1 AREA CIVILE LEZIONE I LA RESPONSABILITÀ

AREA CIVILE
LEZIONE I
LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE
In questa prima lezione del corso on line viene delineato il modello generale di responsabilità
di cui all’art. 2043, individuando i requisiti costitutivi della responsabilità aquiliana nonché i
criteri di imputazione alternativi nelle ipotesi di responsabilità speciale codicistiche .
I
L’ILLECITO CIVILE: FONDAMENTO E STRUTTURA
1. Fondamento e funzione - 2. Criteri di imputazione della responsabilità tra unità e pluralità - 3. I
c.d.punitive damages. 4.Gli elementi strutturali: a)Il fatto; b)L‟imputabilità e la colpevolezza c)Il danno
ingiusto (rinvio); d) Il nesso di causalità: causalità materiale e giuridica. Danno-evento e danno conseguenza. Le concause.
II
LE RESPONSABILITÀ SPECIALI “TIPIZZATE”:FIGURE CODICISTICHE
1. La responsabilità dei genitori. 2. La responsabilità degli insegnanti (autolesioni). 3. La responsabilità
dei padroni e committenti. 4. La responsabilità da attività pericolosa. 4.1. Danni da fumo attivo. 4.2. La
responsabilità del gestore di impianti sciistici. 4.3. La responsabilità della P.A. da sangue infetto. 5. La
responsabilità per danno cagionato da cose in custodia. 5.1 L‟art. 2051 e la responsabilità della P.A. da
omessa custodia dei propri beni. 5.2. L‟art. 2051 e il condominio. 6. La responsabilità per danno
cagionato da animali. 7. Rovina di edificio. 8. La responsabilità da circolazione stradale. 8.1. La
responsabilità del proprietario e del costruttore.
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I
L’ILLECITO CIVILE - FONDAMENTO E STRUTTURA
1.Fondamento e funzione.
Tra le fonti di obbligazione enumerate dall‟art. 1173 c.c. il fatto illecito assume un‟importanza
particolare in considerazione della frequenza che ha nella realtà sociale. Diversamente da ciò che
avviene nelle ipotesi c.d. di responsabilità contrattuale l‟obbligazione risarcitoria non nasce in tal caso
dalla violazione di una preesistente relazione giuridicamente vincolante o quanto meno da un contatto
sociale qualificato, bensì dall‟interferenza illecita in una sfera giuridica per così dire estranea, che il
danneggiante è tenuto genericamente a rispettare.
La funzione ed il fondamento attuale della responsabilità extracontrattuale risulta notevolmente mutato
nel tempo attraverso un lungo percorso evolutivo, che ha condotto storicamente al superamento della
concezione tradizionale della responsabilità civile, di matrice romanistica, che ne ha esaltava la
funzione sanzionatoria, per cuialla violazione di un (preesistente) precetto, assistita da volontà
colpevole, doveva conseguire una sanzione nei confronti del trasgressore.
Il richiamo al dolo e alla colpa operato dal legislatore del 1942 all‟art 2043 c.c. indusse la maggior parte
degli interpreti a considerare la responsabilità civile come un’applicazione del principio
romanistico del neminem laedere, formula omnicomprensiva indicante la necessità di reazione
dell‟ordinamento contro la violazione colpevole, da parte del reo, di uno dei doveri posti a carico di
tutti consociati a protezione dei diritti soggettivi assoluti patrimoniali (poiché il danno non patrimoniale,
ex art. 2059 c.c., veniva ritenuto dal legislatore come risarcibile nei soli casi previsti dalla legge).
È evidente nella ricostruzione precedente l’influsso del diritto penale sulla c.d. concezione
sanzionatoria della responsabilità civile. La responsabilità aquiliana è considerata principalmente un
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rimedio contro la violazione dei diritti altrui da parte di chi si sia deliberatamente o colpevolmente
determinato a danneggiarli, in un‟applicazione della tradizionale massima nulla poena sine culpa.
Ben presto però questo inquadramento rivelò tutta la sua inadeguatezza di fronte a complesse
trasformazioni sociali.
In effetti dal 1942 alla metà degli anni „60 la società italiana subisce uno stravolgimento totale: da
un‟economia di tipo rurale - al cui interno effettivamente una condotta diligente è in grado di escludere
il prodursi di danni alla sfera dei terzi - si passa ad una società industriale, nella quale si moltiplicano
occasioni di danni che sfuggono al controllo dei produttori e divengono, di conseguenza, imprevedibili.
Le occasioni di danno si moltiplicano. Il criterio della colpa si rivela decisamente insufficiente a
ricomprendere questi pericoli ed a garantire la collettività.
Negli anni settanta dello scorso secolo, si afferma così la c.d. teoria economica del diritto: in
una dimensione essenzialmente “vittimologica” il risarcimento funge da indennizzo per colui
che ha ricevuto un danno (la vittima appunto). La responsabilità civile costituisce, quanto meno
nei casi di responsabilità di impresa, un meccanismo di traslazione economica dei rischi derivati da
determinate attività, fondato su precise regole di politica del diritto.
Tale tesi segna il tramonto del dogma della colpevolezza, che cede il passo all‟affermarsi di criteri
alternativi di imputazione delle conseguenze del fatto dannoso, idonei pertanto (anche) a perseguire
finalità redistributive dei vantaggi derivati da attività economiche potenzialmente dannose.
L’illecito civile perde il carattere di sanzione per il trasgressore. Non è più considerata una norma
secondaria, destinata ad operare solo nel caso in cui sia stato violato un preesistente precetto (cd.
primario) attraverso il compimento di un‟attività determinata dalla propria volontà colpevole (fatto
ingiusto o contra jus), incentrata sul danneggiante e sul suo atteggiamento doloso o colposo, volto alla
lesione di un diritto suscettibile di tutela erga omnes. Lo stesso art. 2043 c.c. assurge a norma primaria,
recuperandone la funzione riparatoria-ripristinatoria, in cui il risarcimento assolve il compito
fondamentale di ristorare il danneggiato dalla lesione subita.
L‟abbandono della concezione sanzionatoria è dipesa in gran parte dalla evoluzione
giurisprudenziale della nozione di “danno ingiusto”, causato non più solo dalla lesione di diritti
soggettivi (prima solo assoluti e poi anche di credito), ma anche di aspettative e posizioni di fatto o
interessi legittimi; apertura che ha segnato l‟avvento di una nuova concezione volta appunto a
riconoscere all‟art. 2043 c.c. una funzione precettiva (v.CHINÈ-FRATINI-ZOPPINI, Manualedi diritto civile,
VI Ed., Roma 2015, p.2070 ss.).
2. Criterio di imputazione della responsabilità tra unità e pluralità.
Da tutto quanto precede, appare abbastanza evidente come nella sostanza il principio generale del
“fatto doloso o colposo”, previsto dall‟art. 2043 c.c., per l‟imputazione del danno ingiusto a chi debba
essere chiamato a risponderne, abbia visto nella stessa sistematica del Codice civile del 1942 il proprio
superamento ad opera di una serie di disposizioni che, di fatto, determinano l’inversione del rapporto
regola-eccezione tra la fattispecie ex art. 2043 c.c. e le altre contenute nel Titolo IX del Libro
IV del Codice.
Il passaggio dalla concezione soggettivo-sanzionatoria dell‟illecito a quella oggettivo-riparatoria,
incentrata sul danno e non più sul fatto ingiusto, non poteva non favorire un concetto di responsabilità
civile in termini meno condizionati da oltre 20 secoli di elaborazioni legate a modelli di società non
industriale. Le nuove istanze sociali meno legate alla tutela dei diritti assoluti di proprietà e della
personalità porta all‟affermarsi di criteri di imputazione della responsabilità aquiliana diversi da quello
tradizionale della colpevolezza, con il conseguente superamento della tradizionale funzione
sanzionatoria-preventiva dell‟art. 2043 c.c. La ricerca di ulteriori e diversi criteri di imputazione
rispondono alla nuova funzione riparatorio-compensativa del risarcimento danni.
I nuovi criteri sono essenzialmente legati all’evoluzione in senso industriale della società tanto
da essere indissolubilmente legati al rischio-profitto, al rischio creato, all‟esposizione a pericolo, al
rischio d‟impresa, pur non potendo riconoscere ad essi valenza assoluta tanto da configurare un unico
criterio alternativo a quello della responsabilità aquiliana per fatto proprio colpevole.
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Le susseguenti fattispecie codicistiche e quelle reperibili nelle leggi speciali hanno evidenziato
chela clausola generale dell’art. 2043 c.c., sin da subito, sia stata accompagnata da una
pluralità di criteri di imputazione del fatto dannoso al responsabile.
Il Codice del ‟42 contempla sia ipotesi di c.d. responsabilità indiretta che di responsabilità oggettiva.
Tra le ipotesi di c.d. “responsabilità indiretta” sono in genere collocate quelle disciplinate dagli artt.
2048-2049 c.c. (cui si accompagnano, non senza ipotesi discordanti, i casi previsti dagli artt. 2047, 2053
e 2054, 3° comma, c.c. con riferimento alla figura del proprietario, dell‟usufruttuario ovvero
dell‟acquirente con patto di riservato dominio ). Tali disposizioni individuano quella che è stata definita
la “responsabilità indiretta” o “responsabilità per fatto altrui” , in quanto non legata ad un fatto
colpevole da parte del soggetto tenuto a risarcire il danno ingiusto, ma al particolare rapporto che lega
chi materialmente abbia causato il danno stesso a chi poi sia chiamato a risarcirne, per l‟appunto, gli
esiti.
In tali casi, è stato osservato, viene in rilievo un‟obbligazione di garanzia, variamente accompagnata a
fatti colpevoli ma anche, come nel caso del fatto compiuto dall‟incapace ex artt. 2046-2047 c.c., a fatti
esenti da una valutazione di antigiuridicità in quanto scriminati dall‟incapacità di colui che
materialmente li pone in essere, ed anche a fatti c.d. “anonimi”, ossia posti in essere da soggetti non
identificati ma dei quali sia possibile provare, ad esempio, il rapporto con il soggetto tenuto al
risarcimento (ad esempio, il proprietario dell‟auto ex art. 2054 3° comma c.c., ovvero il padrone o il
committente nel caso dell‟art. 2049 c.c. ).
In passato si è tentato di ricondurre tali ipotesi ad una responsabilità per colpa, sub specie di culpa in
vigilando ovvero di culpa in eligendo, evidenziando in realtà il tentativo - soprattutto giurisprudenziale - di
riportare la fattispecie nell‟ambito dello schema generale dell‟art 2043 c.c..
Tuttavia, considerato il peculiare onus probandi che connota tale ipotesi, non è sembrato errato
qualificare la fattispecie in termini di responsabilità presunta. È pur vero che anche a voler offrire una
lettura in termini di colpa delle ipotesi in questione, tale elemento soggettivo si atteggia in modo molto
diverso dalla colpa di cui all‟art. 2043 c.c.: avremmo una colpa avverso la quale non è possibile (né
richiesto) offrire la prova contraria. Si comprende bene come questa colpa sarebbe un mero concetto
giuridico, ma sostanzialmente non assurgerebbe ad alcuna funzione pratica quale criterio di imputabilità
della responsabilità del danneggiante.
Una considerazione emerge da quanto dianzi esposto: le eccezioni alla regola (dell‟art. 2043 c.c.) sono
tali e tante che, nella pratica, il rapporto fra regola ed eccezione appare capovolto. Sembra che l‟area
della responsabilità oggettiva sia più vasta di quella della responsabilità per dolo o colpa.
In altri termini, dolo e colpa divengono criteri di valutazione della responsabilità in un certo qual
modo residuali, atteso che si applicano ogni qualvolta l’interprete, pur accertandoun’evenienza
dannosa prodotta da un soggetto nella sfera di un terzo, nonrinvenga in essa i presupposti
indicati dalle norme che seguono l’art. 2043 c.c.
A parte le ipotesi di responsabilità oggettiva previste dalle leggi speciali, in ambito codicistico
devono segnalarsi quelle relative all‟esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.), al danno da cosa in
custodia o animali (artt. 2051-2052 c.c.) ed alla responsabilità per danno nella circolazione dei veicoli
(art. 2054 c.c.), che saranno oggetto di indagine nella seconda parte della presente lezione.
3. I c.d. punitive damnages.
Sotto il profilo funzionaleparte della dottrina rileva l‟ammissibilità di una ulteriore funzione dell‟illecito
civile, individuata nella funzione “punitiva”, analogamente a quanto accade nei sistemi di common
law.
A fondamento di tale tesi si adduce l‟interpretazione delle disposizioni contenute in alcune norme
speciali quali l‟art. 18 della legge n. 349/1986, oggi abrogato dal d.lgs. n. 152/2006, in materia di danno
ambientale, l‟art. 125 del d.lgs n. 30/2005 in tema di proprietà industriale, l‟art. 12 della legge sulla
stampa ed anche talune norme codicistiche, quali l‟art. 1148 c.c., che disciplina il regime della titolarità
dei frutti da parte del possessore di buona fede, l‟art. 1382 c.c., sugli effetti della clausola penale, cui si
aggiungerebbe l‟art. 96 del c.p.c. per la responsabilità aggravata da c.d. “lite temeraria”.
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Tali norme, a cui si unisce per identità di ratio anche il risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c.,
delineerebbero un “mini-sistema” nell‟ambito del quale il risarcimento dovuto viene parametrato in
base a criteri più ampi (se non diversi) da quelli indicati dal combinato disposto dagli artt. 2056, 1223,
1226 e 1227 c.c., e più orientati in senso sanzionatorio nei confronti del responsabile.
In realtà la possibilità di ammettere i c.d. punitive damages nel nostro ordinamento è molto dibattuta in
dottrina, anche tenuto conto delle considerazioni dianzi esposte.
I danni punitivi, come noto, sono estranei alle tradizioni dei paesi di civil law, e costituiscono un
elemento di difformità rispetto alle esperienze di common law. Vi è in effetti una certa riluttanza
nell‟ammettere forme di risarcimento finalizzate ad un obiettivo diverso dalla riparazione del danno
effettivamente subito e provato. Molteplici sono le ragioni individuabili a fondamento di una siffatta
chiusura.
In primo luogo, si ritiene che la funzione punitiva sia appannaggio esclusivo del diritto penale, anche
perché il processo penale è l‟unico che garantisce una determinata tutela, anche in considerazione di un
rischio di commistione tra funzioni proprie del diritto penale e del diritto civile.
La motivazione principale che osta all‟ingresso dei danni punitivi è però quella della violazione del
principio di integrale riparazione del danno, in virtù del quale il danno patito e provato dal danneggiato
funge da tetto massimo all‟entità del risarcimento.
Nonostante l‟asserita sussistenza di istituti qualificati in termini di pena privata e la circostanza che la
prospettiva comparatistica abbia sempre affascinato parte della dottrina italiana, le corti italiane hanno
sempre rilevato un atteggiamento di netta chiusura nei confronti di tale figura.
La Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi già alcuni anni addietro in merito alla
delibazione in Italia di sentenze di condanna al pagamento dei cosiddetti “danni punitivi”
previsti dall’ordinamento statunitense, ritenendo tale condanna non conforme al diritto interno
e quindi non ammissibile, come si legge nella sentenza del 19 gennaio 2007, n. 1183, sia sulla base
della valutazione in termini “...di eccessività o sproporzionatezza della somma liquidata in sé, attesi i
criteri generalmente seguiti dai giudici italiani”, sia “in relazione a quanto già di considerevole
conseguito dalla madre allo stesso titolo dalla conducente dell‟autovettura con la quale era andato a
scontrarsi la motocicletta del figlio, dalla società produttrice del casco e da altri soggetti pure convenuti
in giudizio”.
La Corte ha chiarito che “clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva. Essa assolve
la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria,
tant'è che se l'ammontare fissato venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del
giudice, un abuso o sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio
contrattuale, può essere equamente ridotta. Quindi, se la somma prevista a titolo di penale è dovuta
indipendentemente dalla prova del danno subito e da una rigida correlazione con la sua entità, è in ogni
caso da escludere che la clausola di cui all'art. 1382 c.c. possa essere ricondotta all'istituto dei punitive
damages proprio del diritto nordamericano, istituto che non solo si collega, appunto per la sua funzione,
alla condotta dell'autore dell'illecito e non al tipo di lesione del danneggiato, ma si caratterizza per
un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato e il danno effettivamente subito.
Del pari errata è da ritenere qualsiasi identificazione o anche solo parziale equiparazione del
risarcimento del danno morale con l'istituto dei danni punitivi. Il danno morale corrisponde ad una
lesione subita dal danneggiato e ad essa è ragguagliato l'ammontare del risarcimento. Nell'ipotesi del
danno morale, infatti, l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità
perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive damages, come si è
visto, non c'è alcuna corrispondenza tra l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito.
Nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno,
così come è indifferente la condotta del danneggiante.
Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto
che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le
conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o
morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non
solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma
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occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito, mediante l'allegazione di
concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi "in
re ipsa" (Cass. n. 10024/1997, n. 12767/1998, n. 1633/2000)”.
Più di recente la Cassazione, con la sentenza 8 febbraio 2012, n. 1781 (in Corriere giur., 2012, fasc. 8-9,
p. 1068 e ss.), allegata in dispensa, si è pronunciata nuovamente sulla questione della riconoscibilità di
una sentenza straniera con cui venga concesso un risarcimento notevolmente superiore a quanto
richiesto dalla parte attrice, ribadendo che nel nostro ordinamento il risarcimento del danno deve
essere riconosciuto in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso.
La vicenda de qua traeva origine da un‟azione di risarcimento intentata da un lavoratore negli Stati Uniti
relativamente ai danni subiti in relazione ad un infortunio sul lavoro. La Corte Suprema del
Massachussets aveva condannato le società convenute (italiane) a corrispondere ciascuna al lavoratore
l‟importo di cinque milioni di dollari (elevati, poi, a otto, a fronte degli interessi maturati), nonostante la
richiesta dell‟attore non superasse i trecentocinquantamila dollari.
L‟attore, a questo punto, adiva la Corte d‟Appello di Torino per chiedere che le pronunce fossero
riconosciute e dichiarate efficaci in Italia.
La Corte d‟Appello, dichiarava efficace in Italia una sola delle summenzionate pronunce, ritenendo che
non sussistessero ragioni ostative per il riconoscimento della sentenza Statunitense.
Di diverso avviso la Cassazione che, con la sentenza in esame, ha cassato la pronuncia della Corte
Sabauda, ritenendo che la sentenza de qua non potesse essere riconosciuta nel nostro
ordinamento per contrarietà con l’ordine pubblico.
Segnatamente all‟accertamento del suddetto requisito, la Corte ha richiamato i principi consolidati in
materia di risarcimento del danno ed, in particolare, ha chiarito che:
a) Il nostro ordinamento subordina il diritto al risarcimento del danno alla prova di un concreto
pregiudizio economico (cfr. Cass. n. 15184 del 2008)
b) Deve rimanere estranea al nostro sistema l‟idea della punizione del responsabile civile, per cui appare
indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta (Cass. n. 1183 del 2007);
c) La valutazione della natura e finalità punitiva dell‟eccessività dell‟importo liquidato dal giudice
straniero si risolve in un apprezzamento di fatto del giudice di merito, incensurabile in sede di
legittimità se adeguatamente motivato.
Sulla base di tali principi, la Corte ha ritenuto viziata la sentenza impugnata sotto il profilo
motivazionale, ritenendo che questa si fosse discostata, senza giustificate ragioni, dal precedente
orientamento della Cassazione, cristallizzato nella citata Cass. civ., n. 1183 del 2007, secondo cui: non
sono risarcibili i c.d. danni punitivi, in quanto la loro funzione sanzionatoria contrasta con i principi fondamentali
dell’ordinamento interno, che assegna alla responsabilità civile una funzione ripristinatoria della sfera patrimoniale del
soggetto leso.
Dobbiamo, tuttavia, sottolineare che, fermo restando il riconoscimento della natura compensativa e non
punitiva del nostro sistema di responsabilità civile, negli ultimi anni la Corte di Cassazione aveva, con
due significative pronunce, di fatto, aperto uno spiraglio all‟affermazione di una funzione anche
sanzionatoria dell‟istituto del risarcimento dei danni.
Con riferimento ad un‟ipotesi di risarcimento danni da illecito sfruttamento dell‟immagine di un
giovane ballerino da parte di una scuola di ballo, la Cassazione, con la sentenza n. 11353 del 2010, ha
affermato che: l’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che
consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e
di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora – come accade soprattutto se il soggetto leso non è persona nota – non
possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere (conformemente ad un principio
recepito dall’art. 128 della legge 22 aprile 1941, n. 633, novellato dal d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, non applicabile
alla specie “ratione temporis”) il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe
presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa,
avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla
diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente
con lo scopo della liquidazione. (Cassa con rinvio, App. Roma, 06/06/2005). Di fatto, pur utilizzando uno
strumento “tipico” quale la retroversione degli utili, aveva manifestato una prima intenzione di ampliare la
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sfera del risarcimento del danni, superando l‟idea secondo cui l‟autore del fatto illecito è obbligato a
risarcire il solo pregiudizio arrecato al danneggiato.
In una successiva pronuncia, Cass. Civ., n. 8730 del 2011, ci si spinge ancora più avanti affermando che:
in tema di risarcimento dei danni patrimoniali conseguenti all’illecito sfruttamento del diritto d’autore, ai fini della
valutazione equitativa del danno determinato dalla perdita del vantaggio economico che il titolare del diritto avrebbe potuto
conseguire se avesse ceduto a titolo oneroso i diritti dell’opera, si può ricorrere al parametro costituito dagli utili conseguiti
dall’utilizzatore abusivo, mediante la condanna di quest’ultimo alla devoluzione degli stessi a vantaggio del titolare del
diritto. Con tale criterio, la quantificazione del risarcimento, più che ripristinare le perdite patrimoniali subite, svolge una
funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i
vantaggi. (Cassa con rinvio, App. Roma, 23/11/2009).
In conclusione, con la pronuncia in commento la Suprema Corte si discosta sensibilmente dalle
due pronunce da ultimo richiamate – che, come detto, si erano mostrate favorevoli al
riconoscimento di una qualche funzione sanzionatoria del risarcimento del danno – ribadendo la
funzione esclusivamente compensativo-riparatoria dell’istituto de quo.
Possiamo allora concludereche nel nostro ordinamento l‟idea della punizione e della sanzione è estranea
al risarcimento del danno, cosi come è indifferente la condotta del danneggiante. L‟evoluzione del
sistema di responsabilità civile è stata invero caratterizzata dal graduale abbandono del concetto di
responsabilità individuale - attraverso il graduale ridimensionamento della colpa, che un tempo ne
rappresentava il cardine essenziale – a vantaggio di una sua rivisitazione in chiave solidaristica. Alla
responsabilità civile è oggi assegnato il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha
subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze
del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il
cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono
irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell‟obbligato, ma occorre
altresì la prova dell‟esistenza della sofferenza determinata dall‟illecito, mediante l‟allegazione di concrete
circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa .
4) Gli elementi strutturali:
a) Il fatto
In base all‟art. 2043 c.c., a configurare la responsabilità aquiliana concorrono i seguenti elementi
costitutivi:
a) l‟esistenza di un fatto;
b) imputabile dal punto di vista soggettivo, a titolo di dolo o colpa;
c) che sia produttivo di un danno ingiusto;
d) in base al nesso di causalità.
I primi due elementi costituiscono rispettivamente l‟elemento materiale della responsabilità e l‟elemento
volontaristico.
La qualificazione in senso volontaristico differenzia la responsabilità aquiliana dagli altri tipi di
responsabilità individuati dal titolo IX del libro quarto del Codice Civile e dalle norme extracodicistiche.
L‟elemento del danno ingiusto individua, invece, l‟effetto del fatto illecito, ossia la conseguenza
pregiudizievole, che l‟ordinamento qualifica appunto come “ingiusta” (ossia non jure, in quanto valutata
con disfavore dallo stesso).
L‟ultimo elemento (nesso eziologico) rappresenta il legame tra il fatto illecito ed il danno ingiusto, in
termini di conseguenzialità causale.
Iniziando l‟analisi degli elementi strutturali, viene in rilievo anzitutto l‟elemento materiale.
Il fattoè un comportamento umano, commissivo (consistente in un fare) od omissivo
(consistente in un non fare). È commissivo, ad esempio, il comportamento di chi, con un‟arma,
uccide o ferisce altri, oppure il comportamento di chi, alla guida di un‟automobile, investe un pedone. È
fatto omissivo, ad esempio, il non prestare soccorso ad un ferito.
Nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, la distinzione tra azione ed omissione non riveste particolare
utilità, mentre nelle altre ipotesi il fatto omissivo è fatto illecito solo se il soggetto, la cui omissione ha
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cagionato il danno, aveva l’obbligo giuridico di evitarlo:l‟obbligo di prestare soccorso risulta dall‟art.
593 c.p., ma dove non è configurabileun obbligo di evitare il danno non c‟è responsabilità per l‟evento
dannoso; chi, adesempio, si accorge che l‟edificio del vicino è pericolante e si astiene dall‟avvertire
ilproprietario non risponde del danno che la sua omissione ha cagionato perché nonha, per legge,
l‟obbligo di adoperarsi per evitare che i beni altrui provochino danni.
Per una recente applicazione del principio, v. Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2013, n. 12401, allegata in
dispensa (conf. App. Perugia, sez. lav., 2 ottobre 2013, n. 182).
b)L’imputabilità e la colpevolezza.
Quanto all‟elemento soggettivo del fatto illecito (dolo e colpa) va preliminarmente chiarito che è
imprescindibile che un fatto sia stato commesso da un soggetto e che ad esso sia riconducibile.
Anticamera della colpevolezza è quindi innanzitutto l’imputabilità, requisito previsto e
disciplinato dall’art. 2046 c.c.. Il fatto deve essere stato compiuto da chi aveva la capacità di
intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso. Detto requisito vale, peraltro, solo per la
responsabilità da fatto proprio e non per quella da fatto altrui, né vale per la responsabilità da cose.
La questione è differente nel diritto penale, là dove sussiste un regime che prevede l‟esclusione
dell‟imputabilità in alcuni casi (vizio totale di mente, ubriachezza e uso di stupefacenti, nonché per il
minore di 14 anni), mentre prevede una diminuzione delle pena in altri (minore infraquattordicenne e
vizio parziale di mente): la non funzionalità di tali criteri al concetto di riparatorietà della
sanzione per l’illecito civile ha indotto il legislatore ad adottare, in tal sede, un criterio elastico
ed affidato alla valutazione del giudice.
Nel diritto civile rileva anche lo stato di incapacità determinato, in termini generali, da un atto colposo
del soggetto, e non solo quello preordinato a commettere il reato o a procacciarsi una scusa (come nel
caso dell‟art. 87 c.p.).
L’incapacità naturale va accertata di volta in volta, attraverso l‟apprezzamento di tutte le
circostanze del caso concreto dalle quali è possibile desumere la capacità di comprendere e di
autodeterminarsi dell‟agente (l‟età, lo sviluppo psico-fisico, il grado di maturità, le malattie anche
transitorie, la forza del carattere, la capacità di volere).
L‟attenuazione della originaria natura sanzionatoria della responsabilità civile e l‟affermazione della
funzione riparatoria ha ridimensionato il ruolo della colpevolezza(sotto il profilo deldolo o della
colpa dell‟agente), che rappresenta solo uno dei possibili criteri di imputazione dell‟illecito, affiancato da
altri criteri fondati sulla responsabilità oggettiva, presunta o per fatto altrui.
Nella struttura dell‟illecito ex art. 2043 c.c., che esige una valutazione psicologica della condotta del
danneggiante, il dolo e la colpa costituiscono appunto l‟elemento soggettivo della fattispecie.
Nel sistema della responsabilità civile manca una definizione dei concetti di dolo e di colpa da parte di
apposite norme. Il relativo concetto è desumibile mediante il ricorso alla definizione fornita
dall’art. 43 c.p., secondo il quale è doloso il fatto posto in essere dal responsabile mediante
coscienza e volontà dell’azione e delle sue conseguenze, mentre è colposo il fatto posto in
essere per effetto di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline (cfr. Cass. civ., sez. un., 12 maggio 2009, n. 10854). Nell‟ipotesi di
colpa, è solitamente voluta l‟azione ma non le sue conseguenze, salvo il caso di colpa con previsione.
Poca rilevanza assume nel diritto civile il dolo che, invece, rappresenta il criterio di imputazione tipico e
generale dei delitti nel diritto penale, mentre maggiore importanza è riconnessa alla colpa.
Rinviando alla trattazione manualistica per l‟individuazione degli aspetti di maggiore rilevanza sulla
tematica in questione, in questa sede occorrerà appuntare solo alcuni principi.
In primis il dolo ex art. 2043 c.c. è l’intenzione di provocare l’evento dannoso (es. l‟intenzione di
uccidere nell‟omicidio volontario), ma non coincide con la mala fede, nella duplice configurazione sia
di consapevolezza di ledere l‟altrui diritto (art. 1147 c.c.) sia della condotta contraria alla correttezza (art.
1137 c.c.), poiché se il dolo implica sempre la mala fede, non sempre è vero il contrario.
Il dolo dell’illecito aquiliano nulla ha a che vedere con il dolo vizio del consenso rilevante per
l‟annullamento del contratto (dove dolo equivale ad inganno), pur sussistendo ipotesi nelle quali le due
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figure si sovrappongono, come quella del dolo incidente per effetto dei raggiri di un terzo (art. 1440
c.c), che determina una responsabilità extracontrattuale del terzo per i danni cagionati al contraente in
buona fede.
Particolare rilevanza assume il concorso tra dolo e colpaa proposito di nesso di causalità. Qualora
infatti concorrano, ai fini della produzione dell‟evento dannoso, un antecedente fatto illecito doloso di
un soggetto ed uno colposo di un altro soggetto, il fatto colposo successivo non interrompe il nesso
causale tra quello illecito precedente e il danno, ma il secondo (quello colposo) può venire assorbito
nell‟ambito di quello doloso con effetto di esclusione della responsabilità verso il terzo di chi lo abbia
commesso, oppure conservare la propria rilevanza (come nel caso del soggetto in colpa che sia in grado
di prevedere le conseguenze dannose della propria azione, ad es. un medico che operi maldestramente
un ferito da sinistro stradale) comportando la responsabilità solidale di entrambi gli autori, con diritto di
regresso dell‟autore del fatto colposo nei confronti del coautore doloso del risarcimento versato.
La colpa tradizionalmente veniva valutata in termini soggettivi, sul modello penalistico, ossia
secondo una concreta valutazione basata sulla personalità e sulla psicologia dell’agente. La
progressiva presa di distanza tra l‟illecito civile e la responsabilità penale, a cui si è più volte fatto
riferimento, ha tuttavia comportato l‟adozione, ai fini della responsabilità aquiliana, di un metro
oggettivo della colpa (peraltro sempre ricavabile, in via indiretta, dalle disposizioni in materia penale
non sussistendo un‟autonoma definizione civilistica), in termini di obiettiva difformità del
comportamento concretamente tenuto dal parametro astrattamente predefinito da criteri codificati
espressamente, o comunque desumibili dal dovere di diligenza che l’homo eiusdem condicionis et professionis è
tenuto ad osservare.
Tuttavia un‟interpretazione della colpa in senso oggettivo (come nel caso della responsabilità per
inadempimento) avrebbe comportato, di fatto, conseguenze inaccettabili, come nel caso in cui il
danneggiante disponga, per particolari capacità o condizioni soggettive, di un grado di preparazione
professionale o culturale tale da consentirgli un notevole grado di elevazione rispetto ai parametri medi
di valutazione ovvero, all‟opposto, quando particolari situazioni non consentano in concreto all‟agente
di esplicare la propria condotta nei termini astrattamente esigibili. Così si è affermato in giurisprudenza
che in caso di illecito civile può tenersi conto delle qualità e del danneggiante e del danneggiato,
operando così un temperamento sia verso l‟alto che verso il basso; si è poi ritenuta non configurabile la
colpa dell‟agente quando l‟evento intercorso fosse, per lo stesso, totalmente imprevedibile da parte
dell‟agente, temperando così il concetto della diligenza media con quello delle circostanze concrete di
verificazione dell‟evento.
All‟estremo opposto, e quindi ai confini con il dolo, deve invece ritenersi l‟ipotesi della colpa con
previsione, che si verifica là dove l‟agente abbia posto in essere la propria condotta, pur nella
rappresentazione dell‟evento illecito, rimanendo tuttavia convinto che esso non si sarebbe verificato. La
colpa, in tale ipotesi, consiste precisamente nell‟imprudente convinzione della non verificabilità
dell‟evento, poi di fatto avveratosi a seguito della condotta negligente, imprudente o imperita del
soggetto.
Quanto alla colpa professionale, ossia intervenuta nello svolgimento di attività per le quali è richiesta
una particolare competenza tecnico-intellettuale, come quella medica, la stessa sarà oggetto di
approfondita trattazione nelle lezioni successive.
L’onere di provare il dolo o la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; e questa
costituisce una rilevante differenza rispetto alla responsabilitàcontrattuale, nella quale è il debitore che
deve provare che la prestazione è divenutaimpossibile per causa a lui non imputabile (ossia l‟assenza di
colpa).
In ordine all‟accertamento della colpa (in particolare rifiutando la cd. culpa in re ipsa) sono intervenute le
Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 500/1999, escludendo che l‟adozione volontaria di un
provvedimento amministrativo dalla cui illiceità discenda la lesione di un interesse legittimo, sia di per
sé fonte di produzione di un danno ingiusto ex art. 2043 c.c.
La sentenza in parola ha concluso per la non applicabilità, ai fini dell‟accertamento della colpa, del
principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa, poiché tale principio,
enunciato dalla precedente giurisprudenza di legittimità con riferimento all‟ipotesi di attività illecita
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derivante da lesione di un diritto soggettivo secondo l‟interpretazione tradizionale dell‟art. 2043 c.c.,
non è stata ritenuta conciliabile con la più ampia lettura della norma. Da allora la giurisprudenza di
legittimità ha costantemente ribadito la necessità dell‟accertamento in concreto dell‟elemento
psicologico (dolo o colpa) in capo alla P.A. (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2014, n. 5500;
Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23170, in dispensa).
Analogo principio è stato affermato dalla giurisprudenza amministrativa, di recente, in relazione a
richiesta di risarcimento del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento
favorevole(v. Consiglio di Stato,sez. III, 23 aprile 2015, n. 2040; Consiglio di Stato, sez. V, 17
giugno 2015, n. 3047, in dispensa) o, più in generale, da lesione di un interesse legittimo (v.Consiglio
di Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2560; Consiglio di Stato, sez. VI, 5 marzo 2015, n. 1099, in
dispensa).
Per la trattazione del tema della responsabilità della P.A. da azione amministrativa si rinvia alle lezioni di
amministrativo.
c) Il danno ingiusto(cenni e rinvio alla lezione 3).
Una particolare attenzione merita il requisito del danno ingiusto. Sin da ora si rinvia alla trattazione
manualistica per l‟individuazione della nozione e dei criteri emersi in dottrina ma soprattutto in
giurisprudenza per la sua individuazione anche ai fini del contenimento dell‟area del risarcibile. Si tenga
altresì presente che il tema dell‟ingiustizia del danno, e più in particolare delle singole ipotesi applicative
emerse in giurisprudenza, saranno oggetto di studio approfondito nella successivalezionen. 3 del corso.
In questa sede ci si intende soffermare sulla contaminazione tra iniuria e colpevolezza.
Nell‟ipotesi in cui l‟apparente esercizio del diritto da parte dell‟agente (e quindi in posizione di una
condotta lecita) celi, in realtà, la volontà di produrre un danno a terzi e, di conseguenza, integri in
concreto quel comportamento non jure che è alla base dell‟illecito aquiliano, la lesione dell‟altrui
posizione deriva da un comportamento apparentemente scriminato dalla sussistenza dell‟esercizio del
proprio diritto, tanto che nella specie si è parlato di contaminazione tra culpa ed iniuria, proprio perché
la valutazione dello status soggettivo del danneggiante assumerebbe rilievo preminente,
indipendentemente dalla natura dell‟interesse leso.
Vengono all‟attenzione principalmente quelle fattispecie nell‟ambito delle quali la condotta del
danneggiante non può, secondo la giurisprudenza, non assumere una connotazione dolosa (si pensi ai
casi dell‟induzione all‟inadempimento, della doppia alienazione immobiliare, dello storno di dipendenti
e così via) che di fatto integrano, al di là del formale esercizio dell‟autonomia negoziale normativamente
tutelata, ipotesi di lesione da parte del terzo dell‟altrui diritto mediante la cooperazione
nell‟inadempimento altrui. È parso incongruo in dottrina ritenere, infatti, sanzionabile il soggetto che
con semplice colpa ponga in essere i relativi comportamenti, senza volere deliberatamente danneggiare
l‟altrui posizione, anche se in concreto tale posizione sembrerebbe in apparente contrasto con la
sostanziale parificazione, ai fini della configurazione dell‟illecito ex art. 2043 c.c., tra il dolo e la colpa.
Tale contraddizione non appare insuperabile, posto che l‟argomento in questione sembrerebbe provare
troppo: non pare sembra infatti che l‟art. 2043 c.c. impedisca la possibilità di configurare un
risarcimento per comportamenti risarcibili solo se posti in essere a titolo di dolo, bensì prevedere un
criterio generale (per l‟appunto la sufficienza della colpa ai fini della configurabilità dell‟illecito civile)
comunque derogabile in relazione a determinate fattispecie, rispetto alle quali dovrebbe invece essere
necessaria una particolare colorazione dell‟elemento soggettivo ai fini della stessa configurabilità di un
illecito ex art. 2043 c.c.. Si tratterebbe, anche in questo caso, di procedere ad una valutazione
comparativa degli interessi in gioco alla luce dei principi generali dell‟ordinamento, secondo i parametri
ricordati in precedenza.
A tale proposito è interessante considerare come sia da tempo emersa in dottrina una tesi per la quale
nell‟esercizio del diritto, nella consapevolezza di arrecare ad altri un danno ingiusto, sarebbe
configurabile il c.d. abuso del diritto (del quale si è parlato, non a caso, anche a proposito della
fattispecie appena considerata), ossia la violazione di quel limite generale desumibile dalla valorizzazione
del precetto di solidarietà sancito costituzionalmente dall‟art. 2 Cost., oltre che da varie altre norme di
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pari livello (si pensi agli artt. 41 e 42 Cost.) nonché da norme di rango ordinario tra le quali un ruolo
importante riveste l‟art. 833 c.c., in materia di atti emulativi. Ne deriverebbe, in altri termini,
l‟affermazione di un principio di correttezza destinato a rivestire un‟importanza generale anche al di là
delle norme che espressamente lo prevedono, ad es. in ambito contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.).
Anche in questo caso, la valutazione dello status soggettivo da parte dell‟agente assumerebbe valore
essenziale ai fini della stessa configurazione dell‟illecito, determinando anche sotto questo profilo quella
contaminazione tra culpa ed iniuria dalla quale abbiamo preso le mosse all‟inizio di questa trattazione.
d) Il nesso di causalità
Causalità: materiale e giuridica.
Quanto all‟accertamento circa la sussistenza del legame materiale tra l‟evento dannoso, potenzialmente
produttivo di conseguenze pregiudizievoli, ed una pregressa circostanza rilevante come criterio di
imputazione della responsabilità, il Codice civile tace. In realtà, sullo sfondo dell‟art. 2043 c.c. l‟utilizzo
del termine “cagiona” allude proprio alla problematica del collegamento tra il fatto dannoso (il dannoevento) e le conseguenze del fatto stesso (il danno-conseguenza).
Alla distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è, inoltre, ricollegata quella tra la causalità
“materiale” (cioè il collegamento naturalistico tra la condotta, attiva od omissiva, e la causazione
dell‟evento) e la causalità “giuridica”, ovvero il legame tra il comportamento e l‟evento ritenuto a
termini di legge indispensabile perché possa configurarsi una responsabilità in termini giuridicamente
vincolanti (consistente, per l‟appunto, nel risarcimento del danno).
La problematica risulta essere particolarmente delicata nel caso in cui il danno sia conseguenza di
unacondotta omissiva, ciò che accade sovente nell‟ambito della responsabilità medica, a proposito
della quale la Cassazione penale, nella celebre sentenza Franzese (n. 30328/2002) ebbe modo di dare
precise indicazioni nel senso dell‟accettazione di un orientamento intermedio tra la “certezza” e la
“probabilità statistico-scientifica”, in favore dell‟”alto o elevato grado di credibilità razionale”
dell‟accertamento giudiziale con i criteri della “probabilità logica”. Veniva al contempo abbandonato il
criterio del c.d. “aumento del rischio” che trasformerebbe, secondo la Corte penale, il reato omissivo
improprio da reato “di danno” in reato “di pericolo” (orientamento condiviso anche dalla sentenza
della Cass., sez. III, n. 21619 del 2007, della quale ci occuperemo più ampiamente tra breve). In altri
termini, la sussistenza di un ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta
omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell‟evento lesivo comporta
l‟esito assolutorio del giudizio penale.
Vedremo subito come la sentenza appena citata si ponga su di una linea di pensiero differente,
abbandonando le concezioni tradizionali che, sulla scorta della concezione sanzionatoria della
responsabilità civile allora in voga, consideravano la causalità omissiva impropria come un‟ipotesi di
causalità necessariamente “giuridica”, ovvero basata su un giudizio ipotetico fondato sull‟equivalenza
tra il non impedire l‟evento dannoso e il cagionarlo, il cui termine di riferimento obbligato è la norma di
condotta impositiva al danneggiante del dovere di attivarsi. In tale ottica, come detto, la causalità
materiale veniva decisamente svalutata nella sua autonomia e sostanzialmente assorbita in quella
giuridica.
Come si è appena evidenziato, la giurisprudenza civile già da alcuni anni (v. Cass. civ., sez. III, 2
febbraio 2007, n. 2305 e, amplius, la citata n. 21619 del medesimo anno; Cass., Sez. Un., 11 gennaio
2008, n. 581 e Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2009, n. 23059), al contrario, ha evidenziato le differenze
tra la causalità in ambito civile ed in ambito penale.
Secondo la Corte, infatti, “è lo stesso principio della coincidenza tra concetto di causalità in sede penale
e di causalità in sede civile… che non può dirsi condivisibile… invero, le esigenze de-costruttive e
ricostruttive dell‟istituto del nesso di causa sottese al sottosistema penalistico non sono in alcun modo
riprodotte (né riproducibili) nella diversa e più ampia dimensione dell‟illecito aquiliano, tanto sotto il
profilo morfologico della fattispecie, quanto sotto l‟aspetto funzionale. Sotto il profilo morfologico,
difatti, va considerato, da un canto, come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo
causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l‟autore del reato/soggetto responsabile,
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orbitando, viceversa, l‟illecito civile (quantomeno a far data dagli anni „60) intorno alla figura del
danneggiato; dall‟altro, come, alla peculiare tipicità del fatto reato, faccia da speculare contralto il
sistema aperto ed atipico dell‟illecito civile…”.
Di conseguenza, non potrà ritenersi automaticamente applicabile anche in sede civile il
principio per cui l’esistenza di un ragionevole dubbio sull’efficienza causale della condotta
omissiva dovrebbe comportare sempre l’esonero dalla responsabilità del danneggiante, come
enunciato, in ambito penalistico, sempre dalla citata sentenza Franzese. Nella più recente
sentenza in esame, invece, la Cassazione, premessa la necessità di distinguere tra i concetti di dannoevento e danno-conseguenza, appunta la propria attenzione sul secondo e proprio dal relativo esame
deduce l‟estraneità del concetto di prevedibilità/evitabilità dell‟evento dalla causalità rilevante ai fini
civilistici.
A giudizio della Corte, “… risolto il problema della imputazione del fatto, e dunque della
identificazione del soggetto responsabile, le norme in tema di responsabilità delimitano l‟ambito della
risarcibilità delle singole conseguenze dannose attraverso una disciplina parzialmente difforme nelle due
diverse ipotesi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per la limitazione, contenuta nella
norma di rinvio dell‟art. 2056 c.c., in base alla quale viene esclusa l‟applicabilità dell‟art. 1225 c.c.
(prevedibilità dal danno) nei casi di obbligazioni risarcitorie derivanti da fatto illecito. Quello che ancora
giova sottolineare, nella dimensione dell‟illecito contrattuale, è la relazione differenziale tra il disposto
dell‟art. 1223 c.c. in tema di risarcibilità di danni “conseguenze dirette e immediate”
dell‟inadempimento, e quello di cui al successivo art. 1225 c.c., che limita tale risarcimento, in caso di
inadempimento colposo, ai soli “danni prevedibili”. Pur essendo vero che la prima delle due norme
regola il nesso di causa non tra condotta ed evento, ma tra l‟evento (l‟inadempimento) e il danno
risarcibile (e, come si è avuto modo di sottolineare in precedenza, secondo una attenta dottrina non
sarebbero neppure funzionali all‟accertamento del nesso di causalità condotta/evento di danno), questo
Collegio ritiene che possa non illegittimamente ipotizzarsi come il concetto di prevedibilità resti
comunque estraneo, in parte qua, alla struttura oggettiva dell‟illecito (perché, in caso di inadempimento
doloso, il debitore risarcirà sì i danni imprevedibili, ma che siano pur sempre conseguenza diretta ed
immediata dell‟inadempimento, di talché la “diretta immediatezza” della realizzazione del danno non è
destinata ad incidere sulla sua prevedibilità)”.
La conseguenza dell‟esclusione del concetto di prevedibilità dall‟individuazione del nesso causale
rilevante ai fini civilistici appena esposta è che “…il nesso di causalità è elemento strutturale dell‟illecito,
che corre - su di un piano strettamente oggettivo - tra un comportamento (dell‟autore del fatto)
astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come generatore di un damnum iniuria datum), e
un evento (dannoso). Nell‟individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde
in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte
dell‟autore del fatto, essendo il concetto di prevedibilità/previsione insito nella fattispecie della colpa
(elemento qualificativo del momento soggettivo dell‟illecito, momento di analisi collocato in un ideale
posterius rispetto alla ricostruzione della fattispecie). Solo il positivo accertamento del nesso di causalità
materiale così rettamente inteso consente, allora, la traslazione, logicamente e cronologicamente
conseguente sul piano dimostrativo, verso la dimensione dell‟illecito costituito dal suo elemento
soggettivo, e cioè verso l‟analisi della sussistenza o meno della colpa dell‟agente (o, se del caso, del
dolo), elemento di fattispecie la cui impredicabilità nella singola vicenda, pur in presenza di un nesso
causale accertato, ben potrebbe escludere l‟esistenza dell‟illecito secondo criteri (storicamente “elastici”)
della prevedibilità ed evitabilità del fatto. Criteri questi che restano iscritti nell‟orbita dell‟elemento
soggettivo del fatto dannoso e postulano il positivo oggettivo accertamento del preesistente nesso
causale, elemento strutturale del torto al quale non è consentito di collegare alcuna inferenza fondata
sulla dicotomia colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di
valutazione della colpa”.
In altri termini la Corte, partendo dall‟esame delle norme in tema di quantificazione delle conseguenze
del danno, rileva come il concetto di prevedibilità è limitato, anche nel caso di responsabilità
contrattuale derivante da inadempimento doloso, al risarcimento dei danni che siano conseguenza
immediata e diretta dell‟inadempimento stesso: sicché, nella ricostruzione effettuata, l‟applicazione delle
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norme in questione postula il preventivo accertamento, in termini positivi, della possibilità di collegare
la condotta dell‟agente al fatto dannoso, che è esattamente quanto si intende con la locuzione “causalità
materiale”. La prevedibilità attiene, invece, all‟altro elemento costitutivo della fattispecie ex art. 2043
c.c., ovvero l‟elemento soggettivo della colpa o del dolo.
In questa ricostruzione “il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica concreta (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso (quel comportamento e
quel fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che
attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione,
attesa la funzione – anche - preventiva della responsabilità civile, che si estende sino alla previsione
delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza) andrà più
propriamente ad iscriversi entro l‟orbita soggettiva (la colpevolezza) dell‟illecito”.
Premettendo, quindi, il proprio deciso orientamento verso la valutazione in termini obiettivi della
causalità e di conseguenza nell‟abbandono di una concezione “normativa” di questa, la Corte conclude
che “quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono,
dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all‟indagine sul nesso causale
nei vari rami dell‟ordinamento”. Pertanto, la causalità civile “ordinaria” secondo la Corte è
caratterizzata dalla probabilità relativa (o “variabile”), consistente, specie in ipotesi di reato
ommissivo, nell’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella
penale,stante la diversità dei valori in gioco nei due tipi di processi, ciò che giustifica una differenza
negli standard probatori ed il diverso livello di incertezza da assumersi come ragionevolmente
accettabile.
Il compito del giudice civile, pertanto, sarà quello “di operare una selezione di scelte giuridicamente
opportune in un dato momento storico [sulla base delle risultanze processuali] senza trasformare il
processo civile (e la verifica processuale in ordine all‟esistenza del nesso di causa) in una questione di
verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico”.
Secondo la Corte, in definitiva, la causalità civilistica ordinaria obbedisce alla logica del “più probabile
che non”, mentre la causalità da perdita di chance è invece attestata “tout court sul versante della mera
possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come
mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì, come sacrificio della possibilità di
conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto
attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute.
Le pronunce più recenti della Cassazione confermano l’approdo verso una concezione della
causalità civile ordinaria ancorata al parametro concettuale della ragionevole probabilità (o
probabilità logica), consistente nell‟accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella
penale, mentre la causalità da perdita di chance è invece attestata sul versante della mera
possibilità del conseguimento di un diverso risultato (inteso tale aspettativa come “bene”, come
diritto attuale ed autonomo) (v. Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2010, n. 16123; Cass. civ., sez. III, 13 luglio
2010, n. 16381; Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2012, n. 6275; Cass. civ., sez. III, 18 giugno 2012, n.
9927;Cass. civ., sez. III, 17 ottobre 2013, n.23575; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22225; Cass.
civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3390, allegatain dispensa; nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib.
Reggio Emilia, sez. II, 27 febbraio 2014, n. 338, pure in dispensa) (Sull‟argomento v., amplius,
GUAGLIONE, Studi di diritto civile, vol. I, Obbligazioni e responsabilità civile, Roma, 2011, p. 296 ss.).
Parimenti, anche la Corte di Giustizia è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi
su logiche di tipo probabilistico (Corte Giust. 3/7/2006 cause riunite C-295/04 e C-298/04, nonché
Corte Giust. 15/2/2005 causa C-12/03, entrambe in tema di tutela della concorrenza).
Riepilogando quanto sopra esaminato, può delinearsi una “scala discendente di valori” (cui si accompagna un diverso metro di valutazione del nesso causale), così strutturata:
1)sul gradino più alto si pone la causalità penale, dominata dal percorso di credibilità razionale
inaugurato dalla sentenza Franzese;
2) ad un livello inferiore, si pone la causalità civile “ordinaria”, attestata sul versante della
probabilità relativa(o variabile)e, dunque, caratterizzata dall'accedere ad una soglia meno elevata di
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probabilità rispetto a quella penale; in definitiva, mentre la causalità penale richiede la certezza
processuale che la condotta alternativa omessa avrebbe impedito l'evento “al di la di ogni ragionevole
Dubbio”, la causalità civile obbedisce alla logica del “più probabile che non”;
3) al terzo gradino, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, residuerebbe la causalità da perdita
di chance, la quale si pone sul fronte della “mera possibilità” di conseguimento di un diverso
risultato terapeutico(la guarigione del paziente), da intendersi, rettamente, non come mancato
conseguimento di un risultato lo possibile, bensì, come sacrificio della concreta ed effettiva “possibilità
di conseguirlo, quale bene a sé stante, diritto 'attuale”, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute
(v. CHINÈ-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2131 ss.;FRATINI, Compendio di diritto civile,
Roma, 2014-2015, p. 867).
Danno-evento e danno conseguenza.
La distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è stata per lungo tempo trascurata, per effetto
della ben maggiore attenzione dedicata dagli interpreti al secondo, in relazione alla concezione di
causalità giuridica largamente diffusa nella giurisprudenza, come abbiamo visto in precedenza.
Secondo la dottrina, il concetto di danno-evento è essenzialmente relativo all’accertamento del
collegamento tra l’evento dannoso ed un soggetto, ovvero un bene (si pensi all‟art. 2051 c.c.), ed
alla misura di tale collegamento nel caso di concorso di cause. In difetto di un‟espressa
indicazione normativa, come si diceva nel paragrafo precedente, gli interpreti ritenevano di dover fare
riferimento agli artt. 40 e 41 c.p. (un caso emblematico è rappresentato dalla citata sentenza sul c.d. caso
Meroni, che definiva tali norme come “pacificamente applicabili anche all‟illecito civile”). E ciò quanto
meno con riferimento all‟ipotesi-base prevista dall‟art. 2043 c.c., facendo le successive fattispecie
disciplinate dal Codice riferimento anche ad ipotesi nelle quali la causalità è soltanto indirettamente
ricollegabile ad un soggetto, trovando altrove il proprio referente primario: così, ad esempio, nel
collegamento tra un soggetto ed un bene (il ricordato caso dell‟art. 2051 c.c., cui deve aggiungersi anche
l‟art. 2052 c.c.) oppure nel fatto altrui (artt. 2047 e 2049 c.c.).
Il danno-conseguenza, invece, consiste nelle conseguenze di ordine economico ricollegate alla
condotta dannosa. Come evidenziato nella più volte ricordata sentenza della Cassazione n. 21619 del
2007, si tratta di un posterius rispetto all’individuazione del nesso di causalità materiale tra la
condotta ed il fatto dannoso, anche se l‟attenzione dedicata al concetto di causalità giuridica dalla
giurisprudenza civilistica consolidata ha determinato una sorta di contaminatio tra gli elementi
costitutivi della fattispecie ex art. 2043 c.c..
Ciò è avvenuto, segnatamente, tra la prevedibilità delle conseguenze e l‟attribuzione dell‟evento,
attinenti la prima all‟elemento soggettivo (ovvero ai fini della valutazione della colpa o del dolo), e la
seconda a quello oggettivo dell‟illecito. Viceversa, nell‟insegnamento più recente della Cassazione, come
abbiamo già visto, i due profili debbono essere distinti e separati (v. di recente, Cass. civ., sez. III, 3
luglio 2014, n. 15240; Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2015, n. 6285, in dispensa).
Ai sensi dell’art. 2056 c.c., che si occupa specificamente del danno-conseguenza, il
risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt.
1223, 1226 e 1227 c.c., mentre il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento
delle circostanze del caso. La prima norma stabilisce che sono risarcibili soltanto i danni che siano
conseguenza immediata e diretta del fatto lesivo (rectius del danno-evento), mentre la seconda legittima
il giudice alla valutazione equitativa del danno qualora non sia possibile procedere ad una precisa
quantificazione dello stesso. L‟art. 1227, infine, si riferisce all‟effetto sull‟obbligazione risarcitoria
derivante dal concorso del danneggiato e di esso ci occuperemo nel paragrafo successivo.
Le concause.
Per concludere il discorso sulla causalità resta, ora, da affrontare il problema delle concause, ovvero
dell‟inserimento nella serie causale, che ha portato dal fatto illecito al danno ingiusto, di elementi diversi
dalla condotta attiva od omissiva dell‟agente.
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Talvolta tali elementi non assurgono al ruolo di fattori determinanti delle conseguenze dannose, ma
molto spesso il danno ingiusto è il risultato complessivo della compresenza di una pluralità di
condotte dannose, ovvero di eventi naturali preesistenti, concomitanti o successivi che in qualche caso
agevolano, in qualche altro determinano, in altri ancora si affiancano alla condotta illecita originaria,
assumendo autonoma rilevanza causale nella produzione del danno.
Occorre, allora, verificare quali siano i criteri che disciplinano i rapporti tra i vari fatti od atti che
concorrono in senso naturalistico alla produzione dell‟evento (nel senso che la mancata presenza di uno
o più di essi comporterebbe la non verificazione del danno ingiusto, ovvero un minore effetto negativo
di questo), per verificare quali siano le regole giuridiche (prevalentemente di tipo risarcitorio ma,
talvolta, anche di carattere riparatorio-preventivo) previste dall‟ordinamento ai fini del collegamento tra
tali atti o fatti e le conseguenze negative dell‟illecito.
Vengono, allora, in evidenza le ipotesi di concorso del danneggiato alla produzione del fatto
dannoso regolate dall‟art. 1227, comma 1, c.c. (cfr. Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2013, n. 3542;Cass.
civ., sez. III, 3 aprile 2014, n. 7777;Cass. civ., sez. II, 21 aprile 2015, n. 8109, allegata in dispensa),
quelle del concorso di più soggetti alla produzione del danno, di cui si occupa l‟art. 2055 c.c.
(cfr.Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2013, n. 27875; Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2014, n.
20192;Cass. civ., sez.III, 6 maggio 2015, n. 9012, allegata in dispensa; Trib. Monza, sez. II, 6 marzo
2014), ed infine quelle di concorso tra atti umani e fatti giuridici naturali(cfr. Cass. civ., Sez. Un.,
21 novembre 2011, n. 24408, allegata in dispensa). In tal caso il problema (molto delicato, per l‟assenza
di specifiche norme dettate dal Codice in merito) è precisamente quello di verificare se un siffatto
collegamento, sotto il profilo giuridico, sia possibile, come nel caso degli artt. 2051 e 2052 c.c. (che
disciplinano per l‟appunto l‟attribuzione ad un soggetto di fatti naturali in ragione del rapporto di
custodia o di utilizzazione), ovvero se non sia possibile individuare alcuna relazione tra il danneggiante
e i fatti verificatisi (perché, ad es., si tratti di eventi del tutto sottratti alla sua capacità di intervento,
come quando, pur essendo astrattamente possibile un intervento del danneggiante al fine di scongiurare
il danno ingiusto, ricorrano gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore che per l‟appunto
escludono la ricollegabilità dell‟evento al danneggiante stesso, come disposto proprio dai citati artt.
2051 e 2052 c.c.). Le conseguenze non sono di poco conto, perché consentono in concreto di escludere
o limitare la responsabilità del danneggiante con le relative conseguenze patrimoniali (per una
trattazione più diffusa dell‟argomento, v. CHINE‟-FRATINI-ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2144
ss.).
II
LE RESPONSABILITÀ SPECIALI “TIPIZZATE”: LE FIGURE CODICISTICHE
Rinviando alla trattazione manualistica per la ricostruzione degli elementi strutturali che connotano le
singole ipotesi di responsabilità tipicizzate, in questa sede ci si soffermerà sulla natura della
responsabilità in questione e sulla relativa prova liberatoria.
Le fattispecie di responsabilità disciplinate dagli artt. 2047 ss. c.c. costituiscono modelli
speciali di responsabilità, che si connotano per la loro diversità ed autonomia rispetto al
modello generale disciplinato dall’art. 2043 c.c.
In tutte queste ipotesi, diverse l‟una dall‟altra, la responsabilità si basa su criteri di imputazione
sempre più nettamente distinti da quello che anima l’art. 2043 c.c.
Questi criteri, come si è già osservato in precedenza, rispondono all‟esigenza di far fronte alle
conseguenze dannose derivanti dallo svolgimento di attività che comportano inevitabilmente l‟insorgere
di rischi. In linea di principio, essi pongono l‟obbligazione risarcitoria a carico dei soggetti che sono più
in grado di adottare le opportune contromisure atte a prevenire i rischi di danno o a tenerli sotto
controllo,indipendentemente dalla valutazione della condotta secondo il parametro della colpa.
Tra gli artt. 2043 e 2047 e ss. c.c. sussistono, dunque, diversità di operatività e difunzione.
L‟art. 2043 c.c. contiene una regola generale; è espressione del principio diatipicità dell‟illecito civile. Gli
artt. 2047 e ss. c.c. individuano una serie di settori incui operano diverse previsioni di
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responsabilità.Si tratta di fattispecie normativetipiche che non trovano applicazione al di fuori della
propria area diappartenenza, né in via analogica e neppure in via estensiva.
Le varie fattispecie hanno in comune l‟esistenza di una particolare relazione per la quale avviene
l’attribuzione della responsabilità in capo ad un determinato soggetto. Sulla base di tale relazione
è possibile distinguere tre grandi categorie: responsabilità per fatto altrui (artt. 2047, 2048, 2049 c.c.),
responsabilità collegata all‟esercizio di un‟attività (art. 2050 c.c.) e responsabilità derivanti dal rapporto
di un soggetto con una cosa o con un animale (artt. 2051, 2052, 2053 e 2054 c.c.) (cfr. CHINÈ-FRATINIZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., p. 2305).
Per ognuna di queste fattispecie l‟attribuzione della responsabilità appare dunque diversificata, come
emerge dalla lettura dei dati normativi e, soprattutto, dal contenuto della prova liberatoria a carico del
soggetto chiamato a rispondere del danno. In alcune di esse, infatti, opera una presunzione di
colpa (artt. 2047, 2048, 2054 comma 1 c.c.), in altre ipotesi, invece, il criterio di imputazione
prescinde dalla colpevolezza del comportamento dannoso (artt. 2049, 2050, 2051, 2052, 2053 e
2054, comma 4 c.c.) e si è in presenza di una responsabilità c.d. oggettiva.
Nelle fattispecie di responsabilità oggettiva, tuttavia, si riscontrano differenze nel grado in cui le varie
previsioni legislative superano la soglia della colpa. Si è ipotizzata, pertanto, l‟esistenza di figure di
responsabilità intermedie tra la responsabilità per colpa e quella oggettiva; conseguentemente la
sistemazione e semplificazione della disciplina delle responsabilità speciali si è rivelata uno dei problemi
più complessi e controversi del diritto civile, anche perché connesso al dibattito sulle funzioni del
giudizio di responsabilità.
È evidente inoltre come anche la giurisprudenza, in continua evoluzione, abbia contribuito a far
ipotizzare non una netta demarcazione tra le categorie di responsabilità, bensì l‟esistenza di un continuum
che va dalla colpa soggettiva alla responsabilità oggettiva. I confini tra le due categorie di responsabilità,
infatti, dipendono strettamente anche dalla prova richiesta per dimostrare la colpa del danneggiante: se
si giunge a ritenere sufficiente che la colpa sia dimostrata attraverso la prova del danno e del nesso
eziologico (c.d. teoria della res ipsa loquitur), sotto le spoglie di una responsabilità per colpa si celerà, in
realtà, un‟ipotesi di responsabilità “intermedia”.
Appare difficile, pertanto, ricondurre le varie ipotesi di responsabilità attorno ai due poli contrapposti
della responsabilità per colpa ed oggettiva. La necessità di tener conto dei diversificati modelli di
disciplina delle norme in esame e della pluralità di criteri di imputazione ad essi sottesi induce, quindi, a
riconsiderare la problematica alla luce della logica interna alle singole fattispecie.
1. La responsabilità dei genitori: art. 2048, comma 1, c.c.
Quanto alla responsabilità dei genitori, la cui disciplina è contenuta nel comma 1 dell‟art. 2048 c.c., la
giurisprudenza la ricostruisce sulla base di una duplice presunzione di colpa, in vigilando ed in
educando. Ne consegue che, per andare esente da responsabilità, il genitore deve fornire una prova
idonea a superare ambedue le suddette presunzioni. La prova liberatoria prevista dall‟art. 2048, comma
3, c.c. (formulata in termini negativi, come dimostrazione di “non aver potuto impedire il fatto”) deve
pertanto tradursi nella prova positiva di aver adeguatamente vigilato ed educato il minore, in
conformità alle condizioni sociali, familiari, all‟età, al carattere e all‟indole dello stesso (cfr., ex plurimis,
Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322; Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26200).
È altresì frequente in giurisprudenza l‟affermazione secondo cui l‟inadeguatezza della educazione
impartita (culpa in educando) e della vigilanza esercitata (culpa in vigilando) può desumersi - in mancanza
di una concludente prova contraria - dalle stesse modalità con cui è avvenuto il fatto illecito,
atteso che tali modalità ben possono rivelare lo stato di maturità, il temperamento e, in genere
l‟educazione del minore. È stata ritenuta inammissibile, invece, la valutazione reciproca, e cioè che dalle
modalità del fatto illecito possa desumersi l‟adeguatezza dell‟educazione impartita e della vigilanza
esercitata dai genitori (cfr. Cass. civ., sez. III, 18 novembre 2014, n. 24475, allegata in dispensa).
Discussa è la natura giuridica di detta responsabilità. Parte della dottrina ha ricostruito la
responsabilità ex art. 2048 c.c. in chiave oggettiva, affermando che il criterio di imputazione dell‟illecito
commesso dal minore sarebbe correlato allo status di genitore. Di diverso avviso è la giurisprudenza,
15
anche più recente, che ricostruisce la responsabilità in esame in termini di responsabilità diretta dei
genitori, per fatto proprio, fondata sulla colpa dei genitori, peraltro presunta(v. Cass., n. 5957 del
2000; Cass. n. 9815 del 1997; Cass. n. 4945 del1997; Cass. n. 5306 del 1994).
Presupposto della responsabilità ex art. 2048 c.c. è, anzitutto, la capacità di intendereevolere dei
minori soggetti alla vigilanza dei soggetti richiamati dalla norma de qua.
Il requisito dell'imputabilità, infatti, costituisce il criterio distintivo tra l'art. 2048 c.c. e l‟art. 2047 c.c.:
se il danno è cagionato da un minore incapace, i genitori, o l‟insegnante risponderanno in qualità
di sorveglianti (ex art. 2047, comma 1, c.c.); viceversa, se sussiste nel minore la capacità di intendere
e volere al momento delcompimento del fatto, troverà applicazione l'art. 2048 c.c..
Per tale motivo, si ritiene che la responsabilità ex art. 2047 c.c. e quella ex art. 2048 c.c. siano
alternative e non concorrenti tra loro.
La riconducibilità all'una o all'altra delle due fattispecie in esame ha delle rilevanti conseguenze: in base
all'art. 2047, infatti, il sorvegliante sarà responsabile in via esclusiva del danno dell'incapace (senza poter
agire in regresso); applicando l'art. 2048, la responsabilità dei genitori concorrerà, in via solidale, con
quella del minore imputabile (ed eventualmente con quella dell'insegnante o del datore di lavoro).
2. La responsabilità degli insegnati: art. 2048, comma 2, c.c..
Il comma 2 dell‟art. 2048 c.c. disciplina la responsabilità degli insegnanti o più in generale di colui al
quale il minore è affidato dai genitori per fini di istruzione. Ne consegue che la responsabilità degli
insegnanti si fonda su un’omessa vigilanza e non concerne l‟intero sistema educativo, al contrario
di quanto accade per i genitori. La responsabilità degli insegnanti è quindi meno gravosa rispetto a
quella dei genitori: i primi, infatti, si sostituiscono ai secondi solo nel dovere di vigilanza, e non anche in
quello di educazione; gli insegnanti inoltre (diversamente dai genitori) rispondono degli illeciti compiuti
dagli allievi solamente nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. È possibile, dunque, che si verifichi
un concorso di responsabilità dell’insegnante (per culpa in vigilando) e del genitore (per culpa
in educando) nei casi in cui l’illecito del minore sia causalmente riconducibile ad un’omessa
vigilanza e ad una carente educazione.
La diversità delle due forme di responsabilità tale da giustificare il loro eventuale concorso spiega anche
il diverso atteggiarsi della prova liberatoria che incombe sul precettore. Il limite del dovere di vigilanza e
della relativa responsabilità coincide con l‟evento imprevedibile. Per essere esente da responsabilità,
quindi, l‟insegnante dovrà dimostrare di avere esercitato la vigilanza nella misura dovuta (il che
presuppone anche l‟adozione, in via preventiva, delle misure organizzative idonee ad evitare una
situazione di pericolo) e dovrà inoltre fornire la prova dell‟imprevedibilità e repentinità, in concreto,
dell‟azione dannosa.
Un chiarimento si impone: rientra nella previsione dell’art. 2048 c.c. – quindi della relativa
presunzione di responsabilità - il fatto doloso o colposo commesso dal minore in danno di terzi
nel tempo in cui era affidato alla vigilanza dell’insegnante, ma non anche il danno a sé stesso
(cd. autolesioni). Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (con sentenza 27 giugno 2002, n. 9346)
hanno statuito l‟inapplicabilità dell‟art. 2048 c.c. (e dello schema di responsabilità extracontrattuale in
generale) all‟ipotesi del danno cagionato dall’allievo a sé stesso, attraverso l‟inquadramento della
fattispecie in chiave contrattuale, anziché aquiliana.
La Corte, dato atto del contrasto giurisprudenziale, aderisce all‟orientamento maggioritario
esprimendosi nei termini che seguono: “...deve escludersi che sia invocabile la presunzione di
responsabilità posta dall'art. 2048, comma 2, nei confronti dei precettori, al fine di ottenere il
risarcimento dei danni che l'allievo abbia procurato a se stesso.
Il contrario assunto postula infatti una radicale alterazione della struttura della norma, che delinea una
ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto il precettore risponde verso il terzo danneggiato
per il fatto illecita compiuto dall'allievo in danno del terzo, per non averlo impedito in ragione di una
presunzione di culpa in vigilando, laddove nel caso di autolesione il precettore sarebbe ritenuto
direttamente responsabile verso l'alunno per un fatto illecito proprio, consistente nel non aver
impedito, violando l'obbligo di vigilanza, che venisse compiuta la condotta auto lesiva”.
16
Per completezza d'esame, le Sezioni Unite ritengono di precisare che, nel caso di danno arrecato
dall'allievo a se stesso, appare più corretto ricondurre la responsabilità dell'istituto scolastico e
dell'insegnante non già nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, con conseguente onere per il
danneggiato di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito di cui all'art. 2043 c. c.,
bensì nell'ambito della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione del regime
probatorio desumibile dall'art. 1218 c. c..
Quanto all'istituto scolastico, l'accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione
dell'allievo determina infatti l'instaurazione di un vincolo negoziale da contatto sociale qualificato, in
virtù del quale, nell'ambito delle obbligazioni assunte dall'istituto, deve ritenersi sicuramente
inclusa quella di vigilare anche sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui
fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l'allievo
procuri danno a se stesso ( v. Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2013, n. 11751; Cass. civ., sez. III, 4
ottobre 2013, n. 22752;Cass. civ.,sez. III, 4 febbraio 2014, n. 2413, allegata in dispensa).
Quanto al precettore dipendente dall'istituto scolastico, osta alla configurabilità di una responsabilità
extracontrattuale il rilievo che tra precettore ed allievo si instaura pur sempre, per contatto
sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale il precettore assume, nel quadro del complessivo
obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare
che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona (v. Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067).
Circa l'onere probatorio, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei
confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante, l'attore dovrà quindi soltanto provare che il
danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sarà onere dei convenuti
dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a loro non imputabile (cfr.Cass., sez. III,
31marzo 2007, n. 8067, in Foro it., 2007, I,c. 3468; Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2559).
Riepilogando: per quanto attiene alla responsabilità del "precettore" verso gli alunni, è
incontestabile che esistono attualmente due diversi titoli di responsabilità astrattamente applicabili, in
relazione alle diverse modalità con cui si verifica il danno. Infatti, se un minore riceve un danno da
un compagno di classe la responsabilità del precettore è extracontrattuale (ex art. 2048, comma
2, c.c.), mentre se lo stesso minore si cagiona da solo anche il medesimo danno, la
responsabilità è contrattuale: e ciò in base alla interpretazione che si è ormai affermata della norma
codicistica nel diritto vivente.
L'art. 2048, comma 2, c.c., pone in effetti a carico dei precettori una responsabilità del danno per fatto
altrui (impropriamente indicata spesso come "oggettiva") per i fatti illeciti cagionati dagli allievi "nel
tempo in cui sono sotto la loro vigilanza". È pacifico che l'operatività di tale norma è limitata ai
danni che il minore capace di intendere e di volere cagioni ad altri, ma non a quelli che procuri
a se stesso. In tale ultimo caso invece, il tipo di responsabilità che ne deriva è fondato su una
responsabilità contrattuale sia dell'istituto scolastico che del precettore, basata sul rapporto sorto a
seguito della iscrizione/ammissione scolastica dell'alunno che determinerebbe un vincolo negoziale
da c.d. "contatto sociale".
È appena il caso di rammentare, come "in tema di responsabilità civile ex art. 2048 c.c., il dovere
di vigilanza dell'insegnante va commisurato all'età e al grado di maturazione raggiunto dagli
allievi in relazione alle circostanze del caso concreto”. Non è poi da dimenticare che nelle ipotesi
di danno verso terzi in casi diversi da quelli commessi in culpa in vigilando, sussiste una responsabilità
solidale del precettore con lo stesso alunno danneggiante, ove capace di intendere e di volere. Il terzo
leso potrebbe quindi agire sia verso l'alunno danneggiante che verso il precettore. Autorevole dottrina,
ipotizza che il precettore abbia anche rivalsa nei confronti dell'allievo che abbia materialmente
compiuto l'illecito.
In ogni caso, in tale contesto di attività scolastica per il fatto lesivo commesso dall'alunno (verso
terzi ovvero verso anche se stesso), è legittimato passivo per la richiesta del risarcimento non il
precettore, ma l'istituto scolastico in forza dello specifico dettato di cui all'art. 61, comma 2, legge 11
luglio 1980, n. 312 (v. Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5067, allegata in dispensa; App. L'Aquila,
14 gennaio 2015, n. 55).
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Rimane l'ipotesi di azioni dirette dei genitori o di terzi lesi verso gli insegnanti per quanto possa
accadere al di fuori dell'esercizio della vigilanza, e l'ipotesi non appare meramente teorica. Si deve
riconoscere che il periodo di vigilanza non si limita allo stretto tempo della lezione, ma si estende anche
alla ricreazione, alle gite scolastiche, alle ore di svago trascorse nei locali scolastici o di pertinenza della
scuola, fino al momento della riconsegna ai genitori. Sostanzialmente, dal momento in cui gli alunni
varcano la soglia dell'istituto scolastico essi sono sottoposti al regime normativo dell'art. 2048 c.c.
Appare utile menzionare che a norma dell'art. 29, comma 5, del C.C.N.L. - Scuola 2006/2009, Per
assicurare l'accoglienza e la vigilanza degli alunni, gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti
prima dell'inizio delle lezioni e ad assistere all'uscita degli alunni medesimi. Inoltre, il d.lgs. n. 297/1994,
(modificato dal d.l. 28 agosto 1995, n. 361, convertito con modificazioni dalla legge 27 ottobre 1995, n.
437) prevede all'art. 494, comma 1, lett. c), la sanzione disciplinare della "Sospensione dall'insegnamento o dall'ufficio fino a un mese" nel caso in cui il dipendente abbia "omesso di compiere gli atti
dovuti in relazione ai doveri di vigilanza", e pertanto qualsiasi fatto che dovesse accadere al di fuori
dell'esercizio della loro vigilanza sembrerebbe attenere, per esclusione logica, alla loro vita di privati
cittadini.
Se risultano quindi chiari nella loro particolare complessità i profili della responsabilità degli
insegnanti, giova adesso individuarequali sono ipunti di sovrapposizione con quella dei
genitori.
A tale scopo, occorre ribadire come è proprio il meccanismo sopra descritto delle responsabilità per i
fatti accaduti in ambito scolastico che già rende teoricamente operanti due tipi di responsabilità per un
medesimo fatto.Tale connessione è un aspetto già noto, poiché consolidato orientamento
giurisprudenziale ritiene che nelle ipotesi di fatti illeciti commessi da alunni durante le attività
scolastiche sussista una responsabilità concorrente, solidale, e non alternativa dei genitori e del
precettore (Cass. civ. sez. III, 21 settembre 2000, n. 12501). Le responsabilità del genitore e quella del
precettore per il fatto commesso da un minore affidato alla vigilanza di quest'ultimo, non sono infatti
alternative, giacché l'affidamento del minore alla custodia di terzi, se solleva il genitore dalla
presunzione di "culpa in vigilando", non lo solleva da quella di "culpa in educando",
rimanendo comunque i genitori tenuti a dimostrare, per liberarsi da responsabilità per il fatto compito
dal minore pur quando sotto la vigilanza di terzi, di avere impartito al minore stesso una educazione
adeguata a prevenire comportamenti illeciti.
La connessione delle due situazioni di responsabilità attraverso il meccanismo giuridico della
solidarietà è posta a tutela dei terzi danneggiati, ed apre anzitutto la strada ad una ripartizione
percentuale della colpa in via interna tra i soggetti responsabili tra i quali potrebbe poi farsi
valere la rivalsa. Sarà eventualmente il giudice in base al fatto concreto così come si è verificato a
stabilire se ed in che misura il comportamento del minorenne/allievo sia frutto di carenze educative e di
mancata vigilanza del precettore. Le sfumature della potenziale casistica sono infinite, e non si
dimentichi che il dovere di vigilanza dell'insegnante va sempre e comunque commisurato all'età ed al
grado di maturazione (rectius al suo livello di educazione) raggiunto dagli allievi in relazione alle
circostanze del caso concreto.
Per quanto attiene poi alle ipotesi di autolesionismo il danneggiato è il figlio/alunno intorno al quale si
giocherà la partita per definire se una autolesione o un danno subito ad opera dell'alunno stesso sia
risarcibile da parte di chi doveva controllare - ossia scuola ed insegnanti - sottoposti alla prova
liberatoria del dovere dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa ad essi non
imputabile. Anche in questo caso sarebbero coinvolgibili le responsabilità dei genitori, a seconda
della dinamica del fatto, e senza arrivare ad apparenti errate conclusioni sull'onda di sentenze che
sembrerebbero avallare la responsabilità della scuola e degli insegnanti anche per le "nascoste e
recondite idiosincrasie dell'adolescente" (l'inciso è mutuato dal commento a Trib. Catanzaro, sez. I, 18
giugno 2009). La sentenza riguardava il noto caso della alunna suicida durante la mattutina attività
scolastica, e la responsabilità del Ministero convenuto è stata in quel caso motivata con la mancata
(prova della) attività di sorveglianza da parte dell'insegnante. Sarebbe risultato molto difficile invece
addivenire ad una condanna qualora la vigilanza fosse stata coerente con "il comportamento minimo
che ad un educatore viene richiesto". Infatti, in presenza di un valido controllo, nessuno avrebbe
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potuto conoscere gli intimi propositi suicidi dell'alunna, sicuramente maturati in ambito familiare o
comunque per una distorta educazione alla gestione delle preoccupazioni che la vita può dare in ogni
momento ed a qualsiasi età.
Anche in presenza del principio della solidarietà tra genitori e precettori, nella prassi i terzi
agiscono direttamente verso l'istituzione scolastica soprattutto se la dinamica dei fatti rientra
nel dettato dell'art. 61, l. n. 312/1980, e cioè nei casi di responsabilità degli insegnanti
nell'esercizio della vigilanza. È infatti più facile agire contro il ministero legittimato passivo
necessario, per sfruttare la sua migliore solvibilità ed ottenere comunque il pagamento dell'intero
ammontare del danno. Sarà poi il ministero ad agire in rivalsa verso i genitori, ove abbia anche
anticipato il pagamento della quota di danno che il giudicante ritenesse di imputare alla responsabilità
dei genitori per loro "culpa in educando".
È allora evidente che la probabilità che il terzo danneggiato agisca direttamente contro i genitori per i
fatti illeciti commessi dai figli durante le attività scolastiche sia tanto più alta quanto più alta è la
possibilità di provare agevolmente la loro responsabilità, ovvero quanto più evidentemente ricada fuori
dall'alveo della attività di vigilanza degli insegnanti.
Ma il terreno più scoperto per il verificarsi della culpa in vigilando degli insegnanti è quello dei danni da
autolesione. Le casistiche giudiziarie dimostrano come (a prescindere dall'esito delle iniziative, spesso
non favorevole) i genitori tendano comunque a colpevolizzare il lavoro degli insegnanti,
intentando azioni giudiziarie (anche penali) per le più svariate motivazioni. Si sta sempre più
diffondendo il convincimento che ciò sia giusto, perché i genitori in realtà stanno lentamente
rinunciando al loro ruolo di educatori, scivolando verso la richiesta per fatti concludenti di una specie di
assistenzialismo pubblico al potere educativo, in base al quale si pensa che i figli lasciati a scuola non
appartengono più in alcun modo alla loro sfera di controllo, come se essi non fossero vettori di valori e
disvalori appresi in ambito familiare.
È necessario riequilibrare questa tendenza, cercando di fare riemergere il contenuto di ruoli sociali che
stanno gradualmente depotenziandosi.
In materia di responsabilità disciplinare degli studenti si è assistito ad una notevole evoluzione
che può dirsi iniziata con l'introduzione dello Statuto delle Studentesse e degli Studenti (d.P.R.
24 giugno 1998, n. 249) che ha avuto il merito di avere procedimentalizzato la materia, dettando anche
norme quadro che permettessero ai singoli istituti di operare in autonomia.
La disciplina consiste nell'insieme in quei particolari doveri di comportamento richiesti agli
studenti nell'ambito della attività scolastica. Essa quindi si basa su un complesso di norme (e sulla
osservanza delle stesse) volte ad assicurare il buon ordine e la regolarità della vita della comunità
scolastica.
La comunità scolastica può affinare alcuni profili della educazione alla convivenza: gli alunni
vivono quotidianamente in contatto con adulti e coetanei nei confronti dei quali si scontrano le
rispettive individualità; vivono in un ambiente dove appare essenziale convivere rispettando l'altrui
libertà e tollerando l'altrui diversità di posizione; conoscono l'esistenza di regole la cui osservanza viene
rimessa al corpo docente, responsabile della crescita educativa degli allievi, oltre che della loro
maturazione formativa in senso stretto.
La scuola non dovrebbe diventare il luogo dove i suoi componenti cercano di scaricarsi
reciprocamente delle mere responsabilità. È per questo motivo che lo stesso Statuto delle
Studentesse e degli Studenti prevede (Articolo 5-bis: Patto educativo di corresponsabilità:
"Contestualmente all'iscrizione alla singola istituzione scolastica, è richiesta la sottoscrizione da parte dei
genitori e degli studenti di un Patto educativo di corresponsabilità, finalizzato a definire in maniera
dettagliata e condivisa diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e
famiglie...", quello che dovrebbe essere lo strumento per coinvolgere i genitori nella consapevolezza del
loro ruolo, che si svolge all'esterno, ma produce effetti anche all'interno della vita scolastica ed
ottenerne piena condivisione degli obiettivi e delle scelte educative operanti anche in ambito scolastico).
I genitori sono chiamati a sottoscrivere tale patto educativo all'atto della iscrizione, ed appare
indubbio che l'adesione comporta delle conseguenze di carattere giuridico.
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Basti solo pensare a quanto sopra detto sulla responsabilità da "contatto sociale", di natura contrattuale,
che decorre dalla iscrizione all'istituto. Un'iscrizione integrata da specifiche condivisioni di
obiettivi (anche) educativi sicuramente obbliga le due parti, ciascuna per quanto di sua
competenza. Pertanto, fermi restando i superiori obblighi di legge relativi alla vigilanza, i genitori
manifestano alla sottoscrizione del patto una piena consapevolezza che essi non saranno semplici
spettatori passivi di ciò che accadrà nell'ambito della vita scolastica. Essi si assumono l'onere di
intervenire costantemente sui loro figli e di tenere conto di tutti i segnali che dovessero provenire dalla
scuola che si ponessero come indici di un loro potenziale fallimento educativo. Anche la scuola, in
questo contesto, rafforza il legame contrattuale e lo c olma di un progetto ben definito, dove
l'inadempimento è più individuabile da parte dei danneggiati che avessero interesse a farlo valere, anche
in via extracontrattuale.
3. La responsabilità dei padroni e committenti: art. 2049 c.c.
Si rinvia alla manualistica per l‟individuazione dei requisiti della responsabilità di cui all‟art. 2049 c.c.; in
questa sede ci si soffermerà sulla natura e prova liberatoria.
Quanto alla natura della responsabilità dei padroni e committenti, l‟art. 2049 c.c. stabilisce che
questi sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell‟esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
Oggi la dottrina più moderna preferisce parlare di responsabilità dei preponenti per i fatti dei loro
preposti, formula che, ricomprendendo tutte le relazioni in base alle quali un soggetto utilizza e dispone
del lavoro altrui per i propri fini, è idonea ad impedire che le stesse si identifichino con uno o più
rapporti giuridici tipici (quale, ad es., il solo rapporto di lavoro subordinato).
La responsabilità dei preponenti è una responsabilità oggettiva per il fatto illecito altrui: essa
prescinde del tutto, infatti, da una culpa in eligendo o in vigilando da parte del datore di lavoro ed è
insensibile, quindi, all‟eventuale dimostrazione dell‟assenza di colpa (cfr. Cass. civ., sez. III, 10 aprile
2014, n. 8410; Cass. civ., sez. III, 24 settembre 2015, n. 18860, allegata in dispensa).
Ciò si desume dalla stessa lettera della norma, la quale non prevede per il datore di lavoro alcuna
prova liberatoria con i caratteri del fatto impeditivo. Ipotizzare, come in passato, l‟esistenza di una
presunzione assoluta di colpa, significherebbe, pertanto, inserire surrettiziamente nella struttura dell‟art.
2049 c.c. un presupposto che è ad essa del tutto estraneo.
La responsabilità oggettiva in questo caso rinviene la sua ratioin un principio di equità che impone
di trasferire l’obbligo di risarcimento del danno daidipendenti ai datori di lavoro, cioè di
trasferirlo in capo al soggettoeconomicamente più forte (che trae vantaggio dal rapporto con il
preposto) in modo tale da assicurare al danneggiato una completariparazione del danno subìto.
La stessa giurisprudenza prevalente - lungi dal soffermarsi su qualsivoglia profilo di colpa - focalizza
l‟attenzione sulla nozione di nesso di “occasionalità necessaria” tra l‟attività svolta dal dipendente e il
danno occorso, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque
agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo.
Tale responsabilità, a ben vedere, opera tutte le volte in cui l’atto illecito viene a realizzarsi
nell’ambito di un’attività spiegata dal danneggiante al servizio e nell’interesse di un altro
soggetto e che, in particolare, si inserisce nell’ambito di una relazione organizzata da
quest’ultimo. Il danno viene cosìimputato anche al soggetto cui si riferisce tale organizzazione, la quale
puòmanifestarsi in una vasta gamma di relazioni giuridiche caratterizzate da un differentegrado di
complessità.
È, pertanto, ormai generalmente condiviso l‟assunto per cui, ai fini della responsabilità ex art. 2049 c.c.,
non occorre un rapporto di lavoro vero e proprio,ma è sufficiente la circostanza
dell’inserimento del preposto nell’impresa, anche in via occasionale; ciò che rileva è che il
comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dallo svolgimento delle
incombenze poste in essere per conto e sotto la vigilanza del preponente (cfr., tra le più recenti,Cass.
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civ., sez. lav., 25 marzo 2013, n. 7403; Cass. civ., sez. III, 6 giugno 2014, n. 12828,allegata in
dispensa).
In ogni caso, trattandosi di responsabilità oggettiva per fatto illecito altrui, è sempre possibile che il
committente agisca in regresso nei confronti dell‟autore del danno.
Il principio enunciato dall’art. 2049 c.c.opera anche in ambito contrattuale ai sensi dell’art. 1228
c.c., secondo il quale “salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell‟adempimento
dell‟obbligazione si vale dell‟opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”.
Parte della dottrina sottolinea il parallelismo delle due norme sulla base della comune ratio, che
risiede nella opportunità di accollare il rischio dell‟attività dei collaboratori a chi se ne serve per un
proprio vantaggio, sicchè in entrambi i casi la responsabilità si fonderebbe su una sorta di garanzia
assunta nei confronti del creditore o dei terzi.
Altra dottrina tuttavia contesta l’allineamento tra gli artt. 1228 e 2049 c.c., valorizzando la
diversità di accezioni date ai termini “ausiliario” e “commesso”: in ambito contrattuale qualsiasi
terzo può essere incaricato dal debitore di eseguire la prestazione, mentre in ambito extracontrattuale,
invece, viene in rilievo la responsabilità di coloro che sono legati al datore di lavoro da un preciso
rapporto di preposizione. La nozione di ausiliario sarebbe, pertanto, caratterizzata da una maggiore
latitudine rispetto alle nozioni di domestico e commesso.
4. La responsabilità da attività pericolosa: art. 2050 c.c..
Di peculiare interesse è, di poi, il criterio di imputazione della responsabilità e la prova liberatoria in
tema di attività pericolosa ex art. 2050 c.c..
Assai controversa è apparsa agli interpreti la determinazione della natura della responsabilità
per l‟esercizio di attività pericolose, attesa l‟incertezza che connota la formula usata dal legislatore
nell‟art. 2050 c.c., laddove si stabilisce che chi svolge tali attività è tenuto al risarcimento se non prova di
aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo.
Al riguardo sono state elaborate tre teorie.
a) Tesi della responsabilità per colpa presunta.
Il criterio di imputazione della responsabilità in questione deve essere rinvenuto nell‟elemento
soggettivo. La rilevanza dello stesso appare ricavabile dalla previsione di una prova liberatoria
imperniata su una valutazione del comportamento dell’esercente.
Nell‟art. 2050 c.c., a differenza che nell‟art. 2043 c.c., risulterebbe applicata un‟inversione dell‟onere
della prova con riguardo all‟elemento soggettivo, derivante proprio dalla presunzione iuris tantum di
colpa. La circostanza che un fatto dannoso si sia comunque verificato costituirebbe di per sé la prova
della mancata adozione di tutte le misure preventive del danno. Rispetto a quanto previsto dall‟art. 2043
c.c., quindi, il danneggiato godrebbe di una tutela più ampia, non essendo egli tenuto a dimostrare la
colpa dell‟esercente, dovendosi la stessa ritenere presunta ex lege.
In senso critico nei confronti di una simile prospettiva, è stato osservato che identificare il contenuto
della prova liberatoria nella dimostrazione della diligenza sarebbe incongruo rispetto alla lettera della
norma, la quale richiede l‟adozione di “tutte” le misure idonee ad evitare il danno, e non solo di quelle
che, secondo l‟ordinaria diligenza sarebbero a tal fine opportune. È pur vero che, come sostenuto da
altra dottrina, così intesa la prova liberatoria non potrebbe mai essere fornita, poiché l‟adozione di tutti i
mezzi astrattamente possibili varrebbe sempre a scongiurare il pericolo.
La prova liberatoria prevista dall’art. 2050 c.c. implicherebbe, infatti, un inasprimento del
dovere di diligenza posto a carico dell’esercente; pertanto il legislatore, nel disciplinare l‟esercizio
delle attività pericolose, non si sarebbe riferito all‟ordinaria diligenza, bensì ad un grado di diligenza
tipico dell‟attività svolta, da alcuni identificato nella diligenza professionale, che segnerebbe, pertanto, il
limite della responsabilità di colui che esercita l‟attività pericolosa.
Sarebbe sufficiente a fondare la responsabilità dell‟esercente la c.d. culpa laevissima, ossia un grado
lievissimo di colpa. Esisterebbe, infatti, una differenza tra il comune concetto di colpa e quello previsto
dalla norma in questione, richiedendo la stessa, come visto, il rispetto di uno standard particolarmente
21
rigoroso di diligenza, che si traduce nella necessità per l‟esercente della dimostrazione di essersi
comportato come un soggetto estremamente meticoloso ed esperto.
Il criterio della culpa laevissima, tuttavia non appare essere un criterio di imputazione diverso rispetto a
quello della colpa. L‟art. 2043 c.c. non distingue, infatti, a seconda dell‟intensità dell‟elemento
soggettivo: la circostanza che la colpa sia lieve, pertanto, non sarà di per sé dirimente rispetto al
problema del fondamento della responsabilità.
b) Tesi intermedia.
E‟ stata sostenuta dalla Suprema Corte in una pronuncia del 2003 (v. Cass. civ., 15 maggio 2003, n.
7298), secondo cui la responsabilità per l‟esercizio di attività pericolose, pur rientrando tra le ipotesi di
responsabilità per colpa, si pone “ai limiti ultimi e più prossimi a quella della responsabilità
oggettiva” per effetto dell‟ampliamento del contenuto del dovere di diligenza.
La Cassazione era intervenuta in merito alla responsabilità di un‟impresa, esercente un‟attività di
esecuzione di lavori sulla pubblica strada, nei confronti di un soggetto caduto nell‟asfalto bollente del
marciapiede dinanzi alla propria autorimessa.
Di seguito si riportano i punti salienti della motivazione.
Osserva preliminarmente la Corte che a norma dell'art. 2050 c. c. "chiunque cagiona danno ad altri
nello svolgimento di un' attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto
al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno".
Consentendo la norma una prova "liberatoria" consistente nella dimostrazione di aver adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno, è discusso se ci si trovi in presenza di una responsabilità comunque
fondata su di una colpa, presunta ma rilevante, pur se di tenuissima entità, ovvero di una responsabilità
oggettiva, anche in considerazione del fatto che soggettivamente (soprattutto se si tratta di
imprenditore) il responsabile può non aver colpa alcuna nella mancata predisposizione di tutte le
misure.
La stessa giurisprudenza di legittimità a volte propende per un'ipotesi di responsabilità costruita sulla
presunzione di colpa (Cass. n. 1425/1983; Cass. 21.6.1984, n. 3678) altre volte fa riferimento ad una
presunzione di responsabilità (Cass. 4.6.1998, n. 4777; Cass. 19.1.1995, n. 567), sembrando, quindi,
propendere per l'ipotesi della responsabilità oggettiva.
Il problema non è solo teorico, ma si riverbera sul contenuto e sui limiti della prova "liberatoria".
Secondo la relazione al codice (e la dottrina che ritiene sussistere un'ipotesi solo di presunzione di
colpa) la deroga al principio di responsabilità per colpa (art. 2043 c. c.) si limita all'inversione dell'onere
probatorio ed alla sufficienza di un grado lievissimo di colpa, minore di quello richiesto dall'art. 2043 c.
c. L'orientamento contrario ritiene che, pur versandosi in ipotesi di responsabilità oggettiva, trattasi di
una figura particolare più limitata di quella che ha per limite il caso fortuito.
Come è stato efficacemente segnalato, l'art. 2050 costituisce in effetti il maggior ostacolo all'individuazione di un principio generale di responsabilità oggettiva dell'impresa nel sistema del codice civile.
Proprio nell'ipotesi che più, infatti, sembra implicare l'esigenza di svincolare la responsabilità dalla
colpa, la previsione legale consente l'esonero attraverso una formula che non sembra
riconducibile alla categoria della responsabilità oggettiva in senso proprio. Sembra in realtà
che la norma, pur costituendo un'ipotesi di responsabilità per colpa, nell'ambito di questa
categoria si ponga ai limiti ultimi e più prossimi a quella della responsabilità oggettiva,
comportando, come è stato rilevato, un ampliamento del contenuto del dovere di diligenza con
riferimento alla natura dell' attività dannosa. Sotto questo profilo la formulazione normativa appare
in sintonia con la nozione moderna di colpa, per il preminente significato oggettivo.
Chi pone in essere un' attività pericolosa deve organizzarla preventivamente secondo modalità idonee
ad evitare che la pericolosità si traduca in danno.
La verifica della congruità a tal fine delle misure adottate, sulla base delle risorse offerte dalla tecnologia
esistente ed in relazione alle condizioni concrete, costituisce il contenuto del giudizio da operare ai fini
della sufficienza degli elementi addotti dal convenuto per l'esonero della responsabilità.
Che poi nella pratica tale esonero molto spesso finisca per aversi solo se dalla prova addotta possano
ricavarsi elementi presuntivi circa l'identificazione di una causa non imputabile che abbia reso
oggettivamente impossibile l'adempimento dell'ampio dovere di diligenza previsto dall'art. 2050 c. c. e
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che, quindi, in concreto, la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente, ciò non esclude
che la responsabilità in questione sia pur sempre fondata su una presunzione di colpa, ma anzi
conferma che essa è posta ai limiti estremi di detta categoria, prossima alla responsabilità oggettiva, ma,
estranea alla stessa.
D'altra parte l'obiettivazione del parametro della diligenza nei termini suddetti (che è
evidentemente profilo diverso tanto dalla rilevanza dell'intensità della colpa, quanto dall'oggettivazione
della responsabilità) assume nell'art. 2050 c. c. la massima intensità anche nel senso che il soggetto
chiamato a rispondere, nell'ipotesi che l' attività assuma forma di impresa, è colui che ha il controllo
dell' attività al momento del danno, sul solo presupposto dell'oggettiva mancanza delle misure protettive idonee, non essendogli sufficiente per ottenere l'esonero, la prova di essere personalmente incolpevole. Ma tale esito discende dal fatto che la valutazione richiesta dalla norma concerne l'
attività nella sua interezza ed oggettività e non il comportamento personale dell'imprenditore.
Né ciò risulta contraddittorio, una volta abbandonata l'idea che la responsabilità per colpa implichi un
giudizio di riprorevolezza o sia finalizzata alla punizione del colpevole.
Sulla base di queste premesse si possono trarre alcune conseguenze.
Anzitutto, la sola "informazione" della pericolosità dell' attività - da parte del soggetto esercente - nei
confronti dei potenziali soggetti "danneggiandi" non esaurisce di per sé l'adozione delle misure idonee
ad evitare il danno.
Se così fosse, la sola presenza di questa "informazione" finirebbe sempre per scaricare sul comportamento (commissivo o omissivo) del danneggiato, per il solo fatto di essere stato "avvertito", una
capacità eziologica del danno, per giunta esclusiva, con un ampliamento non previsto dall'art. 1227, c. 1,
c. c. (nel combinato disposto con l'art. 2056) che richiede, invece un comportamento colposo del
danneggiato nella produzione dell'evento.
Se la sola informazione fosse sufficiente ad esentare da responsabilità l'esercente, di essa sarebbe
equipollente anche la conoscenza che il soggetto danneggiato avesse per scienza diretta della
pericolosità dell' attività.
Inoltre la norma in questione richiede che l'esercente l' attività pericolosa, per andare esente da
responsabilità, deve provare di aver posto in essere "tutte le misure idonee ad evitare il
danno".
Come sopra si è rilevato, dette misure devono essere tutte quelle offerte dalla tecnologia esistente ed
organizzate precedentemente, secondo modalità in astratto idonee ad evitare il danno: quindi da una
parte esse non si esauriscono in solo quelle previste eventualmente dalla normativa primaria o
secondaria, ove il caso concreto e la tecnologia esistente ne renda possibili di più efficaci, e dall'altra il
silenzio della normativa sul punto non esenta dalla presunzione di colpa l'esercente l' attività pericolosa.
Sebbene il giudizio sull'idoneità delle misure vada necessariamente effettuato ex ante, in esso va tenuto
conto anche delle prevedibili imprudenze o negligenze del soggetto danneggiato.
Pertanto la presunzione di colpa, contemplata dalla norma dall'art. 2050 c. c. per le attività pericolose,
può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, essendo posto a carico dell'esercente l'
attività pericolosa l'onere di dimostrare l'adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno: quindi
non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di
comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad
impedire l'evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre
effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso
causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella
produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza
a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate (Cfr. Cass. civ., 21 novembre 1984, n. 5960;
Cass. 29 aprile 1991, n. 4710; Cass. 4 giugno 1998, n. 5484).
Stante la suddetta presunzione di colpa a carico del danneggiante, il danneggiato ha il solo onere di
provare l'esistenza del nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno subito; incombe invece
sull'esercente l'attività pericolosa l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire
il danno (Cass. 4 dicembre 1998, n. 12307).
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c) Teoria della responsabilità oggettiva.
Gli elementi richiesti i fini della configurabilità dell‟illecito di cui all‟art. 2050 c.c. sarebbero solamente
due: l‟esercizio di un‟attività pericolosa ed il nesso di causalità tra la stessa ed il danno.
Chi ha cagionato il danno nell’esercizio di una attività pericolosa ne risponde anche se, al
momento del fatto, ha usato diligenza, prudenza, perizia. La responsabilità si basa sulla esistenza
di un rapporto di causalità fra l‟attività esercitata e l‟evento dannoso.L‟imprenditore, ad esempio, è
responsabile del danno provocato dalle esalazioni nocive, che un guasto agli impianti di depurazione ha
fatto fuoriuscire dal suo stabilimento chimico, per il solo fatto che le esalazioni sono fuoriuscite dal suo
stabilimento e che hanno cagionato danni a persone o a cose; anche se non gli si può essere
rimproverata alcuna negligenza o imprudenza o imperizia in relazione alle cause che hanno prodotto il
guasto agli impianti (anche se gli impianti cioè erano in perfetto stato di manutenzione ed erano
diligentemente controllati da personale esperto).
L’adesione alla tesi della responsabilità oggettiva è stata espressamente affermata dalla
Suprema Corte con la decisione 4 maggio 2004, n. 8457, in cui si legge che: “..la responsabilità ex art.
2050 c. c. rientra nelle figure di responsabilità oggettiva, vale a dire quelle forme di responsabilità che prescindono dalla
colpa del responsabile. La responsabilità viene fatta gravare su chi ha posto in essere l'attività, senza riguardo all'eventuale
colposità del proprio comportamento, come nell'ipotesi di cui all'art. 2051 c. c. . Pur differenziandosi le norme in esame
per il fatto che in un caso il danno deriva dall'attività e nell'altro dalla cosa, nulla esclude che il danno sia imputabile al
soggetto quale esercente un'attività pericolosa e quale custode di una cosa. Pertanto, al di là delle opinioni profilatesi in
dottrina e in giurisprudenza, sarà compito dell'interprete valutare caso per caso l'operatività della presunzione di
responsabilità prevista dall'art. 2050 c. c. piuttosto che quella di cui all'art. 2051 c. c., ricorrendo in particolare modo al
carattere dinamico dell'attività o statico della res custodita”.
L'esercente l'attività pericolosa è assoggettato alla presunzione di responsabilità ai sensi dell'art. 2050 c.
c. in relazione ai danni cagionati nello svolgimento dell'attività, presunzione che lo stesso può
vincere fornendo la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Nella scelta di tali misure, egli dispone di un certo margine di discrezionalità, da esercitare facendo uso
della normale prudenza e tenendo conto dello sviluppo della tecnica e delle condizioni pratiche in cui si
svolge l'attività.
Siffatta discrezionalità, peraltro, viene meno quando è la legge ad imporre l'obbligo di adottare talune
misure. Pertanto, la presunzione di responsabilità opera nei confronti dell'esercente l'attività pericolosa
che abbia adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative (o regolamentari), senza che
vi sia alcuna possibilità, in tal caso, di valutarne l'idoneità (Cass. civ., 2 marzo 2001, n. 3022).
Sennonché, pur versandosi in ipotesi di presunzione di responsabilità e non di presunzione di
colpa, essa pur sempre presuppone il previo accertamento dell'esistenza del nesso eziologico la prova del quale incombe al danneggiato - tra l'esercizio dell'attività e l'evento dannoso, non
potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilità rispetto ad un evento
che non è ad esso riconducibile (v., tra le più recenti, Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n.
11575;Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2014, n. 19872,allegata in dispensa).
In tema di illecito aquiliano (anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva), perché rilevi il nesso di
causalità tra un antecedente e l'evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un
antecedente necessario dell'evento, nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie
del fatto, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla
sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l'evento (v. Cass. civ., 15 febbraio 2003, n.
2312).
Ne consegue che, anche nell'ipotesi in cui l'esercente dell'attività pericolosa non abbia adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una
sua responsabilità ex art. 2050 c. c., la causa efficiente sopravvenuta, che da sola sia stata idonea a
causare l'evento, recide il nesso eziologico che si sarebbe innestato tra l'attività pericolosa stessa,
esercitata in assenza di misure di cautela idonee, e l'evento, se questa causa sopravvenuta è idonea a
determinare l'evento in via esclusiva, costituendo - invece - causa concorrente, se l'evento dannoso si
ricolleghi eziologicamente ad entrambe le cause (cioè all'attività pericolosa, in assenza di idonee cautele,
ed alla causa sopravvenuta).
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Questa causa sopravvenuta deve avere i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva
imprevedibilità), che, sebbene espressamente previsto come causa liberatoria solo nell'ipotesi di cui agli
artt. 2051 e 2052 c. c., in effetti rileva in ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, sulla base del principio
generale che anche in queste ipotesi di responsabilità è necessario il nesso eziologico tra il fatto
generatore e l'evento dannoso.
Anche il fatto del danneggiato o del terzo può integrare il caso fortuito e quindi produrre effetti
liberatori, sempre che per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso
causale tra attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella
produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza
a causa della inidoneità delle misure preventive adottate.
Quanto alla nozione di attività pericolosa, può dirsi in prima approssimazione che la stessa va
individuata nell‟attività caratterizzata da notevole potenzialità di danno, da una pericolosità intrinseca o
comunque dipendente dalle modalità di esercizio e dai mezzi di lavoro impiegati.
Ma come si individua un’attività pericolosa? Gli “Ermellini” al riguardo osservano che sono da
reputarsi pericolose quelle attività le quali, per loro stessa natura o per i mezzi impiegati, rendono
probabile e non meramente possibile il verificarsi di un evento dannoso(cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez.
III, 16 gennaio 2013, n. 919; Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2015, n. 16052, allegata in dispensa).
L’accertamento circa la pericolosità di un’attività spetta naturalmente al giudice, senza
dimenticare vi sono attività qualificate espressamente come pericolose, ex art. 2050 c.c., dalla
legge, come nel caso delle leggi di pubblica sicurezza o di altre leggi speciali, come il D.lgs. n.
196/2003, che definisce come pericolosa l‟attività di trattamento dei dati personali e sensibili.
Per adeguati approfondimenti in relazione a talune attività (danno da fumo attivo e passivo, gestione di
impianti sciistici e responsabilità della P.A. per il danno da sangue infetto),rispetto alle quali si è
incentrato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la loro riconducibilità all‟art. 2050 c.c., in
applicazione dei criteri di pericolosità comunemente accolti, si rinvia a CHINE-FRATINI-ZOPPINI,
Manuale di diritto civile, cit., p. 2330 ss.).
5. La responsabilità per danno cagionato causato da cose in custodia: art. 2051 c.c.
L'art. 2051 c.c. prevede la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia, che è quella
responsabilità - di tipo rigorosamente oggettivo - che fa capo ad un soggetto a prescindere da ogni
valutazione circa eventuali profili di colpa del responsabile, per il solo fatto di ricoprire il ruolo di
custode della cosa che ha cagionato il danno verificatosi e lo obbliga a risarcire il danno (Sull‟argomento
v., amplius, GUAGLIONE, Studi di diritto civile, vol. I, Obbligazioni e responsabilità civile, cit., p. 335 ss.; CHINÈ FRATINI-ZOPPINI, Manualedi diritto civile, cit., pag. 2338 ss.).
Al fine di poter fondare la risarcibilità del danno ex art. 2051, dunque, è sufficiente provare il nesso di
causalità tra la cosa in custodia e il danno, rimanendo del tutto estraneo alla struttura della previsione
normativa il profilo del comportamento del custode, che non potrà essere preso in considerazione
neppure attraverso il riconoscimento di una presunzione di colpa.
Il custode, dunque, non potra' sottrarsi alla responsabilita' dimostrando semplicemente di aver adottato
le regole di diligenza e le cautele idonee ad impedire l'evento.
Sul custode incombe, dunque, una presunzione di responsabilità, che riveste carattere oggettivo.
L'unico limite posto dal dettato legislativo a tale responsabilità è quello rappresentato dal caso fortuito,
che assume un ruolo esimente solo qualora sia rigorosamente provato.
In particolare, il caso fortuito può sussistere:
- quando, nella sequenza degli eventi, si inserisce un fattore esterno di per se' stesso idoneo a produrre
l'evento dannoso (il cosiddetto fortuito autonomo);
- nel caso in cui il danno venga prodotto direttamente dalla cosa in custodia, ma in conseguenza di un
fattore esterno imprevedibile che abbia inciso sulla stessa (il caso fortuito detto incidentale). Il fattore
esterno in questione può essere individuato tanto in un evento naturalistico, quanto in un comportamento dello stesso danneggiato.
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La rilevanza esimente del caso fortuito, dunque, attiene al profilo strettamente causale, con
conseguente inversione dell'onere della prova, per cui all'attore competerà provare l'esistenza
di un rapporto eziologico tra la cosa in custodia e l'evento lesivo, mentre farà capo al custode
che intenda sgravarsi dalla responsabilità la prova dell'esistenza di un fattore estraneo che
rivesta le dette caratteristiche del caso fortuito.
Il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento ai sensi dell'art. 2051 c.c., dunque, sarà tenuto a
provare in primo luogo l'esistenza e l'entità del danno stesso e, in secondo luogo, l'esistenza del nesso di
causalità tra l'evento lesivo e il bene in custodia, unitamente all'effettiva relazione (qualificabile,
appunto, come custodia) tra la cosa ed il convenuto (cfr. Cass. civ., sez. VI, 4 ottobre 2013, n.
22684;Cass. civ., sez. VI, 27 novembre 2014, n. 25214, allegata in dispensa). Quest'ultimo, dal canto
suo, potrà liberarsi dalla responsabilità provando, nei termini descritti, il caso fortuito (cfr. Cass. civ.,
sez. VI,30 settembre 2014, n. 20619; Cass. civ., sez. III, 4 maggio 2015, n. 8893;Cass. civ., sez. VI, 9
ottobre 2015, n. 20366, allegata in dispensa) .
Le relative valutazioni competono al giudice di merito e non sono sindacabili in sede di giudizio di
legittimità, ove sorrette da idonea, completa ed esaustiva motivazione.
È da segnalare, ancora, che, nel caso in cui non risulti compiutamente provata la concreta causa
del danno, resterà a carico del custode il rischio del fatto ignoto.
L'accertamento positivo del caso fortuito, tra l'altro, varrà ad escludere non soltanto la responsabilità
per danni derivati da cose in custodia, bensì anche la responsabilità exart. 2043 c.c.
Data la rilevanza centrale che assume il rapporto di custodia nell'attribuzione della responsabilità ex art.
2051 cod. civ., dunque, è importante specificare bene il significato della figura del custode.
La giurisprudenza si è a lungo dibattuta in materia.
La corrente giurisprudenziale maggioritaria individua il custode in quel soggetto che, di fatto,
ha la disponibilità del bene, situazione che gli consente, pur in mancanza di uno specifico
obbligo, di effettuare un efficace controllo e di intervenire tempestivamente in caso di pericolo,
al fine di eliminare o attenuare le conseguenze dannose(v.Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2014,
n. 19657,allegata in dispensa).
Una corrente giurisprudenziale minoritaria, invece, individua il custode in quel soggetto al quale fa capo
il godimento della cosa e che è in grado, dunque, di trarne profitto.
Tra le ipotesi applicative dell‟art. 2051 c.c.,più ricorrenti nella prassi giurisprudenziale, merita particolare
menzione quella afferente la responsabilità della P.A. per omessa manutenzione dei propri beni.
5.1. La responsabilità della P.A da omessa custodia dei propri beni.
Quanto alla responsabilità da cose in custodia, occorre soffermarsi sulla tematica della responsabilità
della P.A. da omessa custodia di propri beni patrimoniali o demaniali.
Per lungo tempo la giurisprudenza ha sostanzialmente disapplicato l’art. 2051 c.c. ove custode
fosse una pubblica amministrazione facendo leva sulla presunzione di legittimità dell’agire
amministrativo. L‟indirizzo si ricollegava all‟idea più generale secondo cui doveva ritenersi inibita
l‟estensione alla amministrazione di tutte quelle norme civilistiche, dettate specie in ambito contrattuale,
introduttive di presunzioni di colpa o comunque finalizzate a sanzionare determinate scorrettezze
comportamentali del singolo (si pensi, avuto riguardo a questo diverso ambito, alle norme in tema di
responsabilità precontrattuale o in materia di clausole vessatorie).
L’orientamento è stato superato anzitutto rilevandosi che l’assoggettamento della P.A. alle
regole del diritto privato e la collocazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti
quando agisce iure privatorum, nell‟ambito dei comuni rapporti della vita di relazione, risponde ormai ad
un’esigenza pienamente avvertita dalla coscienza sociale.
In passato, presunta la correttezza dell‟azione della p.a. si affermava che la responsabilità della stessa per
omessa manutenzione di beni pubblici dovesse essere rigorosamente dimostrata dal danneggiato in tutti
i suoi elementi, secondo lo schema di cui alla clausola generale dell‟art. 2043 c.c..
Era, allora, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile della cosa produttiva di danno a
determinare automaticamente l‟inoperatività dell‟art. 2051 c.c..
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Detta giurisprudenza, nel corso della sua successiva elaborazione, ha operato un’importante
precisazione, sostenendo che la presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia
non sia applicabile agli enti pubblici ogni qual volta il bene, sia esso demaniale o patrimoniale,
per le sue caratteristiche (estensione e modalità d’uso) sia oggetto di un’utilizzazione generale
e diretta da parte di terzi, che limiti in concreto le possibilità di custodia e vigilanza sulla cosa;
solo in questi casi, perciò, si è puntualizzato, l’ente pubblico risponde secondo l’art. 2043 c.c.
dei danni subiti da terzi a causa di un’insidia stradalequando l’insidia stessa non sia visibile e
neppure prevedibile. In tal modo si è inteso evidenziare che non si tratta di riconoscere alla p.a. un
ingiustificato privilegio, inconcepibile in uno Stato di diritto, ma soltanto di verificare nel caso concreto
la reale sussistenza del presupposto della effettiva custodia.
A partire dagli anni ottanta si è sempre più fatto ricorso alle nozioni, di invenzione pretoriale, di
“insidia” e di “trabocchetto”, contestate da chi le ha ritenute introdotte ad hoc, nell‟ambito di una
precisa strategia volta a nascondere un più o meno velato fine di limitazione della responsabilità civile
dell‟amministrazione.
L‟evoluzione giurisprudenziale successiva è caratterizzata dal costante riferimento alla questione della
natura della responsabilità e dal susseguirsi di contrastanti prese di posizione provenienti tutte dalla
stessa terza sezione della Cassazione (cfr. Cass. sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, Cass. sez. III, 02
febbraio 2007, n. 2308 e Cass., sez. III, 06 luglio 2006, n. 15383).
Le prime sentenze chiariscono che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, con
ciò riferendosi a quel fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo
causale dell‟evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno,
recante i caratteri dell‟imprevedibilità e dell‟inevitabilità.
Si ribadisce il significato del concetto di “custodia” nel suo contenuto di “potere di governo” della cosa,
negando, però, che lo stesso possa surrettiziamente introdurre elementi di soggettività nella fattispecie
in quanto si afferma che il custode risponde dei danni prodotti dalla cosa non perchè ha assunto un
comportamento poco diligente, ma più semplicemente per la particolare posizione in cui si trovava
rispetto alla cosa danneggiante, e quindi secondo una logica che è propria della responsabilità oggettiva.
In tema di danni derivanti dall’utilizzo delle strade ed autostrade, la Cassazione, ribadisce
ancora una volta l’interpretazione in chiave oggettiva dell’art. 2051 c.c. dopo aver premesso che
l’applicabilità dello stesso alla p.a. è subordinato al previo accertamento della possibilità, nel
caso concreto, di esercitare un effettivo controllo sul bene. Segnatamente, per i beni del demanio
stradale detta verifica va compiuta valutando, non solo l‟estensione della strada, ma anche le sue
caratteristiche, la posizione, le dotazioni, i sistemi di assistenza che la connotano, avuto riguardo agli
strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che condizionano le aspettative degli
utenti. Ed allora, alla stregua di tali parametri, si afferma, quanto alle autostrade destinate per loro
stessa natura alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, nonché per le strade site
all’interno della perimetrazione del centro abitato la ricorrenza del presupposto del governo
della res rispettivamente in capo al concessionario ed al proprietario, e dunque l’operatività,
nei confronti dei medesimi del regime probatorio dell’art. 2051 c.c., e non di quello residuale di
cui all’art. 2043 c.c., senza che la visibilità dello stato di abbandono, e perciò la pericolosità della sede
stradale valgano ad escludere la responsabilità degli stessi.
L'affermazione di questa ipotesi di responsabilità è avvenuta per gradi e ha conosciuto negli ultimi
tempi nuovo impulso.
Invero negli ultimi anni si è arrivati a sostenere (v. Cass. civ., 20 febbraio 2006, n. 3651; Cass. civ., 8
marzo 2007, n. 5308, inGiust. civ., 2008, I, 2990; Cass. civ., 6 giugno 2008, 15042, in Resp. civ. e prev.,
2008, 1915 ss.; Cass. civ., 25 luglio 2008, n. 20427) una piena applicabilità della presunzione di
responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. alla P.A., escludendola nei soli casi in cui è impossibile
esercitare un effettivo controllo sul bene custodito.
La piena applicabilità della presunzione di cui all'art. 2051 c.c. viene espressamente affermata nella
sentenza n. 20427 del 2008, in cui la Suprema Corte, fondando la responsabilità sul mero rapporto di
custodia tra la P.A. e il bene demaniale, ritiene l'ente pubblico sempre responsabile ai sensi dell'art. 2051
c.c., salvo il caso fortuito. La Cassazione, partendo da un'interpretazione letterale della norma e
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valorizzando il concetto di «custodia», ha ritenuto che la P.A. sia sempre in grado di esercitare il potere
di controllo sul demanio stradale, ad eccezione dei casi in cui viene a crearsi una situazione di pericolo
improvvisa, provocata dagli stessi utenti della strada o da una «repentina e non prevedibile alterazione dello
stato della cosa, tale da non poter essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere»
(Cass. civ., 25 luglio 2008, n. 20427).Ad avviso della Corte, l'ente pubblico proprietario della rete viaria
è tenuto ex lege a manutenere le strade, per cui è senza dubbio «custode» nel senso tecnico-giuridico
recepito dallo art. 2051 c.c., cioè un soggetto dotato del potere di sorvegliare la cosa, di impedire
eventuali situazioni di pericolo che possono sorgere e di escludere terzi dall'ingerenza sul bene. In
quest'ottica, una volta accertato che il fatto dannoso si è prodotto nell'ambito del dinamismo
connaturale del bene, è sempre configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, a meno che
quest'ultimo non dimostri il «caso fortuito», inteso quale «fattore che attiene non già ad un comportamento del
responsabile bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento
esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità» (28)
La responsabilità della P.A. ai sensi dell'art. 2051 c.c. è, quindi, esclusa quando il danno deriva da una
causa esterna non prevedibile o proveniente da terzi, ma se la causa del danno è intrinseca alla natura
del bene, come nel caso di dissesto o presenza di buche, allora è senza dubbio configurabile.
Questa pronuncia sembrerebbe sancire definitivamente la fine del fondamento colposo nella
responsabilità per danni da cose in custodia; tuttavia, in alcune pronunce successive si ravvisa
ancora la sopravvivenza di un giudizio in ordine alla colpa della P.A. Viene, infatti, attribuito
rilievo all'indagine circa l'effettività del potere di vigilanza sulla cosa da parte del soggetto pubblico,
ammettendo la possibilità di situazioni in cui l'ente pubblico non è comunque in grado di esercitare un
controllo effettivo sul bene.
In altra recente sentenza (Cass. civ., 22 aprile 2010, n. 9546, inRep. Foro it., 2010, voceResponsabilità civile,
n. 288 ss.) la Corte ha sostenuto che come non può essere escluso a priori il rapporto di custodia in
relazione alla natura demaniale del bene, così lo stesso non può nemmeno ritenersi sussistente «anche
quando vi è l'oggettiva impossibilità di tale potere di controllo sul bene, che è il presupposto necessario per la modifica della
situazione di pericolo». Confutando l'orientamento seguito dalla precedente sentenza del 2008, la Corte
afferma che per valutare l'esigibilità della custodia in relazione ai beni demaniali di grandi dimensioni
quali la rete viaria non si può far riferimento ai poteri giuridici astratti della P.A., ma è necessaria
un'analisi in concreto. Il potere di effettivo controllo sul demanio stradale deve essere accertato tenendo
conto non solo della notevole estensione del bene demaniale e dell'uso generalizzato dello stesso da
parte della collettività, ma anche delle caratteristiche delle strade, la loro posizione, le dotazioni, i sistemi
di assistenza e gli strumenti tecnologici che le connotano: se dall'analisi emerge che la custodia non è
concretamente esigibile, la tutela risarcitoria del danneggiato rimarrà affidata esclusivamente alla
disciplina di cui all'art. 2043 c.c.
Nelle ultime pronunce in materia torna così ad assumere notevole rilievo il concetto di
custodia inteso non come possibilità astratta di controllo, ma come facoltà effettiva di vigilanza
del soggetto, con riferimento alla specifica vicenda in cui la cosa ha prodotto il danno(v. Cass.
civ., sez. VI, 17 settembre 2013, n. 21233; Cass. civ.,sez. VI, 19 giugno 2015, n. 12821). Ciò mal si
concilia con una lettura oggettiva della responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., poiché in tale ottica non vi
è spazio per limitazioni relative al tipo di bene o valutazioni circa la condotta del custode.
Aderendo alla natura oggettiva della responsabilità, infatti, il custode risponderebbe del danno derivante
dalla res anche in assenza di una sua concreta possibilità di intervento nel processo di causazione del
danno e andrebbe esente da responsabilità solo dimostrando il caso fortuito, inteso come evento
imprevedibile ed eccezionale, senza invocare l'impossibilità materiale di esercitare sulla cosa un effettivo
potere di controllo e di governo. È chiaro, quindi, che la giurisprudenza recente, pur rifiutando
espressamente il fondamento colposo della responsabilità ex art. 2051 c.c., accoglie un concetto di
custodia improntato all'effettività della stessa (cfr. Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2012, n. 3253; Cass. civ.,
sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 22684, cit.). Il criterio dell'esigibilità della custodia in concreto, tuttavia, non
allevia nuovamente la P.A. dagli obblighi risarcitori (v.LAGHEZZA,Trabocchetto e responsabilità della P.A.,
inResp. civ., 2009, 876), bensì determina una maggior severità di giudizio: il richiamo all'effettività del
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potere di controllo e sorveglianza, infatti, permette di arrivare quasi sempre a riconoscere che, nel caso
concreto, la custodia da parte dell'ente pubblico era esigibile.
Alla luce delle considerazioni fin qui avanzate, si può concludere che l'evoluzione del pensiero
giurisprudenziale in materia non è poi così netta: analizzando a fondo tutte le pronunce intervenute in
questi anni, si evince che non c'è mai stato un vero passaggio dalla responsabilità per colpa
aggravata alla responsabilità di tipo oggettivo: l'unica evoluzione che può rilevarsi è quella dalla
presunzione di irresponsabilità assoluta della P.A. a quella relativa (FRENDA,La Pubblica amministrazione e
la responsabilità per il danno da cose in custodia, inResp. civ., 2009, 1033, che sottolinea come sia la tesi
tradizionale sia quella più recente siano incentrate sullo stesso elemento prima negato in radice e ora da
verificarsi caso per caso costituito dalla possibilità materiale e concreta, per il soggetto pubblico, di
esercitare un controllo completo e continuo sulla cosa produttiva di danno).
Si è passati dalla tesi tradizionale che, negando la possibilità di un potere di custodia in capo
all'ente pubblico, escludeva tout court l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 2051 c.c. alla
P.A., al più recente orientamento che propende per la piena operatività della norma,
contemperata dalla necessità di accertare l'esigibilità della custodia in concreto.
È evidente che il dibattito intorno alla responsabilità da cose in custodia in capo alla P.A. è tutt'altro che
sopito e si auspica un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite al fine di trovare un'interpretazione
condivisa che tenga conto sia del dato letterale della norma, sia del dibattito fiorito intorno alla stessa.
6. La responsabilità per danno cagionato da animali: art. 2052 c.c.
Altra ipotesi di responsabilità oggettiva è quella disciplinata dall‟art. 2052 c.c. per il danno cagionato da
animali. Benché non siano mancate opinioni contrarie che inquadravano la fattispecie di cui all‟art. 2052
c.c. in una ipotesi di presunzione di colpa, è ormai opinione diffusa che si tratti di un caso di
responsabilità oggettiva, atteso che in tali ipotesi la causa dell‟evento di danno non è costituita da una
condotta dolosa o colposa del soggetto che l‟ordinamento individua come obbligato al risarcimento, ma
sulla mera sussistenza del nesso eziologico. La causalità deve, quindi, essere intesa in senso più lato e
indiretto: essa intercorre non tra il danno e la condotta del danneggiante, ma tra il danno e la cosa o
l‟animale o la persona (diversa dal soggetto obbligato al risarcimento) dei cui danneggiamenti deve
rispondere detto soggetto individuato come responsabile dall‟ordinamento. In altri termini, il
proprietario o utilizzatore di un animale risponde, sulla base non già di un proprio
comportamento o di una propria attività, ma sulla base della mera relazione (di proprietà o di
uso) intercorrente fra lui e l’animale,nonché del nesso di causalità sussistente fra il
comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso, salvo prova del caso fortuito (ossia
dell‟intervento di un fattore esterno idoneo a interrompere il nesso di causalità tra il comportamento
dell‟animale e l‟evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato
che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno) (cfr., tra le più recenti,Cass. civ.,
sez. III, 22 marzo 2013, n. 7260;Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2014, n. 17091,entrambe allegate in
dispensa).
Un caso peculiare è quello della responsabilità della P.A. per danno cagionato dalla fauna selvatica
affrontato dalla sentenza 21 novembre 2008 n. 27763 e risolto in termini di inapplicabilità della
presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052, riconducendo l’ipotesi de qua nell’alveo
dell’art. 2043 c.c. La corte chiarisce che secondo la giurisprudenza di legittimità, nel caso di specie, la
responsabilità della Regione e' configurabile solo ex art. 2043 c.c., con le note implicazioni circa l'onere
probatorio. Secondo l'indirizzo prevalente, il danno cagionato dalla fauna selvatica, che ai sensi della
Legge 27 dicembre 1977, n. 968, appartiene alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili dello Stato,
non e' risarcibile in base alla presunzione stabilita nell'articolo 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla
selvaggina, il cui stato di libertà e' incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della p.a.,
ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all'articolo
2043 c.c., anche in tema di onere della prova e richiede, pertanto, l'accertamento di un concreto
comportamento colposo ascrivibile all'Ente pubblico (cfr. Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n.
29
26197; Cass. civ., sez. III, 24 ottobre 2013, n. 24121; Cass civ., sez. III,24 aprile 2014, n. 9276,
allegata in dispensa).
La situazione non e' poi mutata con l'entrata in vigore della Legge n. 157 del 1992, la quale ha ribadito
che: "la fauna selvatica e' patrimonio indisponibile dello Stato ed e' tutelata nell'interesse della comunità
nazionale ed internazionale". Anche la Corte Costituzionale ha escluso la sussistenza di una
irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico (o in cattività),
e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici, sotto il
profilo che gli eventuali pregiudizi, provocati da "animali che soddisfano il godimento della intera
collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico,
secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile, ex articolo 2043
c.c." (ord. n. 4 del 4 gennaio 2001).
La corte ribadisce, quasi emulando una motivazione largamente impiegata, ma ormai del tutto recessiva,
in tema di responsabilità della P.A. da omessa custodia dei propri beni (ex art. 2051 c.c. infra), che non
possono essere pretese dall'Ente pubblico la recinzione e la segnalazione generalizzate di tutti i
perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete.
7. Rovina di edificio: art. 2053 c.c.
Discorso analogo vale anche per la previsione di cui all‟art. 2053 c.c. in tema di responsabilità per
rovina di edificio. Per la sussistenza di tale responsabilità, che ha carattere oggettivo, è
sufficiente il riscontro di un rapporto causale tra il vizio o difetto (costruttivo o manutentivo) e
il danno. Essa viene attribuita al soggetto che risulta, al momento della rovina, proprietario
dell‟immobile che, per andare esente da responsabilità, dovrà fornire la prova che la rovina non è
dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione.
A ben vedere, la fattispecie presa in esame dall‟art. 2053 c.c. viene considerata quale ipotesi particolare
rispetto a quella di più ampio spettro cui si riferiscel‟art. 2051 c.c., a proposito dei danni cagionati da
cose. Del resto, la sovrapposizione delle due ipotesi è accentuata dal fatto che nella «rovina di edifici» si
tende a ricomprendere non solo il caso più grave rappresentato dalla rovina totale (si pensiad esempio
al crollo), ma anche quella della rovina parziale che ben può riguardare anche manufatti o elementi
accessori stabilmente incorporati nella costruzione: si pensi alla rottura dei tubi dell‟impianto idrico, al
distacco di uno dei tasselli di vetrocemento di cui l‟opera è composta, alla caduta di tegole o lamiere
metalliche.
In realtà, a differenza della fattispecie di cui all’art. 2051 c.c., per la rovina di edifici il criterio di
imputazione della responsabilità è costituito semplicemente dallaposizione di proprietario
dell’immobile, il quale è responsabile e garante per i danni subiti dai terzi, pur se il godimento del bene
e la relazione di fatto con la cosa, ossia la custodia di cui all‟art. 2051, spettino ad altro soggetto (v. Cass.
civ., sez. III, 23 maggio 2012, n. 8141; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2014 n. 19657, cit.; Cass. civ.,
sez. III, 20 maggio 2015 n. 10287, in dispensa).
Secondo autorevole dottrina sono da intendersi costruzioni tutte le opere, che si elevino sopra o sotto il
suolo, le quali siano incorporate al suolo anche in modo transitorio. Pertanto, ad esempio, non
potrebbe considerarsi rovina un cedimento della sede stradale, come è stato anche stabilito dalla
giurisprudenza.
Sono invece da considerarsi costruzioni, secondo l‟art. 2053 c.c., a mero titolo esemplificativo, la rete
metallica che chiude un fondo, la trave del solaio, la tribuna di uno stadio, le mura di una città, il muro
costruito lungo la strada a sostegno di un fondo, un rudere, e cioè un edificio fatiscente ed inabitabile,
purchè ristrutturabile (un mucchio di rovina pertanto non sarà considerabile edificio). Anche certi
accessori possono essere fatti rientrare nell‟ambito dell‟art. 2053 c.c., quali gli oggetti ornamentali, le
balaustre, le saracinesche, le imposte, i vetri e le finestre, i lucernari, etc..
La Suprema Corte ha più volte affermato che la responsabilità oggettiva, posta a carico del
proprietario o di altro titolare di diritto reale di godimento per rovina di edificio (o di altra costruzione)
ai sensi dell'art. 2053 c.c., può essere esclusa soltanto dalla dimostrazione che i danni causati
dalla rovina dell'edificio non siano riconducibili a vizi di costruzione o difetto di
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manutenzione, bensì ad un fatto dotato di efficacia causale autonoma rilevante come caso
fortuito, comprensivo del fatto del terzo o del danneggiato, anche se tale fatto esterno non presenti i
caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 21 gennaio 2010, n.
1002, nella giurisprudenza di merito, v. Appello Roma, sez. IV, 21 ottobre 2009, n. 4137; Trib. Ivrea,
12 gennaio 2013, n. 17 ).
8. La responsabilità da circolazione stradale: art. 2054 c.c.
Infine una particolare attenzione merita la responsabilità per il danno cagionato dalla circolazione dei
veicoli, pur nella consueta avvertenza che per i profili strutturali occorrerà riferirsi alla trattazione
manualistica cui diffusamente si rinvia.
La disciplina dettata dall‟art. 2054 c.c. (che si riferisce esclusivamente agli incidenti legati alla
circolazione di veicoli senza guida di rotaie) abbraccia diverse ipotesi che, nel segno di una evidente
continuità con le disposizioni dianzi esaminate, prendono le distanze dal criterio di imputazionedella
responsabilità fondato sulla colpa.
Il primo comma dell’art. 2054 c.c. stabilisce che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è
obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di
aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
La norma introduce una presunzione di colpa nella guida a carico del conducente che, per
andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il
danno. Quanto al contenuto di tale prova liberatoria si ritiene che compete al conducente l‟onere di
dimostrare di aver fatto ricorso alle manovre di fortuna che si presentavano più opportune ed efficaci
nel caso concreto e di averle attuate con perizia e diligenza, o viceversa l‟impossibilità di fare alcunché
per le circostanze del caso specifico, assumendo come parametro di valutazione la prevedibilità di una
persona di normale avvedutezza. Detta prova potrebbe anche non essere data in modo diretto
dimostrando di aver tenuto un comportamento esente da colpa, bensì risultare dall‟accertamento che il
comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell‟incidente o comunque
concorrente. Ed infatti, si ritiene che, ove il conducente non abbia fornito prova idonea a vincere
la presunzione ciò non esclude l’indagine circa l’eventuale concorso di colpa del danneggiato.
Allora, una volta accertata l‟imprudenza della condotta del pedone investito da un veicolo, la colpa di
questi concorre, ai sensi dell‟art. 1227 c.c., comma 1, con quella (presunta o accertata) del conducente,
prevista dall‟art. 2054, comma 1, c.c. (v. Cass. civ., sez. III, 5 marzo 2013, n. 5399;Cass. civ., sez. III, 18
novembre 2014, n. 24472; Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 2015, n. 1135, allegata in dispensa).
Viceversa, il conducente del veicolo coinvolto nel sinistro non incorre in alcuna responsabilità ex art.
2054 c.c. laddove risulti provato che non vi era, da parte di quest‟ultimo, alcuna possibilità di prevenire
l‟evento, situazione, questa, ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile e
anormale, sicché l‟automobilista si sia trovato nell‟oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di
osservarne tempestivamente i movimenti (Si pensi, ad esempio, al caso in cui il pedone appare
all‟improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le
norme della circolazione stradale e quelle di comune prudenza e diligenza incidenti con nesso di
causalità sul sinistro).
La presunzione di responsabilità di cui al primo comma va letta congiuntamente a quella di
cui al comma 4. Quest‟ultimo imputa al conducente (come al proprietario, all‟usufruttuario,
all‟acquirente con patto di riservato dominio) la responsabilità per i danni derivati da vizi di
costruzione o difetti di manutenzione del veicolo (infra). In tale evenienza la norma accolla
integralmente il rischio della mancanza di sicurezza del veicolo, dovuta a vizi di costruzione e di
manutenzione, sia alproprietario che al conducente, i quali sono chiamati a garantire i terzi dei danni
subiti senza poter fornire alcuna prova liberatoria: ciò significa che è del tutto irrilevante il fatto che il
vizio di costruzione sia sconosciuto e non conoscibile da parte del proprietario o che il vizio di
manutenzione sia pur sempre rimasto, sebbene tale soggetto si sia diligentemente rivolto ad un‟officina
specializzata
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Peculiare è la responsabilità de qua in caso di scontro tra veicoli, in cui l’art. 2054,secondo
comma, c.c. dispone che debba presumersi, sino a prova contraria, che ciascuno dei
conducenti abbia concorso ugualmente a cagionare il danno. La Cassazione ha affermato il
principio che la presunzione di uguale concorso di colpa dei conducenti costituisce criterio di
distribuzione della responsabilità che opera sul presupposto della impossibilità di accertare con indagini
specifiche le modalità del sinistro e le rispettive responsabilità oppure di stabilire con certezza
l‟incidenza delle singole condotte colpose nella causazione dell‟evento e che detta presunzione può
essere superata anche dall‟accertamento in concreto che la condotta di uno dei conducenti ha avuto
efficacia causale assorbente nella produzione dell‟evento dannoso (cfr. Cass. civ., sez. VI, 19
novembre 2014, n. 24676, allegata in dispensa). Peraltro, l‟accertamento in concreto della colpa di uno
dei due conducenti non comporta di per sé il superamento della presunzione di colpa concorrente
dell‟altro, all‟uopo occorrendo che quest‟ultimo fornisca la prova liberatoria, con la dimostrazione di
essersi uniformato alle norme sulla circolazione e a quelle della comune prudenza (cfr. Cass. civ., sez.
III, 31 luglio 2013, n. 18340, allegata in dispensa). Inoltre, tale presunzione non opera allorquando
risulti che uno dei conducenti abbia determinato lo scontro con dolo, non potendosi configurare un
concorso tra una condotta eventualmente colposa dell‟uno, da una parte, e una dolosa, dell‟altro.
Quando si ha scontro tra veicoli? Due sono le tesi.
1)primo orientamento: si ha scontro di veicoli quando ricorre un nesso eziologico tra le reciproche
manovre e l‟evento lesivo;
2) secondo orientamento (prevalente): è necessaria la collisione fisica tra i veicoli coinvolti.
Questione di particolare interesse è quella che attiene alla tematica dei terzi trasportati.
Superato l‟orientamento tradizione, è ormai principio acquisito, – com‟è indirettamente confermato
dall‟art. 122 comma 2 del codice delle assicurazioni private, secondo cui l‟assicurazione comprende la
responsabilità per i danni alla persona causati ai trasportati, qualunque sia il titolo in base al quale il
trasporto è effettuato - che in tema di responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli, l‟art. 2054
c.c. esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, principi di carattere generale, applicabili a tutti
i soggetti che da tale circolazione comunque ricevano danno, e quindi anche ai trasportati, indipendentemente dal titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale, oneroso o gratuito (v. Cass. civ., sez.
III, 7 ottobre 2010, n. 20810).
Da ultimo la corte di cassazione ha affermato che in tema di trasporto "amichevole o di cortesia",
diversamente dal trasporto "gratuito", il titolo di responsabilità di colui che lo effettua è di natura
extracontrattuale, come tale interamente regolato dall'art. 2043 c.c. Ne consegue che, nell'azione
risarcitoria, devono essere accertati in concreto sia il dolo che la colpa, quali elementi costitutivi
dell'illecito, ricorrendo la seconda ogni qualvolta il vettore abbia tenuto un comportamento non
improntato ai canoni oggettivi della perizia e della diligenza (Cass. civ., 8 ottobre 2009, n. 21389).
Pertanto, il trasportato, indipendentemente dal titolo del trasporto, può invocare i primi due
commi della disposizione citata per far valere la responsabilità del conducente del veicolo a
bordo del quale viaggiava o quella solidale del proprietario: quest‟ultimo può liberarsi solo
provando che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà, mentre al conducente spetta
provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ai fini dell‟affermazione della responsabilità
solidale del proprietario ai sensi dell‟art. 2054 c.c. è, irrilevante che quella del conducente sia
riconosciuta in via presuntiva ai sensi dell‟art. 2054 c.c. ovvero sulla base di un accertamento in
concreto della colpa (ex art. 2043 c.c.), giacchè l‟estensione della responsabilità al proprietario mira a
soddisfare la generale, fondamentale esigenza di garantire il risarcimento al danneggiato.
La responsabilità del vettore nei confronti del passeggero può essere ridotta ove risulti provato
il concorso del fatto colposo di quest’ultimo nella causazione dei danni dallo stesso riportati.
La giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nel ritenere che la mancata adozione di misure di
sicurezza da parte del passeggero integri una ipotesi di cooperazione colposa, da imputare al
danneggiato medesimo in base al principio di autoresponsabilità, rilevante ai sensi dell‟art. 1227 c.c., con
conseguente riduzione proporzionale del risarcimento del danno (v. Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2012,
n. 17407,Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2014, n. 7777, in dispensa.)
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Ma del mancato rispetto di tale obbligo, e dunque dei danni ad esso conseguenti, è chiamato a
rispondere anche il conducente?
La Cassazione risponde affermativamente: è vero, infatti, che nell‟ordinamento non esiste alcuna
previsione positiva che prescriva al conducente di un autoveicolo di controllare che i passeggeri
indossino le cinture di sicurezza, e che anzi una norma impone l‟utilizzo delle dette misure al
trasportato, prevedendo anche una sanzione amministrativa a suo carico per l‟inosservanza, nondimeno
si riconosce la concorrente responsabilità del vettore in applicazione delle regole di comune prudenza e
diligenza prescritte dall‟art. 1176 c.c., oltre che da puntuali prescrizioni del codice della strada.
V‟è chi rintraccia in questo modo, nella persona del conducente, in quanto colui che rende possibile la
circolazione, una “posizione di controllo”, finalizzata a porre in essere tutti i comportamenti che
risultino necessari alla salvaguardia dell‟incolumità dei “terzi”, siano essi totalmente estranei alla
circolazione” ovvero indirettamente coinvolti in quanto trasportati .
In realtà i giudici di legittimità riconoscono che detta fattispecie presenta elementi di similitudine con
quella in cui il trasportato produca danni a terzi: anche in tale eventualità il conducente è stato
chiamato a risponderne in quanto egli stesso è responsabile dei danni prodotti dalla circolazione del
veicolo, sia pure in concorso con il trasportato. Ed allora, l‟ottica è la stessa, ricorrendo, infatti, un
concorso eziologico di cause, disciplinato dall‟art. 1227, c. 1, c.p.c., pure nel caso in cui il trasportato,
con il suo comportamento, cagioni danni a sé stesso.
Il terzo comma dell’art. 2054 c.c., infine, pone a carico del proprietario, dell’usufruttuario,
dell’acquirente con patto di riservato dominio una responsabilità solidale con il conducente per
i danni a cose o a persone arrecati per effetto della circolazione del veicolo. E‟ prevista una prova
liberatoria: la dimostrazione che la circolazione sia avvenuta contro la sua volontà. Trattasi, allora, di
una responsabilità oggettiva per fatto altrui, giacché il criterio di imputazione, più che fondato sulla
diligenza, è volto ad addossare al proprietario, ed ai soggetti ad esso equiparati, una responsabilità
conseguente all‟esplicazione delle potenzialità dannose del veicolo in base al titolo giuridico che
attribuisce ai medesimi un potere di godimento della res, e conseguentemente quello di trasferire tale
godimento a terzi ovvero di impedirne l‟altrui utilizzo
Per la prova liberatoria della presunzione di tale colpa, non è sufficiente dimostrare che la
circolazione del veicolo sia avvenuta senza il consenso del proprietario, ma al contrario è
necessario che detta circolazione sia avvenuta contro la sua volontà, la quale deve estrinsecarsi in
un concreto ed idoneo comportamento specificamente inteso a vietare ed impedire la circolazione del
veicolo mediante l‟adozione di cautele tali che la volontà del proprietario non possa risultare superata
(cfr. Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2013, n. 3296;Cass. civ., sez. VI, 21 ottobre 2014, n. 22318,
allegata in dispensa).
Il proprietario del veicolo, sul quale la legge fa gravare questa responsabilità per fatto altrui non è colui
che tale risulta presso i registri del PRA.
A seguito della modifica dell‟art. 91 co. 2 cod. strad., anche se, formalmente, non è stato modificato
l‟art. 2054 c.c. poiché lo stesso inserisce tra i soggetti responsabili nel caso di circolazione dei veicoli il
“locatario”, esso modifica di fatto l‟art. 2054 c.c. che va così letto: “il proprietario del veicolo o, in sua
vece, l‟usufruttuario o l‟acquirente con patto di riservato dominio o l‟utilizzatore a titolo di locazione
finanziaria, è responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo è
avvenuta contro la sua volontà ”. La ratio è, ancora una volta, quella di far gravare l‟obbligazione
risarcitoria soltanto su colui che godendo della disponibilità giuridica del veicolo, avrebbe potuto e
dovuto esercitare il divieto di farlo circolare.
Con una norma di chiusura, il legislatore, al fine di agevolare lo spostamento delle conseguenze
economiche negative discendenti dal sinistro su persona diversa dal danneggiato, addossa al
conducente, nonché ai soggetti contemplati dal comma 3, una responsabilità oggettiva per i danni
derivanti da vizi di costruzione o difetto di manutenzione del veicolo. Sul punto, richiamandosi quanto
già espresso nel paragrafo relativo alla responsabilità del conducente, si evidenzia che detta
responsabilità, prescindendo dal comportamento colpevole dei soggetti cui viene imputata, consente
agli stessi di non risponderne solo previa dimostrazione dell‟interruzione del nesso causale tra il guasto
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ed il danno, provando, cioè, la ricorrenza di un fattore esterno che con propria e autonoma efficienza
causale ha provocato il danno.
Si rinvia alla lezione II per la trattazione delle ipotesi di responsabilità speciali non codificate.
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