DAL TEMPO CRISTIANO ALLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE Heidegger interprete delle Lettere di San Paolo Nel semestre invernale 1920/21 Martin Heidegger tiene il corso «Introduzione alla fenomenologia della religione». Il testo pubblicato1 è diviso in due parti di uguale estensione: la prima è un'«introduzione metodica», dunque un'«introduzione» a un'«introduzione», mentre la seconda è l'«esplicazione [Explikation] fenomenologica dell'esperienza cristiana della vita», quale risulta dalle Lettere di Paolo di Tarso, in particolare da quella ai Galati e soprattutto dalle due Lettere ai Tessalonicesi. Tanta cura per il metodo si spiega se si considera che la «fenomenologia», quale qui viene proposta da Heidegger, intende essere non solo un metodo nuovo anche rispetto alla fenomenologia di Husserl e degli altri esponenti di questo indirizzo, ma anche il giusto ed insostituibile approccio all'elemento «storico», un obiettivo che finora sarebbe stato mancato dalla concettualità occidentale tutta, sia da quella «scientifica», sia da quella più propriamente filosofica. Lo stesso particolare interesse per la ricerca storica della cultura della sua propria epoca spinge Heidegger a denunciarne la fondamentale carenza concettuale, da imputarsi peraltro non agli studiosi del settore, ma alla natura stessa dell'elemento storico. In ciò che è storico c'è infatti qualcosa che turba e frena, e così finisce per allontanare da quel «vissuto» che dovrebbe essere il tema proprio del sapere storico: «La “coscienza storica” dovrebbe essere la caratteristica della nostra presente cultura. Di fatto il pensiero storico determina la nostra cultura, la inquieta [beunruhigt]: in primo luogo perché la eccita, la incita, la stimola; in secondo luogo in quanto la frena. […] Si dovrebbe prendere in esame lo sviluppo della coscienza storica nella vivente storia dello spirito. Vi rimando a Dilthey che, però, a mio avviso non ha colto il nocciolo del problema. Ciò che in merito afferma Troeltsch è essenzialmente influenzato da Dilthey, anche per quanto riguarda la Riforma» (33). Se si considera che nella filosofia della religione di Troeltsch, il maggior filosofo della religione del suo tempo, Heidegger ravvisa non solo l'anzidetta dipendenza da Dilthey, ma anche il succedersi via via delle influenze di Ritschl, Kant, Schleiermacher, Lotze, Windelband, Rickert, Bergson, Simmel, ed infine di Hegel (cfr. 18-19), si deve allora arguire che per lui nessun autore moderno ha compreso la temporalità. 1. La distanza di Paolo dai greci Ma perché scegliere proprio Paolo quale banco di prova per una fenomenologia che non solo intende riscoprire la dimensione storica, ma che con ciò stesso intende proporsi come la vera filosofia? «“Fenomenologia” - questo per noi deve significare lo stesso di “filosofia”» (5). Impegnarsi filosoficamente con Paolo su ciò che è «storico» vuol dire presupporre non solo, positivamente, che Paolo ha fatto un'autentica esperienza Martin Heidegger, Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, Gesamtausgabe 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, pp. 1-156. Gli editori, Matthias Jung e Thomas Regehly, nonostante le accurate ricerche compiute, non hanno rinvenuto il manoscritto di questo corso. Il testo pubblicato è frutto della collazione di alcune trascrizioni stenografiche da parte degli uditori. Date le novità terminologiche e concettuali che presenta questo testo e per ragioni di uniformità nell'interpretarle, ho tradotto dall'originale. Segnalo comunque l'accurata traduzione italiana di G. Gurisatti: Martin Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2003. Nel mio testo, i numeri arabi fra parentesi tonde al termine delle citazioni rimandano alle pagine dell'edizione tedesca. 1 del tempo e che ha posto il massimo impegno nel testimoniarla e nel comunicarla autenticamente ai cristiani da lui convertiti, ma anche, negativamente, che questa sua esperienza di vita e di comunicazione non ha lasciato traccia nella cristianità immediatamente a lui successiva. Già nei vangeli sinottici Heidegger coglie la presenza di una concettualità non conforme, anzi contraria, alla novità dell'esperienza del tempo testimoniata nelle Lettere di Paolo. Egli si propone appunto di portare alla luce non solo questa esperienza, ma la possibilità di trarre dall'esperienza dell'«essere-divenuto» [Gewordensein] cristiano di Paolo e dei destinatari delle sue lettere una concettualità idonea ad afferrare la vita nel suo divenire vivente e vissuto: e Heidegger sostiene che solo la «temporalità cristiana» è il tempo giusto, il kairÕj, per un divenire autenticamente vivente e vissuto. Ogni altro tempo, greco o moderno, non è che un «ordinamento» [Einstellung] di fatti neutri all'interno di un'«oggettività» estranea al divenire che è proprio della vita: «La presente trattazione tocca il centro della vita cristiana: il problema escatologico. Già alla fine del primo secolo l'elemento escatologico presente nel cristianesimo venne nascosto. Più tardi tutti i concetti cristiani originari vengono fraintesi. Anche nell'odierna filosofia le formazioni concettuali cristiane sono ancora nascoste dietro l'impostazione greca. Sarebbe necessario prendere in esame i grandi discorsi escatologici nei Vangeli di Matteo e Marco, dai quali si evince l'impostazione fondamentale del problema. La direzione escatologica fondamentale è già tardogiudaica, e la coscienza cristiana ne è una rielaborazione» (104-105). Nemmeno in Agostino, nonostante il libro XI delle Confessiones, Heidegger riconosce la presenza dell'autentica temporalità cristiana. In «Augustinus und der Neoplatonismus» (il corso tenuto nel successivo semestre estivo 1921), pur fra i riconoscimenti per la nuova sensibilità nei confronti dei fenomeni interiori, egli lo accusa di essere ancora succube proprio di quell'«oggettività» greca contro la quale egli sta combattendo: «Oggettività di Dio. Deus lux, dilectio, summum bonum, incommutabilis substantia, summa pulchritudo. […] In definitiva l'esplicazione dell'esperienza di Dio in Agostino è specificamente “greca” (nel senso in cui anche tutta la nostra filosofia è ancora “greca”). Non si perviene a una problematizzazione critica radicale, a una considerazione originaria (distruzione)»2. Agostino rivela il bisogno di fare del tempo un «oggetto»: un bisogno ignoto a Paolo. Agostino finisce per collocare il tempo in un «ordine» al quale resta estraneo il tempo vissuto da chi, «divenuto» cristiano, vive il tempo nell'imminenza del ritorno glorioso di Cristo. Questo tempo non ha bisogno di altro quadro di riferimento che non sia il tempo stesso di un'attesa che, proprio in quanto non bisognosa di alcuna fissazione temporale, è già presenza, tempo compiuto: «La religiosità cristiana vive la temporalità come tale» (80). «L'esperienza cristiana vive il tempo stesso (“vivere” inteso come verbum transitivum)» (82). «La religiosità cristiana vive la temporalità. È un tempo senza un proprio ordine e senza posti certi, ecc. Questa temporalità è impossibile incontrarla a partire da un qualsiasi concetto oggettivo del tempo. Il “quando” non è in alcun modo comprensibile oggettivamente» (104). Heidegger si pone per così dire nei panni di uno dei Tessalonicesi convertiti da Paolo, ma con la consapevolezza smaliziata di un giovane filosofo dell'inizio del XX secolo, originalmente e criticamente conscio della carenza concettuale di più di duemila anni di filosofia. In lui parla non il credente ma il filosofo, anche se in questo corso universitario questo filosofo non prende mai le distanze dal 2 Martin Heidegger, Augustinus und der Neuplatonismus, a cura di Claudius Strube, in Id., Phänomenologie des religiösen Lebens, cit., p. 292. 2 credente, tutt’altro: giunge ad affermare che solo sulla base della temporalità cristiana è possibile una «filosofia della religione» [Religionsphilosophie]: possibile per lui, Martin Heidegger, che si sente e vuol essere uomo del suo tempo, un tempo che, se veramente vissuto, non può non essere quello di un cristiano. Ma come è possibile esplicitare e appropriarsi filosoficamente della temporalità cristiana testimoniata dalle Lettere di Paolo? Quali garanzie devono venire approntate per non fraintenderne l'intenzionalità religiosa? Il prescindere dall'impegno esegetico e dal contenuto dogmatico di questi scritti - cosa che Heidegger espressamente dichiara - non significa forse fraintenderne il senso anche per quanto concerne l'originale temporalità di cui recano la testimonianza? 2. Indicazione formale e filosofia della religione Heidegger legittima il suo procedere facendo ricorso all'«indicazione formale», [formale Anzeige]. Questa procedura fenomenologica consiste: 1) nel prendere le distanze da tutto ciò che potrebbe far passare inosservata la temporalità, 2) nel concentrare l'attenzione sul «come» questa stessa viene vissuta. Questa «indicazione» è «formale» in quanto non si fa catturare né dal «senso del contenuto» [Gehaltssinn], né dal «senso del rapporto» [Bezugssinn] in cui il contenuto viene vissuto. Ciò non significa che essa faccia astrazione dai contenuti e dai modi per esprimerli; li tiene anzi particolarmente presenti (e in questo senso costituisce una precisa «indicazione»), ma dal punto di vista del «senso del compimento» [Vollzugssinn]. Se infatti, come è ovvio, ogni «esperienza fattuale» [faktische Erfahrung] include il proprio compimento, questo tuttavia resta bisognoso di «esplicazione» per quanto concerne il «modo» [das Wie] con cui in esso il tempo viene vissuto. C'è bisogno di questa esplicazione proprio perché la vita si contrappone alla temporalità di cui essa stessa vive, ma da cui vorrebbe rimuovere la componente minacciosa: «La vita cerca di contrapporsi all'elemento storico e di assicurarsi nei confronti di esso. Ma resta dubbio se ciò contro cui la vita fattuale si afferma sia realmente ciò che è storico» (37). L'esperienza fattuale tende a coprire a se stessa il senso del proprio insidioso «compimento» temporale. L'indicazione formale si muove in controtendenza a favore della temporalità, e per questo diffida «formalmente» di ogni «ordinamento» che la vita ha dato e continua a dare a se stessa. Essa pone in guardia soprattutto dall'ordinamento dell'«oggettività», essenziale per ogni «teoria» e dunque anche per quella filosofia che, «teorizzando». intende produrre un «rassicurante» «rapporto di senso» con l'esperienza fattuale: «Perché si chiama «formale»? L'indicazione deve previamente indicare il rapporto del fenomeno - tuttavia in un senso negativo, per così dire come monito! Un fenomeno deve essere dato in modo che il suo / senso di rapporto venga tenuto in sospeso. […] Questa è una presa di posizione di estrema contrapposizione alla scienza. Non c'è alcuna inserzione in una regione di oggetti; al contrario, l'indicazione formale è una difesa, è una preventiva assicurazione per mantenere ancora libero il rapporto di compimento. La necessità di questa regola di prevenzione è motivata dalla tendenza a decadere che è propria dell'esperienza fattuale della vita, e che sempre minaccia di scivolare nell'oggettivabile; è la tendenza dalla quale noi dobbiamo trarre fuori i fenomeni» (63-64). La formale Anzeige pone la propria formalità al servizio della ricchezza del «fenomeno» e delle possibilità di corrispondervi da parte dell'«esperienza fattuale»; a tal fine essa pone in discussione sia la formalità della «formalizzazione» scientifica [Formalisierung], legata agli ambiti regionali delle singole discipline, sia 3 la formalità dell'universalizzazione per generi e specie [Generalisierung] che è propria della filosofia in quanto «teoria» della realtà in generale. La formale Anzeige non ha dunque propriamente niente di «formale», se con ciò si intende un fare astrazione dai contenuti e dai modi con cui questi vengono sperimentati. La formalità del suo indicare non sta nel prescindere dai contenuti e modi dell'esperienza, ma nell'aprirli al «compimento», e quindi al vissuto in quanto tale, senza alcun limite. Viene messo in discussione l'ordinamento delle scienze, ma per consentire allo scienziato stesso di continuare ad attingere dalla temporalità del suo proprio coinvolgimento il senso di compimento, che è il senso cui vanno ricondotti sia il senso di contenuto sia quello di rapporto: «Nell'indicazione formale non si tratta di una collocazione in un ordine. Ci si mantiene lontani da ogni ordinamento, si lascia proprio tutto aperto. L'indicazione formale ha senso solo in rapporto all'esplicazione fenomenologica» (64). Heidegger conclude la prima parte di questo corso universitario (decisivo per il suo successivo dedicarsi al problema della temporalità e della storicità dell'essere) rivolgendosi direttamente ai suoi uditori, che certamente non potevano non essere rimasti perplessi davanti a un percorso filosofico che si discostava non solo dalla «sana intelligenza umana» (30, 36,105), ma anche da tutta la storia delle filosofia, Husserl compreso, alla cui scuola d'altra parte Heidegger non poteva considerarsi estraneo. Heidegger trova opportuno rincuorare gli studenti riconoscendo implicitamente la fondatezza delle loro tacite perplessità, ma senza illuderli circa un mutamento di rotta. In una Vorlesung dedicata alla filosofia della religione, anche se solo «introduttiva», ci si doveva pur aspettare che questa disciplina fosse affrontata nella sua specificità, dunque su contenuti religiosi e non solo su indicazioni «formali». Heidegger si appresta realmente a fare questo nella seconda parte, ma avverte chi lo ascolta di non attendersi un cammino filosofico più agevole, anzi! Si tratterà sempre e solo di filosofia, e per questo diventerà ancor più difficile cogliere il rapporto di questa con la religione, almeno se si tiene ferma la legittimità della filosofia della religione come disciplina rigorosamente filosofica: «La filosofia, come io la intendo, è in una difficoltà. Negli altri corsi universitari all'uditore è previamente data un'assicurazione: in un corso di storia dell'arte potrà vedere immagini, e ugualmente varrà per lui la pena di seguire gli altri corsi agli effetti del suo esame. Nella filosofia le cose vanno diversamente, ed io non posso farci nulla poiché la filosofia non l'ho inventata io. Sarebbe bello salvarmi da questa calamità, e quindi interrompere queste indagini così astratte, e dalla prossima ora in poi fare Loro lezione di storia: potrei partire da un determinato fenomeno concreto senza ulteriore indagine circa l'impostazione e il metodo, ma allora io dovrei presupporre il Loro fraintendimento di tutta l'indagine, dall'inizio alla fine» (65). La seconda parte della Vorlesung esordisce ancora una volta con un'avvertenza di metodo, ma finalmente non solo metodologica. Gli uditori non devono aspettarsi che la filosofia della religione che verrà loro proposta concerna i contenuti religiosi nella loro, per così dire, esclusiva religiosità. L'obiettivo è quello di accostarsi ad essi nel modo giusto, dunque sempre mantenendo vivo l'impegno critico, che non esclude tuttavia che ci si avvicini sempre più al vissuto religioso in quanto tale, ma senza mai pretendere di comprenderlo a fondo, e tanto meno di andare - alla Hegel, Marx Nietzsche, ecc. - al di là di esso. Interessa la «precomprensione» [Vorverständnis]: 4 «L'indicazione formale rinuncia alla comprensione ultima, che può venir data solo nel genuino vissuto religioso3. Essa ha come fine solo di aprire l'accesso al Nuovo Testamento» (67). 3. L'interpretazione della Lettera ai Galati Non tutto il Nuovo Testamento è ciò a cui Heidegger intende «introdurre» con la sua «precomprensione» fenomenologica. L'obiettivo è Paolo, ma non la sua biografia, non la sua opera, e nemmeno la sua teologia, ma le sue Lettere, privilegiando quella più antica, la più vicina al «Gesù storico»: la Prima Lettera ai Tessalonicesi. A conferma dei risultati ottenuti su questa, la ricerca verrà poi estesa anche alla Seconda Lettera ai Tessalonicesi, la cui attribuzione a Paolo Heidegger dimostra proprio in base al ruolo decisivo che in ambedue viene svolto dalla «temporalità cristiana». Della Lettera ai Galati egli si limita a elencare i versetti in cui è esplicito il vissuto di chi la scrive. Là dove Paolo afferma: «In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio» (Gal 2, 19), Heidegger stringatamente commenta: «Molto importante! Forma concentrata di tutta la dogmatica paolina. ¢pšqanen nÒmJ di£ nÒmou soltanto eticamente [bloß etisch]4. Dato che Cristo è divenuto identico con la legge, ecco che la legge è morta con lui (e ugualmente Paolo)» (70). Nel vissuto di Paolo si è prodotto come un reale morire. Egli ha vissuto il morire in Cristo, non un morire qualsiasi, ma il morire alla «legge»: a qualcosa che pretende di valere a prescindere dal tempo, o meglio per paura del tempo. Paolo vive il tempo in quanto muore a ciò che vorrebbe fare morire il tempo. Questo morkmire a una legge di morte è quel vivere il tempo che trae costante alimento dalla fede in Cristo morto in croce. La morte di Cristo non è una morte qualsiasi; la sua croce non una qualsiasi croce. È, come Paolo afferma in Gal 5, 11, uno scandalo: «tÕ sk£ndalon toà stauroà: Questo è l'autentico elemento fondamentale del cristianesimo, di fronte al quale si dà solo fede o non fede» (71). Se lo scandalo è il fondamento della fede cristiana, allora questa non può consistere in un tranquillizzante tenere per vero, una volta per tutte, fuori dal tempo. La fede basata sullo scandalo della Croce obbliga il credente a vivere il tempo, o meglio gli consente di vivere il tempo, e non più nel tempo insieme con la costante paura del tempo. Non si dà via di mezzo: o «fede» nel tempo o «non fede» insieme con la paura del tempo. Gli elementi che Heidegger evidenzia nella Lettera ai Galati non sono i suoi contenuti dogmatici, che anche a suo avviso sono innegabili; l'applicazione dell'«indicazione formale» gli consente di mantenerli «in sospeso» in vista di una loro ripresa dal punto di vista dell'«esplicazione» fenomenologica della «situazione» in cui Paolo si trova a vivere dopo essere morto Su questo cammino Heidegger si incamminerà nella conferenza del 1927 Phänomenologie und Theologie, dove alla formale Anzeige viene appunto riservato il ruolo decisivo per la legittimazione scientifica della stessa teologia. 4 Qui è possibile scorgere un'influenza di Kierkegaard per quanto concerne la «sospensione teleologica dell'etica» da questo sostenuta in Timore e tremore. Heidegger aveva ben presente il pensatore danese, come attestano i molti riferimenti e le citazioni presenti nel corso tenuto da Heidegger nel semestre successivo dell'estate 1921 «Augustinus und der Neoplatonismus», in Heidegger, Phänomenologie des religiösens Lebens, cit. , pp. 178, 192, 248, 265. Mi permetto per questo di rinviare al mio articolo La presenza di Kierkegaard in Heidegger, in Isabella Adinolfi e Rodolfo Garaventa (a cura di), Le malattie dell'anima. Kierkegaard e la psicologia, «NotaBene, Quaderni di studi kierkegaardiani 5», Il melangolo, Recco (Genova) 2006, pp. 203-215. 3 5 alla legge ed avere cominciato a trarre vita dallo scandalo della Croce. Paolo vive la «vita nuova». Non solo. In questa «esperienza di vita» Heidegger coglie non la novità come fatto da aggiungere ai fatti di prima, ma «esplica» lo sbocciare in Paolo della consapevolezza della storicità di tutta la sua vita. La «comprensione storica» è il frutto della morte alla Legge e della vita nella Croce. È una scoperta cristiana. Passato, presente e futuro non sono più quelli di prima. Un vero futuro diventa per la prima volta possibile con il restare operosi nel tempo degli uomini: «Per intendere il comportamento fondamentale di Paolo è da tener presente Fil 3, 135: certezza di sé circa il posto nella sua propria vita — rottura della sua esistenza — originaria comprensione storica del suo sé e del suo esserci. A partire da ciò si compie la sua opera come apostolo e uomo» (73-74). 4. L'interpretazione della Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo sa di essere «storico», sa che questo suo sapere era impossibile prima della morte e resurrezione di Cristo. Per questo sa anche perfettamente che questa autocoscienza circa la storicità di questa «vita nuova» non è un suo privilegio, ma che si tratta di un'«esperienza effettiva di vita» che egli con-vive con tutti quelli che vivono la sua fede. La «situazione» in cui egli scrive le due lettere ai Tessalonicesi è proprio quella del vivere questa consapevolezza insieme con i destinatari: Paolo vive lo stesso tempo che vivono i suoi Tessalonicesi; insieme a questi fa un'esperienza che è accessibile solo a chi «è divenuto» cristiano. Nella prima delle due lettere, che la critica unanimemente riconosce autentica, Heidegger sottolinea l'insistenza, che non può essere casuale, con cui Paolo collega il «sapere» dei Tessalonicesi al loro «essere divenuti». Il loro non è un sapere astratto, universale, eterno; è invece un'esperienza «fattuale», propria di chi vive di fede, è soprattutto un'esperienza che non teme il tempo ma che anzi lo vive e lo tiene vivo, perché proprio questo tempo è per loro di vitale importanza. Se non mantenessero vivo il loro essere divenuti, e se dunque non continuassero a guardarsi dalla tentazione di farne un «oggetto» da incasellare in una «teoria», verrebbe meno anche il loro «sapere» e con questo verrebbe meno anche il loro vivere, dato che «il loro essere-diventati [Gewordensein] è il loro essere attuale» (94). Ma tutto questo non riguarda i soli Tessalonicesi. Paolo è nella loro stessa situazione; fa la stessa esperienza, al punto da «sperimentare i Tessalonicesi [oggetto!]» che sperimentano e sanno il loro essere divenuti: «Impostiamo formalmente la condizione del rapporto di Paolo con quelli che si “sono assegnati a lui”6. Paolo sperimenta i Tessalonicesi in due determinazioni: 1. Sperimenta il loro essere divenuti (genhqÁnai). 2. Sperimenta che essi hanno un sapere del loro essere divenuti (o‡date e simili). Cioè il loro essere divenuti è anche un essere divenuto di Paolo. E nel loro essere divenuti Paolo è cointeressato. È facile trovarne in questa lettera la prova concreta. Nell'ambito di 1 Ts colpisce il molteplice uso di: 1. genšsqai e simili; 2. o‡date, mnhmoneÚsate e simili. Potrà sembrare estrinseco andar dietro la ripetizione della stessa parola, ma ciò, nel comprendere storico che bada al compimento [vollzugsgeschichtliches Verstehen], lo si deve comprendere in quanto tendenza, motivo che sempre di nuovo viene a galla. È cosa ben diversa dalla ripetizione di un evento naturale» (93). 5 «Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto io so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a vivere lassù, in Cristo Gesù». (Fil 3, 13-14). 6 Cfr At 17, 4. 6 Heidegger indirizza l'attenzione al Vollzugssinn, ossia al «modo» [wie] con cui Paolo e i Tessalonicesi danno senso al fatto (Gehaltssinn) che ha cambiato loro la vita, e al «modo» con cui essi si pongono conseguentemente in rapporto (Bezugssinn) con se stessi, con gli altri, con Dio. Questo cambiamento non può essere «esplicato» in altro modo che facendo ricorso al metodo fenomenologico previamente elaborato. La formale Anzeige deve ora dar prova non solo di sapere «esplicare» l'originalità della temporalità cristiana, ma anche di essere insostituibile, e dunque di essere in grado di «indicare» anche le ragioni per cui finora questa temporalità è risultata non attingibile da parte della filosofia. La Prima Lettera ai Tessalonicesi porge a Heidegger varie occasioni per intervenire con successo con il suo metodo fenomenologico. Se, ad esempio, Paolo si congratula con i Tessalonicesi per il loro essersi «allontanati dagli idoli per servire Dio» (1 Ts 1, 11), ecco che Heidegger può cogliere, nel modo con cui avviene questa conversione, non tanto il semplice passare dal culto degli idoli a quello del vero Dio, ma il vero modo di rapportarsi a Dio. L'abbandono degli idoli è solo il corollario, e in questo senso non ciò che è decisivo, di una conversione più profonda, che consiste nel non rapportarsi più a Dio come a un «oggetto». Questa oggettivazione è il vero idolo, e non gli dèi pagani in quanto tali: «Il rivolgersi a Dio è la cosa primaria. Da ciò, e insieme a ciò, si determina l'allontanarsi dagli eŠdwla. Questo allontanarsi è secondario […]. Per l'esplicazione si dà il compito di determinare il senso dell'oggettività di Dio. Se Dio viene inteso come oggetto della speculazione, allora siamo di fronte a una caduta dall'autentico comprendere. Ciò lo si può percepire se si esegue l'esplicazione del contesto concettuale. Ma questo non è mai stato tentato poiché la filosofia greca si è introdotta nel cristianesimo. Solo Lutero ha fatto un tentativo in tale direzione, e da questo ci si spiega il suo odio per Aristotele» (97). Ma come «rivolgersi» a Dio tenendo al tempo stesso fermo che Dio non è possibile come oggetto? Per Heidegger pensare un «oggetto» [Objekt, ma anche, se inteso «ontologicamente», Gegenstand] vuol dire inserirlo in un «ordinamento» [Einstellung] sotto il condizionamento delle «tendenze per la sicurezza» [Sicherungstendenzen] (45-52), cioè per paura dell'«esperienza fattuale» [faktische Erfahrung] del tempo, della storia, della vita. Il discorso vale anche per Dio. Diventa anzi particolarmente importante, in linea di principio ma non solo, denunciare subito l'inconciliabilità fra Dio e oggettività: «gli idoli», tutti, si sgretolano e non meritano più uno sguardo non appena ci si «rivolge» a Dio senza farne un oggetto «rassicurante». Quanto più l'uomo vivrà «storicamente» e tanto meno verrà tentato dagli idoli. La storicità dell'esistere appare andare di pari passo con il rivolgersi dell'uomo a un Dio di irriducibile trascendenza. Si potrebbe anche dire, con Kierkegaard: lo «scandalo» cristiano è la salvezza dell'esistenza nel tempo.7 La Prima Lettera ai Tessalonicesi non presenta particolari contenuti di fede. Paolo «sa» bene che i Tessalonicesi vivono la fede, e sa pure che ne sono consapevoli. Scrive loro per comunicare la sua gioia per questo risultato che è anche un suo successo personale. Dal punto di vista dogmatico la lettera risulterebbe pertanto poco interessante. Tuttavia essa fornisce a Heidegger la 7 Si ricordi a questo proposito l'espressione che Kierkegaard introduce al culmine della grande Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole filosofiche” per distinguere «la religiosità B» da ogni altra: «[Il cristianesimo] è il rapportarsi nel tempo all'Eterno-nel-tempo» [i Tiden til at forholde sig til det Evige i Tiden (Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 577)]. 7 chiave per «esplicare» in Paolo la novità, fenomenologicamente di primaria importanza, della temporalità cristiana. Anzi, in questa lettera è Paolo stesso che, per così dire, dà lezione di fenomenologia ai Tessalonicesi proprio in materia di temporalità! Come viene da loro vissuta? Paolo la caratterizza con due verbi che attirano particolarmente l'attenzione di Heidegger. I Tessalonicesi si sono convertiti, hanno abbandonato gli idoli ed ora vivono «per servire [douleÚein] Dio vivo e vero e attendere [¢namšnein] dai cieli il suo Figlio» (1 Gal 1, 9-10). Paolo elogia questo comportamento. Per lui il servire Dio è il giusto attendere la venuta gloriosa di Cristo, e viceversa. Heidegger coglie in ciò la consapevolezza di Paolo circa la natura della temporalità cristiana. Il tempo cristiano è vissuto come un attendere che non è legato a un «quando» oggettivo, e per questo può essere un attendere che già ora è un incondizionato servire «il Dio vivo e vero», e non un asservirsi all'oggetto, a un idolo. È un servizio che libera, ed in questo senso è il fondamento di «ogni altro rapporto». Il tempo viene vissuto nell'attesa del ritorno glorioso del Signore: la «parusia». Questa non viene attesa come un avvenimento che ancora tarda: è già pienezza di vita e di rapporti, è tempo integralmente vissuto. La parusia è il nome proprio della temporalità cristiana. Paolo la vive con sentimenti e pensieri che sarebbero contraddittori se collocati nel tempo «oggettivo». Heidegger fa notare, ad esempio, la contraddizione che ci sarebbe in Paolo fra il suo gloriarsi a motivo dei Tessalonicesi del v. 2, 20 e la proclamazione di non cercare «gloria umana» del v. 2, 6. Questa contraddizione non sussiste più nella dimensione della parusia. Qui il «compimento» del tempo avviene nella speranza gioiosa ma anche nella «tribolazione». Questa è intrinseca a una temporalità che non vive di sicurezze ma di un incondizionato impegno nell'«accogliere» la nuova impostazione di vita che la parusia implica. La temporalità cristiana è gioiosa in quanto tribolata, e viceversa: «douleÚein e ¢namšnein in quanto direzioni fondamentali determinano ogni altro rapporto. È decisiva l'attesa della parous…a del Signore. I Tessalonicesi sono speranza per lui non in un senso umano, ma nel senso dello sperimentare la parous…a. Lo sperimentare è una tribolazione [ql…yij] assoluta che appartiene alla vita stessa dei cristiani. L'accogliere (dšcesqai) è un collocarsi-dentro nel bisogno. Questa angustia è un fondamentale tratto caratteristico, è una tribolazione nell'orizzonte della parous…a, del ritorno alla fine del tempo. Con ciò veniamo introdotti nel mondo del sé di Paolo» (97-98). Il metodo fenomenologico di Heidegger si rivela congeniale all'esperienza di fede di Paolo, e questa congeniale a quello. Il suo metodo pone attenzione primaria al «senso di compimento», e Paolo, nello stesso scrivere la lettera, non «è» semplicemente qualcuno che fa qualcosa, ma «accresce» in tutti i modi il bisogno che lui ha di farlo. Lui stesso diventa bisogno vivente di compiere sempre più ciò che costituisce il suo se stesso, al punto che il suo «avere» quel bisogno sopravanza il suo «essere. Tale «avere» esprime la temporalità cristiana meglio dell'«essere», che di tale avere è solo una derivazione: «Per Paolo la vita non è un puro scorrere di vissuti; la vita è solo in quanto lui la ha. La sua vita è appesa fra Dio e la sua professione. Il modo dell'“avere” la vita stessa, che coappartiene al compimento della vita, non fa che aumentare il bisogno (ql…yij). Ogni autentico insieme concernente il compimento lo accresce» (100; cfr. 92). La parusia è il modo con cui Paolo «ha» la sua vita. Il «compimento» non può infatti avere maggiore intensità temporale di quando ci si rapporta all'«apparire di 8 nuovo del messia già apparso» (102); qui ogni «quando» deve essere tutto vissuto in ogni momento a prescindere dall'oggettività temporale e da ogni «sicurezza» riposta in questa. La parusia è incompatibile con ogni fuga dal tempo vissuto. Con ciò stesso essa diviene il criterio per la verifica dell'esperienza dell'«essere divenuto» che è propria del cristiano: non si può essere veramente divenuti cristiani e fraintendere la parusia facendone un evento fissabile in un «quando» oggettivo, perché ciò equivarrebbe a chiudersi nell'immanenza della proprie sicurezze. Far calcoli sul «quando» dell'«apparire di nuovo del messia già apparso» vuol dire non attenderlo più «servendo» un Dio di trascendenza, bensì ritornare a volgersi agli «idoli». Lo strumento dell'«indicazione formale», che «tiene in sospeso» l'«ordinamento» dell'oggettività, è predisposto per non lasciarsi sfuggire il senso della risposta che Paolo dà, nel capitolo V della Lettera, alla domanda dei Tessalonicesi circa il quando della parusia: La parusia è il modo con cui Paolo «ha» la sua vita. Il «compimento» non può infatti avere maggiore intensità temporale di quando ci si rapporta all'«apparire di nuovo del messia già apparso» (102); qui ogni «quando» deve essere tutto vissuto in ogni momento a prescindere dall'oggettività temporale e da ogni «sicurezza» riposta in questa. La parusia è incompatibile con ogni fuga dal tempo vissuto. Con ciò stesso essa diviene il criterio per la verifica dell'esperienza dell'«essere divenuto» che è propria del cristiano: non si può essere veramente divenuti cristiani e fraintendere la parusia facendone un evento fissabile in un «quando» oggettivo, perché ciò equivarrebbe a chiudersi nell'immanenza della proprie sicurezze. Far calcoli sul «quando» dell'«apparire di nuovo del messia già apparso» vuol dire non attenderlo più «servendo» un Dio di trascendenza, bensì ritornare a volgersi agli «idoli». Lo strumento dell'«indicazione formale», che «tiene in sospeso» l'«ordinamento» dell'oggettività, è predisposto per non lasciarsi sfuggire il senso della risposta che Paolo dà, nel capitolo V della Lettera, alla domanda dei Tessalonicesi circa il quando della parusia: «Paolo non risponde alla domanda in senso mondano. Si tiene del tutto lontano da un procedere concernente l'aspetto conoscitivo, ma non per questo dice che la faccenda sia inconoscibile. Paolo compie la risposta mettendo l'un contro l'altro due modi di vivere: Ótan lšgwsin … (v. 3), e Øme‹j d … (v. 4). È decisivo come io mi rapporto a questo nella vita autentica. Da ciò viene il senso del “quando?”» (99). Al v. 3 di 1 Ts Paolo predice non il quando della parusia, ma che questa significherà la «rovina» che «d'improvviso» colpirà quelli «che dicono “pace e sicurezza”». Qui Paolo vede la conseguenza inevitabile di un «modo di vivere» basato già ora sulle sicurezze mondane. Per costoro la parusia in un certo senso è già in atto, ma rovinosamente. Paolo non profetizza alcunché, ma semplicemente prende atto di un modo di vivere che egli contrappone a quello riferito ai «noi invece…» del versetto 4, cioè a se stesso e ai Tessalonicesi. Per chi già vive nel tempo della parusia, quelli che cercano sicurezza nella certezza del «quando» sono già ora privi di ogni «avere». Non vi può essere salvezza per chi già da sé si è privato della dimensione dell'«avere» a che fare con sé: «Non possono salvarsi perché hanno dimenticato il loro proprio sé, perché non hanno se stessi nella chiarezza dell'autentico sapere. Non possono cogliere se stessi e salvarsi» (103). Con la sua risposta, che invero non risponde alla domanda, Paolo mette implicitamente in guardia i Tessalonicesi dal porsi domande aventi comunque a che fare con pace e sicurezza. Questo sapere equivale infatti ad un «essere nelle tenebre». Invece i «figli del luce e figli del giorno» (v. 5) hanno un «autentico sapere», che consente loro di restare «svegli» ed essere «sobri» (v. 6). Heidegger 9 riconduce questi elementi alle caratteristiche del tempo cristiano: un tempo che, per distinguerlo da quello orientato verso il «quando» della fine, si potrebbe chiamare “tempo parusiaco”. Il tempo meramente escatologico, proprio per l'«entusiasmo» con cui in esso ci si dedica allo «speculare» circa la «fine», rende di fatto impossibile un vivere nella veglia e nella sobrietà. Esso inoltre, nonostante il suo fruire delle sicurezze che intanto il mondo offre, è invero un tempo privo di «interesse» anzitutto per chi lo vive, o meglio, per chi ritiene di viverlo: «Si preoccupano del “quando”, del “che cosa”, della determinazione oggettiva; non hanno un autentico personale interesse in ciò [kein eigentliches personliches Interesse daran]. Restano fermi al mondano» (105). La dimensione dell'«interesse» è di derivazione kierkegaardiana. Heidegger se ne avvale per «esplicitare» fenomenologicamente la fondatezza del discorso di Paolo. «Quelli che dicono pace e sicurezza» non fanno effettivamente il loro interesse. Lo fanno invece quei cristiani che hanno compreso che l'insicurezza è un elemento irrecusabile del loro credere: «Per il vivere cristiano non si dà nessuna sicurezza; la costante insicurezza è anche ciò che è caratteristico per le significatività del vivere fattuale. La dimensione dell'insicuro non è casuale, ma necessaria. Questa necessità non è logica o naturale. Per vederci chiaro si deve riflettere sulla propria vita e sul suo compimento» (105). Il vero interesse della vita sta nel «compimento» della propria vita, L'insicurezza si capovolge in sicurezza strategica se essa è imprescindibile per il compimento. Allo stesso modo, osserva Heidegger, per Paolo ha valore strategico vantarsi delle sue «debolezze», e non del suo essere stato «rapito fino al terzo cielo»; ugualmente ha per lui valore strategico la «spina nella carne» da cui il Signore non ha voluto liberarlo (cfr. 2 Cor 12, 1-10). Compimento e interesse vitale coincidono, e il compimento per il cristiano è possibile solo nella tribolazione che è intrinseca al tempo parusiaco. Solo nell'orizzonte di una temporalità avente strategicamente a che fare con un Dio di trascendenza si può comprendere il concetto paolino di «carne». Questa indica negativamente tutto ciò che va contro il vero interesse e che coincide con «la sfera» dell'immanenza, che d'altra parte può essere riconosciuta come tale solo a partire da un incondizionato «interesse» per il Trascendente: «s£rx, “carne”, è la sfera originaria di tutti gli affetti [Affekte] non motivati a partire da Dio» (98; cfr. 124). La «carne» è in Paolo il corrispettivo di ciò che è l'«oggetto» per Heidegger: Paolo sa cos'è la carne dal punto di vista dello «spirito» [pneàma]. Questo non è una facoltà che stia accanto ad altre, ad esempio alla «psiche», ma è il modo con cui l'uomo «ha» se stesso in quel «compimento» di sé che gli consente di vivere tutta la sua temporalità. L'uomo «spirituale» sa esporsi ad ogni «tribolazione» restando fede ad una strategia che pone in Dio non solo ogni interesse, ma che da Dio trae anche la forza per vivere in questa continuità di condotta che è, come si è visto, di attesa del ritorno glorioso di Cristo ed al tempo stesso di operoso servizio a Dio, ma che è anche un «sapere» adeguato a tale vivere e a tale compito: «Il pneàma è in Paolo il fondamento del compimento [Vollzugsgrundlage] a partire da cui scaturisce lo stesso sapere. […] In Paolo non c'è un pneàma enai (come nel Corpus Hermeticum), ma un pneàma œcein […]. È allora sbagliato considerare pneàma una parte dell'uomo; ma ¥nqrwpoj pneumatikÒj è uno che si è appropriato di una determinata proprietà della vita. In decisa contraddizione con questo sta il conoscere teorico che p£nta gnwr…zein degli scritti ermetici; cfr. 2 Cor, 3, 3» (124). 10 Heidegger pone appunto in evidenza come in Paolo ci sia una piena consapevolezza di ciò che egli sta «compiendo» nel suo «gioioso» e «tribolato» rivolgersi a Dio. Per questo in Paolo il compimento è compimento pieno, e non un compimento solo fino a un certo punto in quanto condizionato dal doversi restringere all'«ordine» dell'«oggettività». Insomma, non ogni atto «compiuto» dall'uomo avviene come in Paolo sul «fondamento del compimento».Secondo Heidegger, solo quel metodo fenomenologico che egli sta verificando su Paolo è in grado di «esplicare» la differenza fra questi due modi di compimento. Il metodo fenomenologico non è qui semplicemente uno strumento applicato a qualcosa, ma è esso stesso un compimento pieno. 5. L'interpretazione della Seconda Lettera ai Tessalonicesi Di fatto Heidegger scopre e istituisce un parallelo fra il suo filosofare e il credere di Paolo: come nessuna esperienza di vita è autentico compimento al pari di quella cristiana, così nessuna filosofia è autentico compimento come la filosofia fenomenologica di Heidegger. Questa analogia viene particolarmente in luce a proposito della Seconda lettera ai Tessalonicesi e di alcuni luoghi della Prima lettera ai Corinzi. Facendo leva sul «compimento» di Paolo, Heidegger anzitutto rivendica l'autenticità di 2 Ts. Anche qui, a quelli che hanno rettamente compreso la parusia e che la vivono autenticamente (i «chiamati» di 2 Ts 2, 13-14) vengono contrapposti i «reietti» [¢pollÚmenoi], o meglio «quelli che sono nello stato di diventare dei reietti» (im Zustand des Verworfenwerdens). Queste due opposte condizioni non vengono interpretate come riferite alla sorte futura degli uni e degli altri, ma al rispettivo attuale «compimento» di vita: gli uni sperimentano compiutamente la chiamata, e per questo ne sono anche consapevoli; gli altri, non vivendola compiutamente, non sanno propriamente cosa stanno vivendo, e per questo si trovano nella condizione di diventare dei reietti, o meglio di venire annullati: «Gli ¢pollÚmenoi credono (2 Ts 2, 11) allo yeàdoj, si fanno ingannare proprio nel loro estremo affaccendarsi circa la “sensazione” della parusia, decadono rispetto all'originaria preoccupazione per il divino. Per questo saranno assolutamente annientati - Paolo non conosce nessuna ulteriore esistenza dei dannati nella lontananza da Dio» (113). Per questi reietti la preannunciata apparizione dell'Anticristo in veste divina è solo l'occasione per diventare subito degli sfaccendati. Il loro «compimento» è dunque minimo, è quasi il nulla che essi stessi stanno diventando con questo loro sottrarsi al compito, cui chiama la parusia, di «avere» se stessi. Per i «chiamati», all'opposto, il fatto che l'Anticristo debba venire «prima» del ritorno glorioso di Cristo costituisce l'occasione per accentuare, anche in stato di «tribolazione», il modo di «compiere» la loro fede. Contrariamente a quanto ritiene chi rifiuta autenticità a 2 Ts in quanto inconciliabile con 1Ts (dato che qui Paolo presenta la parusia come un evento tremendo in quanto improvviso, mentre in 2 Ts la sposta in avanti nel tempo e ne descrive dettagliatamente l'antefatto drammatizzandone dunque l'attesa), Heidegger sostiene che fra le due lettere non solo vi è continuità, ma che questa consiste nell'accentuazione dell'attesa e della sua imminenza. In 2 Ts la parusia non solo è attesa come imminente, ma è già in atto per quanto concerne il «compimento» con cui viene vissuta: «Tutta la seconda lettera è ancor più pressante della prima: non vi è alcun ripensamento, ma una tensione superiore. I Tessalonicesi devono essere richiamati a se stessi. Da qui, a partire da Paolo, va compreso il sovraccarico nell'esprimersi, 11 che è presente in generale là dove vengono accentuati proprio i contesti riferiti al compimento della vita fattuale. I seguenti luoghi sono in tale senso caratteristici» (108). E subito appresso Heidegger passa in rassegna i vv. di 2 Ts in cui i termini usati da Paolo divengono trasparenti nella loro scelta se posti in relazione proprio con l'intenzione di esortare i Tessalonicesi a non impigrirsi nell'attesa della parusia. Questa non è un evento ma una «decisione» che va presa subito, con l'incondizionatezza che è propria della fede, ma anche con il coinvolgimento dell'¢g£ph tÁj ¢lhqe…aj, dell'«amore della verità» (2, 10). A proposito sia della fede sia della verità, il crescendo di 2 Ts rispetto a 1 Ts viene da Heidegger rilevato anche a livello concettuale. Dai Tessalonicesi la fede non deve essere vissuta come un acquisito «tener per vero». Si tratta di tutt'altro. Se al v. 1, 3 Paolo afferma che la loro fede «cresce rigogliosamente» [Øperaux£nei ¹ p…stij], ciò non avrebbe senso se la fede fosse solo un tener per vero; dunque «il pisteÚein è un contesto di compimento capace di aumento. Questo aumento è la garanzia di autentica consapevolezza» (108). A conferma di ciò Heidegger fa notare che al v. 2, 13 è presente l'espressione: p…stij ¢lhqe…aj. Infatti, se la fede non è un tener per vero una volta per tutte, allora essa deve aumentare, e tale aumento rispetto al tener per vero non potrà avvenire che in direzione della verità: «La verità sta nel contesto di riferimento della fede. Ciò dimostra che la p…stij stessa rappresenta un contesto di compimento che può sperimentare un aumento» (109). 6. L'interpretazione di 1 Cor 7, 29-31 Lo spinoso problema esegetico concernente l'apparizione dell'Anticristo, e l'«impedimento» [tÕ katšcon] che la ritarda, viene da Heidegger affrontato sulla base fenomenologica costituita dal «compimento». Tutto ciò che deve venire «prima» della parusia non va inteso secondo la cronologia oggettivante del «quando», bensì nella dinamica dell'«aumento» che è propria del «compimento» (115). Di questo aumento fa parte anche quel «come se non» [æj m¾] di 1 Cor 7, 2931, che di per sé, riconosce Heidegger, «suona negativo». Infatti, consigliare di «vivere» nel mondo «come se non» si avesse un vitale rapporto con questo, non equivale forse ad intendere il vivere cristiano come «un essere separato» dal mondo? Ma questo equivarrebbe a non capire nulla né di Paolo né del cristianesimo. L'esempio più illustre di questa mancata comprensione è Nietzsche: «I contesti di Paolo devono essere intesi non eticamente. Per questo siamo di fronte a un fraintendimento quando Nietzsche gli rimprovera risentimento, un sentire che non è conforme a questa sfera» (120). «Si sarebbe tentati - esordisce Heidegger nel proporre la sua interpretazione di tradurre l'æj m¾ con un “come se”», dunque omettendo niente meno che il negativo m¾ e conservando solo il positivo æj. Questo è effettivamente il suo obiettivo ermeneutico, e vi perviene facendo notare che Paolo esprime il «non» del «come» il cristiano si rapporta al mondo, non con la recisa negazione oØ ma appunto con il m¾, che ha una più debole forza nel negare, e che finisce anzi per distogliere l'attenzione da ciò che viene negato per dirigerla invece su un orizzonte più ampio, entro il quale ciò stesso che viene negato riceve il giusto senso, cioè quel «senso di compimento» che è proprio della temporalità cristiana, e questo implica giusto l'opposto di un indebolimento nel modo di vivere: 12 «Si dice æj m¾, non oØ. Questo m¾ indica la tendenza verso ciò che è conforme al compimento. Il m¾ ha il rapporto che si volge indietro verso lo stesso compimento» (121). Si tratta tuttavia pur sempre di un movimento che distoglie da qualcosa. Come poter dare senso positivo a un «compimento» che apparentemente è un ritrarsi? Ciò è possibile, e diviene anzi ermeneuticamente necessario, se si considera che l'esperienza cristiana implica in quanto tale la «tribolazione». Il ritrarsi dal mondano, quale è proprio del «come se non», è in tal senso un «essere divenuto», un'intensificazione di un vivere che per questo nulla perde del vissuto precedente. I pregressi rapporti con il mondo non vengono intaccati; vengono anzi conservati nell'orizzonte dell'autentica temporalità. Il «non» del «come se non», l'æj m¾, esprime questo loro essere divenuti che dà un senso del tutto nuovo a ciò che resta, dato che proprio il «restare» nel mondo ha acquisito un nuovo senso: «Il genšsqai è un mšnein. Nonostante ogni genere di trasformazione qualcosa resta. In che senso è da intendere il restare? Forse che il senso del restare, per quanto concerne il che cosa e il come, viene preso dentro nel divenire in modo che esso si determina proprio a partire dall'essere divenuto? Si mostra con ciò una caratteristica configurazione di senso: questi rapporti al mondo ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività contenutistica verso cui si dirigono, ma al contrario il rapporto e il senso della significatività vissuta si determinano a partire dal compimento originario. Schematicamente: qualcosa resta immutato, e tuttavia viene radicalmente mutato» (118). Detta così - osserva Heidegger - la cosa suona «paradossale». Ma se si considera che la temporalità cristiana è un'esperienza inaudita e irriducibile alle categorie dell'«oggettività», si deve allora porre attenzione al mutamento che concerne proprio la dimensione temporale. Lo schiavo divenuto cristiano resta schiavo per tutto quanto riguarda il mondo che lo circonda, ma radicalmente diverso è il modo con cui lui vive il tempo del suo restare uno schiavo. Questa sua condizione resta quella di prima, ma diventa anche radicalmente diversa in quanto vissuta nel tempo in senso nuovo, anzi in un senso per la prima volta autenticamente «temporale». Ciò non equivale a fuggire dal tempo per rifugiarsi nell'eterno, ma è un porsi domande, sul mondo e sugli altri, che mai lo schiavo avrebbe immaginato prima di essere divenuto cristiano: «A partire dall'essere divenuto, le significatività concernenti il mondo ambiente diventano beni temporali. Il senso della fattualità rivolta in questa direzione si determina come temporalità. Finora il senso del rapporto con il mondo ambiente e il mondo degli altri fu determinato in modo puramente negativo. Ma dato che questi rapporti non hanno la possibilità di motivare il senso arcontico della religiosità dei primi cristiani, ecco che sorge la domanda positiva circa il rapporto del cristiano con il mondo-ambiente e il mondo degli altri» (119). Vivere la temporalità cristiana significa poter fruire della possibilità, che questa sola sa donare, di rendere urgente ogni attimo di vita. Il «compimento» diviene il dovere di vivere fino in fondo tutto il tempo che ancora è dato al cristiano nell'attesa che appaia di nuovo il messia già apparso: «Resta solo ancora poco tempo. Il cristiano vive costantemente nel “solo ancora” che innalza la sua tribolazione. La temporalità compressa è costitutiva per la religiosità cristiana: un “solo ancora”; non c'è più tempo per dilazionare. I cristiani devono essere tali che quelli che hanno una moglie l'hanno a tal punto da non averla» (119120). 7. Il contributo del tempo cristiano alla filosofia 13 La particolare intensità del tempo cristiano fa sì che l'æj m¾ debba essere inteso anzitutto riconoscendo ruolo portante all'æj. Questo «come» qualifica in modo positivo anche l'apparente negatività del m¾. L'æj avverte che è subentrata un'urgenza che non consente più distrazione alcuna: non si può più perder tempo, il tempo si è fatto prezioso, dunque questa nuova qualità del tempo si diffonde su tutto, e rende ogni attimo pervaso dalla consapevolezza e dalla responsabilità del «compimento». Al confronto, il tempo di prima, che apparentemente abbondava, era solo negare tempo al «mondo». Nel tempo «divenuto breve» di chi è «divenuto» cristiano, vi è per la prima volta tempo vero anche per ciò che prima pretendeva la massima urgenza, non riuscendo tuttavia mai ad ottenere tempo «compiutamente» vissuto. Il tempo di prima viene «ritardato» proprio perché il tempo cristiano, dedicato a «servire» Dio nel mondo, è nel suo essere «breve» incommensurabilmente più ampio del tempo degli «idoli». Il m¾ indica questo scarto di ampiezza e di qualità fra il tempo pagano e quello cristiano. Solo chi è divenuto cristiano coglie in questo m¾ non la fuga dal mondo ma una «fattualità» [Faktizität] caratterizzata dal tempo «concentrato». Ora per ogni «che cosa» c'è a disposizione il «come» dell'«interiorità». Le urgenze di prima vengono depotenziate, ma i loro contenuti non vengono assolutamente «intaccati». Ora questi vengono vissuti in modo diverso, in un orizzonte non più succube delle «armonie» mondane; ma per questo essi ora risultano capaci di affrontare «tribolazioni» a cui prima non avrebbero retto: «L'æj significa positivamente che sopraggiunge un senso nuovo. Il m¾ riguarda il contesto del compimento della vita cristiana. Tutti questi rapporti sperimentano via via nel compimento un rallentamento [Retardierung] in modo tale da poter scaturire dall'origine del contesto di vita cristiano. La vita cristiana non è rettilinea ma spezzata: tutti i rapporti del mondo ambiente devono venire compenetrati dal compimento del contesto dell'esser-divenuto in modo che tale contesto sia presente insieme ad essi; ma né questi stessi rapporti né i contenuti verso cui essi si dirigono risultano in alcun modo intaccati» (120). Per la mentalità mondana è «ovvio» emarginare il vivere cristiano: si giunge a perseguitarlo appunto perché in esso non vengono rispettate le ovvietà del vivere. Non così per «l'indicazione formale» di cui si avvale Heidegger, per la quale l'esperienza cristiana costituisce invece il paradigma di una inversione rispetto alla tendenza della stessa vita ad «assicurarsi» nei confronti della sua stessa storicità, da cui appunto teme di venire travolta. Il cristiano non ha questa paura, non copre la storicità di cui vive, ed è per questo che la sua esperienza del tempo acquista un particolare rilievo per il fenomenologo: «Il cristiano non trova in Dio il suo “arresto” [Halt] (cfr. Jaspers)8» (122). La fede cristiana non è certo filosofia, ma offre alla filosofia una correzione di fondamentale importanza proprio con il liberarla dall'obbligo dell'«oggettività». A questo punto una «filosofia della religione» cristiana non solo diviene impresa possibile, ma la stessa filosofia potrà trarre da tale impresa ulteriori correzioni «formali» per un rinnovamento concettuale che la stessa temporalità cristiana stimola ad intraprendere e rende possibile: «L'autentica filosofia della religione non scaturisce da concetti precostituiti di filosofia e religione. Si deve invece dire che da una determinata religiosità - per noi quella cristiana - si dà la possibilità della sua comprensione filosofica» (124). 8 Cfr. K. Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Berlin 1919, cap. III c: Der Halt im Unendlichen. 14 Heidegger non elaborerà alcuna filosofia della religione. Non si dimenticherà tuttavia delle caratteristiche che temporalità e storicità debbono avere, se autentiche. Non avrebbe potuto scrivere Sein und Zeit se non avesse rilevato nelle Lettere di Paolo un'esperienza del tempo caratterizzata da un «senso di compimento» di incondizionata radicalità nei confronti del «vissuto». Sein und Zeit rimase interrotto. Ma Heidegger non cessò di tentare la via per aprire la temporalità e la storia ad una trascendenza che non fosse destinata ad essere solo «esistenziale. L'apertura del Da-sein all'inafferrabile «transitare dell'ultimo Dio» [Vorbeigang des letzten Gottes] reca, nei postumi Beiträge zur Philosophie, la testimonianza della continuità di questo anelito. Umberto Regina 15