bman spesso si fa notare.(6.2/10) Stefano Pifferi Natural Snow Buildings - Shadow Kingdom (Blackest Rainbow, Ottobre 2009) G enere : drone folk Si riaffacciano al grande pubblico i Natural Snow Buildins. Detto che la grandeur del duo transalpino si manifesta come sempre sia nella durata delle proprio pubblicazioni, quanto nelle tirature limitate all’inverosimile, questo 2009 ha registrato una vera e propria messe di lavori dal taglio underground che non hanno fatto altro che preparare il terreno per questo doppio cd ovvero triplo Lp edito dalla britannica Blackest Rainbow. Quindi ad inizio 2009 assistiamo alla pubblicazione di un incredibile boxset di appena 150 copie e composto da 5 cassette, chiamato Daughter Of Darkness che si completa con una sesta cassetta pubblicata dalla casalinga etichetta di Ben Nash, chiamata Recollection Of Knulp. Più tardi Mehdi Ameziane pubblica un nuovo lavoro di Twinsistermoon su Dull Knife, intitolato The Hollow Mountain e anticipato da un 45giri con annesso book fotografico di Alison Scarpulla, con tirature come al solito micro. Solange di contro le batte tutte e pubblica in appena sei copie (salvo poi editarne una second edition di dieci) una cassetta con articolatissimo artwork intitolato Journey Of the Seven Stars. Un riassunto veloce per dire del momento in cui viene ad essere pubblicato Shadow Kingdom, lavoro destinato ad un pubblico vasto, a partire dalle dimensioni della tiratura cd. Quello dei Natural Snow Buildings è un mondo dentro cui perdersi per ritrovarsi. La malia delle composizioni s’è fatta ancora più spregiudicata e questo lavoro abbonda in highlight The calorifer is very hot! - Evolution On Stand-by (We Were Never Being Boring Collective, Novembre 2009) G enere : elettro - fok - pop Lo aspettavamo al varco il “calorifero”. Lui, rielaboratore di linguaggi, drogato di cut up, elettronico solo per rimorchiare, ma capace di buttarti tra capo e collo un pop centrifugato e irresistibile. Con un Marzipan In Zurich che un anno fa scricchiolava lo-fi e inanellava sussulti di un'orecchiabilità sopraffina. Con un nuovo Evolution On Stand-by persino superiore all'esordio, consapevole com'è di ciò che serve a una formula musicale come quella di Nicola Donà, Nazareno Realdini e Samuele Palazzi per non cadere nel tranello del “doppione”. Nello specifico, un'insana follia, figlia di una mancata evoluzione. In altre parole, allargare ancora di più gli orizzonti fino a toccare l'Hank Williams ritardato di Lester, il Jonathan Richman in chiave Libertines di Me, You And Hugh o magari i Kinks abbozzati di Get Up Mr. Peace. Tanto che verrebbe da chiedersi quale sia il segreto di quel suono così schizofrenico e al tempo stesso credibile nascosto sotto gli Strokes da Commodore 64 di My Dressing Room, nella musica da camera e le chitarre acustiche scassate di Dying Bursting Out o in quel sommare incasinato di note e coretti della title-track. Probabilmente la coscienziosa certezza di essere si intagliatori di synth-beat-folk-pop polverizzato, ma anche gente che ha bisogno di realizzare: significati, parabole, sotto forma di canzoni. Della serie si gioca, ci si diverte, ma alla fine i conti devono tornare. C'è un fascino outroad ma al tempo stesso razionale nei brani, ci sono incursioni stilistiche azzardate, c'è l'estrema mutevolezza delle geometrie filtrata da una creatività riconoscibile: e se Evolution On Stand-by fosse il White Album del gruppo?(7.5/10) Fabrizio Zampighi quello dove i due riescono meglio: ovvero gettarsi senza paura nei turbinii più sfrenati del drone folk. Dopo gli esperimenti solisti che avevano influito pesantemente anche sul precedente doppio The Snowbringer Cult, questo nuovo lavoro segna un parziale ritorno alle origini, quelle più vere dei due, quando all'inizio tentavano di trovare una propria coloritura alle risacche del post rock. Ergo di tutti i loro precedenti lavori, Shadow Kingdom riporta alla mente proprio i primi: The Winter Ray, Ghost Folks e parzialmente Dance Of The Moon and the Sun. L'iniziale The Fall Of Shadow Kingdom dice subito del taglio dato al disco, con 24 minuti di cavalcate nelle terre del drone folk più selvaggio. Il taglio thrillerhorror dato dai due a molte delle loro composizioni qui trova il suo apice con Os Deus Cannibais, che ha cadenze quasi Goblin e il trittico The Desolated/ Vampires Introduced To Fear/Slayer March. Non mancano gli innesti british folk nello stile di Twinsistermoon e i paradisi più eligiaci e celestiali con le planate stellari di Cauled Ones And Birth Rugs e Chthonian Odyssey/Hell's Foundations/A Birth Mark Like A Scar. In pratica un altro capolavoro dei Natural Snow Buildings ma destinato esclusivamente a quelli che non si spaventano di fronte alla magniloquenza, ai kilometri e alle durate importanti. Come premio per i più perseveranti non soltanto un pieno di grande musica, ma anche un fumetto splatter su vampiri e mostri a firma di Solange. Imperdibile.(8/10) Antonello Comunale Neon Indian - Psychic Chasms (Lefse, Ottobre 2009) G enere : ' omly E ighties Se vi ricordate di Ariel Pink e di quel mostruoso recensioni 75 caleidoscopio di musica che ha creato, è possibile che vi venga un piccolo groppo in gola al solo pensiero di tanta spaventosa glassa pop autosabotata e mandata direttamente al candeggio della memoria. Eppure, una volta sentita e soprattutto interpretata, quella lezione non si dimentica perché non è soltanto una strategia lo-fi, ma un autentico portale. E se c'è gente che tra droghine fatte più o meno in casa e frittura di neuroni davanti alle consolle è finita a fare la solita tiritera del dopo Dinosaur Jr, vedi Wavves, qualcun altro, più nerd e casalingo, ci si è tuffato in quel varco spazio temporale ed è finito dal Texas direttamente dietro le quinte di qualche scadente videoclip inglese degli anni '80. è il caso di Alan Palomo per il quale David Keenan (The Wire) cerca di affibbiare l'ennesimo tag. Ipno pop e la definizione ci piace come pure gli amici del Neon indiano che si chiamano Washed Out, Memory Tapes, Teengirl Fantasy, Nite Jewel. Tutti più o meno intepretanti il dogma pinkiano, o perlomeno sedanti la prescrizione perché se da un lato Haunted Graffitti affresca una parete mettendoci dal folk a Madonna, i ragazzi sono totalmente flippati negli Ottanta e salvo qualche incursione sbadata nel Kraut, la loro cup of tea ha dentro le elettroniche da mercatino di Daft Punk e AIR. Del resto, remando in coerenza, non si finisce tanto lontani dallo psych-caramello di Ducktails e compagnia sintetica. Il distinguo però è ancora una volta pop, polpa di una faccenda fatta di canzoncine scialacquate, remember a palla e colori per forza technicolor quelli dei vecchi Nordmende. Affascinante Alan, pure nelle track dove imbraccia la chitarra; e attenzione ai paragoni con i protagonisti di Investigate Witch Cults Of The Radio Age? o gente di città come Bibio. Questo è l'underground di gente come Girls. Di una generazione diversa.(7.2/10) Edoardo Bridda Nikki Sudden/Phil Shoenfelt - Golden Vanity (Easy Action, Ottobre 2009) G enere : rock Esce solo ora questo lost album registrato a Berlino da Nikki Sudden nel 1998 e frutto della collabo76 recensioni razione con il songwriter inglese Phil Shoenfelt. Scomparso nel 2006, il cult hero Sudden rappresentava la figura del rock’n’ roller la cui carriera, con Swell Maps e Jacobites, oscillava intorno ai classici Bob Dylan, Neil Young, Rolling Stones e Marc Bolan e a un percorso scomposto ma genuino. In Golden Vanity la vena più anarchica del Nostro viene disciplinata in un certo modo dal connazionale Shoenfelt, e incanalata in un rock anche psych e dai toni prettamente glam. Non mancano gli omaggi agli amati T-Rex (Bang a Gong) e in generale a tutta la musica preferita da Nikki, in una sintesi cristallina che avremmo ritrovato in parte anche nel postumo The Truth Doesn't Matter (2006), l’ultimo album al quale aveva lavorato prima di morire. Una testimonianza che riporta indietro e rinnova il ricordo di Sudden.(7.2/10) Teresa Greco Orenda Fink/O + S - O + S (Saddle Creek, Ottobre 2009) G enere : dream pop Fa capo a Orenda Fink (Azure Ray, Art In Manila) e The Scalpelist alias Cedric LeMoyne (Remy Zero) il progetto O + S, che con l’omonimo album combina un dream pop di marca 4AD (Cocteau Twins essenzialmente) con echi di soundtrack David Lynch-Angelo Badalamenti e un pop cinematico in parte proveniente dalle rispettive band di origine, in parte di derivazione pop Settanta (10 cc e affini) e chanson francese dei Sessanta. Album piuttosto impalpabile che ogni tanto si fa ritmico, giocando essenzialmente sul contrasto tra voce e loop sonori, mentre per la maggior parte resta etereo, alla ricerca di atmosfere e sensazioni. Pare che il duo sia destinato a proseguire, mentre in parallelo la Fink prosegue la carriera solista (Ask The Night, 2009), di cui diremo altrove. Per ora questo resta un tentativo forse non ancora messo completamente a fuoco ma con qualche potenzialità.(6.5/10) Teresa Greco Orenda Fink - Ask The Night (Saddle Creek, Ottobre 2009) G enere : folk Secondo album solo dopo il debutto del 2005 (Invisible Ones) e il parallelo progetto O + S di cui diciamo altrove, per la Azure Ray e Art In Manila Orenda Fink. Dopo le esplorazioni in India, Cambogia e Haiti che si riflettevano anche sulla produzione musicale precedente, ora la Fink ritorna con Ask The Night alle sue radici del sud; ecco che le ispirazioni primarie si rivolgono al folk tradizionale e alla letteratura gotica americana, risultando nei contenuti un mix rielaborato di esperienze personali e non. Si va dal country (Alabama) e bluegrass (High Ground) al folk (The Garden), dalla ballad al valzer (Sister), tra malinconie e dolenze, tutto in chiave piuttosto tradizionale, anche se rivisto, ma non c’è traccia di alt- qui. Nel complesso c’è da dire che l’insieme manca di personalità, di quel guizzo che fa di una rielaborazione una interiorizzazione, rimanendo piuttosto piatto.(6/10) Teresa Greco Panther - Entropy (Kill Rock Stars, Settembre 2009) G enere : P op -F unk Come disilludere le attese. Quello che avevano prospettato i Panther con 14 Kt God era la rivitalizzazione del punk-funk, in un’ottica intraprendente, scomposta ed eclettica. A Certain Ratio, B 52’s apparivano, appena un anno fa, i punti di riferimento di una band che, dopo il secondo lavoro in studio, faceva davvero ben sperare. La virata verso uno stile appiattito su posizioni più “educate” a metà tra i Television di Marquee Moon e il più recente brit pop, cade come un fulmine a ciel sereno sulle aspettative costruite dai due precedenti album. Le melodie ariose, la presenza del pianoforte, determinante per addolcire il sound, nascondono lo spastico approccio punk-funk dietro una coltre di arrangiamenti morbidi e ritornelli molto orecchiabili, vagamente ispirati ad Electric Light Orchestra e Supertramp. Si distingue dal mucchio l’iniziale Latitudes For Centuries, un funk dalla ritmica irregolare che ricorda la gestualità musicale di Dirty Projectors. Molto più interessanti i remix in coda all’album, in cui vengono totalmente ridefinite le coordinate dei brani originali, intinti in sonorità electro stile primi Depeche Mode e, in alcuni casi, smontati perfino nella struttura, come in Love Is Sold, il cui insistente incedere deraglia, nel Lips & Ribs Remix, in un caos di martellanti ritmi elettronici. In questa occasione il nomadismo stilistico non ha portato giovamento, allontanando i Panther da spiagge migliori, che avrebbero fatto bene ad esplorare meglio. Speriamo che, nel loro continuo vagare, non si fermino proprio adesso. E magari facciano anche qualche passettino indietro.(6.4/10) Daniele Follero Paradise Lost - Faith Divides Us Death Unites Us (Century Media, Settembre 2009) G enere : G othic M etal Al declino del gothic metal, genere che ha avuto gran lustro una quindicina di anni fa grazie a band provenienti dal doom come Anathema, My Dying Bride e gli stessi Paradise Lost, non c’è rimedio. Meglio tornare ai fasti di allora e giocare un po’ con la propria (relativa) celebrità, ondeggiante tra il nu metal e MTV. Riproporre schemi del passato provando ad arginare la deriva melodiosa che affligge il genere da ormai troppi anni, appare una soluzione comoda e poco rischiosa, quando non si riesce a cambiare strada o si fallisce nel tentativo di farlo. Del resto, quindici anni sono un lasso di tempo consistente, sufficiente a giustificare un' operazione revivalistica. Nel 1995 usciva Draconian Times, ancora oggi l’album più riuscito della band britannica e uno dei dischi che maggiormente ha contribuito a portare alla luce (del mainstream) le atmosfere fredde e caustiche del doom metal. Oggi, nel 2009, riascoltare quei riff pesanti e compressi, quelle melodie vocali languide ma pronte a trasformarsi in spaventosi ruggiti, quei colpi di batteria lenti e inesorabili come una campana a morte, fa sorgere la solita domanda: ma c’era proprio bisogno di rifarlo? Anche perché nel frattempo il sound della band è cambiato, spostandosi verso un metal più convenzionale in stile Metallica di qualche anno fa. Tanto che la Title Track sembra scritta e cantata da James Hatfield in persona. Una buona notizia per i metallari, questo ritorno dei Paradise Lost a sonorità più dure e spigolose, dopo le infelici divagazioni synth pop di fine anni ’90, già anticipato dal precedente In Requiem. Ma a parte le esplosioni death di Living With Scars, le tipiche orchestrazioni gothic di Frailty e l’attacco senza recensioni 77 fronzoli di Universal Dream, l’album è tutto un susseguirsi di ritornelli orecchiabili e fraseggi di chitarra prevedibili. Che sia giunta anche per loro l’ora di farsi da parte?(5/10) Daniele Follero Pens - Hey friend, what you doing? (De Stjil, Settembre 2009) G enere : pop punk lo - fi è bastato davvero poco a queste tre ragazze inglesi per entrare nelle grazie della Rough Trade e della De Stijl: un paio di canzoncine con un refrain azzeccato e nulla più, a parte un look che più revival '80/'90 non si può. Così, un po' dal nulla, arriva questo primo LP che conferma sostanzialmente quanto si potrebbe pensare a priori; pop-punk in salsa garage lo-fi, minimalismo e pressapochismo esecutivo, e spesso anche di idee, che vorrebbe rifarsi alla K Records ma che finisce per sapere di Captured Tracks & Co. Non che manchino i pezzi orecchiabili (I Sing Just For You, High In The Cinema, Freddie), anche perché sono essi gli unici in cui risiede il, seppur piccolo, senso di questa musica; ma il limite non sta qui. Davvero troppi sono infatti i riempitivi che, per un gruppo che già mira al minimo storico dell'impegno, è davvero un'onta imperdonabile: un mezza dozzina di (bozze di) pezzi così buttati là che persino i primissimi Queers avrebbero avuto qualche remora a pubblicare e il loro era il 1982. Questo è il 2009 e quanti dischi così devono ancora uscire prima che si possa dirli definitivamente inutili? (6/10) Andrea Napoli Philomankind (The) - All Things Philos (A Buzz Supreme, Ottobre 2009) G enere : rock Tutto è estremamente prevedibile. O se volete coerente. A cominciare da un digipack che nella grafica richiama gli anni sessanta e il periodo esotico/spirituale dei Beatles (Rickenbacker, amplificatori Vox, Guru indiani) per arrivare a una musica che fin dalla prima traccia (Yogi Dananta) riprende il discorso lasciato in sospeso dai Fab Four ai tempi di Revolver - fascinazioni etniche comprese - per aggiornarlo con i cloni anni novanta tipo Kula Shaker. Eppure questo secondo disco dei Philomankind - in linea con l'esordio Ask del 2005 - si lascia ascoltare con un certo piacere. Da un lato per la semplicità e la cura con cui la formazione pisana rielabora un 78 recensioni po' tutto il pop inglese e americano dei Sixties (gli Who di Benjamin, il soul di Nothing To You, ancora i Beatles di I'm Gonna Wait For The Time, i Beach Boys di Goodbye Ev'rybody) intrecciando voci, pianoforti, chitarre elettriche e un basso rubato al McCartney più psichedelico. Dall'altro perché il lavoro dei cinque è un riciclo ad ampio raggio ma filtrato da una leggerezza quasi da cartone animato. C'è la voglia di non prendersi troppo sul serio, insomma, e di portare a termine una raccolta differenziata del decennio d'oro del rock con sguardo disilluso. Mettendo in mostra tutta la propria arte ma anche un'ironia di fondo (Mr Guru, please, won't you liberate my mind / doctors have all failed / everyone left me behind / i will wisper OM / till you tell me to stop to / when the work is done / i will sign a check to you) che non dispiace per nulla. Si tratta di un prodotto ovviamente derivativo, ma ma c'è il filtro deformante della provincia italiana ad assicurare qualcosa di più di un semplice dejavù della Londra più swinging.(6.9/10) Fabrizio Zampighi Pippo Pollina - Fra due isole (Storie di note, Ottobre 2009) G enere : canzone d ' autore Nuovo disco dal vivo per Pippo Pollina a tre anni da cd-dvd Racconti e canzoni che documentava un tour teatrale dove il cantautore siciliano portava i suoi pezzi ad interagire con gli scampoli teatrali della cantattrice Serena Bandoli. Questa volta il dialogo è con gli arrangiamenti orchestrali dell'Orchestra Sinfonica del Conservatorio di Zurigo diretta da Massimiliano Matesic, progetto riepilogativo di venticinque anni di attività che dalla seconda metà degli anni ottanta ad oggi ha sfornato una quindicina di dischi di buon cantautorato italiano per lo più tradizionale rinforzato da tanta passione civile Pollina, siciliano d'origine, è emigrato in Germania per cercare (e trovare) fortuna dopo una prima esperienza musicale negli Agricantus e un'altra, fondamentale, in campo giornalistico accanto al reporter antimafia Giuseppe Fava ucciso dai boss nel 1984. Si sa che esperimenti del genere (i cosiddetti “matrimoni” tra pop e classica) danno solitamente pa- recchi motivi per storcere il naso. Spesso l'intento è più "battesimale" che artistico, con la musica leggera ad immergersi nel fiume sacro della classica e quest'ultima a stendere il proprio manto pietoso su un mondo sonoro che a suo dire non potrà mai arrivare agli stessi livelli. A dirla tutta però è spesso la classica a non cogliere del tutto la leggerezza, formale prima che contenutistica, della musica popolare e se molti esperimenti fino ad oggi sono crollati sotto il peso insopportabile del peggior kitsch il motivo è che anche il pop ha una sua grammatica che merita cura e rispetto. Discorso comunque lungo e meritevole di un approfondimento in separata sede, ma non del tutto valido per la coppia Pollina-Matesic. Fra due isole infatti dosa al meglio la propria componente classica, limitando l'Orchestra ad un compito in alcuni casi di mero accompagnamento (Marrakesh) e in altri di nuova ambientazione di canzoni perfette all'uso (gli accenti klezmer di Sambadiò). In generale però è proprio il canzoniere di Pollina, estremamente italiano (dunque melodico) e dalla scrittura a tratti teatrale e vocalmente vigorosa (Due di due), a risultare adatto ad un trattamento di violini, fiati e via dicendo. Per Matesic dunque compito non troppo difficile, ma condotto al meglio, in primis per la scelta saggia di aggiungere solamente una batteria all'orchestra e alla chitarra del titolare. Il quale si dimostra ancora una volta a suo agio anche in campi non del tutto famigliari.(6.5/10) Luca Barachetti Plush - Bright Penny (Broken Horse Records, Novembre 2009) G enere : soul rock Al nuovo album firmato Plush hanno partecipano, tra i tanti, Jackie Wilson dei Pieces Of Peace (leggenda soul-funk di primi ’70), The Autumn Defense (John Stirratt e Pat Sansone dei Wilco), Jim Hines e Bob Lizek (dalla band di Brian Wilson) e Morris Jennings (il batterista di Curtis Mayfield ai tempi di Superfly, nientemeno). L’ incipit, Take A Chance, è esemplare, un brioso pop-soul tutta fiati e refrain impeccabile ma non si può dire altrettanto per So Much Music e White Telescope, stessa pasta, ma insapore. Le restanti tracce alternano gioie (vedi We Made It, funk psichedelico e vellutato) e dolori (Look Up, Look Down e I Sing Silence citano senza sostanza il Jonh Lennon solista), brividi (la ballad The Goose Is Out) e fastidi (O Street, con una slide FM che manco Loggins & Messina!). Non si poteva chiedere di più a Liam Hayes dopo il dispendio economico, fisico e mentale riversato in Fed. Gli perdoniamo perciò quest'album sincero ma ispirato solo a tratti.(5.5/10) Gianni Avella RAaH Project (The) - Score (Summer Dawn, Ottobre 2009) G enere : orchestral nu - jazz L'esordio per gli australiani Ryan Ritchie e Tamil Rogeon riporta in tavola le suggestioni orchestrali del Miles Davis infatuato dell'orchestra mescolate al downtempo moderno dei Portishead. Il tutto con molto garbo e con una sensibilità ereditata dalla Cinematic Orchestra e dal soulhop poshy. Lo stile c'è ed è quello del gran galà, ma quello su cui il duo punta (la cura degli arrangiamenti e il taglio vagamente classico) alla lunga non soddisfa a pieno. Il barocchismo oggi va bene se portato all'estremo, mentre qui non si capisce dove si vuol andare a parare: rifacimento dei Gotan Project (Funeral Wedding) o dei SaRa Creative Partners (Trick Of The Light)? Le Big Band di Herbert (Swing On Her Shoes) o il soul commerciale (Will You Be There)? Insomma, le idee ci sarebbero, la tecnica anche (ottima la performance dell'Australian Show Big Band), l'etichetta lungimirante pure (il disco è infatti l'esordio per la Summer Dawn, nuova costola internazionale della Schema). Manca il botto. Buono per il chilling e per i fan del soul in slow motion.(6.3/10) Marco Braggion Raz Ohara & The Odd Orchestra - II (Get Physical, Ottobre 2009) G enere : song - soft - tronica Torna ad un anno e spiccioli dall'esordio Raz Ohara & The Odd Orchestra. Brani cant-folkie con chitarrine acustiche e pulsazioni troniche, e pezzi con piglio quasi da club, funky come intendono il funky di Prince i Super Collider. Vedi così le prime due canzoni, e soprattutto The Kingdom, con questo trattamento wonky della voce, canzoni che sono le più incisive del disco e anche le migliori assieme alla centrale The Day You Suffer..., col suo crescendo finale (appartenente però all'altra categoria). recensioni 79 Peccato il tutto si perda un po' in una vena sperimentale (gli intermezzi, le code) alla fine un po' fuffa e in una scrittura non qualitativamente omogenea. Perché i pezzi riusciti, e sono praticamente la metà (e aggiungete anche il singolo da scaricare Miracle), sono davvero ottimi.(6.7/10) Gabriele Marino Reigning Sound - Love And Curses (In The Red Records, Ottobre 2009) G enere : american rock Greg un tempo Oblivians e ora semplicemente Cartwright è uno che, per dirla in breve, se ne fotte altamente delle logiche di mercato e si prende il tempo che vuole per far uscire dischi. Semplicemente, li fa quando gli vengono. E così non è raro assistere ad uno iato quinquennale come quello che divide questo comeback dal precedente Too Much Guitar. Così come non è strano immaginare, ad ogni nuova uscita, una linea continua e sottotraccia tra le mille esperienze seminali che il nostro ha disseminato nell’ultimo ventennio. Ecco così che le song targate Reigning Sound possono essere lette come il versante moody & melancholic (parole sue) dell’Oblivians sound. Tanto quelle erano sguaiate e grezzamente garage-punk queste sono potenti e melodiche, intrise di umori sixties, spezie rhythm’n’blues, armonie soul spesso e volentieri virate - come da titolo verso il topos amore/maledizioni. Ovvero, il nucleo per certi versi centrale del suono tradizionale dell’american rock preesplosione punk. E tradizione è proprio l’altra chiave per interpretare non solo questo disco o questo progetto, quanto l’intero percorso musicale di Cartwright. Il piglio è dunque sempre combattivo e aggressivo (Is It True? è la hit che gli Strokes non scriveranno mai), mai ossequioso o riverente anche quando va di traditional (Banker And A Liar), ma addirittura sbruffone in alcuni casi (Dangerous Game, rifacimento personalizzato del contributo dato all’omonimo comeback della ex Shangri-La Mary Weiss) ma la tavolozza di colori usata da Greg è talmente ampia nel ripercorre in lungo e in largo i ’60 che finisce quasi col tributare un omaggio ai suoni dell’infanzia non solo sua, ma anche di una intera nazione.(7/10) Stefano Pifferi 80 recensioni Richard Youngs - Under Stellar Stream (Jagjaguwar, Ottobre 2009) G enere : songwriting experimental Se il precedente Autumn Response aveva posto un particolare accento sulla voce come risultato, tra l'altro, di un'attenzione maniacale per le intonazioni e le timbriche vocali, il nuovo lavoro a tutto tondo (ovvero fatto salvo le pubblicazioni a tiratura per pochi intimi, tipo Valley Of The Ultrahits...), gli si dedica completamente con risultati quanto mai ostici. Under Stellar Stream è fin da subito un lavoro rigido, caratterizzato da un approccio monolitico quasi a cappella e in chiave iper-minimal: ovvero voce, doppia voce, terza voce... ed un arredo flebile di elettronica diafana. C'è certamente molto della tradizione vocale gaelica nell'approccio canoro di Youngs, in quel suo incedere solitario con le vocali stirate e la ripetizione di una frase come modus mantrico e un accenno appena di delay che proietta tutto in una dimensione al di là della nostra quotidianità. E tutto il disco ha a che fare con il concetto di ascesa già a partire dal titolo stellare e da quello delle canzoni (Cluster To A Star, Arise Arise), come dal tono mistico e spirituale delle composizioni. In particolare, quando a suonare è lui, la sua voce e un accenno di piano (My Mind is in Garlands), l'album fa il paio con il precedente Making Paper: ci avverti dentro un'immacolata mestizia a due passi da Rober Wyatt o David Sylvian Un disco oltremodo affascinante che tuttavia cristallizza il discorso poetico dell'artista Youngs su un quieta tregua con sé stesso e il mondo circostante. Chi non lo sopporta avrà altri 6 motivi per considerarlo un genio del tedio fatto musica. Chi lo ama invece, lo avrà aggiunto alla collezione dei capolavori minimali del musicista. La verità per chi scrive sta come non mai nel mezzo.(6.8/10) Antonello Comunale Richmond Fontaine - We Used To Think The Freeway Sounded Like A River (Decor, Ottobre 2009) G enere : folk rock Ottavo album in studio per il collettivo Richmond Fontaine guidato dallo scrittore musicista Willy Vautlin, intestatario di un folk rock agitato da pulsioni umorali e intimistiche. Wilco, Calexico, Jayhawks, i nomi che vengono in mente, ma anche i non alternativi Bruce Springsteen e Bob Dylan, nomi con i quali confrontarsi per musica di questo tipo. È l’umanità da sempre la chiave di lettura del gruppo, quel mesto malessere che si stempera appena appena in canzoni trepidanti e partecipi, tra acustico ed elettrico. Ma c’è anche il Lou Reed tardo più dolente (Watch Out, A Letter To The Patron Saint Of Nurses) o le derive psych desert ossessive alla 16 Horsepower / Woven Hand (43). C’è sempre qualcosa di non banale nascosto tra le pieghe di un disco dei Richmond Fontaine, che emerge via via con gli ascolti, in quest’ultimo caso un più accentuato virare verso un versante intimo e raccolto, anche musicalmente. Un traguardo questo We Used To Think… che fa il punto di una ormai abbastanza longeva carriera e che conferma il gruppo come uno dei meno visibili ma abbastanza rappresentativi di un folk rock americano personale ed espressivo. Con qualche punto sotto il precedente Thirteen Cities.(6.8/10) Teresa Greco Ruins - Sax Ruins - Yawiquo (Ipecac Recordings, Luglio 2009) G enere : progcore goes jazzcore Tatsuya Yoshida torna su Ipecac e riscopre il gusto dell'interplay sul repertorio Ruins dopo anni di solitaria a nome Ruins Alone (ovvero un uomo e le sue ossessioni). Ad accompagnarlo c'è Ono Ryoko, fiatista dal talento multiforme che spazia dal turnismo di studio all'avanguardia sperimentale. Il disco contiene solo tre inediti, due in apertura e uno in chiusura, il resto è tutto un affondo nel catalogo Ruins altezza Pallaschtom (Sonore, 2000) e Tzomborgha (sempre Ipecac, 2002), e cioè un Ruins-modo già maniera, ma al picco della sua efficacia per impatto strutturale e sonoro. Non mancano ripescaggi più vecchi come i classici assoluti Hyderomastgroningem (dal disco omonimo, Tzadik, 1995) e Snare (Vrresto, Magaibutsu, 1998). I Sax Ruins non aggiungono nulla al percorso di "Yoshi", e sarebbe cosa difficile. Non è questo il loro scopo. Il loro scopo è fare ritrovare al nostro il piacere di rimodellare le proprie personali ossessioni progcore in simbiosi con un altro essere umano. E rivendicare la paternità di certe tendenze facendo esplodere tutto il potenziale jazzcore dei Ruins, introducendo - inequivocabile - il suono del sax. Praticamente un'operazione politica e concettuale. Come già quella che stava dietro alla band madre: la ribellione della sezione ritmica al suo ruolo tradizionale di semplice base. Il risultato è un'orgia orchestrale (la Ono sovrinci- de più linee di sax) di jazzcore nella sua accezione più bandistico-circense, scintillante e giocosa, che ricorda fortemente gli Zu quando ancora con Roy Paci. Il maestro che riprende (in tutti i sensi) i propri allievi.(7.2/10) Gabriele Marino Ryota Kanasaki - Phonetilosophy (Koyuki sound, Ottobre 2009) G enere : elettronica / ambient minimali è proprio vero che con la Koyuki iniziamo ad andare sul sicuro, la certezza è quella di avere a che fare con progetti di "limite" sia per chi compone sia per chi dall'altra parte ascolta, ed è sicuramente un pregio specialmente se a questo si aggiungono nuove mappature al panorama dei microsuoni e inoltre tutt'altro che prevedibili. è il caso di Phonetilosophy mini-suite dell'artista Ryota Kanasaki, ventidue minuti in tutto lasciati ad un unica fonte la voce umana qui utilizzata come un vero e proprio strumento. Le potenzialità espressive del mezzo sono molte come sappiamo e non è necessario che si facciano uso solamente di parole o fraseggi, le complessità del suono qui sono lasciate alla semplice modulazione di tono, regolate per lunghezza e tensione dalle corde vocali, fatte interagire con l'aria della laringe o articolate nello schioccare della lingua sul palato, sulle guance o sulle labbra con lìobbiettivo di evidenziare o indebolirne il timbro. Il suono diventa così oggetto e l'esperienza - allo scorrere di queste quattro tracce - diventa notevole, mai avremmo potuto immaginare tale fluidità e tanto memorabile collage. La questione va oltre l'indagine, nessuna documentazione forzata nei confronti della materia, tutto si cristallizza, si riempie di sfumature e diventa forma, cucita tagliata e curata ma prima di tutto narrata. Estesi i parametri di lettura e superate le barriere comuni il suono arriva a diventare inno alla bellezza scultorea.Notevole.(7/10) Sara Bracco recensioni 81 Samuele Bersani - Manifesto abusivo (SonyBMG, Ottobre 2009) G enere : canzone d ' autore La passione per le parole Samuele Bersani non l'ha mai nascosta. Canzoni dense di lemmi le sue, secondo quella tradizione cantautorale tipicamente italiana - ma verrebbe da dire emiliano-romana, soprattutto - che nell'importanza del testo ha trovato a seconda dei casi forza letteraria o sovraccarico libresco, spesso dimentico, ahinoi, di una controparte musicale all'altezza. Su questo discrimine il cantautore di Cattolica si è giocato fino ad oggi una buona fetta della sua carriera, un cammino per lo più fortunato e meritevole, contrassegnato da almeno due o tre canzoni che immaginiamo rimarranno negli anni a venire (Giudizi universali e Replay: non poco in questi tempi a scorrimento veloce) e contenute in dischi sempre più che discreti. Non ultimo, se non in ordine d'apparizione, il recente L'Aldiqua, piccolo perfetto manuale di come l'innamoramento per le liriche di cui sopra possa accasarsi in strutture pop certamente radiofoniche, ma ficcanti e gustose, supporto ideale alle storie di un lavoro che era del tutto votato alla narrazione (amara e pietosa) delle magagne del presente. Manifesto abusivo, settima fatica d'inediti, non rinuncia ne alle strategie ne ai toni del predecessore, ma sposta il focus sul lato personale, raccontando di storie d'amore già cestinante o sul desktop in attesa di destinazione - che a loro volta generano riflessioni esistenziali - e di nuovi sguardi ad un mondo sempre piuttosto assurdo. Quello che cambia è invece l'ispirazione del nostro, che qui non sembra trovare lo spleen dei momenti migliori soprattutto nella scrittura musicale. La track-list naviga così a vista, con un po' di artigianato buono e un po' di esperienza maturata, lasciando che i pochi sprazzi davvero significativi coincidano - paradossalmente, ma neanche poi tanto - agli episodi dove Bersani asciuga un po' i testi. Dunque poche parole ma pesanti, e più di ogni altra cosa arrangiamenti che si discostino anche solo un poco dalle pettinature inscalfibili del solito pop erretielliano. Accade nella pur trattenutissima didascalia trip-hop di Ferragosto (riff di chitarra chiaroscurale, cello a spandere nuvole, il fecondo connubio con Sergio Cammariere nella scrittura) e nella storia di umana precarietà su cascatella di pianoforte e spruzzate d'archi con finale in sicurezza Coldplay di 16:9. Il resto latita pur promettendo molto (la title-track e il singolo Un periodo pieno di sorprese), o 82 recensioni cerca di mischiare le carte (le incisioni Police con ritornello funky-pop di A Bologna: per la serie “che hai combinato Cofferati...”), o ancora prova l'azzardo e va del tutto fuori centro (Ragno, parentesi swing romanesca per la penna di Angelo Conte). Disco transitorio? Diciamo, e soprattutto speriamo, che sia così.(5.5/10) Luca Barachetti Shit & Shine - 229 2299 Girls Against Shit (Riot Season, Settembre 2009) G enere : N oise & D rums Forse gli Shit & Shine pensavano a Faust IV quando hanno dato un titolo alla prima traccia di 229 2299 Girls Against Shit, essendo Have You Really Thought About Your Presentation una valanga rock che più krauta non si può. Nove minuti di groove ipnotico e assassino, perennemente sparato sul rosso dell'amplificatore e con trucchi ritmici degni dei Meshuggah più maligni. In un brano, tutto il meglio dell'universo Shit & Shine. Ma non finisce qui. L'album continua con il dub ultraclippato di Penthouse Is A Must, il grind-core per macchine rotte di USAMexico, gli alleluya-alleluya in odor di scomunica di The Cusp Of Innocence, Prettily, le pause inquietanti e i campioni di Formula 1 della title track fino al Benny Benassi versione bidonville di Shit No!. E ce ne sono ancora di belle, nelle 17 tracce del doppio vinile per Riot Season. I soliti Shit & Shine, sia chiaro, scoregge e demenze sopra ritmi ultradistorti, ma in una fase d'ispirazione particolarmente proficua.(7/10) Leonardo Amico Shrinebuilder - Shrinebuilder (Neurot, Ottobre 2009) G enere : doom I saliscendi epici di Solar Benediction, la riflessione quasi cantautorale di Pyramid of the Moon, il dedalo di riff e voci della conclusiva Science of Anger. Diciamocelo subito: l'esordio degli Shrinebuilder è ottimo. Si presenta ottimamente. è una perfetta sintesi di diverse divagazioni doom/sludge e si porta dietro almeno due decenni di scorribande in tal senso. E la line-up non a caso è un reliquario viven- te: Dale Crover dei Melvins, Wino (Obsessed Saint Vitus) e piccoli eroi come il neurosiano Scott Kelly e il rampante Al Cisneros a completamento. Un quadrumvirato che macina un platter sicuro senza deludere né attese, né fans dei rispettivi gruppi di appartenenza, con un unico dubbio sul risultato in rapporto al dispiego di mezzi. Un dubbio che non penalizza il giudizio, semmai ne testa prospettive future, possibilità che ne possa nascere qualcosa oltre il presente one-shot. Eppure una perplessità tangibile...(7/10) Nicolas Campagnari Slits (The) - Trapped Animal (Sweet Nothing, Ottobre 2009) G enere : D ub , punk In tour ci sono state fino a l'altro ieri e il long playing a lungo covato, aperto dall’eppì Revenge of the Killer Slits, doveva uscire per forza ora. Tre anni di realizzazione sono un eternità ma di cose da dire - e di novità - Trapped Animal, se ne porta parecchie. Innanzitutto, il dito puntato, e non al solito sistema 2d, bensì al domestico e all'urbano: nell’album si parla di abuso di minori, del rapporto maschio femmina, del perché fare figli per questo o quel paese, del sesso e dell'amore senza ideologie. Le continuità tra un ieri Typical girls e l’oggi di Pay Rent è garantita anche da un taglio intergenerazionale che le Slits realizzano al loro interno. La band, ora quintetto - comprendente, oltre le storiche Ari e Tessa, tre balde giovine (tra cui la figlia di Paul Cook) - rinfresca non poco le dinamiche e le modalità del suonare. Scelte che le ragazze portano all'esterno in un difficile contesto che - come sappiamo - ha assimilato tutto, dalle riottts e gli incazzamenti, alle parabole di Courtney Love e non ultime le Spice Girls. Ed è proprio prendendo spunto da quest'ultime che arriva la zampata: in un presente globalizzato solo economicamente, certo grime e naturalmente M.I.A. e Gang Gang Dance che ci stanno a pennello, riportare il girl power sulla strada è l'insperata top move, specie mettendoci le esperienze di Bristol e rime come questa: We wanna pay rent with a passion / We don’t wanna follow fashion. è sempre lotta dentro babilonia (come ai tempi dei PiL), ma attenzione agli entusiasmi: una seconda via, e seconda parte del disco, vedrà Ari Up portar dentro tutto il proprio retroterra '80 e '90 tra fughe dub in tre lingue (inglese, tedesco e giapponese) e altrettanti applicazioni volutamente boring dei sot- tostili reggae. Una retroguardia nella quale il buon ring di rime della prima metà (salvo episodi non felicissimi come Lazy Slam o complicazioni come Trapped Animal) si stempera, e quello che poteva essere un botto, è un democratico successo.(7/10) Edoardo Bridda Solo Andata - Solo Andata (12k, Settembre 2009) G enere : ambient / elettroacustica Vige autenticità del materiale in questo secondo album del duo australiano Solo Andata in uscita per la 12k, mixato dallo stesso Taylor Deupree e masterizzato da Giuseppe Ielasi. Una scelta questa che accompagna tutta la durata del disco, che lascia coesistere simultaneamente natura (field recordings che catturano risonanze di ghiaccio, acqua o vento) ed artificio (quello creato dallo strumento, pochi per la verità qualche tratto di chitarra acustica, pianoforte, violoncello). Il tutto, per assiomi e ragionamenti deduttivi perseguito con un unico intento l'armonia, narrata nel continuo fluido di architetture orizzontali, prive di goemetrie prestabile, addomesticate si ma non lasciate allo stato selvaggio. Paul Fiocco e Kane Ikin hanno bisogno delle miniature è in questo che acquista qualità figurativa l'arte sonora di Solo Andata nessuna severa scelta di dettagli in micro-droni ma caldi e graduali inni, vicini a un certo stile alla Lawrence English. Dichiaratamente ambient questo esordio con la 12k si trova a suo agio prima nell'isolazionista e introversa Ablation poi, in una morsa di mcrosuoni in gorghi (Hydraulic Fluctuations), si lascia sprofondare, increspare (In the Light Storming) o incantare da mondi acusitici (Look For Me Here) o negli intensi bagliori in loop che evocano l'origine e le polveri d'archivio alla William Basinski (Canal Rocks). Facile associare elementi di astrazione e libertà a queste otto tracce, difficile trovarvi qualcosa fuori posto ed alla fine dei conti necessario ricorrervi per dissetare sogni.(7.4/10) Sara Bracco Spectrum - War Sucks (Mind Expansion, Ottobre 2009) G enere : psichedelia E fu così che la storia ripartì dall’inizio. L’ultima uscita a nome Spectrum, l’EP War Sucks, torna alla lettera e al comandamento degli Spacemen 3, né più né meno. recensioni 83 Non è una novità, per chi ne ha seguito i live e le testimonianze degli ultimi anni. E chi ha visto le ultime comparsate dal vivo di Sonic Boom e compagni (in questo caso Roger Brogan e Nolan Watkinson) sa già che nel repertorio è presente da qualche tempo la cover di War Sucks dei Red Crayola di The Parable Of Arable Land, pezzo davvero mitico e dunque mitologizzabile dal famelico Kember. Pare che Peter sia parecchio soddisfatto dal suono raggiunto dalla sua band, pari per intensità (a suo dire, ma gli diamo ragione) ai migliori Spacemen 3; e dalle pratiche soprattutto dei primi Spacemen - quelli di Sound Of Confusion - sembra uscire la War Sucks degli Spectrum, splendida dilatazione (con eterno giro di chitarra che va dritto allo spazio) che tratta il classico della psichedelia ultraunderground come un tempo gli uomini dello spazio trattarono un altro cavallo di battaglia psichedelico, la Rollercoaster dei 13th Floor Elevators. In realtà non solo in War Sucks (e anche in Razzle Dazzle Mind) si torna indietro alla metà degli Ottanta Spacemen, ma nelle successive due tracce il suono si trasforma come negli anni tramutò quello della band “madre”; al punto che di questa si può quasi dire che questo eppì tracci tutta la carriera in quattro brani, passando dalla Walking & Falling di Laurie Anderson fino all’acquoso acidume cosmico della conclusiva Over and Over. Una gran manifestazione di purezza. E la capacità di ritrovarsi come allora senza sembrare una mummia.(7.2/10) Gaspare Caliri Spread - Anche i cinghiali hanno la testa (Il verso del cinghiale, Settembre 2009) G enere : grunge - stoner Vogliamo dare fiducia agli Spread. Nonostante un grunge à la Soundgarden narcotico, d'effetto ma piuttosto scontato; nonostante un approccio lo-fi quasi da demotape; nonostante la palese volontà di rimanere un passo indietro nel percorso evolutivo dell'essere (umano) musicista (ma non è detto che sia un difetto). Vogliamo dar loro fiducia perché nel cut-up drogato, surreale, terreno e volgarissimo di brani come Tum l'aspirapolvere, Spremuta di cazzo, Cova l'arabia, riusciamo a cogliere una cifra creativa che non è di quest'epoca mediocre. Risale invece ai Novanta, quando a scandalizzare sul serio pensavano formazioni come i Wolfango. Ciò che accomuna le due formazione non è il genere di riferimento, quanto la stessa disperazione subur84 recensioni bana, la stessa bassezza visionaria da agglomerato popolare, la stessa naturalezza borderline, lo stesso odio per una forma mentis convenzionale e precostituita. Oltre alla malcelata superbia tipica di chi è convinto di essere dalla parte del giusto. Nel decennio della New Economy la riflessione estetica dei Wolfango non la prese in considerazione quasi nessuno. Nel mercato discografico attuale i confini si sono allargati e potrebbe esserci spazio anche per produzioni come quella degli Spread. A patto che il gruppo decida di spingersi oltre, pagando il prezzo di un evoluzione (involuzione?) verso una specificità (estremizzazione?) fuori dai cliché di rito. Del resto, come si fa a non voler bene a una band che registra un disco da criminali e nei crediti ringrazia Mara Maionchi per averci regalato Mango?(6.9/10) Fabrizio Zampighi Squarcicatrici - Self Titled (Wallace Records, Novembre 2009) G enere : afro - jazz punk Diavolo d’un Andreini e diavolo d’una Wallace. Quando meno te lo aspetti ecco che ti rigirano le carte in tavola sconvolgendo tutto ciò che ti eri preparato ad ascoltare. Se dell’eclettismo del catalogo della seconda si è ampiamente detto (che qualche sorpresa mr.Wallace ce la tira sempre fuori) forse al primo non è mai stata data la giusta attenzione. Sassofonista, batterista, improvvisatore tentacolare e completamente fuori di testa in questo progetto - al secondo disco dopo Bossa Storta di qualche anno fa - Andreini si circonda al solito di uno stuolo di supereroi per imbastire un 13 pezzi di ruspante afro-punk e apolide jazz contemporaneo. L’attacco è da urlo. Afrotellaci è esattamente come da titolo: un pezzo di una maestria Astatkiana smontato e rimontato dentro l’officina più sgangherata del panorama italiano. A ruota arriva Macedone: folk sui generis, ubriaco e cabarettistico come potevano concepirlo i CCCP di Epica, Etica, Etnica, Pathos se avessero guardato più a sud-est. Forse è una bestemmia visto che si tratta di uno dei più liberi e “no compromises” personaggi del panorama italiano, ma Squarcicatrici è forse proprio il mezzo espressivo più free dello spirito libero di Andreini. Che si muove, cioè, letteralmente sen- za barriere o steccati che non siano solo la voglia di suonare/comunicare una musica letteralmente “world”: sentita, appassionata, bellissima.(7/10) Stefano Pifferi Stereo Plastica - Eleven (Jestrai Records, Ottobre 2009) G enere : pop - rock C'è tutta l'Inghilterra che conta in questo Eleven degli Stereoplastica. Dai Beatles di Give It Up al britpop anni novanta di So, dal post-punk/wave Franz Ferdinand di Waste ai Soft Boys - virati Killers - di Blind. Per un campionario di suoni in bilico tra chitarre elettriche, batterie morbide, basso e voce che ha il non trascurabile pregio di lavorare di rimando su soluzioni musicali ampiamente metabolizzate senza scadere nel plagio. Sommando invece al retroterra culturale citato funk (Butterflies, The Last Time), ritmiche in levare e riff quasi hard-rock (Superficial), in una coesistenza forzata di stili che coinvolge senza annoiare. Certo la logica del “di tutto di più” si coglie eccome negli undici episodi in scaletta - quasi fosse una garanzia della perfetta riuscita del disco - come emerge il buon lavoro portato a termine in fase di produzione da Fabrizio Chiappello (Baustelle, Subsonica, Caparezza). Eppure l'equilibrio generale dell'opera convince, oltre le evidenti potenzialità commerciali.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Still Life Still - Girls Come Too (Arts & Crafts, Settembre 2009) G enere : I ndie pop scene Broken Social Scene, neanche a dirlo vengono in mente loro non appena attacca Girls Come Too, ennesimo album che esce per la loro Arts & Crafts, e forse uno degli esempi più evidenti di come i canadesi scelgano chi prendere o meno nel proprio rooster. Poi c'è Kevin Drew stesso ai bottoni, e non ci resta che prenderne atto del buon mestiere (e tocco) che l'uomo mette sempre in queste cose; eppure qui, più che al massimalismo dei Most Serene Republic, la storia vira back to indie e l'arma se poteva tagliare da un lato, può ferire anche dall'altro. C'è Pastel, ep preparatorio, che dice già molto sul quintetto di base a Toronto. Il riflettore punta proprio dove le scelte arty della Arts&Crafts sembrano dirigersi ultimamente, ovvero sempre meno post e sempre più quel fare sghembo à la Joan Of Arc barra Jade Tree. Lo stillicidio dancey di Danse Cave, per dire, affiora alla melodia in maniera ben più netta rispetto alla band chicagoana e non c'è neanche il tempo di digerire l'operner che in Flowers And A Wreath, con i Joan Of Arc lontani anni luce, e a prevalere è una glassa shoegaze rilucente di ebrezze glam tutta imperniata sulla melodia. Medesima la lezione applicata su basi folk nella successiva Kid e da qui l'appunto da fare a Brendon Saarinen e soci: evitare la talking song accattivante dove tutto è stato detto, piuttosto puntare una via arty verace senza senza troppo indugiare in pose Broken Social Scene, evitando cioé di deconcentrarsi troppo dalla meta. Quale? Sembrerebbe la forma canzone, magari l'arrangiamento brillante, ma di strada da fare ce n'è ancora molta.(6/10) Massimo Padalino Sufjan Stevens - The BQE (Asthmatic Kitty Records, Ottobre 2009) G enere : cl as sica ? Sufjan Stevens dice di aver perso un po’ la bussola. Eppure se gli commissionano un disco di pop orchestrale senza pop, cioè una composizione per orchestra punto, alla fine ci sta. Ritrova motivazione. The BQE ne è il risultato, in due versioni: CD e DVD. Il committente del caso è la Brooklyn Academy of Music (BAM), che con quest’opera intende celebrare il venticinquesimo anniversario del Next Wave Festival; la prima è avvenuta due anni fa esatti, a inizio novembre 2007, e quello che ascoltiamo oggi è la riproduzione di quell’esecuzione, con qualche aggiunta successiva di Stevens. Potrebbe finire qui, questa recensione, ed evitare di affrontare l’esito musicale della faccenda, finendo per dire che il concerto può tranquillamente essere accusato di essere una pacchianata, cercando di smorzare dall’espressione il tracotante effetto giudicante. Cioè musica pacchiana, kitch, come lo era Atom Heart Mother, del resto, a cui la memoria va spesso, durante l'ascolto (Interlude I: Dream Sequence in Subi Circumnavigation). Un'opera che sembra scimmiottare l’Europa come spesso gli americani fanno. Eppure alcune qualità ci sono. Un velato chiaro-scuro, recensioni 85 86 che limita i fortissimo e si concentra su momenti più alessandrini. Eppoi, sopra a tutto, un odore appena percepibile (ma in qualche modo pungente) di ironia, che sembra aleggiare, dal CD al coloratissimo (e urbano, con estetica quasi psicho-writer) booklet, fino al DVD, dove la combinazione tra scenari da street Settanta e la musica crea paradossi convincenti. Quanto alla missione dello Stevens cantautore con mille dubbi, gli suggeriamo una certezza: pensi ai successi (senza sedercisi sopra, certo) della sua Asthmatic Kitty, label che sta sfornando solo cose interessanti e su cui è bello ragionare. Aspetto che manca un po’ all’ultima fatica del Nostro.(6/10) Nico Muhly, già al servizio di Antony e Grizzly Bear). L’elettronica pauperista e sui generis dell’originale ne esce ovviamente trasfigurata quando non totalmente stravolta, divenendo più che altro il pretesto per un’opera di riscrittura entro i canoni della musica “colta”, per quanto lontana dalle sale dell’accademia. Dismessi i tramestii sintetici e il vago alone Warp, le canzoni prendono così la forma di soundscapes disneyani (Year of the Rooster), musiche da camera (degli orrori) (Year of the Dog) e avanguardia in un profluvio di note che non sai se più pretenzioso o ammorbante. Fate un po’ voi. Io mi tengo la foto di Sufjan nel taschino, e qualche perplessità(5/10) Gaspare Caliri Nunzio Tomasello Sufjan Stevens - Run Rabbit Run (Asthmatic Kitty Records, Novembre 2009) G enere : C l as sica ? Dell’impagabile follia del caro Sufjan sappiamo già, sintomo di un talento popedelico come minimo eclettico e parecchio scombiccherato, quel tanto che basta a scardinare aspettative, tracimare steccati di genere e catalizzare attorno a sé una bella fetta di scena underground (St. Vincent, My Brightest Diamond, DM Stith, Welcome Wagon). Fare un disco normale? Figuriamoci, manco a parlarne, e del resto il sospetto è che il ragazzo si diverta così, scodellando album un po’ come e quando gli pare, mosso da smisurata ambizione (Greetings from Michigan e Illinoise, i primi due capitoli della serie “dedicare un album a ciascuno stato degli States”), fervore ecclesiastico (Songs for Christmas, indigestione di vischio, scampanellii e carole natalizie) e strampalatissimi concept (Enjoy Your Rabbit, dedicato all’oroscopo cinese). Per quanto mi riguarda, un (geniale) cialtrone. Il problema, semmai, sta nella difficoltà oggettiva di giudicare operazioni laterali e all’apparenza imperscrutabili come questo Run Rabbit Run: non un disco nuovo o quasi, trattandosi di una riedizione in chiave interamente orchestrale del già citato Enjoy your rabbit (2001), commissionata dal collega Bryce Dessner (The National) al quartetto d’archi Osso e affidata agli arrangiamenti di nomi illustri (fra gli altri Systems Officer - Underslept (Temporary Residence, Novembre 2009) G enere : pop Già membro di Pinback e Three Mile Pilot, Armistead Burwell Smith IV espone la sua idea di musica pop sotto lo pseudonimo Systems Officer. Un'idea sfaccettata la sua, che prova ad immettere sostanza in strutture serrate e rotondissime, anche prevedibili, ma tenute in piedi da tanti spunti ben assemblati. Insomma: alla terza, massimo quarta traccia si comincia a capire fin dai primi accordi dove vadano a parare le canzoni di Underslept, ma ogni volta qualche piccolo accorgimento, solo apparentemente secondario, aumenta il valore dei brani e il gusto all'ascolto. E il nostro di accorgimenti ne infila davvero parecchi. East viene giocata sul contrasto tra un'elettrica piuttosto legnosa che via via s'irrobustice e un piano quantomai limpido; Quan nasce da cadenze di tastiera aeriforme in loop; Shape Shifter, la migliore fra tutte, comincia sinteticamente squadrata alla Peter Gabriel e introduce ricami funky-new wave di chitarra e controcanti U2. Ancora: Oui apre radure soleggiate tra Beach Boys e Belle and Sebastian con chitarre appiccicose e coretti dolciastri; Sand One riporta in auge dei Police non del tutto a bolla, mentre Sand Two allunga un pianoforte di disarmante semplicità sull'apertura alare di un orchestra d'archi (crediamo) sintetici. La chiusa è con una Deyos più elettrificata delle sue compagne che nasconde un innesto di tastiera Kraftwerk, vera colonna portante di tutto il brano ed esempio più significativo dell'arte di un recensioni cuoco capace di mischiare tanti ingredienti sempre con mano esperta.(6.4/10) Luca Barachetti Thao Nguyen - Thao Nguyen & the Get Down Stay Down - Know Better Learn Faster (Kill Rock Stars, Ottobre 2009) G enere : alt folk pop Secondo album per Thao Nguyen e i Get Down Stay Down, realizzato con Tucker Martine (Decemberists e Spoon tra gli altri ) e con l’apporto di numerosi ospiti (Andrew Bird, Laura Veirs, tUnE-yArDs, e alcuni Blitzen Trapper e Horse Feather). Le caratteristiche dell’album precedente con cui aveva fatto il botto, We Brave Bee Stings And All (2008), rimangono pressoché inalterate, vale a dire un folk pop non banale declinato verso una ritmicità e una stratificazione sonora, associato a una giocosità contagiante. Qui in Know Better Learn Faster sia che si tratti dell’iniziale esplosiva marcetta Cool Yourself dal sapore wave, che delle ritmiche When We Swam, Body (spasmi chamber a volontà) e della coralità della Pavement-iana Goodbye Good Luck, nonché della stratificazione orientaleggiante della title track con violino di Andrew Bird annesso, e di altre particolarità assortite che si scoprono man mano nel corso dell’ ascolto, il livello si mantiene buono per tutto l’album, confermando l’efficacia della produzione. Produzione che esalta le caratteristiche migliori del gruppo e ci ha ricordato in più di un’occasione l’analogo lavoro fatto da Tucker Martine per Laura Veirs (Saltbreakers, 2007) e che conferma l’interesse intorno a Thao Nguyen.(7.1/10) Teresa Greco Throbbing Gristle - The Third Mind Movements (INDUSTRIAL RECORDS Ltd., Ottobre 2009) G enere : D ark ambient Il ritorno in pianta stabile dei Throbbing Gristle è, artisticamente e umanamente, un nuovo capitolo per Genesis e co.; eppure certi formati e modalità rimangono strategie valide allora come oggi. Riesumata la Industrial Records nel 2004, The Third Mind Movements rappresenta il primo album di inediti sotto la label, e, avendo tutto l'aspetto del classico dispaccio di vecchia data, potrebbe essere annoverato tra i nuovi lavori tout court. Registrato live tra Los Angeles, San Francisco, Chicago, e New York, con tanto di suite - The Third Mind Movements - in stile After Cease To Exist, la tracklist fotografa il classico report della band, non più annuale, eppure nel classico streaming psicologico dei Nostri. Strumentale, dark e ambient, la scaletta ci ricorda da vicino la psichedelia marcia degli esordi e i recenti set europei, dunque il richiamo a After Cease è anche di natura concettuale. Del resto, la delusione è cocente: il mancato trip claustrofobico/ angoscioso che toccammo dal vivo lo scorso anno e l'assenza degli spoken di Genesis non sono aspetti di poco conto. In pratica, The Third Mind... si limita a ronzare quando quel giorno sudammo freddo. E resta niente più che uno dei tanti souvenir (a pagamento) da portarsi a casa dai concerti...(5/10) Edoardo Bridda Times New Viking - Born Again Revisited (Matador, Ottobre 2009) G enere : shitgaze Shitgaze o non shitgaze, non è questo il dilemma. Il dilemma è come possa essere attraente una musica come quella dei Times New Viking, il trio misto da Columbus che di quell’ondata è (fu?) il portavoce più o meno riconosciuto. Forse è proprio quel modo “merdoso” di insozzare le canzoncine da due-minuti-due che ormai da un bel po’ di anni sparpagliano tra vinili a 45 giri e cd più o meno ufficiali (dovremmo essere al quarto, se non sbagliamo) e che in maniera irriverente, da scazzati cazzoni bianchi americani, mischia e tritura Velvet in lo-fi e gioventù sonica del medio periodo, C86 for dummies e twee-pop sgangherato, il segreto del loro (minimo) successo. Oppure sarà la formula che rimbalza continuamente la doppia voce maschile/femminile, le melodie rotonde (sì, ci sono, sotto la melma, ma ci sono) che si appiccicano in testa e ti fanno ritrovare a canticchiarle qua e là, o quel paraculo modo di rubacchiare a destra e a manca come se ogni disco fosse un bignami del prima più che una proposta per il dopo. E infatti se si può muovere un appunto ad un disco praticamente perfetto (almeno per i suoi canoni di genere) com’è Born Again Revisited è che è giunta l’ora di affrontare il dopo. O almeno tentare di farlo.(6.9/10) Stefano Pifferi recensioni 87 Vic Chesnutt - Skitter On Take Off (Vapor, Novembre 2009) G enere : new A merican songwriting Singolare e inimmaginabile, l’apparizione a pochi mesi dal predecessore di una nuova fatica di Vic Chesnutt. Dobbiamo a Jonathan Richman e al suo batterista Tommy Larkins se Skitter On Take Off ha visto la luce: mentre viaggiavano per gli Stati Uniti in tour, i due hanno considerato che produrre un disco del georgiano fosse una buona idea; che l’unico modo per preservarne l’onestà risiedesse nel registrare in diretta e senza fronzoli. Piazzare l’uomo e le canzoni davanti al microfono, accendere le macchine e far partire la registrazione come nella notte dei tempi. Gesto basato sulla reciproca stima, l’opera di Chesnutt numero tredici è, di conseguenza, una macchina del tempo che riconduce al minimalismo dell’esordio Little, nondimeno osservato con la maturità frattanto acquisita e - a dire il vero - uno standard compositivo al di sotto della recente, stellare media. è in effetti una certa uniformità l’unico (perdonabile) difetto di queste nove composizioni, spoglie e allestite attorno a pochi accordi di chitarra acustica e spazzole discrete, ma soprattutto sulla voce, sulle parole e le storie cui non puoi rinunciare. Prova ne sia che l’interpretazione non ne fa le spese e neppure il risultato complessivo, vibrante e autentico a partire dal giocare con gli “errori” - le corde stirate, la voce tremolante, il tono qui aspro e là arruffato, estemporaneo ma sorridente… - fino alla bellezza inconfutabile di quanto si impone sul resto, ovvero la cupa Dimples e la gentile Unpacking My Suitcase, una fluttuante Sewing Machine e il classicismo conclamato di Worst Friend. Deviazione dalla strada maestra o inizio di una nuova fase, è arduo se non impossibile dirlo. Certo è che, anche da distratto, Vic fa vibrare l’anima come oggigiorno quasi nessuno.(7/10) Giancarlo Turra Walter Marocchi Mala Hierba - Impollinazioni (Ultra-Sound Records, Ottobre 2009) G enere : etno jazz rock Primo album per il quartetto guidato dal chitarrista 88 recensioni Walter Marocchi, che passa dal rock all’elettronica alle soundtrack fino alle produzioni per video e cinema (è anche chitarrista nella band progressiverock Anacondia tra le altre cose); compongono il gruppo Fabrizio Mocata al piano e tastiere, Carlo Ferrara al basso e Stefano Lazzari alla batteria. Un disco questo Impollinazioni che fin dal titolo rivela la contaminazione tra diversi elementi, in questo caso il jazz, il rock, il tango argentino e la musica etnica; ne nasce così un ibrido espressivo, tra umori soundtrack e malinconie, inquietudini e digressioni di rock progressive che non ci si aspetterebbe in questo contesto. In realtà il progetto è sinonimo di mescolanze all’insegna della massima libertà espressiva e dell’improvvisazione, come si può constatare man mano che si procede con l’ascolto. Non un album canonico di jazz e dintorni allora, caratterizzato in prevalenza da chitarra elettrica, piano, piano elettrico, melodica e tastiera e con pochissimi fiati. Un disco delicato che vede anche la presenza del trombettista Paolo Milanesi (La Crus, Tullio De Piscopo, Enrico Rava) e del chitarrista/polistrumentista Antonio Neglia. Un viaggio tra umori diversi che si distingue per carattere.(7/10) Teresa Greco Will Johnson/Jason Molina Molina & Johnson (Secretly Canadian, Novembre 2009) G enere : folk rock blues L'uscita programmata per il 2 novembre sembra parecchio azzeccata per un disco non proprio garrulo anzi piuttosto cimiteriale. Del resto, da un'accoppiata del genere non c'era da attendersi un lavoro da far suonare alla vostra festa di compleanno. Uno dei due è Will Johnson, chitarrista e cantante dei Centro-Matic, l'altro è Jason Molina e non c'è bisogno di presentazioni. Si firmano senza fronzoli cioè mettono uno dietro l'altro i loro cognomi, non stanno neanche a perdere tempo ad inventarsi un titolo per l'album, quindi sfornano quattordici tracce folk rock con venature gospel e blues, perlopù minimali, contrite, solenni come può esserlo chi ha ficcato lo sguardo nell'abisso e non ci ha trovato nulla di carino. Se pensate ad un ritorno di Molina sugli antichi sentieri Songs:Ohia, in parte è così, però in tal senso i segnali più intensi e compiuti gungono da pezzi interpretati da Johnson, vedi la cartilaginosa Lenore's Lullaby (forse il pezzo migliore del lotto) o quella Almost Let You In impreziosita da cori in stile CSN. Il buon Jason prova a snocciolare qualche afflizione delle sue, ma ne viene fuori tra il compunto e il sostenuto (Each Stars Marks A Day, For As Long As It Will Matter) quando non fuori fuoco (The Lily And The Brakeman), riuscendo meglio in un folk blues dalla bella semplicità come 34 Blues, come se l'esperienza Magnolia And Co. fosse di quelle senza biglietto di ritorno. Tocca rivolgere di nuovo l'attenzione sulla voce legnosa e indolenzita di Will Johnson dunque, per riferire della marcia claudicante e aspra di What You Reckon, What You Breathe che non fa rimpiangere il Will Oldham più asciutto (il violino nel finale è un'autentica fatamorgana desertica) e quella All Gone, All Gone che rimanda direttamente ai Black Heart Procession un po' per la sega sonora e malgrado il febbricitante intervento della vocalist Sarah Jaffe. Il disco in definitiva non è male, caracolla tutto sommato agile attraverso la propria stessa gravità, calcolando lo spessore dello sconforto che ognuno si porta dentro. Chi più chi meno.(6.8/10) Stefano Solventi Windmill - Epcot Starfields (Melodic UK, Ottobre 2009) G enere : wave psych pop Un paio d'anni fa Puddle City Racing Lights non ci convinse fino in fondo. Un tentativo curioso di ritagliarsi una dimensione fumettistica sci-fi, romanticamente apocalittica a partire dall'artwork, qualche buona intuizione in un minestrone sì iridescente ma del tutto artificioso, un ascolto improbabile anche a sforzarsi di sospendere la credibilità. Il qui presente Epcot Starfields, opera seconda dei londinesi Windmill, compie in effetti un apprezzabile salto di qualità. Perché spinge il gioco al livello successivo, decolla in un proprio altroquando dove la scenografia è una mischia assieme intima e cosmica, cameristica e visionaria, stropicciata fin dalla voce dell'one man band Matthew Thomas Dillon. Una voce improbabile e immaginifica come il fervore balzano dei Flaming Lips più spacey, però mediata da uno slancio bucolico Polyphonic Spree (Big Boom, Ellen Save Our Energy). Al suo meglio, ti sembra di avere a che fare con la grandeur dei Coldplay accartocciata fino a diventare una pallina rugosa galleggiante nello stesso cielo dei Mercury Rev (Airsuit). In altre circostanze, ti ritrovi a bazzicare certe luccicose atmosfere Eels tra sbroccamenti Daniel Johnston (Epcot Slow), così come di scomodare le intuizioni post-prog del Billy Corgan altezza Adore (Sony Metropolis Stars). Il trucco c'è e si vede. Ma in certe baracconate c'è del fascino. E un sospetto di sostanza. (6.4/10) Stefano Solventi Yoga - Megafauna (Holy Mountain, Ottobre 2009) G enere : elettronica A scrutare un po' nell'universo Yoga ci si trova subito come sprofondati nella testa di Aleister Crowley. Nella band di Los Angeles convivono tutti i temi chiave del maestro dell'occulto: magia nera, stregonerie, filosofie orientali. Riportati in blocco all'epoca delle macchine, precisamente quando la tecnologia era ancora acerba e gruppi come Throbbing Gristle ed Einsturzende Neubauten iniziavano a comunicare sotto forma di sgorbi elettronici le loro pulsioni intestinali. Megafauna puzza di circuiti bruciati in chiese sconsacrate, frequenze urticanti dai sentori d'oriente risuonano come prodotte da radioline “d'antan” in debito d'ossigeno, mentre scorrono lenti, scheletrici riff in scale minori. Un'atmosfera da musiche oscure, sicuramente, ma che non si concede mai ai toni epici di Burzum, nè all'oppressività malefica di Xasthur. Il nero di Yoga è qualcosa di diverso. Sotto ai reverberi gracchianti di samples in bassa qualità non c'è la solita dannazione e disperazione, ma una dimensione "altra" del male, straniante, che non trova facili riferimenti nelle musiche di genere. Con l'utilizzo di nenie orientali, in particolare, gli Yoga svolgono una funzione di disorientamento, riuscendo nel non facile compito di integrare linguaggi diversi nella loro scrittura, ma sempre mantenendo un risultato organico, senza che passi per un forzato eclettismo intellettualoide. A parte qualche episodio in cui si limitano a macinare sporchi drones che non aggiungono niente a quello che Blue Sabbath Black Cheer riesce a fare molto meglio, gli Yoga forniscono un modo per approcciare l'oscurità da nuove direzioni. E gli riesce bene, sin dal primo disco.(6.7/10) Leonardo Amico recensioni 89 dvd AA. VV. - Live At The Smell (Cold Hands Video, Ottobre 2009) G enere : compil ation Della serie è bello ascoltarli, ma vederli fa tutto un altro effetto. Il titolo spiega già da subito cosa e dove, noi ci aggiungiamo chi: No Age, High Places, Health, Abe Vigoda, Gowns, Foot Village, Mae Shi, Ponytail, Captain Ahab e Barr. In poche parole tutta la scena bislacca e deforme che ruota intorno al locale losangelino da noi ispezionata tempo addietro nello speciale The Smell – Il Profumo Degli Angeli. Lì cercavamo di dare una ipotesi di direzione comunitaria alla multiforme esplosione di suoni tanto vari quanto eccitanti ed eccitati; ora questo Live At The Smell, ottimamente curato dal regista e produttore Bob Bellevue, ci permette di entrare fisicamente in quel tempietto delle musiche strane – metà squat, metà laboratorio autogestito e vissuto da volontari appassionati e senza grosse pretese che non siano quelle di “divertirsi e produrre cultura”. Soprattutto però questo dvd ci offre la possibilità di tastare (quasi) con mano le performances di alcune tra le più eccitanti bands del sottobosco americano proliferate negli ultimi anni. Il taglio del dvd non è documentaristico, ma propone una serie di live footage delle succitate band; l’uso di una strumentazione piuttosto povera – più camere a mano e digitali – ha il merito di rendere appieno l’idea di live-show nel regno del diy: campi e controcampi si fondono spesso con le isteriche proposte delle band dello Smell. I fantastici Health, ad esempio, protagonisti di un vero e proprio tour de force strumentale in cui dimostrano alla grande di essere la punta di diamante di un suono a metà tra la wave più rumorosa e il tribalismo più estremo. O le atmosfere sospese, sempre sull’orlo della implo/esplosione dei Gowns; l’aggro-punk in falsetto di Mae Shi; le tensioni percussive dei Foot Village veri e propri trascinatori primitivi; l’anarcoide punk-shoegaze dei (quasi) padroni di casa No Age. Premio alla proposta più personale al one man show al limite della psicanalisi di Barr mentre quello alla proposta più cafona indubbiamente a Captain Ahab, white trash la cui gabber buzzurra e citazionista è nulla in confronto all’adorazione della crew e alla bruttezza dei performer, rigorosamente in mutande. Insomma, un ottimo documento per indagare ancor più a fondo una idea più che un suono da parte di una crew, quella di Cold Hands, che ci aveva già dato People Who Do Noise, altro docu-dvd sulla scena noise di Portland. (7/10) Nicola Quiriconi - Tagofest III (Fratto9 Under The Sky, Ottobre 2009) G enere : compil ation Tagofest III capita paradossalmente nello stesso momento in cui un altro docu-dvd celebra le gesta di un altro luogo/scena, quello dello Smell losangelino. Paradossalmente perché non siamo nella frizzante costa ovest degli Stati Uniti, bensì nella bacchettona Italia di provincia e (sempre paradossalmente, speriamo) questo dvd potrebbe divenire l’epitaffio di un luogo (il Tago Mago di Massa) e una idea di scena (quella appunto del festival estivo che dal locale prende il nome) dal basso, collaborativa, all’insegna del diy e della amicizia. E così, mentre si addensano nubi minacciose sul Tago Mago, questo bel documentario sulla edizione numero 3 del festival delle etichette capita a fagiolo per aiutare a conoscere meglio (per chi non ci fosse mai stato…) e a comprendere cosa si rischia di perdere (ma chi c’è stato lo sa già…) quello che ormai è una istituzione del rock in Italia: il Festival Indipendente per Indipendenti, come recita il sottotitolo. A fronte della esiguità dei mezzi a disposizione, ma con una notevole capacità di manipolazione delle immagini, l’opera di Nicola Quiriconi (voce di VipCancro) mostra, una spartana ma accattivante fotografia delle esibizioni live di Almandino Quite Deluxe, Fuzz Orchestra, Dadamatto, Harshcore, I/O, Ovo tra gli altri, evidenziando insieme ottima sensibilità registica e visionarietà non da poco nel saper rendere al meglio le proposte eterogenee dei vari progetti. In questo senso si possono intendere le scelte dello sgranato slowmotion per Be Invisibile Now o With Love, perfettamente a tono con le musiche dilatate ed evocative, o quella dell’epilettica zoomata che evidenzia il procedere a scatti nevrotici dei Miranda, o ancora quella del monocromo e della saturazione dei colori. Insomma, ottimo da vedere oltre che bellissimo da ascoltare. A sottolineare ancor di più lo spirito cooperativo che sta alla base del Tagofest lo stuolo di etichette che ha contribuito alla realizzazione del presente dvd: From Scratch, Wallace, Boring Machines, Lizard, Bar La Muerte, Fratto9UnderTheSky e molte altre. Grazie a tutte e arrivederci Tagofest. (7/10) Stefano Pifferi Stefano Pifferi 90 recensioni recensioni 91 live report Amor Fou C asa 139, M il ano (2 ottobre ) Sopravvissuti a ben due cambi di line-up nello stretto giro di un biennio – via l'ex La Crus Cesare Malfatti e il bassista Luca Saporiti (al suo posto Paolo Perego dei Nuovi Orizzonti Artificiali) – e con un bell'ep uscito lo scorso giugno – Filemone e Bauci, che anche di quei cambi è figlio, soprattutto a livello di sonorità – gli Amor Fou rodano con una serie di date dal vivo i pezzi del nuovo disco in uscita nei primi mesi del prossimo anno. Ad accompagnarli le proiezioni visuali di Ilenia Corti, spezzoni a colori e in bianco e nero che si riveleranno durante la serata (titolo “A parte quel silenzio che ci separa”) l'esatto complemento alle canzoni eleganti e letterarie di Alessandro Raina e soci. A che punto siano i quattro Fou dunque dopo un periodo così intenso e rivoluzionante è presto detto: a metà del guado, senza che tale espressione venga accolta con qualche accezione negativa. Ben consapevoli dei limiti e dei pregi dell'esordio La stagione del cannibale ma pronti a trarne i debiti vantaggi, non dimenticando di fare i conti con ciò che nel frattempo è accaduto. Via quindi quell'elettronica di maniera Notwist che a volte congelava un po' troppo il songwriting. Dentro un suono più caldo, sovente chitarristico (due le sei corde on stage: quella di Raina e quella di Giuliano Dottori), che guarda alla nostra miglior canzone d'autore (versante Umberto Bindi - Sergio Endrigo) votandosi per quanto riguardi i suoni a tensioni wave e a coinvolgenti fughe post mai pacificate dal drumming energico di Leziero Rescigno (lo strumentale con recording di un Brunetta sproloquiante a fine set; l'intensa Dolmen quale omaggio autografo agli Altro in chiusura) o a nostalgie di stampo beat-settantiano in zona Lucio Battisti Equipe 84. Influenze queste ultime, bisogna sottolinearlo, a rischio moda come non mai ma riscattate da una qualità di scrittura sempre sopra la media (Peccatori in blue jeans), che racconta i rapporti umani contemporanei cercando prima di tutto un linguaggio preciso e un immaginario importante. Proprio come accade nella splendida Filemone e Bauci, fra le migliori canzoni italiane pubblicate nell'anno in corso, nonché esempio della direzione intrapresa dagli Amor Fou: un tentativo di scardinare la facilità del presente andando a riprendere con tanta personalità un passato che non passa. Luca Barachetti amor fou 92 recensioni Fuck Buttons L ocomotiv , B ologna (18 ottobre ) Ce se ne rende conto in cuffia, o guardando i loro clip (il recente Surf Solar). Dietro al fascino dei Fuck Buttons, non c’è il mix, ma la forza dell’esecuzione. A fare la differenza, non è il laser synth o la ripresa 4/4 techno, il noise o l’estetica digital-shoegaze che ne rappresenta l’evoluzione. John Cumming, produttore del primo disco, ci aveva visto giusto: all’inizio, il vero discrimine è la fisicità di un trip inesorabile, in crescita, impersonale e senza botti come ci si potrebbe aspettare dal chitarrista dei Mogwai dietro al vetro. Una carica prorompente, eppure in provetta che, al sotto dei layer, e a prescindere da ogni mezzo, possiede un cuore, un’urgenza a polarità invertita, catarsi che infine, anzi da principio, è la polpa di queste argomentazioni. Dal vivo sono un viaggio su per giù di un ora. A livello d'improvvisazione o negli aspetti che fanno la gioia dei bootleggari non c’è molto: qualche accenno di fusione tra brani (un po' di Ribs Out in Colours Move), allungano qualche traccia. Eppure, giunti alla seconda tournée mondiale, i Fuck Buttons non godrebbero di tanta stima e affluenza se non fosse per un’intima e potente sensibilità primordiale. Lo sballo vero è l’esperienza del suonato e il senso del ritmo che c'ha dentro. Sound che peraltro è eseguito, mosso, da manopole e tasti. Una componente essenziale per la generazione post-glitch. Sul tavolo Andrew Hung and Benjamin John Power hanno sempre svariate tastiere analogiche, un sequencer, un non ben identificato strumento a bocca, un microfono attaccato a un distorsore stile Wolf Eyes o Black Dice e un tamburo per la celebre sciamanata a nome Colours Move. L’ultimo per importanza è proprio il laptop: serve per lanciare alcune linee di noise trattato. Inoltre, in questo tour c’è il materiale di Taro Tarot, più elettronico anche grazie a un nuovo illustre produttore come Andrew Weatherall. Le possibilità aperte dal sophomore permettono un focus maggiore sulle composizioni. I crescendo, o meglio, l'oramai famoso pumping di Sweet Love for Planet Earth (che copriva metà delle perfromance del 2008) sono stati abilmente aggirati. Non ultimo, l’immaginario: è affascinante sentirci un ricordo di quella grandeur tastieristica che impattava l’immaginario futurista dello storico Blade Runner, come altrettanto notevole la fusione di quelle reminescenze nelle esperienze capitali della manipolazione elettronica di quest’ultimo ventennio: la techno e il noise post-glitch (quello che da Fennesz in poi ha fatto riscoprire il fascino dei test-tone poi lanciato nei duemila su scala mondiale). Il roboante ronzio modulabile - che farebbe tutt’ora impazzire i futuristi - si fa di pasticche senza euforizzanti. Ne viene fuori un salto temporale interessante: in un sol colpo elimina tutto lo sballo dell’E tenendoti buono lo sfasamento della chimica, asciuga la retorica sul futuro del Novecento (e si va indietro fino a Metropolis) e ti ficca in un trip per macchine fatte totalmente di tessuto umano. Una vera soundtrack per replicanti. E non ce ne voglia Ridley Scott. Edoardo Bridda James Chance L ocomotiv , B ologna (12 ottobre ) Uno dei capisaldi di quella che fu, trent'anni or sono, l'avanguardia della New York più arty e tossica va in scena di Lunedì sera al Locomotiv di Bologna; e già questo basterebbe a porre una serie di interrogativi sul ruolo giocato dall'industria della musica live ed il continuo ripescaggio di tutte le glorie del passato. Anche a personaggi considerati icone solo da una ristretta schiera di fedeli, infatti, vengono trovati spazi e momenti deputati, ma ciò non è necessariamente un bene. Ad aprire le danze in questa data c'è un non meglio identificato trio di (free) jazz che non sembra testimoniare altro se non il peso che esperienze come quella di James Chance e soci hanno avuto e tutt'ora hanno su una gamma poliedrica di musicisti ed orchestrali. Non è dunque un caso se il pubblico – né scarso né copioso – affluito per vedere la ''star'' della serata si riversi davanti al palco quando è effettivamente il turno di quest'ultima. Ad accompagnare il nostro c'è un trio di musicisti francesi (Les Contortions), già da qualche anno backing band nelle sue date europee; lui si presenta come tutti se lo aspettano: chioma folta e scapigliata alla David Lynch, ma con più brillantina, giacca bianca da teddy boy, sax a portata di mano. Quando lo show inizia c'è subito qualcosa che non quadra: Chance sembra un bambino con la luna storta, il suo entusiasmo di stare sul palco scarseggia. Rumors tra la gente dicono che è di cattivo umore perché la sera prima ha dimenticato il suo paio di scarpe preferite nell'albergo a Napoli, o chissà dove. Purtroppo la prima impressione non sembra venir contraddetta dai pezzi successivi in scaletta; l'alternarsi tedioso tra miti attacchi di funk compulsivo e lenti episodi jazz/lounge non sembra infatti rendere conto di quello che fu il merito primo dell'esperienza dei Contortions: la fusione e la contaminazione barbara tra ritmiche funk, ansietà jazz e insolenza NO. Quasi a riprova di come il passato possa vantare un pedigree che oggi scarseggia ampiamente, i pezzi più coinvolgenti della selezione sono una cover di James Brown (aspra ironia della sorte per lui, l'alter ego James White) e l'immortale Contort Yourself. Non che lo show sia irrimediabilmente sottotono, solo ad esso manca un ingrediente portante: il punk; il che è facilmente comprensibile se si considerano i tre lustri che separano l'uomo che stasera è sul palco da quello che creava deliberatamente le risse recensioni 93 ai suoi concerti con la scusa di abbattere le barriere tra pubblico ed artista. Ciò non di meno, senza il contagio di quel morbo la proposta attuale del gruppo è poco più che mero intrattenimento; piacevole forse per chi apprezza l'aspetto dell'esecuzione musicale, ma piuttosto deludente per chi invece ha sempre visto in personaggi come questo uno schiaffo ed una sfida lanciata, sprezzante, proprio alla musica come intrattenimento e svago. Andrea Napoli Fiery Furnaces (The) C ovo , B ologna (3 ottobre ) Scelta radicale. Faremo tutto senza tastiere, chitarra-basso-batteria e voce. Niente macchine per il concerto al Covo di Bologna dei Fiery Furnaces. Su questa anticipazione, che ci dà Matthew Friedberger appena prima dell’inizio del live, non abbiamo tempo di costruire aspettative. Pochi minuti e si parte. La prima domanda che ci saremmo fatti avrebbe sicuramente riguardato gli escamotage che le fornaci avrebbero potuto utilizzare per rendere i cut-up schizofrenici dei dischi in una veste tradizionalmente rock. Prima ipotesi. Scelte timbriche differenziate degli strumenti, a mimare la metamorfosi perenne. Scartata. Le canzoni del live suonano tutte alla stessa maniera, arrangiate nello stesso modo. Un effetto che ci ricorda un live di qualche anno fa all’Interzona di Verona dei Red Crayola. Ma qui si opera il ribaltamento. Il cut-up e la frammentazione, i microluoghi che si susseguono con incastri e passaggi di stato repentini, sono diventati un flusso ininterrotto, per quanto frastornante, straniante e destrutturato; una sorta di maratona per il musicista ma anche per l’ascoltatore, un tour de force che ha messo sullo stesso piano la difficoltà tecnica e la fatica dei musicisti di riprodurre le microstrutture in continua variazione (crediamo siano state notevoli) e la resistenza di ascolto, o meglio, la concentrazione necessaria per stare dietro al quartetto. E ancora, di converso, la possibilità di lasciarsi andare nel flusso e decidere di perdere l’orientamento, di smettere di cercare di seguire e collocare i pezzi. Ruolo chiave in questo senso è andato a Eleanor, la cui voce è l’anello di collegamento (timbrico, ancora, arrangiativo, ma soprattutto stilistico e contestuale) con le versioni su disco. Sarà per questo che non abbiamo realizzato fino in fondo, probabilmente, quanto ci ha convinto o meno l’aproccio del duo/quartetto in versione strettamente rock… Gaspare Caliri 94 recensioni Evangelista, Matteah Baim A migdal a T heatre , M il ano (28 O ttobre 2009) Torna in Italia l'ensemble di Carla Bozulich dopo la pubblicazione di “Prince of Truth” ed è sempre la solita magnifica intensità. L'apertura di Matteah Baim si raffredda forse a causa di un pubblico poco numeroso e di qualche problema tecnico inaspettato, ma le canzoni della pittrice newyorchese, già al fianco di Devendra Banhart e di Sierra Cassidy (Cocorosie) nelle Metallic Falcons, arrivano come incompiuti abbozzi folk in punta di elettrica che non scaldano l'anima né la incantano. Ad accompagnarla Rose Lazar con pochi e svogliati ricami di synth, mentre la chitarra si muove tra arpeggi reiterati, accordi quadrati in loop e qualche rumorismo. Non sembra Matteah la stessa delle tante critiche positive ricevute per l'ultimo Laughing Boy, e forse è solo una serata sbagliata, o invece se ella non fosse l'artista newyorchese pittrice-collaboratrice-di-Devendra-eSierra ma semplicemente una ragazza di Forlimpopoli con le stesse canzoni deboli non ce la ritroveremmo qui sul palco stasera. Inutile quindi dire quanto il confronto con gli Evangelista non regga. Carla Bozulich e compagni imbastiscono un set di un'ora soltanto e tale scelta la si comprende a pieno proprio alla fine dell'esibizione, la cui intensità – parola insufficiente per definire un approccio al palco che per la cantautrice in primis è soprattutto una questione estremamente e profondamente umana – raggiunge livelli che di rado si trovano in giro. Coadiuvata dai fedeli Tara Ill Barnes al basso e Dominic Cramp all'organo ed elettronica, con l'aggiunta del cello del nostro Andrea Serrapiglio e del drumming di Young Michael Tracy, l'ex Geraldine Fibbers (alla chitarra) riprende a sorpresa parecchi brani dallo splendido Evangelista più che dall'ultimo Prince Of Truth, tra cui le due ieratiche e strazianti title track e una Pissing dei Low (in medley con Nel's Box) che non ha nemmeno bisogno di estendere più di tanto il proprio crescendo per rapire e trafiggere, tale e tanta è la catarsi che questa donna trova sul palco nel cantare le parole dei brani. Una liberazione la sua che è svuotamento interiore dai demoni di una vita che non lasciano spazio a spiragli di luce ma solo a un vuoto sviscerante e stancante (pare difatti esausta alla fine), a una salvezza che pur essendo solo sopravvivenza redime l'anima. La coesione tra i membri del gruppo – tutt'altro che dolenti negli spazi tra un brano e l'altro, ma anzi scherzosi tra loro e col pubblico – permettono al noise-folk dei brani in scaletta un'omogeneità perfetta anche nelle parti maggiormente improvvisate. Il drumming e il basso essenziali, irreversibilmente tellurico il primo, perfetto nello spandere bolle di oscurità il secondo, il lavoro multiforme tra rumorismi e calligrafie folk della chitarra, lo spleen sabbatico dell'organo e l'aurea chiaroscurale se non proprio funeraria dipinta dal cello sulla pelle delle canzoni rendono il concerto un'esperienza in cui songwriting, avanguardia, vita e tragedia coincidono. Con il loro spiritual eretico e scatenante gli Evangelista uniscono cielo e terra, per trovarne quella spaccatura dove l'esistenza diviene un passaggio denso e inconoscibile tra nulla e nulla. Luca Barachetti Directing Hand, Pantaleimon, Current 93, Spiritual Front, Ardecore, Mouse On Mars I nit , R oma ( dal 17 O ttobre al 18 O ttobre ) Pre Final Fest è l'ultima esperienza di Post Romantic Empire, la sua manifestazione finale. Un allegro funerale. Lì, dove vanno i sogni quando muoiono. Trenta ore di musica. Due giorni, dal pomeriggio di sabato 17 alla notte di domenica 18 ottobre. Post Romantic Empire, anfratto romantico della capitale (tra le attività del collettivo, un'etichetta discografica, Precordings, e varie iniziative in territorio romano come il Classix 90’s, techno parties) chiude i battenti e si pavoneggia allestendo il Prefinalfest. Una cerimonia regale, con petali neri a contornare e una musa, Joan Fontane, a simboleggiare. “Vieni, ti mostrerò dove vanno i sogni quando muoiono” è il tema, lo slogan del festival. Nel segno dei Current 93, va da sè. Ma c’è un iter da seguire, prima di David Tibet & Co. Spetta a Gianluca Polverari schiudere le porte dell’Init. Segue il poker MIR + Gamers In Exile + Gianni Music + Valentina Carnelutti. Si balla, in pratica, per far fronte al freddo clima capitolino. Sarah Dietrich, donna rossocrinita dall’anagrafe impegnativa, accompagnata tra i tanti da Lili Refrain, monta un set di catartica improvvisazione elettronica che strega e stordisce. Come posseduta, Sarah. Sul serio. La scaletta, vuoi anche per i soundcheck tra un'esibizione e l’altra, cambia in corso d’opera. Federico Fiumani ad esempio, atteso in tarda nottata, lo si vede poco prima degli Ardecore. Beh, non il massimo della vita, l’ex-Diaframma. Chitarra elettrica e voce per un canzoniere rilevante (Siberia e Labbra Blu non potevano mancare) ma sterile se spoglio di basso e batteria. Qualche presente mugugna e non possiamo dargli torto. Gli Ardecore (per la cronaca, senza i tre Zu) si presentano con la Dietrich ad affiancare Felici al microfono. Dopo la prima parte di stornelli (incluso un cameo di David Tibet), sul palco compare Nada e la situazione si rivolta. Il combo romano riedita i classici della Malanima. Nada ancheggia. Tutti cantano Amore Disperato e Ma Che Freddo Fa. Nel finale, Fiore De Gioventù. Risoluto il set degli Spiritual Front. Innocuo Danilo Fatur. Formali i Naevus. L’indomani toccherà ai Mouse On Mars, ma prima c’è una notte da danzare. A Legowelt e Claudio Fabrianesi il compito. Degnamente risolto. Jan Werner e Andi Toma, dunque, salgono sul palco alle dieci del mattino. Lo abbandoneranno due ore dopo forti di un gig maiuscolo. Si comincia ad intravedere intanto l’entourage Current 93: suonano Hush Harbors (delizioso folk d’antan) e Baby Dee (delizioso e basta). Nel mentre, il passionale Sieben (un uomo, il violino e tanti pedali) nonché un banchetto per presenti e musicisti a base di Capriolo. La proiezione di Nekromantik, presentato dallo stesso regista, Buttgereit, e sonorizzato per l’occasione da un gruppo capitanato da Othon Mataragas, precede il singolare progetto di Fabrizio Modenese Palumbo, Andrew Liles e Paul Beauchamp. Una somma delle parti, la loro, risolta in muzak pseudo bossanova. Divertente. Fastidioso, e non ce ne voglia l’interessato, invece Ernesto Tomasini nel suo falsetto e pose teatranti. E pensare che in principio, accompagnato dagli stessi Palumbo e Beauchamp, si era ben presentato. Di ben altra stoffa il concerto dei Current 93. Tra i tanti, si nota James Blackshaw alla chitarra e Baby Dee al piano. Si privilegia il recente corso del gruppo, quindi tanta elettricità al servizio dello sciamanico Tibet. Live intenso, in una parola: bellissimo. Sugli scudi l’ultimo Aleph At Hallucinatory Mountain. Anche I Looked to the South Side of the Door e She Took Us to the Places Where the Sun Sets, dall’ep Birth Canal Blues, placide nella veste originaria, si prestano ai watts. Evento nell’evento, la performance di David Tibet, uomo nato artista che si emoziona, urla. Rapisce. E saluta. Per chi non c’era, come allegato al libro di prossima uscita Post Romantic Empire, in arrivo un dvd dell’intero evento. Gianni Avella recensioni 95 WE ARE DEMO #41 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A.Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Fuh - Extinct (Canalese Noise Records, Novembre 2009) G enere : noise - post grunge Siamo colpevoli. Di averli persi di vista nella pila di demo che ormai fa da muro portante al soffitto di casa. Tanto che dovrebbe essere in procinto di uscire il primo disco lungo(?) del gruppo - e a quello vi rimandiamo -, successore dell'Ep Extinct di cui ci accingiamo a fare la cronaca compita in questa sede. Quest'ultima, un'opera che potrebbe anche bastare per prendere contatto con i noise/post-hardcore deragliante dei Fuh, con il Captain Beefheart virato Henry Rollins di brani come Supersonic Covenience, con un approccio alla musica che è tutto fuorché convenzionale. Parliamoci chiaro: i Fuh sembrano sbucati da qualche avanzo di certi Novanta tecnici, perennemente in controtempo, dispari fino al midollo, volutamente grunge. A patto che del grunge si riprenda l'anima più deviante e oltraggiosa e la si fonda con una congestione delle geometrie à la Three Second Kiss, 120 bpm più in là. L'avrete capito: c'è di che divertirsi in questo disco registrato presso i Canalese Noise Studios (in effetti si tratta più o meno di un disco “vero” e non proprio di un demo). In attesa che le cose si facciano più serie - lo meriterebbero - per Akem La Biscia, Julio Amores, Los Grembos e Nasturzio Particolare.(7.3/10) Fabrizio Zampighi A man called Pj/Obajah - European Regaae Music (Autoprodotto, Settembre 2009) G enere : reggae Non so voi, ma a me il reggae ha rotto i coglioni più o meno venti anni fa. Rispetto imperituro per Marley, Tosh e compagnia, ma non riesco più a calarmici. Al più gli concedo di farmi compagnia quando ci sento quel po' di fibra e piglio che ne rianimino l'ostinato ed esausto cliché. Il qui presente, beh, è proprio uno di quei casi. Sbocciato dall'incontro tra il parigino Obajah e l'italiano - di Abbiategrasso - A man called PJ, questo ep mette in fila la miseria di tre tracce ma belle fragranti, benedette da quella grana essenziale che fa tanto roots e sorretto da un entusiasmo senza pretese d'assoluto. Una combinazione che smuove. Poi, vabbè, le vibrations sono una cosa da devoti. Io, ripeto, non riesco a calarmici. Non più di tanto.(6.6/10) Vinyl Fucktory - Evitare noie (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : rock Il dna del gruppo ha il gene deviante degli Afterhours delle origini, evidente in certe ballate crepuscolari come in un cantato che si rifà palesemente allo stile di Manuel Agnelli (Evitare noie). Con in più i Soundgarden meno psichedelici e più heavy a fare capolino nelle parentesi distorte (Paradox), naturale approdo di una scrittura che alterna momenti di stasi a energiche svisate elettriche. Da un lato si apprezza il tentativo di andare oltre uno stile consolidato per cercare una formula che non sia semplice riciclo, dall'altra si assiste a un alternanza di buone idee e banalità. Il che ci fa pensare che se è vero che ai Vinyl Fucktory non manca la buona volontà, è vero anche che ancora non è ben chiara la direzione da prendere.(6/10) NK - Sleep Spindles (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : electro avant Nino Lo Bue è un tastierista e chitarrista palermitano classe '81 che nel 2008 ha avuto la buona idea di avviare il progetto solista NK, con l'intenzione - parole sue - di combinare atmosfere elettroniche con le suggestioni del post-rock nordeuropeo. In questo Sleep Spindels, uscito in free download per la netlabel milanese 51beats.net, tenta quindi di trovare il punto di fusione fredda tra istanze electro ambient, folktronica e la tipica apprensione spaziale (col corredo di gelidi esotismi e romanticismo lunare) di certi cavalieri venuti dal freddo. A spanna, una triangolazione Sigur Ros, Mùm e Autechre che non disdegna talora contagi downtempo e trip-hop, come quella Cat&Wo dove fa la sua comparsa una voce femminile (è la brava Marcella Giuffré, già all'opera in band progressive metal del palermitano). Ma a rendere davvero interessante la cosa è un senso di sbrigliata libertà, il non precludersi sbocchi e diramazioni, che siano diversivi eniani o palpitazioni folk-prog.(6.8/10) Stefano Solventi Synthromantics (The) Everything’s Sad But The Discotheque (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : electro pop Più che un ponte, quello che nella musica dei Synthromantics collega il pop contagiato electro dei novanta al neoromanticismo degli eigthies sembra un ponticello, un espediente da basetta elettronica per saltare il sovraffollamento delle piste o mettere in corto sezioni di circuito. Questi tre baldi giovani allestiscono quindi un videogame dove i Blur (altezza Parklife)fanno gli sparatutto contro Visage e O.M.D., i Postal Services si fanno strapazzare dai Pet Shop Boys, Fat Boy Slim mena fendenti contro i Police e via discorrendo. Si tratta, appunto, d'un gioco, un escamotage portato avanti con quel senso di ansia friabile che caratterizza le cose che sotto sotto contano. Lo possiedono eccome quello straccio di senso che le rende vive, e ti vien voglia di aggrappartici, di provare a starci dentro. è il loro tentativo. Si fa ascoltare. (6.8/10) Vetronova - Self Titled (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : indie - noise Noise, ma dall'anima fondamentalmente melodica. è necessario scavare per accorgersene, dissotterrare l'indie rock di base per riportarlo in superficie, magari sulle ali di quella Just Like Heaven dei Cure presente in scaletta e meno fuori posto di quel che potrebbe sembrare. A sentire il gruppo, la scuola di pensiero sarebbe da ricondurre all'America meno allineata e più rumorosa, quella di Slint, Tortoise, Don Caballero, ma anche ai deragliamenti degli Zu. Noi vi diciamo che degli Zu non v'è traccia alcuna, ma che in effetti il mood generale parla con l'accento scontroso del post-qualcosa, spesso su una cassa martellante. Quest'ultima tratto distintivo del suono di una formazione che potrebbe riservare qualche buona sorpresa, dopo una messa a fuoco ulteriore e con un po' di coraggio in più.(6.5/10) Fabrizio Zampighi Floss - Welkin (Autoprodotto, Novembre 2009) G enere : noise - psichedelia Mantengono le istanze pinkfloydiane del precedente Russia EP, i Floss da Brescia, ibridandole con una psichedelia ruvidissima alla Motorpsycho (Quarks Cannot Exist Individually, forse il pezzo migliore del pacchetto) e suoni decisamente spacey. Dal magma sonoro che ne scaturisce - un tutt'uno di chitarre elettriche, sintetizzatori, echoes, basso, batteria - emerge una formula musicale articolata e preda delle dilatazioni strutturali. Con un sound che bivacca tra le progressioni heavy di In Progress Of e i rigurgiti in feedback di Matthew, i sussulti post-rock di The Bees Are Dying e le parentesi acustiche di Where Am I Now?. Verrebbe da parlare di conferma, visti anche i precedenti di una band che già in passato aveva dimostrato di saper maneggiare con sapienza chimiche potenzialmente detonanti senza timori reverenziali, ma forse c'è qualcosa in più.(7.2/10) Fabrizio Zampighi Stefano Solventi Fabrizio Zampighi Stefano Solventi 96 recensioni recensioni 97 "Le persone al giorno d'oggi sembrano troppo imbarazzate per mostrare emozioni. Ma è proprio quello che voglio!" Julian Cope E il punk calò anche su Liverpool. Giovani teste e giovani gambe investite dall'onda anomala. Un'intera generazione, come usa dire, strappata all'imperio pernicioso del rockismo hard e alla coda lunga del prog. Restituita alla scossa basale, al grado zero elettrico dove non c'è nulla da perdere neppure se stessi. Con qualche significativa eccezione. Julian Cope, ad esempio. Per lui il punk fu un'esperienza divertente, un gran bel modo di scuotersi le giunture in mezzo ad una mischia di coetanei ipereccitati. Una celebrazione esorcistica allestita da un manipolo di irresistibili marionette ad uso di un fronte di adolescenti disillusi. Molto disillusi. Il punk non fu che una messinscena, in fondo. Un Teardrop Explodes Formidabili stranezze pop Nei plumbei anni settanta, in attesa dello tsunami punk, una generazione di ventenni del Merseyside covava una piccola rivoluzione. Destinata a lasciare un segno indelebile - Stefano Solventi 98 rearview mirror bacio in bocca alla diversità Secondo il diciannovenne Cope, mancava al punk l'ingrediente fondamentale: una vitalistica stravaganza. Gallese di Deri, nel South Glamorgan, dove era nato il 21 ottobre del '57, Julian si trasferì da ragazzino a Tamworth, nello Staffordshire, cinquantamila anime adagiate cento miglia a sud-est di Liverpool. Crebbe come un adolescente inquieto, piuttosto insofferente rispetto al sonnacchioso conformismo proletario e piccolo borghese di Tamworth, dal quale si divincolava pasturando l'insaziabile curiosità musicale. E una fiera alterità che lo aiutava a sentirsi vivo. Come racconta nella sua autobiografia, uno dei momenti fondamentali della sua adolescenza fu il bacio che mollò in bocca ad un bulletto che lo stava provocando. Accadde nel corridoio della scuola. Correva il 1970. Da tempo Julian veniva sbeffeggiato per i suoi modi insoliti, per la sensibilità teatrale (sostenne con successo una parte nella recita scolastica di Oliver Twist) che lo rendeva agli occhi dei coetanei un sospetto gay. Il bullo infatti lo apostrofava "Julie-Ann!", e Cope ebbe l'impulso di agguantarlo per stampargli le labbra sulle labbra davanti ad un bel manipolo di coetanei allibiti. In quel momento il dileggio si trasformò in timore per quell'informe ragazzetto, da lì in avanti bollato ufficialmente come "strano". Per la soddisfazione di Julian, che ebbe finalmente chiara la sua missione: non farsi integrare mai. Neanche nelle forme della ribellione: un bacio "scandaloso" laddove ti saresti atteso una rissa isterica. Difficile da comprendere, impossibile non dedicargli una qualche forma di rispetto. Ovviamente di lì a poco allestì una band scolastica, nella quale cantava perché altro non sapeva fare. Il meccanismo della passione era ormai in moto. Quindicenne, assistette ad un concerto dei Faust, dei quali amava l'approccio ludico, quel folle stare sul palco come un party da un altro mondo. Più avanti, nel '74, si recò a Birmingham per vedere John Cale. Cose del genere. All'epoca già amava i Can e altri cosmici tedeschi, materia che diverrà centrale nella sua maturità. In quel momento si trattava di crescere. Un percorso di formazione niente male. Venne quindi il '76, il fatidico '76. Dopo il fallimento agli esami per l'ammissione all'università, Cope fu spedito al Mott College di Prescot, una ventina di km da Liverpool. In quel luogo gli si aprì un mondo. La situazione si presentò subito radicalmente diversa da quella di Tamworth, dove era quasi impossibile trovare dischi e qualcuno che ne possedesse, dove le notizie sul fermento in corso al Cbgb's di New York, che Julian leggeva sul Melody Maker, rimanevano perlopiù sulla carta, difficile per non dire impossibile verificare su vinile la portata di fenomeni quali Television o Talking Heads. B ombe, molla . bastimenti e trenini a Al college di Prescot, in pieno Merseyside, Cope si trovò immerso in una comunità di ragazze e ragazzi bramosi di aprirsi al mondo. Nel campus circolavano dischi di ogni ordine e grado, tanto che nel giro di due mesi il buon Julian ebbe modo di spararsi una quantità industriale di ascolti, incentrati sul folk psych americano (da Tim Buckley a Country Joe And The Fish, passando per Love e ovviamente Doors) ma anche i cosmici Can, i... funkadelici Funkadelic, le scellerate (scellerati) New York Dolls, la somma imprendibilità di Nick Drake, la sbrigliata hybris dei Traffic, la genialoide arguzia di Frank Zappa. Inoltre, e soprattutto, circolavano dischi di Patti Smith, Modern Lovers, Richard Hell e Ramones, pura vibrazione Cbgb's. Gli ascolti venivano - per così dire - carburati e integrati con ore di interminabili discussioni e chiacchiere, magari al suono delle serali John Peel Sessions. Un universo che si spalancava. La Liverpool del periodo era, dal punto di vista del pop-rock, una bomba ibernata. Da una parte guardava con eccitato sconcerto all'oltremondo statunitense, dove Television, Pere Ubu, Voivods e via discorrendo stavano mettendo a punrearview mirror 99 to un discorso che in un certo senso proseguiva e per l'altro stravolgeva le sfrigolanti premesse di Mc5 e Captain Beefheart, di Velvet Underground e Stooges. Questo dello sguardo ad ovest era del resto un antico vizio del Merseyside fin da prima dei Beatles: interi bastimenti di suggestioni americane accolti sui docks e trascinati con ogni onore fin nelle più riposte Penny Lane. D'altra parte non si poteva rimanere indifferenti alla pres- sione esercitata dal punk impellente, e quindi dalla City, direzione sud sud-est. Quando uscì Anarchy In The UK, il famigerato esordio dei Sex Pistols del novembre '76, i giradischi del Regno furono monopolizzati, Merseyside compreso. è però significativo che a Cope, pur trascinato dall'entusiasmo generale, sembrasse un singolo "troppo perfetto" perché se ne sentisse realmente coinvolto. Ugualmente, quando poche settimane più tardi vide il concerto dei Clash all'Eric's - il club di riferimento per la Liver100 rearview mirror pool più cool - trovò la loro trascinante presenza scenica ritualizzata, schematica, come un "trenino a molla". Gli eventi che rivoluzionarono in profondità l'immaginario del giovane Julian furono semmai, e non necessariamente in quest'ordine: l'acquisto di Nuggets; l'acquisto di Final Solution dei Pere Ubu; l'incontro con Pete Wylie e Ian McCulloch, la sera stessa del concerto dei Clash. Cope viveva ormai come immerso in un mondo sonico, tutti i soldi se ne andavano in vinili - per la gioia del cassiere del Probe, negozio di dischi situato nei pressi dell'Eric's - e i due titoli summenzionati furono tra quelli che avrebbero segnato più di altri il percorso del futuro sciamano rock. Nuggets, la compilation di gemme garage-psych imbastita nel 1972 dal fondatore della Elektra Jac Holzman e dal chitarrista Lenny Kaye (poi nel Patti Smith Group), divenne un must per i ragazzi del Merseyside, imprimendo in essi una indelebile fascinazione nei confronti dei fantasmagorici "one hit wonders" dei sixties statunitensi. Non a caso quando Bill Drummond e Dave Balfe fonderanno l'etichetta indipendente Zoo, sarà col dichiarato scopo di non pubblicare long playing ma solo singoli a 45'', individuando in essi l'essenza stessa del pop. Quanto a Final Solution dei Pere Ubu, per Cope si trattò di una sorta di verifica e assieme una definitiva presa di coscienza: la canzone doveva contenere uno slancio vitalistico che squarciasse la convenzione, che instillase il sospetto di un diverso ordine percettivo e cognitivo (concetto molto psych) senza però mai rinunciare all'emozione, al divertimento, allospasmo vitale. Come riporta Simon Reynolds nel suo PostPunk, tra le dichiarazioni dell'epoca attribuite a Cope c'è questa: "Ho una mia teoria secondo cui noi siamo il dubbio in agguato... Che sussurra nelle orecchie della gente". Chiaro, no? Infine, ci fu l'incontro "cruciale" all'Eric's: fu una sera memorabile, con l'opening act dei Subway Sect che infiammò la fantasia di Julian rammentandogli le possibilità ipnotiche della reiterazione mini- male (un po' kraut, un po' Velvet), con le Slits che trovò toste ma "troppo distanti" e forzatamente strane, coi Clash di cui abbiamo già detto. In occasione di serate come questa, all'Eric's si radunava tutta una generazione di futuri fenomeni: c'erano il futuro Dead Or Alive - e oggi formidabile transgender per la gioia dei reality show - Pete Burns, il cantante degli Spitfire Boys - forse la prima e l'unica band punk di Liverpool - Paul Rutheford (poi vocalist e ballerino nei Frankie Goes To Hollywood), il futuro batterista dei Banshees Budgie e - last but not least - il caro Holly Johnson, prossimo membro dei Big In Japan e poi celeberrimo mattatore dei Frankies. In questa composita fauna, sguazzavano pieni di fantomatiche e febbrili intenzioni Pete Wylie ed il di lui amico Ian McCulloch. Cantanti e chitarristi entrambi, il primo si autodefiniva "poeta ruffiano", adorava Velvet Underground, Doors e Jack Kerouack, il secondo si faceva chiamare Duke perché in sostanza voleva diventare il nuovo Bowie. G iochi di ruolo I tre si conobbero, si annusarono, si parlarono addosso e decisero seduta stante di mettere su una band, i Crucial Three. Il tempo di qualche prova approssimativa - un ipercinetico Wylie alla chitarra, un volenteroso Cope al basso, uno svogliato McCulloch al canto, il piccolo aiuto di Stephen Spence alla batteria - che fruttò un pugno di canzoni abbozzate, quindi tutto evaporò. Non era che un gioco, in fondo. Un crogiolarsi nelle intenzioni. Dei Crucial Three possiamo dire che sono stati uno dei più famosi gruppi mai esistiti. Quasi come i Nova-Mob, band allestita da Wylie, Cope, Budgie e Peter Griffiths detto Griff, cantante e già bassista negli Spitfire Boys: neppure loro realizzarono uno straccio di singolo, però se non altro hanno lasciato ai posteri una T-shirt (la loro prima e unica realizzazione ufficiale) e conobbero il battesimo del palcoscenico con un'esibizione all'Eric's, peraltro disastrosa. Seguirono altre combinazioni più o meno effimere, come gli Uh? (Cope, McCulloch e Dave Pickett), The Mystery Girls (Wylie, Cope e Pete Burns) e A Shallow Madness (Cope, McCulloch, Paul Simpson e Dave Pickett). Questo "teorizzare musica" era però tutt'altro che un cazzeggio, era il senso stesso della cosa: per quei ragazzi, in pratica la nuova generazione rock di Liverpool, l'assioma "no future" non aveva senso anzi lo aveva ed era deplorevole. Questi abbozzi di band, questi sogni di rock'n'roll, venivano carburati dalla prospettiva, dal desiderio, dalla speranza, diciamo pure dall'illusione del successo. Credevano infatti nel successo come completamento di un discorso espressivo fondato sul comunicare emozione, non distanti in questo dagli atteggiamenti del "new pop" - vedi ancora Reynolds - di Heaven 17 e ABC. Un atteggiamento che si rivelò fruttuoso, vero e proprio brodo primordiale che tra il '78 ed il '79 vide formarsi almeno quattro ottime band: i Big In Japan (con Johnson, Drummond e Budgie tra gli altri), gli splendidi Wah! Heat di Wylie, i celeberrimi Echo And The Bunnymen di McCulloch ed i Teardrop Explodes di Cope. Questi ultimi nacquero come una sorta di emanazione degli A Shallow Madness, ma ben presto attorno a Julian - che s'incaricò di basso e canto - i volti cambiarono del tutto. Subentrarono David Balfe alle tastiere, il chitarrista Alan Gill (già negli elettronici Dalek I Love You) e Gary Dwyer alla batteria. A far loro da manager si propose Bill Drummond, fondatore della Zoo assieme a Balfe e sempre con quest'ultimo membro dei Big In Japan, band contro la quale lo stesso Cope promosse un burlesca petizione per chiederne lo scioglimento, rimarcando il senso di gioco (di ruolo) che informava tutta la scena. Licenziati ovviamente dalla Zoo, i singoli dei Teardrop ottennero riscontri considerevoli: il motorik avvampato di Sleeping Gas, con le trombe squillanti, la veemenza assertiva del canto, i bordoni psicotici d'organo, la misteriosa e tragicomica alienazione del testo, in pratica la facevano sembrare la cuginetta ipercromatica di Talking Heads e Pere Ubu via Can; poi l'impetuosa wave-psych di Bouncing Babies, dalle rearview mirror 101 venature acide Syd Barrett e una teatralità cupa che rimanda ai primi Ultravox! (peraltro odiati da Cope); quindi il dinamismo guizzante e sinuoso di Treason, coi sudenti esotismi melodici intruppati tra riff brillanti e serrati orditi Stranglers. Piccoli ordigni sonori che fanno affiorare un caleidoscopio di agganci, dalle garage band "nuggetsiane" come Seeds o Standells ai primi Pink Floyd, dai Kraftwerk ai Funkadelic, dai Television ai 13th Floor Elevator. Are You Unexperienced? Stranezze giocose, "screanzata vitalità", gioia di esprimere e quindi di esistere, liberi da categorie preconfezionate. Un po' come il nome della band, ispirato ad un fumetto Marvel (potete trovare la battuta in Daredevil numero 77 del giugno 1971, pagina 17 per la precisione) ma in realtà slegato da qualsiasi motivo diverso dal voler suonare così, esplosivo e brioso senza negarsi un retrogusto oscuro. Impossibile non sfociare in un album, ed ecco quindi l'accordo con la Mercury ed il folgorante debutto lungo Kilimanjaro (Mercury, 1980, 7.8/10). Originariamente intitolato Everybody Wants To Shag The Teardrop Explodes, si fa 102 rearview mirror forza di una scaletta prodigiosa che annovera oltre ai singoli già citati Second Hand (i Television centrifugati Stranglers), una Books che stempera Doors, Barrett e Seeds (composta ai tempi dei Crucial Three) e la fascinosa Poppies In The Field, pezzo e testo emblematico ("Poppies are in the field, don't ask me what that means") che forse più di ogni altro giustifica l'epiteto di new psychedelia affibbiato ai Teardrop e un po' a tutta la scena del Merseyside. Si tratta in realtà di una targa poco appropriata. Il taglio psych era solo una delle fonti, come abbiamo visto. Soprattutto, si era ben distanti dall'originale messaggio dei sixties che, con un bel po' d'ingenuità se vogliamo, propugnava la possibilità di squarciare il velo per approdare all'other side. Nel Break On Through dei Doors c'era tutto un vissuto, c'era una missione culturale e generazionale di cui farsi agenti e portavoce. Se Hendrix ammiccava esplicitamente Are You Experienced? e persino i Beatles finirono per giochicchiare con messaggi lisergici neanche troppo subliminali, nei Teardrop la psichedelia era sostanzialmente "unexperienced", le uniche sostanze psicotrope conosciute venivano spillate dentro boccali nei pub. La loro psych attitude era quindi un prodotto della passione sfrenata per tutto un immaginario (iconografico, musicale, culturale) ricevuto in eredità dalla generazione che erano chiamati a sostituire, quella stessa che poi aveva tradito tutto tra filosofie hippy, rinculi conformisti, droga pesante, velleità rockiste (fu l'istrionico Pete Wylie a coniare il termine "rockismo", intendendo con ciò mettere alla berlina quelli del rock muscolare fine a se stesso, colmo di cliché chitarristici, alla Cream per intendersi) e immaginifiche masturbazioni tra colta e jazz. Di psichedelico in effetti c'è tutto un contorno di possibilità sonore, è una eventualità sempre presente ai margini o al centro, ma se tornando ai Teardrop prendiamo la travolgente Reward - il singolo del 1981 che seguì il successo di Kilimanjaro è evidente come l'impianto si basi semmai su una straordinaria verve Motown motorizzata wave, un garrulo e minaccioso delirio che non si risparmia slanci jazz-soul, un bailamme al cui interno hanno piena cittadinanza gorghi di tastiere e raffiche di chitarra queste sì floydiane porco cane. Il bello di questi primi Teardrop è proprio la festosa, lucida, spettacolare, folta anarchia. Laddove i più autorevoli "rivali" Bunnymen perseguiranno un approccio sempre più solenne, ambientale ed epico - cogliendo con ciò lo spirito dei tempi, desiderosi di recuperare un rock in grado di produrre orizzonti, di restituire prospettiva, ciò che poi riuscira appieno alla "big music" di Waterboys e soprattutto U2 - per Cope e soci (ma soprattutto per Cope) importava mettere in fila le perle di una collana magica, tre minuti di guizzo immaginifico che schiudesse lo scrigno del meraviglioso che ognuno si porta inconsapevolmente nel cuore. A cida dissolvenza Purtroppo, questo approccio sì visionario ma tutto sommato puro, ben presto si corruppe. Cope era sempre più affascinato da ciò che stavano portando avanti i Fall ed i loro "gemelli" Blue Orchids, questi ultimi sì immersi nella cultura acida fino alla punta dei capelli. Si convinse così ad abbracciare l'esperienza, iniziando ad imbottirsi di acidi fino ai limiti del sostenibile. Fino all'insostenibile. Divenendo insostenibile, soprattutto per i compagni d'avventura. Alan Gill, intenzionato ad impegnarsi a fondo nei suoi Dalek I Love You, preferì mollare i Teardrop, sostituito da un Troy Tate buon chitarrista ma non certo alla sua altezza. Poco male in fondo perché il secondo album dei Teardrop Wilder (Mercury, 1981, 7.3/10), doveva comunque spostare il sound su territori diversi. Un pop più sfrangiato, soffuso, cangiante e articolato, che vedeva ad esempio Seven Views Of Jerusalem caracollare in un esotismo da Talking Heads sornioni, una Tiny Children alle prese con vaporose sublimazioni wave pseudo-Japan, una The Great Dominions abbozzare palpitante solennità come un Bunnymen posterizzato. Se il ruolo dei synth e del basso si dleinea più intenso e a fuoco, gli ottoni stanno a quel- li di Kilimanjaro come una parata di espedienti (vedi la psych-errebì plastificata di Colours Fly Away), mentre la scrittura rivela una certa fiacchezza, a partire dal singolo Passionate Friend (come uno di quei parti garage-psych floreali minori) o quella Like Leila Kahled Said che ha il merito di farsi carico di un testo "importante" (Leila Kahled è riconosciuta come la prima donna combattente per la causa palestinese) ma s'arriccia su una melodia monotona affossata da esotismi senza sbocco. Le intuizioni brillanti come il chorus di Bent Out Of Shape o quella The Culture Bunker che da sola vale mezzo repertorio degli Ultravox periodo Midge Ure, fanno di Wilder un notevole album di pop "deviante", una sorta di compimento dell'idea che stava alla base del progetto - affabilità contagiata di mistero, l'insidia che innerva la carezza - ma le vette di briosa ispirazione raggiunte dal predecessore rimasero piuttosto lontane. Se ne accorsero per primi Cope e compagni, questi ultimi ormai consapevoli di recitare un ruolo sempre più di sponda rispetto al sempre più incontrollabile leader. La magnifica avventura degli Explodes finì rapidamente nel 1982, durante le registrazioni per il terzo album. Incisioni (una ipnotica Ouch Monkeys che non sarà spiaciuta ai Radiohead, una Serious Danger che fa i Frankie Goes To Hollywood prima dei Frankies, una Metranil Vavin quanto mai Japan...) che videro la luce nella raccolta Everybody Wants To Shag ... The Teardrop Explodes (Mercury, 1990, 7.4/10) - della serie non si butta via niente, a partire dai titoli - edita da Cope nel 1990, quando oramai era un guru di un altro pianeta. Il suo pianeta personale. E anche il nostro, casomai. Per fortuna. rearview mirror 103 Ristampe Black Devil Disco Club - The Strange New World Of Bernard Fevre (Lo Recordings, Ottobre 2009) G enere : elettronica Prima di farsi culto con la dance fisica di Black Devil Disco Club, Bernard Fevre, nel 1975, esordiva all’insegna di un'elettronica sintetica e filmica. In The Strange New World Of Bernard Fevre sembra Piero Umiliani che gioca a fare Jean Michel Jarre: Sci-fi pop (Dali) e sortite funk al silicio (Dangerous misture, Stay On Grey, Misererum), muzak lunare (Cosmic Rays, Pendulum) e preavvisi cosmic in anticipo sui tempi (Fantasm). Seppur rimasterizzato, quindi limato digitalmente, il mood è terribilmente fresco che si stenta a dargli 34 primavere. Paradossalmente,più attuale qui che nelle recenti sortite come Black Devil Disco Club.(6.5/10) Gianni Avella Feelies (The) - Crazy Rhythms / The Good Heart (Domino, Ottobre 2009) G enere : post - punk - folk Verrebbe voglia di scrivere la recensione delle ristampe dei primi due dischi dei Feelies (ad opera della solita Domino) cercando di inseguirne lo stile. Cercando di essere raffinati e veloci, ritmici, dirompenti ma classici.Verrebbe da farlo perché è la stessa critica musicale che ha sempre cercato - senza riuscirci fino in fondo - di inseguire quello stile, di andare oltre lo stupore per definire al meglio le maratone folk-percussive di Crazy Rhythms e la parziale distensione di The Good Heart. E allora riproviamoci. C’è una tensione che monta, nell’esordio, Crazy Rhythms, del 1980. E non è un caso che spesso i brani abbiano bisogno di un minuto buono per decollare, levitare, e per poi restare in cielo per sempre, finché c’è carburante. La musica dei Feelies è un autentico sorvolo, che potrebbe non atterrare mai. Una simulazione di volo evasiva, ma molto terrena, un perpetuo esercizio di ritmica e articolazione 104 rearview mirror percussiva in cui può prodursi uno sdoppiamento melodico, un solo minimale della chitarra (Moskow Nights), una piccola perturbazione che stupisce ma non distrae dalla sostanza volatile del disco: l'alienazione. Viene da ipotizzare che Crazy Rhythms sia appunto un disco sull’alienazione, nei due sensi: che parli di alienazione, in qualche modo, ma anche che sappia ergersi sopra l’alienazione; che si erga sopra il reale alienato e in questo modo riesca a essere psichedelico. Forces At Work è la traccia esemplificativa: fa fatica a decollare e poi si tiene a un'alta quota deformata e deformante, simulando la chitarra di Tom Verlaine e portando alle estreme e geniali conseguenze lo stile dei Television. È questo il meccanismo che spiega come faccia un disco nevrotico di post-punk a essere psichedelico. Sotto pelle nei Feelies c'è sempre un atteggiamento meditativo, schizzato prima, esplicitato dopo, in The Good Heart (Coyote, 1986), dopo una pausa interminabile che ha scompaginerà la formazione pur mantenendo le linee di continuità. Un abbandono della nevrosi per affrontare una vera e territoriale fuga dalla città. E, per concludere, viene in mente una frase programmatica di Albini, che espresse quando presentò su disco il progetto Shellac, appena prima dell'uscita di At Action Park. Disse di avere in mente una musica fatta per un accordo solo, per una nota sola, sulla quale violentare la ritmica. Ecco, i Feelies facevano folk per un accordo solo. Folk perpetuo. Un’eterna ghirlanda brillante che mette sullo stesso piano melodia e ritmo. Continua reciprocità tra musicalità e nevrosi. Tra folk e astrattismo ritmico.(8/10) Gaspare Caliri Max Richter - Memoryhouse (Fat Cat, Novembre 2009) G enere : post cl as sicismo Se doveva esserci un momento giusto, è questo. Memoryhouse, il debutto di Max Richter del 2002, da tempo fuori catalogo, viene ristampato dalla Fat Cat mentre il compositore, forte dei riscontri positivi ottenuti per la soundtrack di Valzer Con Bashir, sta portando in giro (stivale incluso, lo scorso 8 ottobre a Firenze) il progetto The Art Of Mirrors che sonorizza vecchi e inediti (almeno per l’Italia) super8mm di Derek Jarman. Gli inizi di Max Richter, dopo l’apprendistato toscano per studiare Berio e le collaborazioni con Future Sound Of London e Roni Size, sono dunque racchiusi nel suo primo step solista. Si evince dai nomi di cui sopra, o meglio nella loro possibile convivenza ideologica, che il tedesco di stanza anglosassone è di certo un compositore atipico. Per dirla come lo stesso Richter, Post Classico. Quasi tutte le composizioni di Memoryhouse vivono su di un tema portante, esposto nel melanconico violino di Europe, After the Rain. In Sarajevo, il soprano Sarah Leonard rileva gli archi: il corpo si fa drammatico. Corale. Sotto certi aspetti,Wagner-iano. La BBC Philharmonic Orchestra e Alex Balanescu, nell’epico crescendo di November, rifiniscono l’ennesima sfumatura sul tema. C’è anche spazio per particolari dediche: una al noto cagnolino spedito sulla luna nel 1957, Laika, in Laika's Journey (muzak elettronica in miniatura), l’altra al compositore olandese Jan Sweelinck, Jan's Notebook, per solo clavicembalo. Mentre The Twins (Prague), se non proprio una dedica, è quantomeno un palese omaggio all’arte di Michael Nyman. Detto questo, donate l’elegiaca Arbenita (11 Years) al vostro cuore. Primi appunti sul quaderno blu.(7/10) Gianni Avella MF Doom - DOOM - Unexspected Guests (Gold Dust, Ottobre 2009) G enere : hip - hop Il promo ha una copertina che è la stessa che troviamo ovunque sul web, ma è diversa da quella sul sito della Gold Dust. Dentro ci sono 14 pezzi, mentre Undergroundhiphop ne indica 16 e il sito della label addirittura 17. Ci atteniamo al promo fisico. A collection of non-album tracks, guest features & exclusives selected and mixed by the Super Villain himself. Rarità 99-08 che i non follower potrebbero benissimo non conoscere (come il one-shot Bells Of Doom uscito anonimo anni fa per Marvel Comics), ed è un peccato perché si tratta di ottimi pezzi HH. Per lo più feat di DOOM su dischi di altri (De La Soul, Talib Kweli, Vast Aire dei Cannibal Ox, membri del Wu-Tang Clan), con primato quantitativo ai produttori Jake One e The Prof (ma ci sono anche produzioni del nostro). Anche un ripescaggio da J Dilla-Donuts, rappato assieme a Ghostface Killah. Anche un anemico riuscitissimo remix di Street Corners di Masta Killa assieme ad altri wutangclaniani. Niente sperimentazione a tutti i costi, produzioni compatte, solitamente di colore scuro, il solito surreale flow melmoso di Mr. Dumile e prove di rapping altrui di prima classe. Insomma, per i delusi dall'ultimo pompatissimo Born Like This. Come a dire che, nonostante tutto, DOOM's as evil as ever.(7/10) Gabriele Marino Mulatu Astatke - New York Addis London (Strut Records, Ottobre 2009) G enere : ethio - jazz Anno mirabile, il 2009, per Maestro Astatke, “inventore” dell’Ethio-jazz, virtuoso di piano e vibrafono e via elecando. A uno dei capisaldi meno noti della musica mondiale si sono infatti definitivamente spalancate le porte del mondo occidentale, coronando un processo di notorietà e apprezzamento in costante crescita da che Jim Jarmusch ne inserì un brano nel film Broken Flowers. E che ha preso il volo tramite uno dei lavori più significativi che possiate ascoltare al momento, quell’Inspiration Information Vol. 3 realizzato assieme agli Heliocentrics e su cui ci siamo lungamente spesi. è pertanto mossa intelligente della Strut mostrare quanto esiste a monte di tale contemporanea bellezza, fornendo un ritratto dell’artista a prescindere dal qui e ora. E, anche, di indicare cosa gli permette di essere ciò che è e fare ciò che fa nel mentre esorta ad approfondirne la conoscenza. Retrospettiva curata e competente com’è costume della label (note puntuali di Miles Cleret; apparato iconografico di prim’ordine), New York-Addis-London pesca lungo un decennio sensazionale dal punto di vista artistico e umano per l’etiope: primo musicista del suo paese a viaggiare e registrare all’estero, verrà a contatto con la scena jazz londinese dei ’60 nel mentre studia al prestigioso Trinity College Of Music. Da lì a Harvard - di nuovo: primo africano a frequentare l’istituto! - ci vorrà poco e ancor meno complicato rearview mirror 105 sarà, per un individuo di siffatto Genio e personalità, sviluppare linguaggi che fondano jazz occidentale e tradizioni autoctone riconsegnando così il primo alle origini. Caratteristiche che, nel terzo millennio, restano immutate e anzi scintillano più che mai in una musica straordinaria. In una sola e semplice parola, imperdibile.(8/10) Giancarlo Turra Not Moving - Not Moving (Spittle, Ottobre 2009) G enere : post punk Chi segue la rinata Spittle Records si ricorderà forse i Not Moving per Baron Samedi, gothabilly da cattedrale e da manuale con il quale fecero la loro comparsata nella compilation Gathered. Ciò che oggi si dà alle ristampe con un self-tilted ex post è il Frankenstein nato dall’assemblaggio del 12” Black ‘N’ Wild (uscito per la Spittle originale, nel 1985) e dell’LP Sinnermen (Spittle 1986, compreso di outtakes), di qualche anno successivi al brano aurorale succitato. E allora via col senno del poi. Due giudizi con un ponte, che collega le due uscite raccolte. In Black ‘N’ Wild i Not Moving riprendevano la tradizione wave inglese incrociata a discendenze Gun Club, cantando in inglese, senza però importare alcuna angolatura - anzi sposando a volte la versione Bauhaus più che Gun Club, con le discendenze hard-glam del caso, le chitarre gotiche, una voce femminile vicina alla solita Siouxsie. Le cose più felici venivano da ispirazioni Cramps o X (l’ottimo anthem rockabilly di I Just Wanna Make Love To You, molto divertente, con la splendida coda fatta di urla di chitarre e di persone); ma l’opzione sembrava quasi non essere percorsa fino in fondo. Un anno dopo, in Sinnermen, arrivavano a cimentarsi con il post-hard-core melodico di I KnowYour Feelings e con il blues di Lost Bay, dove non è male assistere a come quelle chitarre passino il testimone da un riff a un solo, per quanto semplice. Eppure il perno su due colonne di Not Moving è quel punto di passaggio tra il 12” e l’LP. Si chiama proprio Sinnermen, scaglia di tardo beat psichedelico, lasciata andare come piccola gemma mal prodotta alla fine dell’EP; ripresa, con una produzione meno confusa ma forse con anche meno impatto, nell’album dell’86. E con Baron Samedi fa rima, almeno in una cosa: nell’essere non più indissociabile dal momento in cui nacquero. Finendo per resistere al tempo.(6.8/10) Gaspare Caliri 106 rearview mirror State Of Art - Dancefloor Statements 1981-1982 (Spittle, Ottobre 2009) G enere : post - punk / funk bianco Si diceva spesso in quegli anni che a un certo punto tutti, in Italia, si sono messi a fare funk bianco. Parliamo dei primi anni Ottanta del post-punk nostrano, e di quelle band che, più che essere esterofile, cercavano semplicemente di sprovincializzarsi. I punti di riferimento erano quelli dati dalle intersezioni che ben conosciamo, tra Talking Heads e Contorsions, banalmente. Gli State Of Art rientravano sicuramente nel discorso, ma per tempismo e qualità media dei risultati non andrebbero menzionati nella schiera della vulgata senza infamia né lode, ma qualche passo sopra. Ceto, c’era la band di David Byrne nei loro ascolti e nelle loro corde tese (Dantzig Station, Keep On Moving), così come James Chance e i suoi Blacks. Come per quest’ultimo però la parabola della band andava a ritroso, fino a James Brown e in genere alla soulness Settanta del funk, seppure aggiornata alle angolature del dopo 77. Discorsi banali forse, ma non troppo se pensiamo che questa ristampa Spittle si intitola proprio Dancefloor Statements 1981-1982 e raccoglie - ad opera dei leader e autori del gruppo milanese, cioè Fred Ventura / Federico Di Bonaventura e Stefano Tirone - gli spasmi funkici di un biennio che sotto questo aspetto probabilmente non ha avuto repliche, sul suolo italiano. Le derivazioni post-punk inglesi ci sono comunque tutte. Ma ormai grazie alla stessa Spittle le possiamo catalogare come milieu. Va messa in luce invece la qualità media della produzione (già nell’originale, dato che questi pezzi sono tratti dai nastri originali), molto alta rispetto a quello a cui si era abituati, e alcune avvisaglie poliritmiche e ovviamente mutanti (Scoop ‘n’ Loop), così come tentativi di emancipazione dai retaggi melodici anglosassoni. Ciò che impreziosisce maggiormente la raccolta è però la manciata di brani conclusiva, e specie per una cosa: per il buon innesto tra la complessità dell’elemento ritmico e la foga punk nelle tracce live, che in effetti sono dirompenti e forse da sole valgono la ristampa.(6.9/10) Gaspare Caliri Terror Danjah - Gremlinz (Instrumentals 2003-2009) (Planet Mu Records, Settembre 2009) G enere : horror step Le nuove leve del dubstep sono passate in gran par- highlight Flipper - Album Generic / Gone Fishin' / Sex Bomb Baby (Domino, Agosto 2009) G enere : noise - hard - core Un nome che drasticamente divide in due. Chi li conosce pensa a un panzer in corsa folle sulle strade (o anche sulla spiaggia), chi non ne ha mai sentito parlare incorre nella fluida ambiguità suggerita dal nome. In realtà, seppure non li si citi spesso, i Flipper hanno avuto un'importanza enorme, e non a caso persino la Domino decide oggi di metterli sotto i fari puntati attraverso la ristampa degli unici due veri album della band in formazione originale (Album Generic - Subterranean, 1982 - e Gone Fishin' - Subterranean, 1984) e del primo resumé della carriera (Sex Bomb Baby - Subterranean, 1988). Non è un caso, innanzitutto, data la recente uscita di un nuovo disco (Love) sotto la ragione sociale Flipper. Ma non tanto per salire e cavalcare l'onda della riunione di intenti, ma forse per rimarcare la distanza della conservazione violenta di oggi da quegli esercizi dirompenti che ebbero luogo prima della morte del cantante Will Shatter, avvenuta nel 1987. è anche grazie a lui per cui si parla del gruppo post-hardcore di San Francisco come ponte di collegamento tra PIL (Nothing) e musica industriale, in generale tra l'hardcore (Way Of The World) e il post-punk. Il suo cantato inaugura il lascito dell’ugola di Lydon che poi sfocerà, tra gli altri innumerevoli, in Yow. Ma nei Flipper ci sono autentiche scorribande, che vanno da filastrocche mutanti alla Residents in Life Is Cheap (dall'esordio) fino alla psichedelia marcia di One By One (in Gone Fishin'). Il ruolo storico dei Flipper è stato fare il punto dell’humus culturale della musica becera di allora, necessario perché arrivassero le eccellenze che oggi tutti citiamo, Big Black in testa. Albini ne era un grande fan ma soprattutto li stimava da critico musicale. Da lì, possiamo dire, partì per la sua parabola. E come gran finale (che diede nome alla raccolta oggi ristampata) rimane davvero mitica Sex Bomb, divertimento di piffero sintetico con sax (memore del titolo del brano?), panzer a due bassi, chitarre PIL-iane; un sabba che è un puro spasso, e si erge nella tracklist delle stramberie (dopotutto accessibili) del decennio. Una demenzialità demoniaca e terribilmente rumorosa con dentro tutti i Butthole Surfers più sbracati. Un lottatore di sumo che tenta delle mossette funk. Un perfetto esempio del suono dei Flipper e del loro lascito ingombrante.(8/10) Gaspare Caliri te al wonky e al ragga. Sono pochi quelli che battono il ferro, ormai l'onda è passata ed è sempre più un affaire che gestiscono le internet radio pirata, qualche compilation di Mary Anne Hobbs o le serate di Rinse FM. Una cosa autocelebrativa che si parla addosso e che in molti danno già per consumata. Ben vengano allora le ristampe e le raccolte del tempo che fu e che è ancora una volta già passato sotto i cingolati delle pastiglie e dello sballo a base di MDMA. Questi singoli di Terror Danja ci parlano dalle barricate della velocità horror, dal digrigno di denti in acido che Skream aveva incarnato nei suoi mix. Quel tempo così vicino ma così già lontano per la perdita di anima e di innocenza è qui. In quest'ora al fulmicotone -sulla sempre meritevole Planet Mu del fido Paradinas- ci catapultiamo in un videogioco glitch che è stato già spremuto da orde di teen brufolosi, sudati e con le manine paffute alla ricerca del record sull'ultima uscita per PSP. La riscoperta di un talento del calibro del terrorista britannico ci apre un mondo di tracce nascoste, quasi come avevamo sentito nell'esordio (bruciato) di Ital Tek. Ora qui, sempre noi a cavallo tra spezzettamenti à la Autechre (Stiff) e omaggi al genio dei Kraftwerk (impressionante Planet Shock), richiami all'organico giocattoloso del Richard D. James più ambient (Crowbar 2) e techno nei denti marci (Limbo, Splash), classici d'n'b (Reloadz) e malinconie horror (Poltergeist appunto). Niente di nuovo. Ma fatto veramente con uno stile impeccabile. Oltremanica c'è ancora qualche terrorista pronto a far esplodere la bomba.(7.5/10) Marco Braggion rearview mirror 107 (GI)Ant Steps #32 classic album rev Cannonball Adderley The Kinks Somethin' Else (Blue Note, Marzo 1958) The Kinks Are The Village Green Preservation Society (Pye, Novembre 1968) Ispirato dalla stazza piuttosto ingombrante del sassofonista americano - ma mutuato da un “cannibal” sinonimo di voracità particolarmente sviluppata -, il soprannome “cannonball” ha sempre rappresentato una sorta di biglietto da visita per Julian Adderley, oltre che un'involontaria chiave di lettura per il suo stile. Quest'ultimo ben radicato in un ingorgo di note compresse e perennemente in procinto di esplodere, con un sax tutto impeto fisico e rapidità di fraseggio. Più o meno ciò che si ascoltava da un certo Charlie Parker in tempi non sospetti, di cui non a caso il Nostro farà le veci in una New York di fine anni cinquanta orfana dei virtuosismi di un “Bird” già passato a miglior vita. Ed è proprio in quella New York che nasce anche Somethin' Else. Più che un disco, una parata di all stars colte un attimo prima della consacrazione definitiva. Alla tromba c'è Miles Davis, con in testa l'idea meravigliosa del cool ma ancora disponibile a fare da gregario; alla batteria quell'Art Blakey che dimostrerà di lì a poco tutto il suo valore con i Jazz Messengers; al piano e al contrabbasso rispettivamente Hank Jones e Sam Jones, session men di lusso provenienti il primo dalla big band di Benny Goodman e il secondo dai Jazz Prophets di Kenny Dorham. L'anima del disco, comunque, sono loro due, Adderley e Davis, e con loro la diversa concezione di suono che si portano dietro. Il primo a stento frenato in uno sbrodolare di note e scale rapidissime, il secondo impostato oltremisura con la sordina dello strumento a dipingere scenari di un'eleganza d'altri tempi. L'hard bop che scende a compromessi con il cool e il risultato sono brani strutturati e fascinosi come l'introduttiva Autumn Leaves. Il tema, in questo caso, lo annuncia con un certo orgoglio il trombettista - primo segno evidente di 108 rearview mirror un ruolo che sarà tutt'altro che marginale all'interno del disco - in un distendersi di note che ricorda le malinconie di Chet Baker ma Birth Of The Cool fino al midollo. Col sax che entra solo in un secondo tempo, quasi intimorito, sull'onda di qualche svolazzo coerente, comunque, con il mood minimale del pezzo. Sarà molto meno rispettoso in quella Somthin' Else scritta dallo stesso Davis che troviamo a metà scaletta e da cui emerge tutta l'adrenalina rinchiusa in un ottone palpitante che pennella con vigore, pur non raggiungendo i picchi di dischi come Mercy Mercy Mercy. Del resto siamo nel 1958 e non nel '66 e la scena jazzistica newyorkese sta per abbandonare il bop per buttarsi nel rigore della coolness. Davis lo sa bene e decide di spiegarlo anche a Julian. Interpretando una Love Sale di Cole Porter sul filo dell'essenzialità, con un Blakey su di giri che si improvvisa tribale e al tempo stesso disegna ritmiche personalizzate ad ogni cambio di registro: crepuscolari o rumorose, a seconda del solista che si alterna alla guida. Il piano di Hank Jones cura l'intro e la cornice armonica mentre il basso di Sam Jones fa il paio con le percussioni, in un tutt'uno che entusiasma senza strafare. La One For Daddy-O scritta dal fratello di Adderley è un soffiare continuo di ottoni in chiave blues in cui anche Davis trova il modo di elaborare qualche parentesi scoppiettante mentre Dancing In The Dark è la tipica melodia notturna e “piaciona” dove i solisti possono dar prova di gusto e classe. Il disco finirebbe qui, ma nella ristampa in CD, a fine corsa, ci si imbatte anche nel notevole be-bop della Bangoon scritta da Hank Jones, in cui ci si diverte parecchio e dove si assiste a un pari e patta nella sfida tra i due contendenti. Diversa conclusione, del resto, non ci si poteva aspettare. Fabrizio Zampighi Se il fanatismo e l’isteria collettiva che accompagnarono l’ascesa di Beatles e Rolling Stones, non avessero monopolizzato la scena mediatica a partire dal fenomeno della “british invasion”, probabilmente saremmo costretti a riscrivere buona parte della storia del rock. Con il senno di poi, se i Kinks ricorressero ad un ipotetico tribunale della storia, otterrebbero senza ombra di dubbio i riconoscimenti (economici e non) ingiustamente negati all’epoca. Dopo il discreto successo di You Really Got Me, la band di Ray Davies, infatti, non riuscì più a ripetersi e, accantonati i riconoscimenti, i Kinks voltarono pagina scegliendo la strada tortuosa della creatività senza compromessi, a scapito del successo commerciale. Già nel ’66, con il brano Village Green Davies introduce un nuovo punto focale nelle tematiche espresse dalla band, preannunciandone la linea futura. L’irriverenza della critica politica diretta si veste di nostalgia, guardando indietro ad un mondo immaginario, ancestrale. Due anni dopo, sul rapporto tra questo passato ideale e la realtà urbana contemporanea Ray Davies costruirà un intero album, seguito da una rock opera (Arthur) e una rappresentazione teatrale (Preservation, 1972-1974) che ne riprenderanno l’ambientazione e le tematiche. Quella di The Kinks Are The Village Green Preservation Society è una storia a dir poco travagliata. Nato inizialmente come progetto per un doppio album, scartato senza indugi dalla Pye, il disco uscì in una prima versione con 12 brani, poi sostituita da quella definitiva, che ne contiene tre in più. Nel mezzo c’è la vicenda di Four More Respected Gentlemen, un album preparato appositamente per il mercato americano e mai pubblicato. Tanta fatica per nulla.The Kinks Are The Village Green… esce il 22 Novembre 1968, lo stesso giorno in cui viene distribuito l’Album Bianco dei Beatles. Il destino, ancora una volta. Sarà un flop. Ma si tratterà del “Most successful flop of all time”, come lo ha definito Ray Davies di recente, dopo aver raccolto i meritati frutti postumi di uno dei più importanti album della band. Strutturato in una serie di scenette, l’album propone fotografie sbiadite di un’Inghilterra che fu. Il rimpianto per la tradizione, però, non è da intendersi come un rigurgito conservatore, bensì come uno spunto per ironizzare su certo buonismo della middle-class inglese. L’atmosfera nostalgica che pervade i testi dell’album è ricreata musicalmente da scelte quanto mai eterogenee. Dalle atmosfere un po’ cabarettistiche e un po’ malinconiche di All Of My Friends Were There, ai ritmi caraibici di Monica; dai deliranti proclami di We Are The Village Green Preservation Society, alla sbeffeggiante psichedelia di Phenomenal Cat, i Kinks mettono in piedi un circo di immagini che non può non ricordare Sgt. Pepper’s nel suo sollevare cumuli di polvere su oggetti antichi, infondendo nuova vita ad epoche storiche lontane un’eternità dallo spirito del tempo. Un universo di ricordi, fotografie (Picture Book), paesaggi agresti (Animal Farm), personaggi indimenticabili (Do You Remember Walter?; Johnny Thunder), vengono riesumati e messi a confronto con la folle e confusa società contemporanea. L’importanza di “trattenere i ricordi”, elemento unificante di tutto l’album, emerge con chiarezza nella scena finale di questo insieme di schizzetti, People Take Pictures From Each Other. Come in preda ad una mania, le persone scattano fotografie ad ogni cosa si trovino davanti, per poter provare in futuro l’esistenza di quel momento. Un ultimo, estremo tentativo di far parte di un mondo che non esiste più. Daniele Follero rearview mirror 109 Champagne Arte contemporanea Riflessioni su arte contemporanea, video arte e cinema, in occasione di una visita al Guggenheim Museum di Bilbao - Luca Colnaghi 110 la sera della prima e noccioline New York, Berlino,Venezia, Bilbao, Abu Dhabi. Ecco i luoghi dei cinque più famosi Dolmen dell’arte moderna e contemporanea, i Guggenheim Museum. L’inestinguibile sofisma dello statuto dell’opera d’arte, oggi ormai spolpato ed esautorato a chiacchiera da bar. Cedrata Tassoni e salatini. E se la vita è un po’ come la scatola di cioccolatini – Gump insegna - un museo d’arte moderna e contemporanea è un po’ come la ciotola dei salatini. Può contenere Fonzies, e finisci che ti lecchi le dita, così come ti possono capitare le noccioline, potenzialmente quelle di …E alla fine arriva Polly di John Hamburg, quelle che contengono il raduno mondiale dei nemici dell’igiene. E allora ciao. è stomacata per sempre. Come per le cozze. E se ti va bene. Chi non si ricorda l’enorme fallo di porcellana che uccide la vecchia che fa yoga in Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1971)? Andy Warhol era un coatto dice Tommaso Labranca nel suo celebre libro. Sarà. Ma di furbetti ce ne sono tanti. Artisti o presunti tali. Poi ti dicono che non puoi capire e capirai tra cent’anni. Come le sperimentazioni elettroniche di Lucio Battisti. La devi capire o sei out. Ed ecco che quindi il museo d’arte contemporanea diventa una sorta di purga culturale. è Fantozzi che spegne la radiolina dove trasmettono la partita di calcio e si mette a patire volontariamente di fronte al Potemkin. Si va anche per non capire, come la messa in latino nel medioevo. E al Guggenheim di Bilbao il pubblico è vario, nonostante l’audio guida. Ci sono quelli che passano l’intera giornata in una galleria, prendono appunti con febbrile devozione, tracciano bozzetti e consultano tutto il materiale multimediale. Chiamali amanuensi. Ci sono quelli nel mezzo. Ci sono gli altri, come in Lost. E come in Lost se guardi bene sono sempre di più e ovunque. Molti si arrendono subito lasciando l’audio guida penzolare al collo, altri dopo aver confuso il numero dell’opera con quello della sala o della galleria, ricevendo segnale muto dall’apparecchio. Nervosismo. Resa. I diecimila metri quadri di spazio espositivo diventano pascolo dove la suggestione diventa libera. Perché indubbiamente, anche se non si capisce l’intento originale dell’artista (il sospetto spesso è che l’intento che ha dato via al folgorante colpo di genio sia in realtà un’osservazione fatta a posteriori), suggestione, curiosità o per lo meno perplessità sono stati d’animo democratici. Lo spazio sognante inizia all’esterno a Bilbao. Lo scafo di una nave rovesciata ricoperta dalle lastre che do- vrebbero ricordare le squame di un pesce. Quello di una carpa che la nonna dell’architetto Frank Gehry teneva in una vasca. Succede anche nelle migliori famiglie. Ora, non si prenda questo come il manifesto della controcultura o il baluardo di chi come qualche nostro politico grida fiero, «un film di Pierino vale tutto Antonioni». Tutt’altro. Il populismo culturale ha fatto tante vittime quanto la cucina cinese, l’aids, il tabagismo. Piuttosto c’è da chiedersi cosa sia e quali potenzialità abbia effettivamente l’arte moderna, quale sia il suo pubblico, se vi sono dei livelli di comprensione. Una sorta di scala a gradi come per il terremoto o la massoneria. Bilbao, galleria Learning through art, l’arte moderna fatta da bambini. Dimostrazione del mito futurista dell’artista bambino o dubbio amletico dei seguaci di Sordi? Tutto questo nell’epoca in cui un altro reperto museale, il recentemente scomparso Mike Bongiorno, si metteva alla prova con Sei più bravo di un ragazzino di 5a su Sky. La Cugina chic del cinema copia! È in questo clima sognante o semplicemente assopito, dipende dai punti di vista, che la cugina più chic del cinema, la video arte, si presenta con tutto il suo corredo di intellettualismi, macchinazioni, artifici e sorprendente intelligenza. Due cose mi hanno colpito sempre dell’arte moderna: la riflessione sul sociale traducibile come dramma del messaggio; l’aspetto di riproducibilità, la riflessione sul suo essere copia di. Il secondo ha avvelenato gli ultimi 50 anni almeno, e a ben dirla gli ultimi due secoli. Da copia del reale, a copia dell’oggetto, a copia di copia. Apogeo di zuppe Campbell e guerriglieri eroici: dall’oggetto comune all’opera d’arte il passo era stato breve. Poi l’esplosione delle pretese un po’ artistoidi e a volte anche un po’ cazzare di un gruppetto radunato attorno alla corte di miracoli del furbetto del quartierino di Pittsburgh. Iniziava il Camp quintessenziale. Se nell’epoca del boom economico ad essere trasformato in oggetto d’arte era l’oggetto industriale, quindi la bottiglia della Coca Cola, latte di zuppa e quant’altro, oggigiorno la società dello spettacolo si diverte a guardare alle moderne forme di intrattenimento. Sport e musica in primis, usati per ricavarne altro: un film-opera o molti film-opera. Se il film in sala è diverso da quello in DVD grazie a inserti speciali, giochi, poster, menù interrativi, la video arte nei musei non è da meno. Prendiamo Zidane, un portrait du 21e siècle (2006). Il film è conosciuto già ai più. Se ne parlò tanto in Tv, ne hanno fatto la sera della prima 111 un edizione in DVD, sulla scia c’è stato poi Kobe Doin’ Work (USA, 2009) di Spike Lee su Kobe Bryant che avevamo recensito il mese scorso. Douglas Gordon e Philippe Parreno riprendono Zizou con 17 camere sincronizzate, mischiando HD e 35mm, in&out tecnico per il corpo e i gesti dell’atleta immortalati come opera d’arte. Come per il body painting qui il soggetto è più vivo che mai. Corre, impreca, sbraita, sputa, fa magie. Ovviamente non potevano mancare i Mogwai. Al museo però il film è riproposto in una vesta innovativa su due schermi. Sul primo il final cut cinematografico presentato a Cannes. Sul secondo delle immagini inedite che a volte si allineano con quello dello schermo primario. Il real-time portrait in questo caso si arricchisce di qualcosa in più. Non si tratta necessariamente di un film diverso, ma nemmeno si può parlare dello stesso film. Gemelli, si ma come Danny de Vito e Arnold Schwarzenegger. E se sul secondo schermo fosse possibile selezionare quali immagini proiettare in una sorta di montaggio immediato ad opera degli spettatori? Il mantra temuto è 2.0. Nessun cifrario cabalistico o passaggio biblico. Solo il destino che l’opera (d’arte) ha già iniziato a percorrere in internet e sui nuovi media. Riassumibile nella formula: opera collettiva. Più che a spaventarsi per il destino dell’opera d’arte, dell’autore, dovremmo forse pensare che dopo Bryant e Zidane a qualcuno verrà la brillante idea di compiere un’operazione analoga su Tiger Woods o Vishy Anand, campione del mondo in carica di scacchi. Sai che brividi. Il resto è normale operazione di routine. Si filma un evento, lo si decontestualizza come i migliori ready-made ci hanno insegnato. Però se questi erano comuni manufatti di uso quotidiano, ora ci troviamo di fronte a copie, modifiche, derivate di prodotti dello spettacolo che 112 la sera della prima oltretutto erano già presenti in video. La partita di calcio tra Real Madrid e Villareal del 23 aprile 2005 esiste come ricordo nella memoria degli spettatori, come montato televisivo, come versione presentata a Cannes dell’opera di Gordon e Parreno, come versione DVD e infine – con possibilità di ulteriori sviluppi – nella versione presentata al Guggenheim di Bilbao. Insomma, un Rashomon calcistico. Le stesse possibilità, forse, in un futuro, potrebbero essere allargate anche alla regia televisiva che già permette per la Tv digitale di selezionare il tipo di inquadratura. Immaginatevi la possibilità di eseguire per ogni giocatore in campo quanto fatto dai due registi per Zidane. E ad opera di ogni spettatore. Privatamente. Dalla propria poltrona, dal proprio televisore, con il proprio telecomando. L’incubo di George Orwell tramutato in forma di espressione artistica. Le vite degli altri, presenta il signor Rossi. Sempre di copie ed esercito dei cloni si parla nello splendido The doppelganger slater bradley Trilogy di Slater Bradley, classe ’75. Tre schermi (nella video arte lo schermo multiplo va forte), tre star si esibiscono live: Michael Jackson, Kurt Cobain, Ian Curtis. Stile documentarista per questo falso footage. Jako è filmato con un bianco e nero in super8, muto. L’esibizione di Curtis è resa da una pellicola rovinata, metafora del doloroso ritmo musicale dei Joy Division. Cobain con una telecamera amatoriale che incornicia primi piani mossi. Fin qui niente di diverso da quanto ci hanno abituato Julien Temple o Martin Scorsese, più qualche vezzo in più da artista. Peccato che ad esibirsi sia sempre il sosia di Bradley, Benjamin Brock. Per chi non aveva considerato il triangolo: il sosia di qualcuno che diventa il sosia di un altro, idolo di quel qualcuno. L’artista californiano è solito lavorare con video istallazioni, fotografie che voglio- Mika Rottenberg no essere frammenti di storie dimenticate, non raccontate, spesso legate agli idoli della sua adolescenza. Un olimpo iconografico tutto personale insomma. Romanticismo del consumo e dell’eroe decadente. Brock studia la psicologia di Bradley attraverso i dischi che ascoltava in adolescenza. Il monito della società dei simulacri è chiaro: siamo quello che consumiamo. Il legame tra realtà, vita e morte passa attraverso il consumo, da intendersi sia come deterioramento che come utilizzo. Tre eroi decadenti. Due suicidi e un Jackson sconvolto dallo scandalo pedofilia. L’opera d’arte si intreccia con la vita, anzi come nel caso del film dedicato a Zidane, la vita – o per lo meno le sue porzioni performative – diventano opere d’arte. Del resto questo statuto lo avevano nel DNA. I tre saranno risarciti del falso da Last Days (2005) di Gus Van Sant, Control (2007) di Anton Corbijin e nel caso di Jackson bisogna solo saper aspettare, i diritti se li è già accaparrati la Sony e alla regia dovrebbe esserci Kenny Ortega, quello di High School Musical (2006). Un film per bambini, ironia della sorte. Il Dramma del Messaggio Il secondo aspetto sul quale la video arte e in senso lato l’arte contemporanea non può fare a meno è il messaggio, specie se legato al contesto sociale. Diciamo che è quasi una sorta di giustificazione, il contro altare della sua difficoltà concettuale. Mika Rottenberg con il suo Dough (2006) di 7’ propone delle operaie che sembrano essere uscite da un film di Tim Burton. Abbiamo la sentimentale cicciona di colore, l’annoiata segretaria di Twin Peaks, l’anoressica dall’unghia laccata rosa shocking. Tutte intente a lavorare un impasto melmoso nella filiale futurista di Willy Wonka, un edificio brevettato Freddy Sport dove girandole, pedaliere sono l’unica forma di divertissement, ovviamente non sfruttato dalle operaie. Queste sono in mezzo a una fanghiglia color ocra, non a bolle di sapone del resto. Quello che sembra lo spot ideale per il Mr. Muscolo o per qualsiasi integratore della flora intestinale è ovviamente un’acuta osservazione sul mondo del lavoro. Una sorta di Tempi moderni di noi altri. Al femminile. Per le quote rosa. Del resto dopo gli anni ’40 i baffetti sono visti con sospetto. Mika Rottenberg come Charlie Chaplin mostra l’apatia e la meccanicità del lavoro. Anche quando sembra fantasioso è sempre meccanico. Del resto puoi suonare la tastiera gigante a F.A.O. Schwarz, ma se per anni suoni sempre Fra’ Martino alla fine son sempre i soliti tasti o se la fai in RE minore, la stessa successiola sera della prima 113 suna corrente politica è per sempre, forse il tempo non è stato gentile nemmeno con la religione. Di certo non lo è con l’arte né con ogni sua corrente artistica. Nel gruppo di Court Yard viene riproposta una celebre opera cinese, leitmotif dello sfruttamento da parte dei proprietari terrieri ed inno alla liberazione nazionale di Mao. Ma Cai Quo Quiang e Cai Fei mostrano una rivoluzione incompiuta nelle loro opere. L’esercito di terracotta di Mao si sgretola differentemente da quello del primo imperatore Qin Shi Huang. L’armata eterna cede il passo al nuovo millennio, a crollare sono le ideologie e le correnti. Quale ne. Ti scassi. Resta indubbiamente l’interesse per il mondo del lavoro. Bisognerebbe chiedersi se questo interesse è una presa di coscienza, una sorta di socialismo proattivo targato nuovo millennio da parte dell’arte e dell’artista o semplicemente un vezzo un po’ naif come la kefia griffata e colorata. Poi ti capita tra le mani un video sponsorizzato da un’azienda come Whose Utopia di Cao Fei. In questo caso i soldi sono della Osram. Mi sia permesso il gioco di parole: l’imperatore della lampadina come luminario? Illuminato lo è di certo, ma al punto di finanziare un video nel quale viene mostrato il grigiore del processo di lavorazione dei semiconduttori? Bell’ossimoro. Perché al di là dello spottone, il girato in fabbrica nasconde il germe della verità. Parte prima: Imagination of a Product, traducibile in danza meccanica delle lampadine nella catena di montaggio; parte seconda: Factory Fairtale, una sorta di risveglio da primavera del Botticelli dell’era industriale; terza parte: My Future is not a Dream, musica onirica e laghetto dei cigni e delle gru, quelle che spostano gli scatoloni e li mettono sui bancali. Per un certo illuso ottimismo ricorda i primi documentari industriali di Ermanno Olmi. Addirittura qui le magnifiche sorti e progressive della fase onirica, escapismo virtuale per una massa di operai cinesi, sono celebrate dalla musichetta che parte proprio quando inizia l’incursione nel fantastico. Operai che cantano, ballano, giocano. Almeno come desiderata. Ed ovviamente ecco comparire il logo del gruppo. La falsa coscienza storica che si respira ricorda il pay off del più grande villaggio vacanze della storia: il lavoro rende liberi. Sappiamo tutti che di sognante in fabbrica - tolti i sogni rivoluzionari degli Stormy Six – c’è ben poco. Se Rottenberg, con le lacrime 114 la sera della prima dell’operaia, mostra emozioni impacchettate nella freddezza del cellophane e interiorizza un rapporto di routine proprio alla vita lavorativa quanto alla sfera degli affetti, cosa fa Cao Fei? Siamo nel canone tipico della sua produzione a cui ci aveva abituato nel corso dell’esposizione Asian Dub Photography (Foro Boario di Modena nel 2008), quindi lo stile scanzonato rappresentato da fantasie volutamente naif e adolescenziali? O siamo di fronte ad un’amara riflessione del mondo reale? Il colosso Osram China Lighting ha pagato e acconsentito le riprese nello stabilimento di Guangzhou. Cao Fei insiste sui volti come in What are you Doing Here? sempre del 2006, non cerca più rifugi come in Cosplayers ( 2004). Volti. Nonostante i primi piani anonimi. Nella massa indistinta. Nonostante i sogni. Il motore di sviluppo sognato da Mao si è ingolfato. Eduardo Galeano non ce ne vorrà, ma l’utopia a camminare sul nastro di una corsia di montaggio in fabbrica serve a ben poco. Tra porci con le ali e cinghiali laureati in matematica pura, resti sempre nel solito punto. Immobile come in Head One, istallazione di design teatrale presentata al Guggenheim di Berlino e presente in copia a Bilbao, di Cai Guo Quiang; o alle statue d’argilla della Collezione Court Yard. Nel primo 99 lupi imbalsamati si schiantano contro un vetro, un muro invisibile che fuori dalla metafora diviene emblema del Muro di Berlino o di qualsiasi altro regime politico. Per il branco ideologico di matrice nazista c’è ancora speranza, però. Avrà forse ragione Hobbes , homo hominis lupus, ma i lupi sono 99. Ogni epoca ha il suo centesimo: Cristo, Marx, Ghandi, Buddha. Anche se lì vicino il gruppo The Age of not believing in God fa da chiaro monito sulle sorti che aspettano anche a questi ultimi. Nes- futuro? Domanda che ci siamo fatti per il cinema a suo tempo. Figurarsi per l’arte, è almeno dai tempi di Nadar che l’interrogativo è diventato quasi pruriginoso. Qui non si parla più solo di ready made, video arte o cultura pop. Cioè non saranno certo le incursioni del linguaggio pubblicitario o del quotidiano a intimidire l’arte moderna. Sono cose che non intimidiscono nemmeno il cinema, decisamente più bacchettone. Operazioni come i neon a cascata carichi di frammenti di spot pubblicitari di Jenny Molzer dimostrano tutti i loro cinquant’anni abbondanti di servizio. E il legame non proprio poetico tra necessità commerciali e intenti artistici di un museo sono ormai evidenti ai più. L’opera Names del brasiliano Jac Leirner, che da i sacchetti brandizzati di altri musei trae un’opera per il Guggenheim di Bilbao, fa riflettere due volte. Oltre al giudizio ad personam o in base al luogo, lo statuto d’opera d’arte può oscillare tra luoghi con le stesse competenze, dato che sempre di musei si tratta. Uno presente come brand. L’altro come luogo dell’allestimento. Non solo che cos’è l’opera d’arte, ma cos’è il museo, oggi. Ed è da questo interrogativo che muove i passi l’iniziativa Everything is a Museum. Riconversione di spazi altri. Per ora tre, uno in Giappone, uno in Toscana e uno a Taiwan che utilizza ex bunker della guerra combattuta contro la Cina. Tutto questo mentre architetti illustri progettano nuove sedi del Guggenheim in giro per il mondo.Tutto questo mentre alcune scolaresche disegnano e costruiscono i modellini del loro museo ideale. Sorprendentemente il genio non ha né età né titolo di studi. L’impressione che se ne ricava è che per l’arte contemporanea, oggi, dopo la rivoluzione pop e digitale, gli interrogativi spinosi non siano tanto cos’è un’opera d’arte o cos’è un museo. Ormai è divenuto chiaro a tutti che ci sarà sempre qualche genio che dipingerà con tuorli d’uo- vo un copertone, qualche intellettuale che lo vedrà come una critica alle quote alimentari dell’Unione Europea e qualche yuppie che lo acquisterà. La vera sfida, oggi, è dopo aver fatto entrare in questo club esclusivo una tecnica o un’opera capire come è possibile copiarla, riprodurla nella maniera più precisa possibile e su quanti canali. L’artista cinese Cai Guo Quiang rilancia con le esplosioni, l’ architettura della deflagrazione. Altro ossimoro. Nel 2008 è divenuto famoso con i giochi olimpici di Pechino, ma è da molto più tempo che nel settore il suo è un nome ben noto. Del resto sono in pochi gli artisti in grado di lavorare con l’imprevedibilità della dinamite. Ancor meno quelli in grado di abbinare colori, forme, suoni, ritmo.A testimoniarcelo lavori su tela, video che mostrano il suo modo di operare, una sorta di dietro le quinte e risultati finali non così poi distanti da quel cinema Hollywoodiano d’azione che va oggi. L’arte pirotecnica non aggiunge niente di nuovo al dialogo sulla caducità delle correnti artistiche e delle opere stesse, del resto già arti performative e body painting avevano sostituito il miraggio dell’immortalità fisica ad un carpe diem emozionale e ad un’eternità virtuale, quella video ad esempio. Sicuramente offre uno spunto di riflessione per il nuovo millennio. Possono essere due spettacoli pirotecnici davvero identici o per lo meno sembrar tali? Salvo cataclismi meteo verrebbe da dire sì. Ma cosa dire in merito alle tele istantanee dipinte in cielo con esplosivo e vernice? I fattori discriminanti sono le condizioni atmosferiche: luce, vento, umidità e molti altri. Ancora più aleatoria ogni tipo di conclusione se ad esser presa in considerazione è l’azione della polvere da sparo su una superficie di lavoro, ad esempio la carta. Domandiamoci prima di tutto se la composizione tra una tela e l’altra sia la medesima. Poi se chi dovrà soffocare il principio di incendio userà la stessa forza o avrà gli stessi riflessi e tempi d’azione. Anche a rendere l’operazione meccanica, il fuoco resta sempre imprevedibile. Vi è una sottile differenza tra le due prospettive. L’interlocutore del tenzone cambia e l’altro viene seppellito. Nietzsche ha detto che Dio era morto. Nas alla liste dei defunti ha aggiunto recentemente l’hip hop. Schicchi nel suo libro autobiografico piange la morte della pornografia. Un loculo nel camposanto dei prodotti di consumo forse spetta anche all’arte contemporanea. Suicidio preterintenzionale o colposo? Unico vero highlander è l’idea di copia, la volontà di copiare che resta fine a se stessa. Per ricordarci che chi di spada ferisce, di spada perisce. la sera della prima 115 Baarìa di G iuseppe T ornatore (I talia , 2009) Vi dico subito che il film non mi ha lasciato molto. Magniloquente, forse più tendente al pomposo. Budget da sceicco, minutaggio elevato (Tornatore e le forbici sono due cose a sé), cammei a volte pretestuosi ed introdotti da insopportabili primi piani frontali e dolly. Giusto per dire: guarda chi abbiamo in questa scena, e compiacere la parte feticista del pubblico. Impossibile nominarli tutti. Michele Placido, Beppe Fiorello, Aldo Baglio, Nino Frassica nella parte di Nino Frassica, Leo Gullotta, Luigi Lo Cascio, Raoul Bova, Giorgio Faletti, Laura Chiatti (2 secondi di celebrità) e Monica Bellucci in quella che se non esistesse il marketing verrebbe ricordata come la più inutile partecipazione della storia, ma che così viene tradotta nella più consueta formula di amichevole partecipazione di. Comunque grazie, grazie Monica. Come ultima terribile colpa un simbolismo presumibilmente poetico che farebbe storcere il naso anche ai più ferventi amanti del montaggio delle attrazioni o di Rimbaud. Il problema è che differentemente da Nuovo Cinema Paradiso (1988) il film manca d’anima. Le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria coprono un cinquantennio che va dagli anni ’30 agli anni ’80, ripercorrono una serie di stereotipi che al cinema hanno già avuto eco - come l’immancabile sessantotto italiano evidentemente ancora in corso - per poi perdersi in un niente di fatto quando il regista cerca di allargare il cerchio all’universale. Sogni, disillusioni, ideali fino ad una serie di immagini metaforiche che si rincorrono e ricorrono per tutto il film per quello che vuole essere un film familiare, cittadino, universale, ma soprattutto un’evidente summa personale. Per ricordarci che la storia si ripete, che l’uomo rincorre i propri errori. Che siano una dittatura, l’assenza di democrazia, una guerra, un pacchetto di sigarette. La memoria storica passa dai racconti degli anziani, dal cinema, poi dalla televisione di Mina e dei primi spot pubblicitari con le minigonne delle ragazze yeye. Celebrazione della propria poetica, autocitazioni, feticci ricorrenti messi in scena in una serie di canovacci e parate barocche. Santi inclusi. L’idea che Giuseppe Tornatore ha del suo cinema passa attraverso la tradizione realista, il cinema classico americano, ma non disdegna momenti onirici che ricordano un certo cinema sudamericano post rivoluzione sessantottina. Roba malavogliana all’Arrabal. Il problema che il passaggio tra questi 116 la sera della prima registri formali e visivi è assolutamente irregolare e l’ossessione per la cartolina hollywodiana da premio oscar soffoca velocemente tutte le buone idee. Perché la cura maniacale del lirismo di ogni aspetto fa perdere naturalezza e anima ad un prodotto che vista la natura autobiografica doveva puntare su quello. Invece sembra di assistere ad un’opera teatrale studiata in soli, gravi, ascensioni. Il tutto è così architettato e fittizio che la scena nella quale un bovino viene realmente colpito con un punteruolo nel cranio e lasciato morire mentre gli attori ne bevono il sangue risulta ancora più fastidiosa. Come se bastasse questo a far gridare al realismo, seppur doloroso. Tutto questo potrebbe essere riassunto semplicemente dicendo: Baarìa è un film di Tornatore, e non poteva essere altrimenti, come la sua idea di cinema, sempre uguale a se stessa. Come la vita a Bagheria. Quando Peppino (l’ottimo Francesco Scianna) di ritorno da un periodo di lavoro in Francia passa attraverso la piazza del paese, i compaesani gli chiedono dove è diretto, proprio a sottolineare che nessuno si era reso conto della sua assenza, o meglio nessuno aveva voluto sovvertire l’ordine delle cose. Per farla breve: candidato all’oscar. Per l’idea che gli americani hanno dell’Italia, non tanto pizza mafia e mandolino quando si tratta di cinema. Ma biciclette, quelle di Vittorio De Sica e guarda caso anche di La vita è bella (1997), Nuovo Cinema Paradiso e Malena (2000); scene d’ozio in piazza e vita familiare tra casa, sellino e porfidi. Le locandine della distribuzione d’oltreoceano parlano chiaro e presumibilmente Medusa non sbaglierà tiro quando si tratterà di distribuire e posizionare il film negli USA. C’è l’amore per il cinema, l’interesse per la politica e la microstoria, il macchiettiamo dell’Italia esportabile in America. Insomma l’epopea di noi altri. L’ampiezza di respiro del racconto prodotto ricorda quella di alcuni film dal impianto operistico come C’era una volta in America (Sergio Leone, 1984), ma soprattutto Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976) e La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003). Bandiere rosse ovunque, la rivoluzione agraria, rivolte sociali. L’incontro sui colli tra le delegazioni di braccianti di paesi differenti e la corsa agli appezzamenti ricorda la corsa ai latifondi della frontiera americana, penso a Cuori Ribelli (Ron Howard, 1992). Nella terra dei limoni, però, il gusto finale non poteva che essere agrodolce, come la scena dell’assessore cieco nominato all’urbanistica. Ecco quelle che sembrano essere le parole d’ordine dei grandi affreschi cinematografici prodotti in Italia. Come se Pelizza da Volpedo avesse segnato più di chiunque altro il nostro immaginario. Ma questo clima epico da limoni e lupara si sgonfia a causa di un’epica tronfia studiata a tavolino. Persino le partiture di Ennio Morricone arrivano a nauseare, il che sembra quasi impossibile, soprattutto dopo la lezione de La sconosciuta (2006), in cui era stato commesso il medesimo errore. Eppure alla fine, ubriachi di sinfonie roboanti e immagini perfette e luminose, ci si inginocchia e si implora un solo minuto di cinema del silenzio. Perché Tornatore conoscerà a perfezione la Sicilia, ma dove sono i silenzi e la quiete delle due del pomeriggio, il rumore della sabbia sulle gradinate, il profumo della terra arsa? Baarìa è un romanzo popolare picaresco, un amarcord nella terra dei limoni in cui la ciclicità dei ricordi disorienta lo spettatore, non il regista che ha la planimetria completa della sua cosmogonia. Al punto da citare e autocitarsi con enorme naturalezza: la scena con i fotogrammi delle pellicole cinematografiche, gli omaggi al cinema di Alberto Lattuada e Sordi, i ricordi dei bombardamenti e dei rifugi antiaerei da Malena (2000). Questi sono i momenti in cui davvero ci si può commuovere, perché si intende subito il gesto d’amore per il cinema e nel cinema di Tornatore, la devozione che il regista nutre per la sua terra. A fallire invece sono le scene madri e le immagini metaforiche. Le uova rotte, la presenza dei serpenti, l’orecchino, la mosca nella trottola con cui si chiude il film. Più che lirismo rasentiamo troppo facilmente il folklore, e caricando tali passaggi di un’importanza eccessiva perdiamo di vista la loro natura spirituale, portando a casa un nulla di fatto proprio quando si cerca di accordarli con la voce dell’universale. All’uscita della sala mi sono sentito come quelli che con l’arrivo degli americani facevano irruzione nelle sedi del fascio per portarsi via qualcosa, qualsiasi cosa. Ma oltre all’amarezza per il poco che ne rimaneva, dopo i tentativi più disperati, ho potuto anche io solo prendere la porta e tornarmene a casa. Luca Colnaghi Ben X – il coraggio è tutto di N ic B althazar (B elgio – O l anda , 2009) Ben (lo sconosciuto Greg Timmermans) è diverso, è un diciassettenne affatto dalla sindrome di Aspergen, forma lieve di autismo. Detto in breve ha problemi relazionali, per il resto funziona tutto (o quasi) alla perfezione. Per questo preferisce vivere in un mondo tutto suo aggrappato alla realtà del gioco on-line Archlord. Bullismo, autismo e logiche di branco per una gioventù inquieta. Ecco i dati essenziali per l’esordio alla regia di Nic Balthazar, risalente al 2007. Una campagna promozionale sapientemente orchestrata, un costo di soli 15M€, una serie di premi collezionati nei più svariati festival. Non siamo di fronte ad un nuovo Rain Man (Barry Levinson, 1988), forse più legittimo pensare a Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), conigli esclusi. Certo è che dopo il terribile sequel del film di Levinson, S.Darko ogni riferimento al vecchio e caro Donnie è andato a farsi benedire, quindi si potrebbe dire più semplicemente che non si tratta della classica menata sociologica. Per fortuna. Non che in più di un’ora di pellicola non vengano toccate tematiche spinose, tutt’altro. Solo che il regista ci risparmia il pietismo e le lacrime, nell’ultimo scatto pecca di morale, ma non poteva essere altrimenti visto il colpo di scena finale forzato, forse indigestione di ostie e acqua santa. Del resto per tutto il film lo spirito da chierichetto del regista un po’ lo si respira. Ben sotto effetto di una droga sintetica la sera della prima 117 recita le stesse parole di Cristo in croce, nel suo tragitto verso scuola osserva costantemente la facciata di una chiesa, la sua arma è un crocifisso. Del resto i suoi nemici sono simili alle presenze infernali che affronta on-line. Ovviamente premio della giuria Ecumenica al Montréal World Film Festival. Indubbiamente lodevole, però, il tentativo di non fermarsi semplicemente ad una condanna di certi atteggiamenti. Donnie, Ben, sono tutti primi piani di una panoramica sulla generazione d’oggi. Se il telefilm e il piccolo schermo offrono una visione più spensierata e glitter, il cinema ne mostra il lato sofferente. Filo di conduzione è l’incomunicabilità, e non siamo in un film di Antonioni. Perché qui non ci sono silenzi. Ci sono monologhi e discorsi profondi senza prospettive. Ci sono telefonini e computer che trasferiscono frammenti di una personalità che tende a comporsi quotidianamente come un avatar virtuale allo specchio. Signori e signore ecco l’ovvio paradosso nella società dell’iper-comunicazione, niente di nuovo dal fronte. Camere che diventano bunker per una generazione di otaku senza fumetti, universi personali che parallelamente sono segnale evidente della disgregazione della famiglia. Filo ratzingeriano. Autistico e figlio di una coppia separata. Si riscatta dai pensieri suicidi solo quando in soccorso vengono entrambi i genitori. Titolo e nickname 118 la sera della prima ma anche indizio, in olandese «Ik ben niks» significa sono nessuno. Per noi traducibile nel pirandelliano uno, nessuno, centomila. Nessuno come quello che è convinto di valere il protagonista. L’ultima è la possibilità delle vite online, ma anche l’universalità della storia di un Ben qualunque. E visto il modo in cui la notizia del suicidio viene data dal telegiornale, una percentuale di suicidi e casi depressivi tra i giovani fiamminghi ci si rende conto che poi tanto singolare questa vicenda non è. Ispirato ad una vicenda realmente accaduta, poi bestseller come romanzo e successo teatrale, ora film, futuro remake targato Hollywood. Un po’ quest’ultima vita spaventa, ma si sa, quando si parla di videogiochi è abbastanza facile guadagnare una vita in corso. +1up. Per quando la realtà virtuale è un rifugio contro l’impossibilità del quotidiano. E verrebbe da dire, non solo per quelli come Ben. Chi si ricorda il Thomas In Love di Pierre Paul? Nell’epoca di Second Life e Second Skin (Juean Carlos Pineiro Escoriaza, 2008) i MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Game) diventano l’ultima frontiera della Terra Promessa. I rifugiati aumentano proporzionalmente ai video di certe bravate su youtube. Così la vita di Ben è in realtà quella di Ben X. Costruzione dell’avatar allo specchio. Quella reale è solo una parentesi obbligatoria tra il caricamento di un livello e l’altro. Realtà antitetiche che si vengono a scontrare. La celebrità per il conseguimento dell’80° livello in rete e la celebrità per le angherie cui è costretto a sottoporsi. Ben poco di eroico nella vita vera. Il problema sarà quando in pericolo verrà messo il suo mondo online, la sua isola felice. Dopo essere stato denudato e filmato, il ragazzo scopre che il video è stato caricato in internet. Viene violato così il suo universo sacro. Game Over o quasi. Fino a quel momento il film procede abbastanza linearmente, nonostante i salti anche visivi tra il mondo virtuale e quello reale. Poi nonostante tutto il nostro buon cuore ci si aspetta che, insomma, Ben schiatti. Ogni società ha bisogno di un martire e il nostro perbenismo era già pronto a usare questo esempio per commuovere. Tolta la breve parentesi in cui si assapora la possibilità di un omicidio di un’ignara passante, la parte finale è centrata sul progetto autodistruttivo del protagonista. Distruzione della postazione di gioco al pc in un going berserker allucinato, quindi temporanea morte nel mondo virtuale. Poi pianificazione di quella reale, ma a ritmo sincopato. Requiem che inizia con una lametta davanti allo specchio, poi in un letto ed infine in stazione. La storia vera probabilmente sarebbe finita lì. Ma il Gianni Rodari d’ Olanda ricorda che se per fare un albero ci vuole un fiore, per fare capire certe cose ci vuole un martire. Solo che il suo nascosto fervore religioso deve averlo spinto ad una resurrezione on stage. Luca Colnaghi Bastardi senza gloria di Q uentin T arantino (USA - G ermania , 2009) Avvertenza: quanto segue è complicato. È un insieme di citazioni, fastidioso e non lineare. Più o meno pertinenti. Come il film. E non vale dire che Tarantino può perché è Tarantino o perché l’ha sempre fatto. Ha ancora senso parlare di storia degli autori oggi? A questo punto tanto vale fare un'apologia del nazismo, del reality show, delle infradito. Insomma sto giocando con voi.Vi offro una seconda frustrante occasione. La morale potrebbe essere: non augurerei nemmeno al mio peggior nemico di essere un cinefilo. L’armata Brancaleone veste i panni borghesi e va a caccia di nazisti. Quentin Tarantino, il genio masturbatorio per eccellenza, immortala l’ultima grande Sturmtruppen e riscrive il corso della storia in quello che nell’ottica postmoderna è comunque un esercizio calligrafico, il citazionismo. Bastardi senza gloria lo fa dal titolo, sulla scia della pellicola di Enzo G. Castellari, Quel maledetto treno blindato (1977), foderato stelle e strisce come The Inglorious Basterds. Il recentemente riesumato maccheroni combat si respirava già in una famosa scazzottata de Le Iene (1992) e in alcune esternazioni di Grindhouse (2007); ora si degusta a masticazione concitata di elementi che vanno dalla figura del tedesco disertore passepartout all’immancabile immaginario dinamitardo made in Robert Aldrich di Quella sporca dozzina (1967). Aldo Raine (Brad Pitt) e compagni non sono più sporchi, forse nemmeno più cattivi. Sono più ebrei, ma anche questo è solo a discrezione dell’anagrafe. La logica di gruppo supera quella manichea di divisione tra buoni e cattivi, perché nell’universo tarantiniano non può esistere nessuna limitazione al sangue. Con l’amichetto di merende Eli Roth nei paraggi, l’overdose compiaciuta da emoglobina è quasi scontata. I bastardi sono più esperti nei genocidi nonsense, dove il sangue è facile: fanno del macinato grosso, insomma. In questo sono molto simili ai nazisti o al Mucchio di Sam Peckinpah del ’69. Esistono soltanto come entità collettiva, l’iniziativa del singolo è pericolosa, benché limitata ad un innocuo gesto con la mano. Premesse da botte epiche e aspettative degne dell’ingresso in scena di Vin Diesel in Compagnie pericolose di Brian Koppelman (2001), ma l’azione atomizzata risulta poco spettacolare. Persino la mazza del sanguinolento urside sionista interpretato da Roth delude e non concede un bel primo piano sui crani spappolati come angurie. Prima del Vietnam i Rambo antesignani con il veterano per eccellenza condividevano solo un coltellaccio da macello, residuo di quel western continuamente evocato nelle inquadrature (il campo lungo iniziale è trasportato di peso da John Ford e Sergio Leone), con le musiche di Ennio Morricone, con l’immaginario di scalpi e nomi (Apache è il soprannome di Aldo Raine). Tarantino gioca con la storia. Perché il cinema inventa e può giocare con il sangue compiacendosi della sindrome di Lady Macbeth che attanaglia una giovane protagonista, Melanie Laurent, in un eterno carnevale cinematografico a cavallo tra Charlie Chaplin e Marlene Dietrich. Così può permettersi uno sconto sulla durata - la fine del conflitto è datata la sera della prima 119 1944 -, ma non sulle quantità di sangue versato visto lo sfogo finale alla Scarface. Ma soprattutto può dove solo Topolino era riuscito. Anzi, meglio dato l’epilogo del Kosher Porno all’amatriciana. Tarantino si muove sul confine, anzi sui confini. Quello della linea di frontiera del far west degli anni ’40, trincee e future cortine di ferro dalla parte degli indiani liberal; quello razziale e linguistico raffigurando una Babele in cui l’unico poliglotta è il colonnello nazista Hans Landa ( un istrionico Christoph Waltz), cugino teutonico e reazionario di Sherlock Holmes. Quello degli spazi, con una camera che segue in movimento gli attori attraversando una parete come solo il miglior Alfred Hitchcock potrebbe fare. Infine quello del verosimile, unica sfera semantica possibile e primo ammiccamento. «C’era un volta» recita un cartello. Come il West di Leone (1968) o come il Dio nel Far West a base di spaghetti di Martino Girolami (1968). Il cinema può inventare la storia e del resto il luogo dove è riproposta la storia (con il film nel film, girato da Eli Roth) e il luogo dove si fa la storia (il luogo dove si consuma il massacro) è il cinema. Il trionfo dell’immagine in movimento sulla parola? Non scordiamoci che siamo in un film di Tarantino, i dialoghi ci devono seviziare almeno quel tanto che basta. Ma al dualismo vita/letteratura proprio del film retrospettivo sulla guerra, che concedeva sempre un malinconico letterata costretto alle armi, è sostituito dal rapporto monco tra cinema e storia che al massimo può dare un cinefilo, ego in scena del regista stesso. Anche se, a dirla tutta, lo spirito goliarda e truculento del videotecaro del Tennesse si nasconde anche nelle risate isteriche di un Hitler cerebroleso alla vista di una video carneficina. Tarantino più o meno consapevolmente consegna ai posteri l’ennesimo capitolo delle nuove Histoire(s) du Cinéma godardiane: monadi impazzite che alla matrix si replicano seguedo alternative, ma che soprattutto vivono di impianti clonati da una matrice originaria. Ovviamente lo scontro è quello tra la cultura classica da manuale di cinema - con i suoi favoriti Fassbinder, Lubitsch, Coppola/Brando (nella mascella serrata al cotone della versione siciliana di Pitt), Ford, Hawks, Pabst - e quella popolare di B-movie e porno. Un nome solo per molti presenti: Aristide Massaccesi, per i più ottusi Joe d’Amato. La declinazione al plurale sta nei livelli di lettura che tutti i film di Tarantino hanno, nella diramazione che il corso della storia prende, ma soprattutto nella riproposizione 120 la sera della prima di un’immagine cristallo uguale e identica a se stessa impiantata dal regista come un cerotto nel luogo della frattura. Un breve scambio di battute tra una sentinella ed il sentimentale Goebbels che viene copiato e incollato dal regista proprio dove la storia cambia il suo corso. I personaggi non sono altro che figurine, che siano nazisti, ebrei o inglesi. Dialoghi ovviamente trasbordanti, ma con la profondità psicologica di una scimmia che gioca con una ruota. Abbiamo il soldatino di piombo re di ogni zerbino, la Lady Vendetta che gioca a fare la borchiata, il boscaiolo crucco. Del resto le loro identità stanno appunto su carte da gioco. Piatte, scambiabili. Come quelle che utilizzano su un tavolo di trattative in cui il doppio gioco fa da minore comune denominatore. Il Vogliamo vivere (1942) di Ernst Lubitsch ancora gestito da una compagnia di buffoni e attori dà un bel calcio nel sedere al Tom Cruise di Operazione Valchiria (Brian Singer, 2008). Moralmente si intende, perché addirittura gli attentati orditi qui sono tre e vanno tutti in porto. Ovviamente l’unico a sapere della concomitanza delle iniziative bombarole è il regista che si diverte a mo’ di Alfred Hitchcock inquadrando i candelotti inerti disseminati in sala. Non il film migliore del Quentin, nonostante l’ultimo sguardo in camera. Tuttavia il pastis lo si mastica volentieri. Macinato: qualcosa rimane sempre tra i denti e si va con le mani per levarlo o con qualche stuzzicadente per fare leva. E lì ovviamente un po’ di sangue ci sta. Luca Colnaghi Ricky - Una storia d'amore e libertà di F rançois O zon (F rancia , 2009) “...Leave no trace of grace just in your honor...” Canta così Cat Power nella sua meravigliosa The Greatest scelta da François Ozon come colonna sonora degli ultimi istanti del suo nuovo film Ricky - Una storia d'amore e libertà (Ricky, 2009), in concorso al 59' Festival di Berlino e da pochi giorni in Italia. Non si può che darle ragione perché, in certo qual modo, Ricky è il più grande. François Ozon è un regista controverso e dalla cinematografia ondivaga per generi e modalità esecutive ma riesce qui ad allontanarsi da ogni possibile categorizzazione o riduzione a schema. Ma in realtà Ozon ha qui un'intenzione ben diversa: rapire lo spettatore e svegliarlo alla fine del film lasciando a lui decifrare quanto mostrato. Nella triste periferia parigina fatta di palazzi grigi, di freddi che si infilano dentro le ossa e di scadenze economiche sempre troppo ravvicinate, Katie, Alexandra Lamy, vive la sua routine quotidiana senza guardarsi attorno ma solamente percorrendo triste la sua strada. Quella che porta dal suo piccolo appartamento alla scuola di sua figlia Lisa, Mélusine Mayance, e da lì fino alla fabbrica dove lavora alla catena di montaggio. Un giorno incontra Paco, Sergi Lòpez, e presto si ritrova incinta di un bambino al quale sarà dato nome Ricky e che ha un dono molto particolare e straordinario. Non precederò oltre nella sinossi perché quanto di più bello c'è in questo film è proprio il non riuscire a collocarsi nel racconto e lo straniamento nei confronti di quanto avviene da questo momento del film in poi. La surreale naturalezza con la quale tutto il mondo continua a girare allo stesso modo dinanzi al portento di Ricky stravolge le aspettative dello spettatore che si attenderebbe, naturalmente, di potersi immedesimare nelle paure, nei sorrisi e nei dubbi dei protagonisti. Essi, invece, vivono il miracolo di Ricky con la “tranquillità” del quotidiano irrorato da una nascita, come avviene in tutte le case nelle quali è accolta una nuova vita. La morbosità della stampa e della gente attorno a loro è la stessa che si riversa in qualsiasi evento raro o insolito e non sfiora minimamente il prodigio e il mistero del piccolo. Ozon dice che ha voluto girare un film su una famiglia e non su un bambino straordinario ed è evidente questo intento. Qui sta la grandezza del film. La progressione narrativa si riempie di segnali, di indizi che lo spettatore coglie ma che non portano a nessuno sviluppo risolutivo dal punto di vista del mistero. Il gas che la donna respira, l'avvicinamento del Natale, il già citato quotidiano triste e grigio fanno da cassa d'altoparlante a quanto si vede. Lo sguardo della piccola Lisa è posto da Ozon sempre dove si fa più forte il vincolo metaforico, la fantasia e il sentimento, quasi a mostrare che lei sola può sentire, capire e difficilmente sopravvivere a tale portata epifanica perchè ancora nel tempo del sogno e delle favole. Come se sapesse già tutto, la sorellastra di Ricky avrà in dote le sue ali d'angelo nella squisita scena conclusiva del film: l'abbraccio di una famiglia ricostituitasi nel momento unico e magico in cui tutto, finalmente, non richiede più spiegazioni. Anche oltre il ricordo della sequenza iniziale così forviante e forte. Molti raccordi temporali sono labili o errati: si fa difficile collocare a posteriori, così lavora qui Ozon, la sequenza iniziale del film e credere alla didascalia che recita “Pochi mesi prima” ma proprio qui devono tornare utili le parole di François Truffaut quando, parlando dei critici cinematografici, diceva che è così facile amare se si smette per un istante di pensare. Proprio qui lo spettatore si rianima, si riprende dal mostrato e assimila quanto visto. Solo grazie all'endemica necessità d'amore e poesia che, comunque, abita questo mondo. E che spesso rende possibile accettare senza porre domande che risulterebbero superflue. Aldo Romanelli la sera della prima 121 a night at the opera Martha, my dear! Riaprono i battenti i Teatri d’Opera e presentano le nuove stagioni. In attesa della Salome di Strauss, il Comunale di Bologna si affida a Facebook. Martha Argerich e i suoi “amici” chiudono il Bologna Festival con un programma tutto incentrato sul duo pianistico Per i teatri italiani, ottobre è il mese della riapertura dei battenti, dopo la lunga (e obbligata) pausa estiva. In attesa del nuovo cartellone, nella stagione delle foglie morte gli ex-Enti Lirici (ora Fondazioni) e i teatri dedicati alla musica sinfonica si affannano a chiudere la precedente stagione e, nel frattempo, a presentare i nuovi programmi. Come al solito, a dare sfoggio di nomi importanti e costose produzioni è il teatro più prestigioso e potente del Belpaese: La Scala di Milano. Claudio Abbado, Pierre Boulez, Myung-WhunChung, James Conlon, Daniel Harding, Daniel Barenboim, sono solo alcuni dei direttori che si alterneranno nel 2010 sul podio del teatro meneghino. L’apertura della fitta Stagione Lirica è affidata alla Carmen di Bizet, con la regia di Emma Dante e la direzione di Barenboim. Premesse interessanti anche per la nuova produzione del Ring wagneriano e la presenza della compagnia catalana Fura Dels Baus. Ma a fare il pienone sarà senza dubbio lo stagionato Placido Domingo, protagonista in aprile del Simon Boccanegra di Verdi per festeggiare i suoi quarant’anni alla Scala. Con Verdi hanno deciso di aprire la nuova stagione d’Opera anche il Massimo di Palermo (Nabucco a Gennaio) e il Regio di Parma (I Lombardi Alla prima Crociata, sempre a Gennaio), mentre l’Opera di Roma e il Regio di Torino, chiuderanno l’anno con l’opera più popolare del compositore di Busseto, Traviata (regia, rispettivamente, di Franco Zeffirelli e Laurent Pelly). Degnissima di nota l’apertura del nuovo Petruzzelli di Bari, il 4 ottobre scorso. La prima opera ad andare in scena sul nuovo palco del teatro pugliese, rinato dopo l’incendio che lo distrusse completamente nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 1991, sarà Turandot di Puccini. In grande stile e fuori dal coro apre, come suo solito, il San Carlo di Napoli, che inaugurerà il 2010 con l’ultima opera “seria” di Mozart, La Clemenza Di Tito, un cast d’eccezione e due nomi che parlano da soli: la coppia Luca Ronconi (regia) e Jeffrey Tate (direzione) non ha bisogno di presentazioni. La Salome di Strauss aprirà, invece, il nuovo cartellone operistico del Comunale di Bologna. Un programma sulla carta più che dignitoso, ricco di nuovi allestimenti e coproduzioni. Al fianco dei soliti titoli “di repertorio” (quest’anno Carmen, Traviata e L’Elisir D’Amore di Donizetti) quest’anno a Bologna ci sarà anche spazio per il musical rock. A quarant’anni dalla prima assoluta (1970) e a due dalla sua versione cinematografica, l’opera pop-rock Orfeo 9 di Tito Schipa Jr (figlio del celebre tenore), ispirata liberamente al mito di Orfeo ed Euridice, sarà presentata in un nuovo allestimento a dicembre del prossimo anno. La Bohème di Giacomo Puccini – Teatro Comunale di Bologna (6 – 18 Ottobre 2009) In attesa delle novità, il teatro bolognese ha riaperto le porte al pubblico con una “vecchia conoscenza”: La Bohème con la regia di Lorenzo Mariani, cui gli spettatori del teatro felsineo avevano avuto già modo di assistere ben due volte, appena due anni fa e nel ’99, quando sul podio c’era ancora Daniele Gatti. Una regia sobria ed essenziale, quella di Mariani, così come la scenografia. Una struttura in ferro fa da perno scenico a tutti e quattro gli atti, ruotando su se stessa in modo da ricreare, di volta in volta, gli ambienti dell’opera. All’inizio e alla fine è l’impalcatura della casa dei bohèmiennes, poi diventa il cafè Momus, infine un ponte nei pressi del locale dove si incontrano Mimì e Rodolfo nel terzo atto. Niente di nuovo, dunque. Una vera e propria “replica”, che assume valore più per l’iniziativa ad essa collegata, che per lo spettacolo in sé. Tramite Facebook, infatti, era possibile acquistare i biglietti a basso prezzo, iscrivendosi al gruppo “Amici del Comunale”. Un tentativo di avvicinamento al giovane pubblico dei social network che non risulta avere precedenti e che ha avuto l’effetto sperato di riempire il teatro di spettatori under 35. Nonostante le polemiche montate lo scorso anno sulla direzione artistica di Tutino, soprattutto in relazione allo spazio dato alla Scuola dell’Opera, sono ancora questi giovani esordienti a vestire i panni dei protagonisti. Ma La Bohème non è La Rondine e il peso della tradizione, unito alla difficoltà esecutiva, è piombato inesorabile sugli interpreti, tra cui si sono salvati solo i pochi capaci di imporsi con una personalità vocale più marcata, senza farsi sovrastare da un’orchestra (diretta da Massimiliano Caldi) non sempre in sintonia con i cantanti. Martha Argerich & Friends – Teatro Manzoni di Bologna (5 Ottobre 2009) Insieme a quella dei teatri, ad ottobre è ripresa anche l’attività del Bologna Festival che aveva conservato per ottobre il pezzo forte del suo programma. Un’edizione incentrata, nella sua parte dedicata agli Interpreti, sui grandi nomi del pianismo inter- nazionale (da Andras Schiff a Radu Lupu e Murray Perahia), si è conclusa nel migliore dei modi con la presenza, sul palco del Teatro Manzoni, di Martha Argerich, la figura più autorevole del pianismo al femminile. L’ancora affascinante sessantottenne non è venuta a Bologna da sola, ma in compagnia di due “amici”: Walter Delahunt e il giovanissimo Gabriele Baldocci (classe 1980), scelti per suonare fianco a fianco con lei in un insolito programma tutto costruito sul duo per pianoforte. La formula del duo viene conservata fino alla fine, alternando spartiti per due pianoforti (tra cui si sono distinte le interpretazioni del Concertino in la minore op. 94 di Shostakovich e della Suite n.1 op.5 diRachmaninov) con più “intime” esecuzioni a quattro mani (la Sonata in Do Maggiore K521 di Mozart; le Danze Unghersi di Brahms). La confidenza e l’abilità con la quale i due “amici” duettano con la pianista argentina gli vale tale appellativo, anche se la loro presenza è sembrata quasi una limitazione al genio della Argerich. Non capita tutti i giorni di avere la possibilità di ascoltare il suo pianismo fluido e le sue grandi interpretazioni. Forse è per questo che molti avrebbero sperato di poter ascoltare qualche sua esecuzione solistica. Almeno un bis. E invece niente. Martha non abbandona mai gli “amici”, neanche quando è richiamata più volte dagli applausi finali del pubblico. Sarà per un’altra volta. Speriamo. Daniele Follero Martha argerich a night at the opera / 123 i cosiddetti contemporanei Hans Werner Henze Un comunista neoclassico d’avanguardia Nella sua lunga carriera di compositore, Henze ha solo sfiorato le avanguardie preferendo un atteggiamento eclettico che lo ha portato dal neoclassicismo all’attivismo politico. «[il mio è] un temperamento "contrappuntistico" tipicamente tedesco del nord proiettato nell'"arioso" sud» (H.W. Henze) Non deve essere stato facile, per il popolo tedesco, immaginare la vita dopo il crollo del regime nazista e la seconda, pesante sconfitta in guerra nel giro di appena ventisei anni. Le ferite della crisi degli anni ’20 non si erano ancora rimarginate che già sanguinavano di nuovo. Insieme alle coscienze. L’orrore della guerra e dell’olocausto lasciavano nei tedeschi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, un rimorso e un senso di colpa impossibili da lasciarsi alle spalle. La voglia di cancellare il passato si riflesse in un atteggiamento radicale, che non ammetteva legami di continuità con la recente storia della Germania. In campo culturale, la politica censoria e autocratica del Terzo Reich, in maniera molto più intensa e restrittiva rispetto ai “cugini” fascisti, aveva praticamente tagliato i ponti con l’Europa, causando un prolungato isolamento, difficile da colmare. Un motivo in più ad accendere nelle nuove generazioni di artisti e intellettuali tedeschi un senso di rivalsa verso le ingiustizie della Storia. Un’ impresa resa più ardua dalla mancanza di punti di riferimento, dopo l’emigrazione in massa di buona parte degli artisti e intellettuali tedeschi che avevano pensato bene di rifarsi una vita altrove. Ricominciare da zero era impossibile. Un salto nel vuoto non avrebbe risolto i problemi. E allora il primo passo fu quello di ristabilire i legami con la cultura europea spezzati dal nazionalsocialismo. Ripescando nell’eredità lasciata da Schoenberg e i suoi due allievi Berg e Webern, la giovane genera- 124 contemporanei zione di compositori nati attorno alla metà degli anni ’20, vide nella musica essenziale e sintetica di quest’ultimo il punto di partenza ideale. Le strutture ridotte all’osso, il senso di spazialità ricercato nel suono, l’annullamento del discorso musicale e del concetto stesso di melodia, apparvero ai giovani musicisti riuniti ai Ferienkursen di Darmstadt, segni di una purezza incontaminata.Il modo migliore per fare tabula rasa. Un atteggiamento radicale non ammette compromessi, avendo il fine di rivoluzionare completamente la situazione preesistente. O con noi o contro di noi. Il motto del serialismo radicale escludeva ogni legame con il passato, fino a trasformarsi in ideologia. A pagarne le spese, furono quei musicisti che, pur avendo rigettato il nazismo, credevano ancora nella potenza comunicativa della musica e non guardavano di buon occhio l’isolamento in cui si stava rintanando lo strutturalismo di Stockhausen e Boulez. Una delle vittime illustri dell’ostracismo di Darmstadt, prima ancora che John Cage arrivasse a sconvolgere i presupposti stessi della Nuova Musica, fu Hans Werner Henze. Il suo peccato era stato quello di “contaminare” la musica “pura” con scelte eclettiche e neo-classiche. In poche parole: un conservatore reazionario. Lungi dall’”uccidere” Schoenberg, come proclamò in un suo celebre articolo del 1952 Pierre Boulez (“Schoenberg è morto”, pubblicato sulla rivista “The Score”), è proprio il compositore del Pierrot Lunaire che Henze prende come punto di riferimento. Se per Boulez e Stockhausen liberarsi di Schoenberg vuol dire staccare definitivamente il cordone ombelicale con la tradizione, per Wolfgang Fortner e il suo allievo Henze, invece, ricucire è più importante che tagliare. In quest’ottica, il serialismo diventa nient’altro che un metodo compositivo a disposizione del compositore, che lo utilizza per i suoi fini espressivi. Un punto di partenza, dunque, più che un fine. D alla G ioventù H itleriana al P.C.I. passando per la C uba del “C he ” Nato nel ’26 a Gütersloh, un paesino della Westfalia, Hans Werner Henze è costretto a subire, da adolescente, le convinzioni naziste del padre. Non potè evitare di iscriversi alla Gioventù Hitleriana (chissà se lì ha avuto modo di conoscere un certo Joseph Ratzinger), ma non manifestò mai piena adesione volontaria al regime. Anche perché non ne ebbe tempo. Aveva appena diciotto anni quando fu fatto prigioniero di guerra dagli inglesi, poco prima della resa dei tedeschi. La guerra finì, ma Henze, musicista ancora in erba, non arrivò a subire la demonizzazione di cui furono preda colleghi più noti come Furtwaengler e Strauss, accusati di collaborazionismo solo per non aver abbandonato la Germania durante il regime. Ruoli scomodi, contraddittori, che non condizionarono, invece, la generazione successiva. Ironia della sorte, la carriera di compositore di Hen- ze cominciò proprio a Darmstadt, culla dell’anticonformismo musicale tedesco. Dopo gli studi giovanili, infatti, il giovane Hans venne attirato dall’avanguardismo dei Ferienkursen e dall’approccio innovatore che li contraddistingueva. Sono di questo periodo il primo Concerto Per Violino e la prima Sinfonia (1947), in cui la tecnica dodecafonica è alla base della composizione. Così come nel caso del “poema coreografico” Ballett-Variationen, primo approccio ad un genere, il balletto appunto, che in seguito, insieme alla musica vocale, rappresenterà uno dei maggiori interessi del compositore tedesco. Il connubio con la “scuola” di Darmstadt durò poco. Spostata la sua attenzione verso il balletto, l’opera e, più in generale, la musica vocale, Henze inaugurò con Das Wundertheater, il suo felice rapporto con la letteratura e il melodramma, dando vita ad importanti collaborazioni con scrittori del calibro di Auden e Bachmann. Un rapporto che lo condusse direttamente all’opera, genere in cui meglio si identificò il suo stile eclettico, curioso incrocio tra la dodecafonia, Stravinskij e il jazz. La prova di questo approccio a 360° è Boulevard Solitude, una rivisitazione in chiave moderna della storia di Manon Lescaut, che non rinuncia a vere e proprie citazioni dall’opera di Puccini. Una precisa dichiarazione di allontanamento dalle avanguardie e contemporanei 125 Henze con bachmann di avvicinamento ad un linguaggio più marcatamente neo-classico. Come culla della sua “svolta”, Henze scelse l’Italia del sud, ricca di sole e cultura e meno omofoba (a quei tempi) della Germania, stabilendosi prima a Marino, un piccolo paesino del Lazio, poi ad Ischia e Napoli. L’amore per la melodia e la musicalità tipicamente mediterrane della Campania si insinuano nel suo stile, caricandolo di sonorità vive e sensuali. L’Opera Koening Hirsh, le Cinque Canzoni Napoletane (scritte per il famoso baritono Dietrich Fischer-Dieskau), il balletto Maratona di Danza (su libretto di Luchino Visconti) testimoniano questo nuovo approccio. O meglio, questa nuova vita. La scelta dell’Italia non è solo musicale, ma anche politica. Arrivato nella penisola, Henze si iscrisse al P.C.I., cominciando una militanza che lo ha accompagnato fino ad oggi. E che lo ha portato ad attraversare le contraddizioni del movimento e la crisi del socialismo reale, ad amare la Cuba rivoluzionaria per poi criticare il regime di Castro. 126 contemporanei Tra S alisburgo M ontepulciano e Gli anni ’60 rappresentano la fase più militante di Henze ed anche un periodo particolarmente prolifico. I numerosi viaggi (Austria, Germania, Cuba, il ritorno a Roma) gli incarichi importanti (è insegnante di composizione al Mozarteum di Salisburgo e “visiting Professor” al Darthmouth College del New Hampshire) e l’interesse per il cinema e la musica da film, contribuirono ad accrescere la sua fama di personaggio multiforme, capace di far convivere nel suo stile il classicismo, i nuovi media, l’avanguardia e il pensiero politico. Summa di questa commistione di interessi sarà Die Bassariden (1967), in cui la scelta di costruire l’opera come una sinfonia in quattro movimenti appare, più che un semplice omaggio al Wozzeck di Berg, un’adesione ai princìpi compositivi del più “classicista” tra gli allievi di Schoenberg. Ma è il suo attivismo politico a condizionare maggiormente le opere di questo periodo, segnato dalla celebre Prima di Das Floss Der Medusa ad Amburgo. Alla presentazione dell’oratorio “volgare e militare” dedicato a Ernesto Guevara, fece abbastanza scandalo l’idea di suonare dietro il ritratto del “Che”, provocando il rifiuto di alcuni collaboratori di partecipare all’esecuzione. Così come stupirono le sue Prison Songs, basate su poesie di Ho Chi Min, soprattutto se accostate ad opere molto più sobrie come il ciclo di pezzi per chitarra Royal Winter Music, ispirate ai personaggi del teatro shakespeariano. Un dualismo, quello tra un approccio decisamente neoclassico (giudicato a quei tempi conservatore) e il sostegno convinto ad una musica veramente popolare, di matrice decisamente progressista. Una contraddizione volutamente mai risolta, che lo rende un personaggio particolarissimo, l’unico a poter essere paragonato contemporaneamente a Kurt Weill, Hans Eisler, Igor Stravinskij e Alban Berg. Raggiunto il culmine del suo attivismo con l’opera We Come To The River, seguita ad una serie di lavori molto influenzati dal socialismo cubano (El Cimarròn, pièce per voce recitante e orchestra basata su un libro dell’autore cubano Miguel Barnet; la Sinfonia n.6; il Secondo Concerto per Violino), Henze si trasfersce a Montepulciano, in provincia di Siena, dove fonda il Cantiere Internazionale d’Arte, dedicato alla produzione della nuova musica. è qui che viene presentata nel 1980 la sua opera per bambini Pollicino, divenuta col tempo celebre quanto Pierino e il Lupo di Prokofiev. L’istituzionalizzazione del personaggio, avviene proprio in questi anni. Compositore ormai anziano ed esperto, Henze si abbandona ad un lirismo più spiccato e ad uno stile più convenzionale con The English Cat (1983) e Das Verratene Meer (1990), senza tuttavia abbandonare l’impegno politico. La Nona Sinfonia “dedicata agli eroi e ai martiri dell’antifascismo tedesco” (1997) è l'esempio più chiaro e convincente di un antifascismo convinto e ancora duro a morire. E anche il marchio di uno dei compositori più prolifici del Novecento, che non accenna a fermarsi, a dispetto dei suoi ottantatrè anni. Con lui l’opera sembra non essere mai morta. Phaedra, la sua ultima fatica operistica è di appena due anni fa (2007). Ma nessuno crede sia l’ultima, almeno nelle intenzioni del compositore. La risposta di Henze al periodo di riflusso politico che hanno vissuto e che vivono tutt’ora i movimenti progressisti è stato il rifugio in una realtà piccola. Una scelta simile al suo più giovane collega Salvatore Sciarrino, scappato dal caos della città per rifugiarsi nella tranquillità della provincia senese. Sono vicini da molti anni, ormai. Uno, Henze, vive a Montepulciano, dove da anni porta avanti i suoi progetti musicali; l’altro, Sciarrino, personalità molto diversa, ha preferito chiudersi nella meravigliosa solitudine di Pienza. Chissà cosa si dicono quando parlano di musica davanti ad una bistecca al sangue o ad un piatto di pici all’aglio. Ammesso che non siano vegetariani. Per il vino c’è l’imbarazzo della scelta. Daniele Follero T he E ssential H ans Werner H enze • Kammerkonzert per pianoforte, flauto e orchestra d'archi (1946) • Sinfonia n. 1 (1947, rev. 1963 e 1991) • Das Wundertheater (1948) • Ballett-Variationen (1949) • Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (1950) • Boulevard Solitude (1951) • König Hirsch (1952–1955) testo di Heinz von Cramer • Undine (1956–1957) • Ode an den Westwind per violoncello e orchestra (1953) • Die Bassariden (1965) • Das Floss der Medusa, oratorio "alla memoria di Che Guevara" per solisti, recitante, coro e orchestra (1968) • Sinfonia n. 6 per due orchestre da camera (1969, rev. 1994) • Tristan per pianoforte, orchestra e nastro magnetico (1972–1973) • We Come To The River (1974–1976) • Pollicino (1980, opera per bambini) • Requiem, "Geistliche Konzerte" per pianoforte, tromba e orchestra (1990–1992) • Sinfonia n. 9 per coro e orchestra, da un racconto di Anna Seghers (1995-1997) • Concerto n. 3 per violino e orchestra "Drei Porträts aus Thomas Manns Doktor Faustus" (1996) • L'Upupa (2003) • Phaedra (2006-2007) contemporanei 127 www.sentireascoltare.com