Per cogliere alcuni motivi costanti della produzione

Saggio documentato su Pirandello (stesura di due alunne – lavoro di gruppo)
dossier: brani da L'umorismo per la saggistica; da L'esclusa, Il fu Mattia Pascal e Quaderni di
Serafino Gubbio operatore, per i romanzi; Il treno ha fischiato, per le novelle; brani da Enrico IV ,
Sei personaggi in cerca d'autore e I giganti della montagna per il teatro.
Per cogliere alcuni motivi costanti della produzione pirandelliana disponiamo del saggio
L'umorismo (1908) nel quale troviamo un bilancio riguardo a quanto fino ad allora Luigi Pirandello
aveva scritto (liriche giovanili, L'esclusa e Il fu Mattia Pascal), ma anche un'enunciazione di
poetica e biografia intellettuale.
Nella creazione artistica la riflessione ha un ruolo essenziale: essa precede o meglio cerca di
escludere il coinvolgimento del sentimento, osserva l'oggetto con una distanza critica, ne diventa
giudice, lo analizza. Attraverso la riflessione si possono cogliere le varie e contraddittorie
componenti del reale. Se davanti ad una vecchia signora "tutta goffamente imbellettata e parata
d'abiti giovanili" (L'umorismo, 1908) ci viene da ridere, succede perché tale realtà è comica, cioè
contraria alle comuni norme di comportamento. Se interviene la riflessione si ha l'umorismo, che
suggerisce che la vecchia signora non prova nessun piacere a vestirsi in quel modo e fa andare oltre
il primo avvertimento, facendoci comprendere il disagio più profondo. Con l'intervento della
riflessione si arriva al superamento del principio verista dell'esistenza di una realtà oggettiva, e a
una visione dialettica (cioè interpretabile diversamente o anche in modo opposto) del reale.
Nel primo romanzo, che segna una svolta rispetto alla produzione giovanile, L'esclusa (1901),
compaiono già questi temi oltre all'incomunicabilità tra i personaggi, all'esclusione dalla società
convenzionale e al perpetuo equivoco nel quale si trova coinvolta la protagonista:
Marta Ayala è cacciata di casa dal marito che la ritiene colpevole d'adulterio. La donna, disperata per la
sua innocenza offesa, deve fare i conti con l'ostilità del paese e per questo si trasferisce a Palermo.
L'estraneità dell'ambiente e la solitudine la portano a compiere quel gesto al quale, "tutti, tutti l'avevano
spinta". Il marito, intanto, riconosce la sua innocenza e la richiama a sé, mentre l'amante le propone di
andare a vivere insieme a Roma. L'angoscia della protagonista si risolve quando ella confessa la sua
relazione al marito, il quale non sa rinunciare a lei e l'accoglie a casa.
Pirandello, in un primo momento, ritiene che l'impossibilità di essere capiti dipenda dalla società in
cui si vive (si può parlare di sfiducia storica). Egli compie una continua demistificazione dei valori
accettati, delle istituzioni, dei ruoli assunti e subiti. L'uomo, in catene nella rete di convenzioni e
sguardi che tradiscono il suo vero Io, si ritrova alla ricerca della propria identità, limitandosi a
spiegare COSA esso sia, senza riuscire a comprendere CHI sia.
La galleria dei personaggi esaminati è tratta dal mondo borghese siciliano, particolarmente
chiusa e ipocrita, volendo apparire diversa da ciò che è in realtà, ma la critica non è solamente
rivolta alla classe media siciliana, poiché attraverso "l'uomo di Girgenti si vuole rappresentare la
crisi dell'uomo"; la sfiducia, quindi, da storica diviene “cosmica” per usare un aggettivo
leopardiano, generale.
La tipologia del personaggio pirandelliano, già accennata nell'Esclusa e ripresa in seguito in
Uno, nessuno e centomila, emerge con chiarezza nel romanzo Il fu Mattia Pascal, del 1904 (1^
edizione), nel quale il protagonista avverte l'oppressione delle convenzioni, dei valori e dei giudizi
della comunità, si sente, così, "forestiero della vita", provando lo scarto tra forma e vita, ovvero tra
le impalcature sociali e il fluire della vita:
Mattia Pascal, asfissiato da una situazione familiare che è un susseguirsi di frustrazioni personali, decide
di allontanarsi dal paese. Dopo aver vinto una cospicua somma al casinò di Montecarlo, egli è
intenzionato a far ritorno a casa, ma, leggendo del ritrovamento di un cadavere, creduto, erroneamente, il
suo, decide di crearsi una nuova identità. Nonostante il nuovo nome, la nuova città e le nuove relazioni, si
accorge di non potersi pienamente realizzare in questa nuova situazione. Egli, dunque, simula il suicidio e
fa ritorno al paese natio, dove, però, trova la moglie risposata e con una figlia e non può che sentirsi
estraneo a tutto. A questo punto, all'uomo, riconosciutosi come il "Fu Mattia Pascal", ora bibliotecario di
una biblioteca in cui mai nessuno entra, non resta che narrare la propria storia.
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Le posizioni pirandelliane comportano la destrutturazione delle forme narrative tradizionali. La
prosa non spicca per l'armonioso equilibrio, a cui si sostituiscono la frammentazione del discorso, le
dissonanze, la contaminazione di registri linguistici, asprezze sintattiche (ma solo talvolta e lo
scardinamento della successione cronologica). Frequenti il discorso indiretto libero e le frasi
ipotetiche ed avversative, per mostrare l'aggrovigliata interiorità dei personaggi, il cui raziocinare,
che non coinvolge mai direttamente il livello sentimentale, ma quello cerebrale, è continuo, in un
mondo in cui il ruolo del caso è determinante.
La frantumazione dell'io e l'umorismo toccano, nella narrativa, il punto estremo, oltre che in
numerose novelle (poi raccolte col titolo Maschere nude), nel romanzo Uno, nessuno, centomila,
del 1925: quasi a manifesto del relativismo pirandelliano, il protagonista del romanzo distrugge o
rifiuta ogni legame con il mondo da cui proviene – denaro, posizione sociale, relazioni, il nome
stesso – ed approda, più consapevolmentedi quanto non appaia agli altri, che lo giudicano pazzo ad
una vita mendica ma aderente alla natura, priva di maschere ed infine felice in quanto vera. Qui in
modo irreversibile, in altri testi come parentesi strappate di nascosto alla rigidità della vita
quotidiana (a esempio nei racconti Il treno ha fischiato o La carriola), il varco per la libertà è
costituito dalla follia. Non c'è salvezza, invece, per il protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, ideato già nel '15 (col titolo Si gira...) e riedito dieci anni dopo: in prima persona come il
Fu Mattia Pascal, i Quaderni sono il frutto di una “vendetta” del loro autore, che, ridotto a essere
null'altro che un tutt'uno con la macchina da presa che aziona, uno strumento impassibile di fronte a
qualsiasi evento, anche di fronte alla spietata inutile morte di un animale immolato per divertire il
pubblico ed alla tragica morte di un attore, ammutolisce per sempre, in un “silenzio di cosa”. E così
scrive, denunciando non solo l'impossibilità dell'arte – qualsiasi arte - di rappresentare la vita,
poiché anche la dinamicità della pellicola è una finzione, una serie di immagini ipostatizzate, fisse,
che non possono rendere il flusso continuo della vita, ma la disumanità della vita umana dominata
dalle macchine, entrando in totale dissonanza con la contemporanea esaltazione che ne facevano i
futuristi.
Negli anni successivi al 1910 Pirandello si dedica alla produzione teatrale: non si può, però,
separare nettamente la fase narrativa da quella teatrale, poiché anche durante questa fase egli
continua a scrivere novelle, e moltissimi testi teatrali sono basati su novelle precedente (talora
addirittura, come nel caso dei Sei personaggi, il nucleo originario era comparso in più di una
novella). Ritornano i temi già incontrati in precedenza, fin dalla traduzione in italiano dei primi
drammi, scritti in dialetto, e, con decisione, nella fase del grottesco, come nel Gioco delle parti.
L'umorismo, teorizzato e realizzato nella forma narrativa, basato sull'opposizione delle valutazioni e
dei punti di vista, sullo scontro insanabile fra realtà e vita da un lato ed apparenza, forma o
maschera dall'altro, sulla negazione stessa dell'unitarietà del reale e dell'io, sulla riflessione come
estraniamento dalla propria vita (il 'guardarsi vivere' di Leone Gala, protagonista del Gioco delle
parti) trova nel teatro il genere più adatto ad accoglierlo. Rotti gli schemi del naturalismo e del
verismo, s'infrangono anche tutti i canoni del dramma borghese, inteso come rappresentazione
capace di far luce sulla verità della vita umana.
Il teatro pirandelliano è il primo esempio italiano del cosiddetto "teatro delle idee", in quanto
esso assume il carattere di un dialogo filosofico fra personaggi sempre impegnati a ragionare nel
disperato tentativo di vivere nella totalità, o di monologo ossessivo. La loro aspirazione è destinata
al fallimento e non resta loro che accettare il carcere, la maschera, che nasconde la vita autentica.
Un capolavoro di questi anni è Enrico IV:
Nel dramma, del 1921, il protagonista, durante una festa in maschera, nella quale impersonava
l'imperatore Enrico IV, per un'impennata del cavallo batte la testa ed impazzisce. Per anni si convince di
essere veramente Enrico IV e i parenti lo circondano di valletti e servitori e trasformano la sua villa in
reggia. Quando, riacquistata la ragione, si rende conto di quanto è successo in quegli anni (la donna amata
è diventata l'amante del rivale ed egli non ha vissuto relamente la sua vita), preferisce continuare a
fingersi pazzo. Dopo una serie di vicissitudini, gli amici di un tempo compiono l'estremo tentativo di farlo
rinsavire procurandogli uno choc suggerito da un medico, che consiste nel riportanrlo con la memoria al
giorno dell'incidente, vedendo all'improvviso la figlia della donna che aveva amato, di cui la giovane è
l'impressionante ritratto. Ma il protagonista scopre il gioco, getta la maschera e, dopo aver vissuto
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l'illusione di essere riportato a vent'anni prima, cercando l'affetto dell'amata, rivela che ormai da tanti anni
è guarito. Maschera ora nuda, cede così a un impulso di vita, che avrà tuttavia effetti rovinosi, poiché, in
preda ai propri impulsi incontrollabili (la “vita” che esorbita dalla “forma”) compirà un atto di violenza
irreparabile: la gelosia dell'antico rivale in amore provocherà, infatti, a sua volta, il folle gesto di Enrico
IV di trafiggerlo con una spada. Ora non gli resterà che riprendere a fingersi pazzo: e ciò sarà nel
contempo una condanna e l'unico modo per vivere libero dalla realtà.
Novità del teatro di Pirandello è la dissoluzione della finzione scenica, cioè "il teatro nel teatro",
inaugurato nel '21 e proseguito fino all'inizio degli anni '30 con la trilogia celeberrima dei Sei
personaggi in cerca d'autore, Ciascuno a a suo modo, Questa sera si recita a soggetto, i primi due
rielaborati una seconda volta. Tale dissoluzione avviene mediante l'eliminazione della "quarta
parete", quella invisibile che separava gli attori dagli spettatori, il palcoscenico dalla sala. Il
commediografo frantuma poi non solo questa convenzione, ma quelle fra personaggi e attori, fra
autore e capocomico, su cui si reggeva il teatro fin lì, realizzando effetti di straniamento che gli
permettono, nel vivo della recitazione, di rifletterci sopra e di discutere. Usa dunque un testo
teatrale per discutere del teatro e dell'arte in generale (pratica in parte già nota al teatro barocco, di
Shakesperare per esempio, ma senza la frammentazione dei ruoli in gioco) e soprattutto del rapporto
fra scrittura e realtà, che rivela un'aporia di fondo: la letteratura (tutta l'arte), appena fissa in forme
qualsiasi elemento lo tradisce per ciò stesso, perché gli toglie il fluire, il divenire, nucleo ontologico
della vita stessa.
Nei Sei personaggi in cerca di autore, sei personaggi che, lasciati incompiuti dal loro inventore,
senza una storia conclusa, rivendicano una ‘vita’, che sentono di avere anche se nessun autore vuole
darla loro, irrompono in un teatro e al regista e agli attori impegnati nelle prove (di una commedia
di Pirandello, Il gioco delle parti!) chiedono che si rappresenti invece la loro storia, ma poi non si
riconoscono nella recitazione. Inchiodati in una allucinante ripetizione degli stessi tragici gesti della
loro storia, concluderanno mestamente (attraverso le parole del Padre) che forse è questo il motivo
per cui nessuno ha voluto scrivere il dramma e spariranno in silenzio dal palcoscenico, dopo una
drammatica scena di morte, lasciando attori e capocomico interdetti e sfiniti.
Ritorna il tema costante del carcere (da intendersi allegoricamente) e dell'impossibilità di uscirne
che si aggiunge alla nuova tematica dell'incapacità, anche dall'arte, di rendere l'ineffabile, del difetto
di essere finzione di fronte alla realtà.
L’ultima fase è quella dei così detti ‘miti' o 'apologhi' teatrali, dal '29 alla morte, il più noto dei
quali è l'incompiuto I giganti della montagna, di ardua interpretazione: un gruppo di artisti si è
volontariamente emarginato, dopo una serie di tragici eventi, dalla società, brutale e rozza, al cui
potere sono “i giganti'; ma il mago Cotrone, che li guida, tenta di mettere in piedi una
rappresentazione (La favola del figlio cambiato di Pirandello) per le nozze di due 'giganti', per
instillare nelle loro menti “dure e bestiali” un seme di cultura e sensibilità. Il rumoreggiare
selvaggio dei giganti che si avvicinano (allegoria delle squadre fasciste? Della guerra imminente?)
domina le ultime battute del dramma, che avrebbe dovuto chiudersi con l'uccisione della prima
attrice, Ilse, mentre recita al banchetto dei servi dei giganti. L'arte non ha posto in una società
dominata dalla logica del potere.
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