Il progetto Mara'Samort in collaborazione con Infinito Srl presenta
TELEMOMO’ live
di e con Andrea Cosentino
con una singolare tecnica di teatro di animazione
Andrea Cosentino dà vita alla sua surreale televisione autarchica
“La storia si ripete sempre due volte:
la prima come tragedia, la seconda come farsa” (K. Marx)
TELEMOMO’ è la seconda volta della televisione. O del tramonto di un elettrodomestico.
È uno spettacolo-format, ovvero il definitivo rovesciamento della televisione, che da piazza
virtuale, cioè una moltitudine di mondi e stimoli e volti e corpi che invade e colonizza il
telespettatore ridotto a individuo passivo e impossibilitato a interagire, ritorna – pur in una
sua versione “teatrale” e abbassata - al centro di una piazza vera, reinventandosi
ludicamente una propria dimensione pubblica e per questo politica.
E’ televisione a filiera corta, autarchica, ecologica e interattiva. E’ il disvelamento
esilarante della povertà del linguaggio televisivo, con il suo bagaglio di campi e
controcampi, primi piani espressivi e dettagli significativi, che viene mimato mediante la
povertà materiale di un teatrino d’animazione artigianale. Un cavalletto sul quale è fissata
la cornice bucata di una televisione, tanto basta per rappresentare sceneggiati,
telegiornali, documentari e pubblicità. Il montaggio è il dentro-fuori di primi piani reali e
bambole di plastica che “tribbolano” sbatacchiandosi, mezzibusti televisivi fatti di barbie
senza gambe, e ancora parrucche, giocattoli, pezzi di corpo e brandelli di oggetti.
Telemomò è anche il pulpito dal quale lanciare “autorevolmente” improbabili proclami
politici e surreali analisi sociologiche.
Se la televisione ha fatto l’Italia, di lì si dovrà passare per disfarla.
Durata: 60 minuti circa
Andrea Cosentino Attore, autore, comico e studioso di teatro. Tra i suoi spettacoli La tartaruga in
bicicletta in discesa va veloce, il ‘dittico del presente’ costituito da L'asino albino e Angelica (i cui
testi sono pubblicati in Carla Romana Antolini (a cura di), Andrea Cosentino l’apocalisse comica,
Editoria e spettacolo, 2008), Antò le Momò-avanspettacolo della crudeltà, Primi passi sulla luna
(pubblicato da TIC edizioni, 2013) e Not here not now. Le sue apparizioni televisive vanno dalla
presenza come opinionista comico nella trasmissione AUT-AUT (Gbr-circuito Cinquestelle) nel
1993 alla partecipazione nel 2003 alla trasmissione televisiva Ciro presenta Visitors (RTI
mediaset), per la quale inventa una telenovela serial-demenziale recitata da bambole di plastica. E'
fondatore del PROGETTO MARA'SAMORT, che opera per un'ipotesi di teatro del-con-sul margine,
attraverso una ricerca tematica, linguistica e performativa sulle forme espressive subalterne, e
promuove il format paratelevisivo autarchico Telemomò.
Ne hanno scritto
Qualcuno deve aver pensato: se in quest’epoca la coscienza si fa in televisione, perché non farsene una
propria per dire quel che si desidera; (…) in fondo un modo c’era: uscire dai salotti e andarsene per le piazze,
per i teatri, con la tv sulle spalle, la propria, e farla vedere alla gente. Poi tutti ridono, ma che ridono? Non
sanno, come diceva Marx, che “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda
come farsa”? Ecco, la storia secondo tempo, la storia durante il viaggio di ritorno, per le mani di un
funambolico Andrea Cosentino, che dirige la mia antenna sulle frequenze della sua personalissima
Telemomò. La televisione. Questo mostro che se ne sta dormiente nel nostro soggiorno, ma che quando si
accende è più assordante dell’urlo di Godzilla. La televisione. Un elettrodomestico che non ha mai cambiato
forma, si è giusto un po’ assottigliato, ma ha profondamente cambiato, negli anni, il suo fondante utilizzo.
Cosentino se la porta in giro e costruisce un format vincente entro cui far stare contenuti che ne
contraddicono il segno, questa è la genialità: utilizzare materiale riciclato, le armi che lei stessa usa per
annientare i pensieri individuali omogeneizzandoli alla piattezza uniforme, e poi le stravolge, le usa al
contrario, come spingere il tasto per accenderla, dopo che qualcuno ha tentato di spegnerla. Fra talk show in
parrucca e soap opera di plastica, tra immagini in vendita ed emozioni in scatola, Cosentino svela la
consistenza posticcia del mezzo, che resta contenitore, senza la possibilità di ospitare un’anima.
Simone Nebbia Teatroteatro
Trash sublime cabaret noir. Un cabaret noir, comico e sgangherato, che ribalta la passività della fruizione
televisiva in un gioco teatrale di ibridazioni, commistioni e depistaggi. Il risultato è un demenziale teatrino
mediatico a misura di Barbie che Andrea Cosentino, artista anomalo e originalissimo, plasma in equilibrio tra
trash e sublime utilizzando la semplice cornice di uno schermo bucato dentro la quale riprodurre in miniatura
perversioni e paradossi. È Telemomò Live, denuncia surreale quanto precisa di una comunicazione ridotta al
grado zero dell' intelligenza e del linguaggio.
Sara Chiappori Repubblica
Andrea Cosentino è un attore che mette in scena il gioco dell’attore; nel senso che, nel suo occupare la scena,
diverte col gioco dei ghirigori concentrici in cui incastra i piani di senso, costruendo in assito un sistema di
scatole cinesi dal quale emergono tanti quadri di un’unica galleria. E l’esposizione, in diretta da Telemomo' è
un gioco di mescola sapiente, una satira esilarante, che sovrappone i piani, li ribalta e li compone
ammiccando al pubblico, rendendolo partecipe e consapevole del gioco del teatro, e del gioco consapevole
che il teatro fa sulla televisione.
Al di là della elaborazione testuale, intelligente nella sua capacità di suscitare la risata di cuore nel far
parodia degli spropositi mediatici usuali e quotidiani, Andrea Cosentino costruisce il suo gioco
sull’antinomia a lui cara – e ricorrente nei suoi spettacoli – verità/finzione, giostrando il suo ruolo di
mattatore in scena attorno ad una dichiarata metateatralità (continui i rimandi al fatto che si stia recitando),
che nella fattispecie si arricchisce di un ulteriore marchingegno, ovvero un’aggiunta allusione metatelevisiva,
con tanto di travalicazione da parte sua dello schermo (evidentemente fasullo) all’interno del quale avviene
la sua performance. La scena lo vede protagonista infatti all’interno di uno scheletro di schermo che
s'appollaia su un trespolo e che egli animerà da programmatore del palinsesto, da anchorman, da puparo, da
mattatore. Una valigia dei trucchi (una valigia da attore) in un lato di scena sarà il cassone da cui attingere
tutto il necessario alla pantomima: i personaggi delle telenovelas, cosce e cosciotti, mezzibusti, parrucche, un
piccolo mappamondo a scimmiottare la sigla del telegiornale, il Wojtyla tremolante già visto in Angelica (
altro spettacolo di Cosentino, di cui Telemomo’ finisce per essere una sorta di prequel). Si ride, e tanto,
nell’ascoltare l’ininterrotta logorrea di Cosentino, e insorge spontaneo un raffronto con quello che ormai in
televisione (in quella vera) è un ambito pletorico – quello del cabaret – inflazionato ed impoverito dal
proprio replicare se stesso, i propri tormentoni, le proprie vacue e volgari reiterazioni, fidelizzando un
pubblico in cui anche la risata è stereotipa; la satira che Cosentino inscena nella sua televisione ha una
freschezza ed una vis comica che quel tipo di spettacolo televisivo, ormai ridotto a fatuo intrattenimento per
uno spettatore abbindolato ed addomesticato, non possiede più, svuotato di ogni carica caustica e corrosiva,
replica scosciata e pecoreccia di quanto il resto del panorama mediatico (e quindi reale) offre. La televisione
vista da Cosentino, vista con Cosentino all’interno del rettangolo vuoto, possiede tutt’altro spessore, anche
perché Cosentino prende il medium (il televisore) e lo fa diventare “davvero” interattivo, trasportandolo in
teatro, esplorandone le possibilità di dialogo che questo mezzo ha con la propria utenza, facendolo uscire
dalla sua dimensione lontana, “attraversando” lo schermo, come a voler annullare quella distanza, quella
faglia che ormai la televisione ha creato tra esistenza reale e rappresentazione percepita; lo fa, certo,
passando attraverso il contatto diretto del teatro, ma contemporaneamente imbastendo un gioco di dentro e
fuori, di scena nella scena, di scena nella televisione che dimostra quanto i livelli di identificazione possano
essere contigui e quanto i contenuti veicolati dal medium catodico (oggi al plasma, a cristalli liquidi ed in
HD) possano penetrare ed attecchire nell’utenza. Quel che è e quel che appare (non ce ne vogliate se quando
scriviamo di Cosentino indugiamo sempre su questa antinomia, è il suo teatro che vi affonda piene le mani) è
l’insistente motivo di ciò che si offre in visione, giochicchiato sulla consapevolezza della recita, che è tale ed
è ostentata sin dall’inizio, quando Cosentino, seduto in platea, si finge spettatore, per poi rimarcare più volte
che quel che sta avvenendo è teatro: “Siete venuti a teatro e questo è teatro”, “Sotto i fari si suda”, fino al
confessorio finale di ammissione esplicita della recita. Lo schermo vuoto diventa per lui una sorta di teatrino
delle marionette, in cui gestire il palinsesto di una ridicola televisione generalista con la stessa abilità pupara
con cui negli ultimi venti o trenta anni la televisione (quella vera) ha cloroformizzato lo spettatore medio,
pupo sonnacchioso proclive alla distrazione e al disimpegno. Lo spettacolo non ha un attimo di respiro,
caracolla a cavallo della voce di Andrea Cosentino, abile narratore, eccellente costruttore di immagini
satiriche che di quelle parole sono fedele traduzione e congruo complemento. Spaccato socio-antropologico
proiettato in uno schermo che non c’è, Telemomo’ racconta realtà reale e finzione mediatica, realtà rese
fittizie dalle mistificazioni mediatiche, realtà mediatiche, infine, spogliate dell’orpello della finzione che le
ammanta di verità fittizia. Condensando in un’ora un plausibile palinsesto generalista, Andrea Cosentino ne
mostra con l’ironia e l’intelligenza di una scrittura ficcante e salace, tutti gli ormai acclarati limiti, lasciando
nello spettatore la sensazione di aver assistito ad una vera prova d’attore che, fingendo, smaschera l’inganno
di ciò che viene propinato come verosimile. Gioco raffinato per drammaturgia compatta, Telemomo’
buggerando il fintume fa ridere davvero. E, ridendo, la verità del teatro seppellisce la menzogna dello
schermo.
Michele Di Donato Il Pickwick
Per lui è “uno sgangheratissimo varietà post televisivo”, a me è sembrato uno spettacolo intelligente e
divertente, che guarda con ironia al linguaggio della tv e ne racconta stereotipi e codici espressivi,
mostrandone l’estrema povertà. Difficile descrivere con parole precise Telemomò on stage, (…) che si
muove tra il cabaret e la commedia dell’arte, il teatro delle marionette e la parodia. L’effetto
sgangherato è la cifra stilistica di una drammaturgia che punta sull’immediatezza e che fa
dell’improvvisazione uno dei suoi elementi centrali. E sgangherato è forse anche lo stesso autore-attore, che
sembra sempre in ritardo su un ipotetico copione, e che fruga nella valigia dei suoi strumenti alla ricerca di
oggetti che faticano a comparire. (...) Cosentino del resto, nel bel documentario che gli ha dedicato
Graziano Graziani per Rai5 (in un ciclo di 4 puntate sulla nuova drammaturgia romana), dice di amare un
teatro “che puoi fare in qualunque luogo del mondo”, che adotti dei codici “che ti consentano di uscire dal
teatro […] senza bisogno di un luogo deputato alla rappresentazione”. Quello scelto da Telemomò è il non
luogo della televisione (...) C’è poi la cornice di un vecchio apparecchio, dentro al quale si muovono i
personaggi più diversi: dalle attrici delle fiction, che “tribolano”, ai mezzi busti del telegiornale, fino alla tv
dei bambini e al reality show in diretta dalla casa dei sette nani. (...) E da qui parte il gioco di smontamento e
ricostruzione, con una continua infrazione degli spazi: in primis quello teatrale, da cui Cosentino esce e
rientra grazie alla sua valigia degli strumenti. In questa “drammaturgia sul niente” come la definisce lui,
l’attore tira fuori momenti esilaranti, come la marionetta di papa Wojtila o l’Amleto in lituano senza
sottotitoli. Non si racconta nessuna storia, non c’è la pretesa di proporre interpretazioni, né analisi
sociologiche. Telemomò è una “festa”, in cui il pubblico è coinvolto e si diverte.
Valeria Merola Il Fatto Quotidiano
E’ autentica dimostrazione di estro, di fantasia, ma soprattutto è un modo per smitizzare, per prendere in giro
la televisione e la sua programmazione. Lo spettacolo “TeleMomò” di Andrea Cosentino, (...) rappresenta
una sorta di gioco divertente, intelligente ed estremamente semplice, che l’autore ed interprete, interessato
alla ricerca linguistica e performativa sulle forme espressive subalterne, propone, in circa un’ora, al pubblico
facendolo assistere ad una particolare serata di programmazione tv. Nei panni dell’eclettico animatore di
“TeleMomò”, il canale tv un pò anarchico ed alternativo, Andrea Cosentino, tira fuori dalla sua valigia
parrucche, Barbie e Big Jim, animali in miniatura, gambe di manichini e libri e spazia con battute pungenti
da un programma all’altro, dall’intrattenimento, alla cultura, all’intervista, alla pubblicità. Nella pièce,
quindi, ironia, risate, ribaltamento dei messaggi tv, proposti allo spettatore in modo diretto e semplice,
utilizzando sulla scena un cavalletto sul quale è fissata la cornice bucata di una televisione, dove il
protagonista e conduttore rappresenta telegiornali, documentari, soap opera, cronaca nera e pubblicità. E
vengono fuori personaggi stravaganti, tutti inventati e interpretati da Cosentino stesso. Alla bravura e studio
del linguaggio contemporaneo e televisivo da parte dell’autore ed interprete si accoppia il confuso e
coinvolgente montaggio dei vari programmi di “TeleMomò”, fatti di dentro-fuori, di primi piani reali con
bambole di plastica che “tribbolano” sbatacchiandosi, mezzibusti tv di barbie senza gambe, parrucche,
giocattoli e brandelli di oggetti. “TeleMomò”, che alla fine riscuote gli applausi del pubblico, risulta, così
come sottolinea nel dibattito di fine serata lo stesso autore, un mix di tecniche teatrali, quelle delle
guaranelle, ovvero le marionette napoletane e oggetti in plastica. La proposta strizza l’occhio al cabaret,
mantenendosi, però, sul campo della parodia e con l’obiettivo di montare e smontare linguaggio e metodo
televisivo, soffermandosi sul montaggio tv spesso vuoto e su un mezzo che, sicuramente, avrebbe bisogno di
un restyling nella programmazione che spesso rivela la sua superficialità, inadeguatezza e pochezza di
contenuti.
Maurizio Giordano Dramma.it
La recensione potrebbe iniziare e finire così: se volete passare una serata davvero piacevole, andate a teatro
a vedere lo spettacolo di Andrea Cosentino, Telemomò. Riderete molto e di gusto. Non solo per le battute
pungenti o per i personaggi stravaganti (tutti inventati e interpretati da Cosentino stesso). Riderete soprattutto
di voi stessi. Perché, mentre sarete seduti sulla poltrona in platea, non potrete fare a meno di pensare: “Ma
come ho fatto a credere per tutto questo tempo che la tv sia una cosa seria?” Per oltre un’ora bambole di
plastica, parrucche, giocattoli e pezzi di corpo bucano lo schermo di un vecchio televisore a tubo catodico
dando vita al palinsesto (con tanto di telegiornale, soap opera e cronaca nera) di una rete televisiva un po’
anarchica. I programmi si susseguono uno dietro l’altro e Cosentino è bravissimo nel trasformarsi o nel dare
vita ai vari personaggi senza mai cadere nella ripetizione, senza annoiare e, soprattutto, senza mandare in
scena cose già viste in passato. In tanti, infatti, hanno tentato di ridicolizzare la televisione. Ma Cosentino va
oltre. Come afferma lui stesso in un’intervista: «Quello che mi diverte è smontare il giocattolo senza
smettere di farlo funzionare. Questo è molto importante: devi appassionarti a un racconto e
contemporaneamente… vederne i meccanismi in funzione e accorgerti che i protagonisti, nei quali pure non
smetti di identificarti, sono pezzi di plastica». E questo meccanismo, escogitato dall’autore-interprete,
funziona benissimo. Mentre va in scena lo spettacolo, il pubblico si trasforma in doppio spettatore: perché
non sta guardando solo la performance teatrale, ma contemporaneamente è seduto sul proprio divano di casa
con gli occhi fissi sul televisore sempre acceso. È come se si assistesse alla messa in onda della televisione e,
allo stesso tempo, grazie al teatro, si riuscissero a vedere i meccanismi che la governano, quelli che in genere
sono tenuti ben nascosti. Quale l’effetto concreto? Dopo aver visto Telemomò, non è più possibile guardare
un programma televisivo – uno qualsiasi – senza pensare alla finzione del dietro le quinte e riderne di gusto.
Michela Di Mario Teatro.Persinsala.It
(quello che segue è un estratto della rassegna stampa dello spettacolo “Antò le momò” del quale Telemomò è
al contempo una sezione e uno sviluppo)
…un bislacco cabaret sul mondo come fiction che parafrasando Totò richiama Artaud. Entrando e uscendo
da un pannello nero, moltiplicandosi, Cosentino dialoga con il burattino di Artaud manovrato a vista come
in un casalingo bunraku, o, prima di approdare ad una pulcinellata nera sul delitto di Erba, apoteosi del
tragico contemporaneo, programma nella cornice vuota del televisore il palinsesto di “Telemomò”,
demenziale teatrino mediatico a misura di Barbie. La crudeltà è dietro l’angolo delle soap opera…
Nico Garrone La Repubblica
Da un po’ di tempo si parla di Andrea Cosentino come di un erede dei fabulatori; ben altro tipo, lui, di
fabulatore, piuttosto improvvisatore, intrattenitore sofisticato, intellettuale in vacanza sui piccoli palcoscenici
della città, (…) E’ dalle parti di Leo, quando Leo fece “Totò principe di Danimarca”. Ma oggi i tempi sono
più tristi ancora. Oggi, Cosentino è costretto a parlare di televisione, a travestirsi da Pulcinella, a maneggiare
“pecore mantecate”, come sempre lui le chiama, a disquisire sulla strage di Erba.
Franco Cordelli Corriere della Sera
In fondo è anche colpa di Antonin Artaud e delle sue visioni profetiche e allucinate se oggi un attore in scena
può fare tutto quello che vuole. Provare, per credere, a vedere il geniale Andrea Cosentino nei mille bagliori
comici, satirici e parodistici del suo ultimo spettacolo che, non a caso, si intitola Antò le momò,
avanspettacolo della crudeltà. Quell’Antò non può che essere il maestro di tanto pensiero scenico
contemporaneo, che qui appare in forma di pupazzo bunraku animato dall’attore in un brandello di una
quanto mai probabile invettiva a negazione dell’esistenza di Dio. E se l’ente supremo è assente perché mai
dovrebbe vigere una forma teatrale stabilita, soprattutto in epoca di vessazioni mediatiche? E allora ecco
Cosentino in maschera da Pulcinella pronto a raccontare gli orrori di Erba, o alle prese con quello schermo di
televisione sfondato nel quale fa muovere una serie di Barbie in schegge di un’esilarante e banalissima
telenovela, oppure con il grembiule di una vecchietta del quartiere alle prese con un rito demenziale di
mantecazione della pecora.
Antonio Audino Il Sole- 24 Ore
… naviga fra Totò e Artaud, scovando il sublime nel trash di soap televisive messe su con due Barbie e una
parrucca. Oppure, dialogando a vista con il manichino di Artaud che cerca di catturare Dio con una sigaretta
e un marchingegno degno di Archimede Pitagorico. E’ il nonsense elevato a drammaturgia quotidiana,
l’irrompere della banalità nel tragico. (…) E’ la concentrazione del nulla, il sottovuoto vertiginoso che ci
circonda e tenta di risucchiarci. Il cabaret, anche quello un po’ noir, di Cosentino è lì a ricordarcelo con
crudeltà sottile. Come una silhouette di un cartoon, come il filo di fumo cattura-divinità. Esile e tenace. Un
gioco di equilibri su una corda tesa sull’abisso. Della nostra (in) umanità.
Rossella Battisti l’Unità
In questo “Avanspettacolo della crudeltà” si rincorrono alcune delle maschere che animano gli spettacoli di
Cosentino, come la vecchietta abruzzese, protagonista qui di una formidabile parodia dell’arte popolare che
non esiste più, e che ci ostiniamo a preservare nelle sue forme (quali?) più pure. Ecco allora il canto della
“sconocchiatrice di quatrani”, che quando finisce il suo lavoro si mette seduta a raccontare storie: quelle
della soap “Beautyful”, con i sempiterni personaggi Ridge, Brooke e Thorne “interpretati” da uno stuolo di
Barbie. Torna dunque anche qui, come in “Angelica”, la parodia della tv e dei suoi linguaggi, che Cosentino
smonta come fanno i bambini coi giocattoli: della sua aura irresistibile restano i pupazzi e la cornice vuota di
TeleMomò. La comicità di Cosentino sta nel farsi marionettista delle sue maschere, che indossa con maestria
e una sorta di amore paterno, ma dalle quali esce con naturalezza per parlare col pubblico dei ragionamenti
che lo portano a giocare con quelle frattaglie di realtà – le uniche possibili – che vengono servite sul vassoio
mediatico.
Graziano Graziani Carta
…c’è dunque la possibilità di conoscere un personaggio straordinario e di osservarlo al lavoro, mentre
destruttura storie e personaggi in tempo reale, ricomponendoli poi secondo una non-logica animata dalla sua
lucida follia. (…) La strage di Erba, Beautyful, il bombardamento mediatico e la moda: non abbiamo più
parole per il tragico, lo metabolizziamo come un cheese burger e lo vomitiamo su You Tube. Così, i
personaggi creati da questo burattinaio della sintassi e del senso finiscono per uccidere il padre e permettersi
libertà che altrove gli sarebbero vietate. Prendono vita da una maschera – persino Artaud è un burattino alla
maniera del Bunraku – da un fazzoletto o da un oggetto, abitano bambole e giocattoli, dominando
incontrastati la scena che Cosentino lascia volutamente in balia di un caos prolifico. (…) L’abilità con cui
l’attore pesca da questo brodo primordiale è indiscutibile: cambia cadenza e tono, inflessione e postura,
costume, maschera e parrucca, prende oggetti e li anima come un dinoccolato Mago di Oz. L’elaborazione di
questa materia è sempre comica, ma non c’è esito liberatorio nelle risate indotte a iosa e c’è anzi il tentativo
di provocare, dopo quella risata, un certo imbarazzo.
Francesco Ruffini Roma c’è
E’ uno spietato esercizio critico nei confronti dei comportamenti stereotipati dalla “cultura” mediatica,
dell’anestesia collettiva e dell’ordinaria perversione e alienazione insita nei modelli sociali contemporanei,
messo in scena mediante un registro comico-paradossale che personalizza il registro drammaturgico in una
miscela inedita per il teatro italiano (…). Cosentino ibrida il registro drammatico con quello comico, anche
cabarettistico e clownesco, e reinventa il linguaggio del teatro di figura, le marionette diventano delle Barbie
e dei Big Jim e il teatrino d’oggi è lo schermo televisivo, qui Cosentino riproduce parodicamente l’intero
palinsesto, con i suoi stereotipi di genere (il tg, la telenovela, il documentario), ma non è solo un gioco facile
e divertente, poiché entra nel linguaggio cinetelevisivo, ne fa emergere gli stereotipi non solo dei contenuti,
ma anche della forma, nel montaggio, portandoli alle estreme e surreali conseguenze, rivelando così come la
mummificazione, il conformismo e l’anestesia delle nostre menti derivi prima di tutto da un linguaggio che
ci è stato espropriato, che non ci appartiene più, che è diventato una formula seriale. Andrea Balzola
ateatro
…irresistibile avanspettacolo della crudeltà che invece di coprire i misfatti li smonta, gettando
vorticosamente sul palcoscenico Barbie, maschere, antenne, tubi, materiali di riciclo e racconti bucati dal
cortocircuito tra alto e basso: è il caos primordiale che bolle nel ventre molle del consumo culturale.
Katia Ippaso Liberazione
…dall’affabulazione al cabaret, dal riuso parodico della tradizione popolare al trasformismo del Varietà,
dalla narratività cinematografica al linguaggio televisivo. Antò le Momò si presenta dunque come un
bailamme caotico, eppure rigorosissimo, in cui il lazzo comico di un Pulcinella rievocato alla maniera di
Troisi si affianca alle riflessioni filosofiche di un Antonin Artaud ridotto a ridicolo e vaneggiante pupazzo
che, manipolato a vista dallo stesso performer, tenta invano di dare prova dell’esistenza di Dio; i lacerti di
una cultura contadina espressa attraverso gli improbabili aneddoti di una vecchia paesana si alternano alle
forme più banalizzanti dell’odierno intrattenimento televisivo. Ecco allora che l’attore riproduce la povertà
(linguistica ma anche morale) delle fiction del piccolo schermo per mezzo di bambole di plastica che muove,
prestando loro anche la propria voce, all’interno della cornice vuota di un vecchio televisore.
Simone Soriani Il giudizio universale
… il nonsense spiazza e deraglia, non sai dove finisce e dove comincia. Così, dopo la fantastica scena con
una marionetta che vuole catturare un dio gassoso usando come esca una sigaretta, l'autore/interprete si può
permettere una presa in giro del folklore spettacolarizzato illustrando la fantomatica macchina
"sconocchiaquattrani".
Paola Polidoro Il Messaggero
…il linguaggio comico è onnivoro, con trovate e idee che spaziano dall’intellettuale, “filosofico” richiamo
ad Artaud (presente in scena sotto forma di impermeabile e “maschera” manovrati da Andrea) a una
dimensione di spettacolo disgregato, precario, in apparenza quasi dilettantesco; dall’imitazione di grandi di
ieri (Troisi) a un modo di far ridere che, nella sua modernità ben consapevole dei linguaggi teatrali di oggi,
ricorda davvero quell’avanspettacolo richiamato nel titolo. Non sappiamo, da ora in poi, quali strade
imboccherà, nel suo itinerario Andrea Cosentino: ma chi ha una presenza, una personalità, una forza teatrale
come la sua può fare tutto, o quasi. E sarebbe un peccato se un personaggio come lui non fosse accettato e
promosso appieno dal mondo dello spettacolo (non solo del teatro, forse) del nostro Paese.
Francesco Tei Hystrio
Lo spettacolo, che fonda la sua esistenza sull’incompiutezza e sulla provvisorietà (ma il teatro stesso è
effimero) porta in scena un Teatrino delle Meraviglie esilarante e commovente, affascinante e respingente,
fonte di svago e di riflessione, che sfocia in una tragedia svuotata dalle sue componenti fondanti. Anche se la
performance si autodefinisce nel titolo e sulla scena come avanspettacolo, in realtà l’intrattenimento è solo il
terreno da cui assorbe linfa la riflessione. Fin dall’inizio, gli spettatori sono investiti da situazioni e da battute
esilaranti che muovono a un riso gradevole e leggero, da avanspettacolo, appunto. Il riso è infatti il filo
conduttore degli sketch giustapposti e intersecati, apparentemente privi di una consecutio ragionata; ma col
passare del tempo i legami logici iniziano ad affiorare e a rivelare in filigrana la loro interconnessione. (…)
Cosentino conduce una profonda riflessione sul modo in cui la società moderna affronta le tragedie che si
trova a vivere quotidianamente e come elabora i suoi lutti: l’uomo non ha più parole per riuscire a codificare
la tragedia e per parlarne; l’unica possibilità è capovolgere il tutto in farsa.
Diego Passera Atti & Sipari
Con Cosentino ogni risata è solo apparentemente facile e mai liberatoria. Dietro ogni singola gag, ogni
maschera, ogni travestimento traspare la sofferenza che proviene dall’osservazione di quel baraccone
caotico che è la società contemporanea, con il suo bailamme di miserie e crudeltà. La complessa indagine
sul funzionamento dei meccanismi scenici e sul loro senso profondo si nasconde dietro l’iniziale
dichiarazione di incompiutezza, specchio per le allodole dove le allodole sono gli spettatori meno scaltri e
più avvezzi a fermarsi solo alla superficie delle cose. L’avanspettacolo, teatro povero per eccellenza che
affonda le radici nella comicità bassa, boccaccesca, dialettale, nel gesto corporeo e nel travestimento, privo
della benché minima speculazione teorica, viene completamente snaturato, modificato nella sua essenza
primaria per trasformarsi in paravento di un’acuta riflessione metateatrale.
Valentina D’Amico inequilibrio2007-ilGiornaleDellaMezzanotte
Apparentemente solo. Ma con lui, dentro lui, attraverso lui, vediamo materializzarsi storie e personaggi
evanescenti, che durano il tempo di uno sketch passionale, intenso, per poi ritornare dentro l’artefice e
riaffiorare solo quando lui o loro o la storia o tutti insieme lo prevedano. La vecchietta del Ghetto ebraico di
Roma, un viterbese che per via della lotteria imparerà ad apprezzare il lato sovversivo insito –nonostante la
rivolta si attui contro i vigili-totem che pattugliano la piazza della città- nella fauna andina, un Pulcinella
cantore-assassino, Antonin Artaud, o meglio, la maschera Artaud che cerca di catturare Dio... una Babele
rubata allo scorrere del tempo, ritagliata nei minimi particolari anche e soprattutto dei bordi delle singole
esistenze, si evoca da sé davanti ai nostri occhi. Un moto interiore senza coscienza, senza tempo, ma con
sguardo assoluto, puro, si erge dall’artefice a sezionare, incuriosito, i vari segmenti di esistenza che lo stesso
artefice assegna ad ogni personaggio-maschera-storia. (…) Ecco quindi il moto interiore di cui sopra
trasformarsi in un’etica dell’evocazione affabulatoria, potente. La purezza -che è sempre senza coscienzadelle visioni di Cosentino si giudica, si pesa, nella straordinaria figura di Pulcinella: metà cantore metà
cantato, questa barcollante maschera sembra incarnare il lato deviato dell’unione di popolo e arte che
Cosentino propugna nei suo spettacoli e nei suoi scritti.
Luigi Coluccio Close-up
Un avanspettacolo di sperimentazioni comico-grottesche, dove dal patafisico teatro dell'assurdo si passa
all'attualità crudele e morbosa della cronaca nera così come ci viene «vomitata» addosso dall'invasione
mediatica. E proprio qui sta l’ottimo lavoro di Cosentino, nel riuscire ad alternarsi efficacemente tra surreale,
farsa e tragedia. Divertendo a crepapelle, per poi «colpire» allo stomaco.
Alessandro Faliva BresciaOggi
…un pezzo di teatro ironico e grottesco, da non perdere. Cosentino, singolare se non unica figura di
teatrante-studioso (…) riversa in “Antò le momò” la sua visione di un teatro divertente e popolare quanto
ironico e colto. Il suo omaggio va all’avanspettacolo, inteso come serbatoio irriverente e disincantato di
linguaggi e forme. Ma qui diventa anche la presentazione di un attore alle prese con il problema di
raccontare una “storiaccia” di cronaca nera, che diventa lo spaccato di una società filtrata e ingabbiata dalla
mediocrità pop della televisione.
Pier Giorgio Nosari L’Eco di Bergamo