Bernini: Apollo e Dafne

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Bernini: Apollo e Dafne
mercoledì, 08 aprile 2015
di Luca Napolitani
Un’opera riprodotta davvero ovunque; un condensato di
tecnica, espressività, fantasia e cuore. Tutto ciò la rende
l’icona di un’epoca e di un gusto che ha trasferito l’attenzione
dell’umanità verso un rapporto più “vero” con la realtà.
Gian Lorenzo Bernini è uno degli scultori più ammirati e
richiesti durante il XVII secolo, e oggi resta uno dei massimi
esponenti del barocco.
Figlio dello scultore Pietro Bernini, la fortuna di Gian Lorenzo
arriva nel 1605: il padre si trasferisce a Roma con la famiglia,
ottenendo la protezione del cardinale Scipione CaffarelliBorghese.
Apollo e Dafne costituisce
un
perfetto
esempio
dell’evoluzione della scultura, e rivela come già in
giovanissima età il talento di Gian Lorenzo poggiasse su basi
solide e di grande esempio per gli artisti futuri.
Bernini vive nella Roma dei Carracci e di Caravaggio, una città
nella quale convergono differenti tendenze figurative, che si
nutrono ora di forti richiami accademici e rinascimentali ora di
uno spiccato naturalismo, e ciò giustifica l’inenarrabile
ecletticità di questo artista che ha mostrato inclinazioni
considerevoli anche in pittura e architettura.
In seguito ad una fase di irreprensibile rispetto verso la
scultura ellenistica, Bernini conosce anni intensi e fortunati
tra il 1621 e il 1625: Scipione Borghese lo convoca,
commissionandogli quattro gruppi marmorei di soggetto
mitologico e biblico.
Tra questi quattro gruppi, spicca in modo quasi “aggressivo”
l’Apollo e Dafne<7i>, di grande interesse per la resa dei
dettagli e per la novità del modo in cui Bernini si destreggia
nei confronti di una tematica (quella mitologica o sacra) che
l’arte accademica collocava al massimo grado della sua
gerarchia.
Di sicuro, gli animi più romantici e sognatori vedranno riunite
nel vortice di questa scultura tutte le passioni contrastanti
che possono trasparire da un cuore davvero innamorato:
Apollo, osserva incredulo la bellissima Dafne che terrorizzata
si trasforma in una pianta di alloro; la stessa pianta che sarà
sacra al dio. Per sempre.
Le Metamorfosi di Ovidio sono la fonte di questa maestosa scultura, nella quale si fondono in equilibrio tragedia e
speranza; una fonte aulica che Bernini propone in una chiave del tutto nuova: nonostante le pose classicheggianti
delle figure, vi sono evidenti influenze caravaggesche nella volontà di rappresentare il momento culminante di
massima tensione emotiva, né un minuto prima né un minuto dopo, e una marcata potenza nei gesti che tradisce uno
spirito di matrice del tutta seicentesca.
Di fortissimo effetto è la resa dei volti dei protagonisti della scena: ben lontani dall’impassibilità che ci si
aspetterebbe da delle divinità, Bernini opera in un modo tale che pare quasi “umanizzare” queste personalità celesti,
svelandone tutte le loro debolezze.
L’espressione stupita di Apollo, accentuata dalla mano destra aperta, si accompagna a quella terrorizzata di Dafne,
amplificata da un urlo che ricorda molto Lo scudo con testa di Medusa già dipinto da Caravaggio.
Ciò che contraddistingue maggiormente l’Apollo e
Dafne è il dinamismo violento dal quale lo spettatore
viene travolto: un vortice accentuato dalla figura di
Dafne che sta vivendo il momento della sua
trasformazione, come dimostrano i capelli e le mani
che stanno pian piano prendendo la forma di piccole
foglie di alloro, tramite le quali emerge tutta
l’impeccabile virtuosità di Bernini anche nella resa
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delle materie; l’impianto del gruppo scultoreo invade
lo spazio, come se Apollo e Dafne avessero intenzione
di volare via e distaccarsi dal basamento sul quale
poggiano.
Un momento scenografico, di un impatto straordinario,
che relega ad un ruolo secondario l’allegoria di cui
questa scultura è portatrice: al di là del contenuto
romantico , quest’opera nasconde dietro di sé
molteplici significati che permettono la sua lettura in
una chiave maggiormente cristiana, data la natura del
committente.
Un’iscrizione che avrebbe dovuto accompagnare la
scultura recita: Chi, amando, insegue le gioie della
bellezza fugace riempie la mano di fronde e coglie
bacche amare.
Un invito o meglio un ammonimento di un imponente
peso moraleggiante che non risparmia nessuno, di
fronte al quale molti di noi, oggi, storcerebbero il
naso; ma affiancata a questa interpretazione troviamo
un’ulteriore allusione che il punto di vista cristiano
intende come difesa della virtù della donna, il cui fine
è fuggire ad ogni costo dalle trappole e seduzioni del
piacere.
E’davvero curioso notare come una scultura che attira
in sé una certa aura di modernità fosse portatrice di
valori molto tradizionali e conservatori, che Scipione
Borghese era talmente impegnato a diffondere che si
dimenticava di rispettare …
Tuttavia, esulando dalle contraddizioni della storia, si
può riconoscere che noi umani un comune obbiettivo
lo abbiamo: difendere la nostra felicità.
Ma le sfaccettature di quest’ultima sono sconfinate
quasi quanto l’universo, e se qualcuno ci rincorre, tentando di capirci, siamo portati spesso a difendere la
nostra integrità, a chiuderci nella nostra corteccia e volare via.
Fortunatamente, anche se il nostro carattere non ci consente di cambiare e di fidarci con facilità, la
speranza ci sussurra che non sempre l’altro vuole renderci vittima e che ci sarà sempre qualcuno che
raccoglierà i resti delle nostre foglie di alloro per mantenere in vita ciò che resta di noi nelle circostanze più
infelici.
Scheda tecnica:
Autore: Gian Lorenzo Bernini
Data: 1622- 1625
Materiale: marmo
Altezza: 243 cm
Ubicazione: Roma, Galleria Borghese
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