Luigi GAUDINO
CONDOMINIO E RISARCIMENTO DEL DANNO
SEZIONE I Profili Generali
SOMMARIO 1. Premesse - 1.1. Il condominio come “ente di gestione” - 1.2. I rapporti e le fonti
del “diritto condominiale”.
1. Premesse.
E’ noto come il fenomeno del condominio negli edifici sia stato accompagnato, sin dal suo primo
manifestarsi nella realtà socio-economica urbana, da dubbi disciplinari e interpretativi assai
variegati e di non semplice soluzione.
Basta qui ricordare le questioni relative alla configurabilità o meno del condominio quale ipotesi
speciale di comunione - tesi quest’ultima ormai generalmente accolta (in senso contrario: Terzago
1992, 18 ss.), pur con varietà di accenti (sulle posizioni emerse in dottrina, v. Branca 1982, 358;
Dogliotti e Figone 1992, 16 ss.; per la giurisprudenza, v. Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 7 s.) -; nonché il
dibattito sulla sua natura giuridica (ente di gestione, persona giuridica, figura mista); per tacere poi
dei problemi disciplinari che permeano di sé tutti i passaggi legati alla fruizione e alla gestione del
complesso condominiale.
Si tratta - occorre avvertire sin d’ora - di problemi che non verranno esaminati compiutamente in
questa sede, se non nei loro aspetti maggiormente rilevanti per l’oggetto della presente trattazione.
Rinviamo quindi il lettore ai numerosi autori che si sono impegnati nella ricostruzione complessiva
delle tematiche giuridiche inerenti il condominio (Salis 1956, 3 ss.; Peretti Griva 1960, 20 ss.; Visco
1976, 28 ss.; Branca 1982; Girino 1982, 337 ss.; Dogliotti e Figone 1992; Rezzonico 1992, 121 ss.;
Terzago 1992).
1.1. Il condominio come “ente di gestione”.
E’ appena il caso di riportare - con riguardo al dibattito relativo alla natura giuridica del condominio
- la formula ricorrente in giurisprudenza, a tenore della quale:
il condominio non è un soggetto giuridico dotato di propria personalità distinta da quella di coloro che ne fanno
parte, bensì un semplice ente di gestione, il quale opera in rappresentanza e nell’interesse comune dei partecipanti,
limitatamente all’amministrazione e al buon uso della cosa comune, senza interferire nei diritti autonomi di ciascun
condomino
(Cass. 14.12.93, n.12304, ALC, 1994, 300; GC, 1994, I, 2563).
Una formula che figura volta a volta riproposta a sostegno di una molteplicità di affermazioni,
relative, ad esempio:
(a) alla veste assunta dall’amministratore di tale ente il quale,
lungi dall’averne una rappresentanza di tipo organico assimilabile a quella delle persone giuridiche, ha solo una
rappresentanza ex mandato, per effetto della nomina ex art. 1129 c.c. dei vari condomini
(Cass. 14.12.93, n. 12304, ALC, 1994, 300; GC, 1994, I, 2563; v. anche Cass. 29.4.93, n. 5084, RFI, 1993, Com. e
cond., 95; Cass. 22.11.86, n. 6881, RFI, 1986, Com. e cond., 117; Cass. 20.8.86, n. 5101, ALC, 1986, 618; Trib.
Palermo 9.5.91, TSic, 1991, 203; Trib. Monza 15.6.90, FP, 1991, I, 534; Trib. Molfetta 31.12.88, ALC, 1989, 368);
(b) alla riferibilità ai singoli condomini delle obbligazioni validamente assunte dall’amministratore,
in nome e per conto del condominio (salvo restando il diritto, per chi abbia pagato, di esercitare
verso i condebitori l’azione di regresso, nonché l’irrilevanza nei rapporti verso l’esterno
dell’eventuale fondo comune condominiale, che non è “patrimonio” dell’ente) (Cass. 14.12.82, n.
6866, GI, 1985, I, 1, 380);
(c) al riconoscimento, in capo a ciascun condomino, della qualifica di parte sostanziale del rapporto
di clientela con il legale che abbia svolto attività in favore del condominio (Cass. 5.3.94, n. 2448,
ALC, 1994, 541);
(d) alla legittimazione - riconosciuta in capo al singolo condomino - ad agire personalmente a difesa
non solo dei propri diritti esclusivi ma anche di quelli comuni (Cass. 13.2.95, n. 1563, RFI, 1995,
Intervento in causa e litisconsorzio, 17; Cass. 19.10.94, n. 8531, ALC, 1995, 380; Cass. 25.6.94, n.
6119, RFI, 1994, Com. e cond., 100; Cass. 14.12.93, n. 12304, ALC, 1994, 300; GC, 1994, I, 2563;
Cass. 28.4.93, n. 5000, ALC, 1993, 758; Cass. 11.3.92, n. 2940, RFI , 1992, Intervento in causa e
litisconsorzio, 15; Cass. 5.6.90, n. 5391, RGE, 1990, I, 868, con nota di de Tilla; Cass. 31.5.90, n.
5122, RFI , 1990, Com. e cond., 67; Cass. 18.2.87, n.1757, RFI, 1987, Intervento in causa e
litisconsorzio, 18); ed altresì ad agire onde ottenere la propria quota di risarcimento per il danno
arrecato alla cosa comune (Cass. 14.1.87, n. 186, ALC, 1987, 54) o la propria quota dell’indennità di
occupazione abusiva della stessa (Pret. Milano 18.2.87, Lavoro 80, 1987, 492);
(e) all’inesistenza di un luogo qualificabile come “sede” in senso tecnico, e alla coincidenza del
domicilio del condominio con quello privato dell’amministratore, per cui luogo di adempimento del
pagamento dell’obbligazione relativa ai contributi condominiali è appunto il domicilio
dell’amministratore in carica al tempo della scadenza dell’obbligazione (Cass. 11.12.93, n. 12208,
ALC, 1994, 303);
(f) all’impossibilità, per il condominio, di sollevare - nel conflitto con un certo condomino eccezioni relative alla situazione giuridica propria di altri singoli condomini (Cass. 2.10.92, n.
10835, RFI, 1992, Com. e cond., 177).
La carenza di una vera e propria personalità giuridica non ha impedito tuttavia che - con riguardo al
giudizio promosso dall’amministratore revocato, ex art. 1129 c.c., al fine di ottenere la restituzione
delle somme spettantigli - venisse giudicata ammissibile l’azione esperita nei confronti del solo
condominio, in qualità di legittimato passivo, negandosi la necessità di integrazione del
contraddittorio nei confronti dei condomini:
il condominio non può ritenersi contrapposto ai singoli condomini, essendo esso un ente di gestione, sì che l’azione
di recupero può essere proposta (...) sia nei confronti dei singoli condomini inadempienti, sia nei confronti del
condominio
(Trib. Roma 3.2.88, ALC, 1988, 433).
Occorre tuttavia precisare come l’interpretazione corrente in giurisprudenza non trovi unanime e
pacifico accoglimento in dottrina, essendosi la stessa divisa, nel corso del tempo, fra i sostenitori di
teorie “collettiviste” - soprattutto quella volta a considerare il condominio quale vera e propria
persona giuridica collettiva (Branca 1982, 8; 359 ss.) -, i sostenitori di posizioni ”individualiste”
(Salis 1956, 219 ss. Visco 1976, 58 ss.; Corona 1974, 33) e quanti propendono invece per una
concezione “mista” (Girino 1982, 340): posizioni la cui ricostruzione è un passaggio classico di
tutte le trattazioni sull’argomento (sulle varie teorie emerse nel corso del tempo, Dogliotti e Figone
1992, 11 ss.; Rezzonico 1992, 236 ss.; Terzago 1992, 12 ss.).
1.2. I rapporti e le fonti del “diritto condominiale”.
Nel momento in cui si affronta il tema delle responsabilità (nell’accezione più ampia del termine)
che sono destinate a sorgere - in maniera diretta o incidentale - in relazione al fenomeno del
condominio, occorre prendere atto di come tale realtà rappresenti, nella comune esperienza, un vero
e proprio microcosmo, all’interno del quale ci si imbatte in una costellazione di rapporti
giuridicamente rilevanti.
Vi è, anzitutto, il rapporto condominiale in senso stretto: quello derivante, cioè, dall’esistenza di
parti comuni nell’edificio diviso in “piani o porzioni di piani” appartenenti a diversi titolari.
Ricordiamo, a questo proposito, che il condominio ha ricevuto una prima regolamentazione “limitata e indiretta” (Dogliotti e Figone 1992, 19) - negli artt. 562-564 del Codice civile 1865, e
che è stato successivamente oggetto di una normativa particolareggiata con il r.d. 15.1.1934, n. 56,
conv. l. 10.1.35, n. 8: disposizioni che verranno poi trasfuse nel codice civile del 1942 (artt. 11171139) quale disciplina successiva e derogante quella prevista in generale per la comunione (artt.
1110-1116), mentre a completare il quadro contribuiscono gli artt. 61/72, disp. att., cod. civ.
Praticamente inesauribile è poi l’elenco dei provvedimenti del legislatore speciale, suscettibili di
applicazione all’interno (o nei riguardi) del condominio; una ricchezza che emerge già dal mero
elenco dei principali settori di intervento: l’urbanistica, le locazioni di immobili urbani, la sicurezza
di edifici e impianti, le misure antinquinamento e quelle in tema di risparmio energetico,
l’eliminazione delle barriere architettoniche, il rapporto lavorativo professionale e quello
subordinato, e così via (per una raccolta aggiornata della legislazione vigente v. Tamborrino 1996,
413 ss.).
Ed è sufficiente scorrere la normativa per immaginare il complesso intreccio dei rapporti - e dei
conflitti - che prendono vita all’interno di una comunità siffatta.
Vi sono anzitutto i rapporti inerenti la gestione delle parti comuni, che danno luogo a vicende che
vedono coinvolti - e sovente contrapposti - i condomini (come singoli e come collettività),
l’amministratore, i terzi entrati in contatto col condominio in seguito a vicende negoziali.
Vi sono poi i rapporti di vicinato: quelli sussistenti fra il condominio e i titolari dei fondi vicini, ma
anche quelli che sorgono fra condomino e condomino, e ancora quelli fra condominio e singolo
condomino. Entrano qui in gioco - con i dovuti adattamenti alla particolare situazione - le regole
sulle distanze, sulle immissioni, sull’accesso al fondo, sulle servitù, sulla tutela del possesso,
sull’illecito aquiliano e cosi via.
Ecco allora alcune tra le affermazioni che si ripetono nei massimari:
Il regolamento dei rapporti tra i proprietari di distinte unità immobiliari site in un edificio soggetto a regime del
condominio, non si esaurisce con le disposizioni relative ai rapporti di vicinato tra due proprietà finitime
(emulazione, immissioni e servitù); detti rapporti sono disciplinati anche dalle regole generali sulla responsabilità
civile, essendo obbligato ciascun condomino propter rem a non eseguire nel piano o porzioni di piano di sua
proprietà opere che rechino danno alle parti comuni o di proprietà esclusiva di altri condomini
(Cass. 10.12.93, n. 12152, ALC, 1994, 304).
E` ammissibile l’azione di denuncia di danno temuto proposta dal condomino ancorché comproprietario della cosa
comune qualora il pericolo derivi da una cosa di proprietà condominiale e sia diretto su una cosa di esclusiva
proprietà del denunciante
(Trib. Roma 14.2.83, TR, 1984, 594; v. anche Pret. Palermo 3.7.91, TSic, 1991, 419).
Nell’edificio condominiale l’utilizzazione delle parti comuni con impianti a servizio esclusivo di un appartamento
esige non solo il rispetto delle regole dettate dall’art. 1102 c.c. ma anche l’osservanza delle norme del codice in tema
di distanze onde evitare la violazione del diritto di altri condomini sulla parte di immobile di loro esclusiva
proprietà; tale disciplina tuttavia non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi
indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento inteso nel senso che rispetti l’evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di
accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui
(Cass. 5.12.90, n. 11695, RFI , 1990, Com. e cond., 59; Cass. 15.3.93, n. 3090, ALC, 1993, 495).
Nel caso in cui su una delle parti comuni di un edificio in condominio (elencate dall’art. 1117 c.c.), grava un peso
diretto a fornire ad un piano o ad una porzione di piano in proprietà esclusiva una utilità ulteriore e diversa, rispetto
a quella normalmente derivante dalla destinazione della cosa al servizio di tutte le unità immobiliari, si configura
una servitù: sempre che tale peso abbia origine nei modi previsti dalla legge e, tra questi, la destinazione del padre di
famiglia
(Cass. 13.11.93, n.. 11207, ALC, 1994, 319; RaLC, 1994, 230, con nota di de Tilla; GI, 1994, I, 1, 1816, con nota di
De Michel).
E` possibile e legittima la costituzione di una servitù a favore dell’unità immobiliare di proprietà di un singolo
condomino e a carico dei beni comuni, in quanto il principio nemini res sua servit trova applicazione soltanto
quando un’unica persona sia titolare del fondo servente e del fondo dominante, e non anche quando il proprietario di
uno solo di questi sia comproprietario dell’altro, giacché, in tal caso, l’intersoggettività del rapporto è data dal
concorso di altri titolari del bene comune
(Trib. Milano 5.4.90, ALC, 1991, 142).
Una realtà complessa, dunque: al punto da indurre gli autori a sottolineare l’ampiezza dei dubbi che
sono rimasti - nonostante la presenza di un apposito corpo di norme - insoluti, e la vastità delle
questioni la cui soluzione figura esser stata demandata all’interprete: dubbi e questioni di cui si
avverte l’importanza, al punto da rendere auspicabile un intervento legislativo di riforma della
materia (Rezzonico 1992, 113 ss.; Dogliotti e Figone 1992, 517 ss.).
SEZIONE II Le responsabilità nel condominio
SOMMARIO 2. Il condominio e la responsabilità - 2.1. La responsabilità contrattuale - 2.1.1. Oneri
reali, obbligazioni propter rem, limiti pattizi alla proprietà - 2.1.2. L’indennità di sopraelevazione
ex art. 1127 c.c. - 2.2. La responsabilità extracontrattuale - 2.2.1. La responsabilità per colpa 2.2.2. Minori, incapaci -2.2.3. La responsabilità institoria - 2.2.3.1. Il fatto del portiere e di altri
dipendenti - 2.2.3.2. Il fatto dell’amministratore - 2.2.4. L’esercizio di attività pericolose - 2.2.5. Il
danno da cose in custodia - 2.2.5.1. Danni da parti e impianti comuni - 2.2.5.1.1. Danni da difetti
di costruzione - 2.2.5.1.2. Caduta di neve e ghiaccio - 2.2.5.1.3. Danni da impianti comuni 2.2.5.2. Danni da parti e impianti di proprietà esclusiva - 2.2.5.3. Lastrici solari, terrazze a livello
- 2.2.5.3.1. Critiche e porposte alternative - 2.2.5.3.2. Un recente intervento delle Sez. U. 2.2.5.4. La propagazione dell’incendio - 2.2.5.5. Il furto negli appartamenti - 2.2.6. La rovina di
edificio - 2.2.6.1. I soggetti responsabili. Il “proprietario” - 2.2.6.2. L’usufruttuario, l’acquirente
con patto di riservato dominio - 2.2.6.3. Il possessore - 2.2.6.4. Il leasing immobiliare - 2.2.6.5.
Immobile locato -2.2.6.6. Il problema dell’appalto - 2.2.6.7. L’“edificio” e la “rovina” - 2.2.6.8.
Il nesso di causalità - 2.2.6.9. La prova liberatoria - 2.2.6.10. La rovina delle parti in proprietà
esclusiva - 2.2.6.11. La rovina delle parti e degli impianti comuni - 2.2.7. La responsabilità per
danno cagionato da animali - 2.2.8. Le immissioni -2.2.8.1. I criterî di valutazione delle
immissioni - 2.2.8.1.1. Le immissioni sonore - 2.2.8.1.2. Le altre immissioni - 2.2.8.2. La
legittimazione attiva - 2.2.8.3. La legittimazione passiva - 2.2.8.4. Il risarcimento del danno. Lo
stress psicofisico - 2.2.8.4.1. Segue. Il valore dell’immobile e le altre perdite patrimoniali 2.2.8.4.2. Immissioni sonore e danno non patrimoniale - 2.2.8.5. Immissioni e conflitto fra
condomini - 2.2.8.6. Immissioni e conflitto fra condomino e condominio - 2.2.8.7. Immissioni e
conflitto fra condomino e soggetto esterno - 2.2.8.8. Immissioni e conflitto fra condominio e
soggetto esterno.
2. Il condominio e la responsabilità.
Dopo quanto si è andato sin qui elencando, non può stupire che il condominio rappresenti un luogo
fonte di vivace ed inesauribile conflittualità. E’ questo un dato che emerge già ad una rapida scorsa
alle voci dei repertori, e che appartiene peraltro alla comune esperienza.
Ed è una conflittualità suscettibile - per quanto concerne l’oggetto della presente rassegna - di
vedere prima o poi messe in causa tutte o quasi le regole di responsabilità dettate dall’ordinamento:
sia cioè quelle della responsabilità contrattuale, sia quelle proprie dell’illecito aquiliano.
Appare allora opportuno, allo scopo di dar conto in maniera sistematica dei principali orientamenti
giurisprudenziali che si confrontano in questo territorio, tracciare un duplice percorso (simile
articolazione della materia risulta proposta da Rezzonico 1992).
Sotto un primo punto di vista, può essere utile verificare quale atteggiamento assumano, con
riguardo al condominio, le singole ipotesi di responsabilità - contrattuale, extracontrattuale, per
colpa, oggettiva, e così via -, e articolare perciò il discorso seguendo il filo di queste.
In secondo luogo, non meno utile risulta un riordino delle medesime regole attraverso il tratteggio
delle posizioni che finiscono per assumere i soggetti coinvolti - cercando di riassumere quali siano e
come si articolino le responsabilità alle quali figurano esposti i partecipanti alle vicende
condominiali: i condomini come singoli e come gruppo, l’amministratore, i soggetti che - per vie fra
loro diverse - entrano in contatto/conflitto con i primi (vicini, fornitori, appaltatori, eccetera).
2.1. La responsabilità contrattuale.
Vasto è l’elenco delle ipotesi nelle quali i rapporti condominiali danno luogo all’intervento delle
regole della responsabilità contrattuale.
Rapporti contrattuali veri e propri sono quelli che sorgono fra il condominio e una serie di soggetti
con i quali esso viene in contatto: l’amministratore, il portiere, i fornitori, gli appaltatori, e così via.
E occorre segnalare sin d’ora come, una volta riconosciuta all’amministratore la veste di mandatario
del condominio, le sue attività negoziali siano destinate a far sorgere rapporti obbligatori operanti in
via diretta nei confronti dei singoli condomini, i quali si trovano esposti alle azioni dei creditori
condominiali - salva la possibilità di esercitare successivamente il regresso verso i condebitori senza poter far valere nei confronti dei terzi l’eventuale esistenza di un fondo comune (che non è il
patrimonio dell’ente) (Cass. 14.12.82, n. 6866, GI, 1985, I, 1, 380).
2.1.1. Oneri reali, obbligazioni propter rem, limiti pattizi alla proprietà.
Nel campo in cui ci muoviamo, è frequente che ci si trovi dinanzi all’inadempimento di obblighi
che la giurisprudenza suole inquadrare nelle - controverse - figure dell’onere reale e
dell’obbligazione propter rem e, talvolta, in quella della limitazione pattizia al diritto di proprietà
(sul punto, Bigliazzi Geri 1984; Dogliotti e Figone 1992, 442 ss.; Rezzonico 1992, 204 ss.; Fusaro
1995, 390 ss.).
A questo proposito, è nota la difficoltà di raccogliere in maniera sistematica la produzione
giurisprudenziale, atteso
l’uso promiscuo di categorie differenti (onere reale, obbligazione reale, limite del diritto)
(Bigliazzi Geri 1984, 69, nota 28),
che si riscontra nella prassi; un uso tale da far dichiarare che
“le fisionomie sono così incerte che - almeno nel linguaggio delle sentenze - le espressioni sembrano prive di
costanza semantica” (Fusaro 1995, 390).
Ad ogni modo, a sfogliare i repertori, ci si accorge facilmente di come - sovente in palese contrasto
con le definizioni correnti in dottrina (v. Fusaro 1995, 390 s.; Bigliazzi Geri, 1984, 2 ss.; Balbi
1965, 666 ss.) - la giurisprudenza condominiale ricorra all’espressione “oneri reali” con riguardo
soprattutto all’imposizione di limiti alla proprietà del singolo condomino:
In tema di condominio di edifici il regolamento di condominio o il titolo di acquisto possono stabilire limitazioni
con caratteri di oneri reali ai poteri e alle facoltà che i singoli condomini hanno sulle parti di proprietà esclusiva, al
fine di garantire il miglior godimento del bene altrui o comune
(Cass. 18.10.91, n. 11019, RGE, 1992, I, 298; ALC, 1992, 287).
La casistica è vasta. Esiste, anzitutto una serie di ipotesi - legate essenzialmente all’imposizione di
limiti alla fruizione della proprietà particolare, e talvolta delle parti comuni - rispetto alle quali la
giurisprudenza ricorre tanto alla figura dell’onere reale, quanto ai concetti di limite del diritto e di
servitù (talvolta reciproca) e - più raramente - di obligatio.
Si tratta, in particolare, di vincoli e divieti apposti, in sede di regolamento condominiale pattizio o
di atto di acquisto delle singole proprietà.
Scorrendo l’elenco delle ipotesi più interessanti, incontriamo dunque divieti:
(a) allo svolgimento di determinate attività nelle parti di proprietà esclusiva, attività evidentemente
ritenute, ex ante e di per se stesse, incompatibili con la destinazione impressa all’edificio, poiché
fonte di disturbo per la fruizione delle altre unità, e causa di riflessi negativi sul valore commerciale
delle stesse: si tratta, in particolare, di esercizi pubblici, quali ristoranti o discoteche; studi
professionali e in particolare ambulatori medici, attività commerciali, laboratori artigianali,
emittenti radiofoniche (Cass. 7.1.92, n. 49, GI, 1992, I, 1, 1465; ALC, 1992, 547; VN, 1992, 542;
GC, 1992, I, 2407, con nota di de Tilla; Cass. 15.6.91, n. 6768, ALC, 1991, 722, RGE, 1991, I,
1029; Cass. 30.7.90, n. 7654, ALC, 1990, 703; Cass. 28.7.90, n. 7630, ALC, 1991, 75; Cass.
27.6.85, n. 3848, ALC, 1985, 431; RGE, 1985, I, 697; Cass. 14.4.83, n. 2610, RGE, 1983, I, 917;
Trib. Lecce 23.11.93, ALC, 1994, 581; Trib. Roma 14.7.92, RaEquoC, 1992, 322; ALC, 1992, 602;
Trib. Genova 18.3.87, ALC, 1987, 526); talvolta, il divieto figura formulato in maniera ampia,
attraverso regolamenti che inibiscono lo svolgimento di attività:
rumorose, insalubri od emananti esalazioni nocive o sgradevoli, e in genere contrarie alla tranquillità al decoro e
all’igiene dell’edificio
(clausola esaminata in Cass. 4.2.92, n. 1195, ALC, 1992, 546; RGAmbiente, 1993, 712, con nota di Damiani; GC,
1992, I, 2407, con nota di de Tilla, fattispecie relativa a tipografia installata in una cantina);
e un’ipotesi particolare è rappresentata dal divieto di compiere opere nella parte di proprietà
esclusiva in assenza di una preventiva autorizzazione dell’assemblea; divieto che si risolve
nell’imposizione di un’obbligazione di non fare il cui inadempimento comporta - ex art. 2933 c.c. la distruzione delle opere poste in essere (Cass. 9.8.88, n. 3927, ALC, 1989, 82; App. Torino 3.7.91,
ALC, 1992,120: in entrambi i casi viene ordinata la rimozione degli infissi apposti dal condomino
alle proprie finestre, sulla base della sola carenza di autorizzazione, non ritenendosi necessaria
alcuna indagine circa l’eventuale incidenza sul decoro o l’estetica dello stabile);
(b) alla detenzione di animali nel singolo appartamento (Cass. 13.9.91, n. 9591, ALC, 1992, 306;
GI, 1992, I, 1, 1530; Trib. Piacenza, 10.4.90, ALC, 1990, 287; Pret. Torino 7.11.89, ALC, 1990,
287);
(c) al mutamento di destinazione del sottotetto da parte dei proprietari degli immobili sottostanti
(Trib. Milano 25.7.88, GI, 1989, I, 2, 662, con nota di Basile);
(d) alla recinzione di parcheggi privati (Cass. 18.10.91, n.11019, RGE, 1992, I, 298; ALC, 1992,
287);
(e) al mutamento di destinazione dei locali della portineria, di proprietà esclusiva, verso utilizzi che
non siano al servizio del condominio (Cass. 25.8.86, n. 5167, FI, 1987, I, 90: parla di “vincolo
obbligatorio propter rem, fondato su una limitazione del diritto di proprietà”);
(f) all’apposizione di targhe sui muri perimetrali comuni (Cass. 3.11.93, n. 9311, ALC, 1994, 78).
Sotto il profilo della responsabilità, le ipotesi ora elencate possono dar luogo a due situazioni fra
loro contrapposte.
Da un lato, si può prospettare l’eventualità di danni derivanti dal comportamento del condomino in
violazione del vincolo: si pensi all’attività artigianale che sia, per i condomini, fonte di fastidi
superiori a quanto ammesso dal regolamento (Cass. 4.2.92, n. 1195, ALC, 1992, 546; RGAmbiente,
1993, 712, con nota di Damiani; GC, 1992, I, 2407, con nota di de Tilla).
Dall’altro lato, può trattarsi della responsabilità del condominio che abbia scorrettamente impedito
al condomino di fruire del proprio diritto: come nel caso di una ingiustificata opposizione allo
svolgimento di una determinata attività professionale e alla pubblicizzazione della stessa mediante
una targa apposta sul muro comune all’esterno dell’edificio (v. ad. esempio Trib. Lecce 23.11.93,
ALC, 1994, 581, ove peraltro si è ritenuto che non fosse stata sufficientemente dimostrata
l’esistenza di un danno emergente per mancato avviamento).
Quanto invece alla nozione di obbligazione propter rem (sulla quale v. Fusaro 1995, 391 ss.;
Rezzonico 1992, 207; Bigliazzi Geri 1984, 22; Balbi 1965, 666 ss.), si precisa in giurisprudenza:
L’obligatio propter rem non dà luogo, come invece il diritto reale, a un rapporto diretto e immediato con la cosa, ma
ha per contenuto un comportamento personale del soggetto passivo benché quell’obbligo derivi dal fatto che egli è
titolare d’un diritto reale.
L’ipotesi di obligatio propter rem (riconosciuta dalla giurisprudenza non senza profondi contrasti nella dottrina) (...)
postula un rapporto obbligatorio, nel quale l’obbligato è tenuto a consegnare o a fare, non in quanto tale, ma per il
fatto di essere titolare di un diritto reale su di un determinato bene
(Cass. 21.3.64, n. 646, FI, 1964, I, 721).
In questa categoria vengono fatte rientrare soprattutto le obbligazioni relative alle spese
condominiali necessarie alla conservazione e al godimento delle parti comuni (art. 1123 c.c.): spese
che traggono origine dal diritto dominicale e non già dall’uso concreto che i condomini facciano dei
servizi condominiali (Cass. Sez. U. 29.4.97, n. 3672, GD, 1997, n. 18, p. 17, con nota di De Paola
1997; Cass. 21.2.95, n. 1890, ALC, 1995, 615; Cass. 6.12.91, n. 13160, ALC, 1992, 567; RGE,
1992, I, 580; Cass. 28.5.73, n. 1585, RFI, 1973, Com. e cond., 106; Cass. 9.3.67, n. 555, FI, 1967, I,
700; RGE, 1961, I, 700; Cass. 9.7.64, n. 1814, GC, 1964, I, 1707; Trib. Milano 8.7.71, GI, 1972, I,
2, 562; MT, 1972, 164; ND, 1972, 706, con nota di Terzago; la natura reale di tali spese è
pacificamente riconosciuta in dottrina: per tutti, v. Bigliazzi Geri 1984, 111; Branca 1982, 159).
Lo stesso vale per le spese del servizio di portierato (Trib. Napoli 28.12.91, DG, 1992, 554, con nota
di Gimmelli).
Di vincolo obbligatorio propter rem si è parlato anche nell’ipotesi di locali che - benché di proprietà
esclusiva - figurino destinati a servizio collettivo dei condomini (portineria, alloggio del portiere,
ecc.) (Cass. 24.10.95, n. 11068, RFI, 1995, Com. e cond., 69; Cass. 25.8.86, n. 5167, FI, 1987, I,
90).
Tra le conseguenze di simile inquadramento possiamo ricordare:
(a) l’obbligo dell’acquirente di una unità condominiale sussiste anche relativamente alle spese
scaturenti da delibera precedente al suo acquisto (Cass. 22.4.82, n. 2489, GC, 1982, I, 2068, con
nota di Alvino);
(b) per le spese relative a cose destinate a servire i condomini in misura diversa la ripartizione dei
costi (ex art. 1123, 2° co., c.c.) va effettuata non già in base al godimento effettivo che ciascuno ne
abbia personalmente tratto, bensì in rapporto al godimento potenziale - rimanendo irrilevante
l’effettiva fruizione della cosa (Cass. 6.12.91, n. 13160, ALC, 1992, 567; RGE, 1992, I, 580);
(c) l’esonero dalle spese, contenuto nel regolamento contrattuale del condominio, ha anch’esso
natura reale, ed essendo esonerata in tal modo l’unità immobiliare, tale vantaggio opererà anche a
favore dei successivi acquirenti (Cass. 23.12.88, n. 7039, RGE, 1989, I, 285; Cass. 16.12.88, n.
6844, GC, 1989, I, 1138, con nota di de Tilla; ALC, 1989, 262; VN, 1988, 1196);
(d) l’obbligazione preesiste all'approvazione, da parte dell'assemblea, dello stato di ripartizione
delle spese (Cass. 21.2.95, n. 1890, ALC, 1995, 615), e quest’ultimo non ha valore costitutivo ma
soltanto dichiarativo del credito del condominio verso il condomino (Cass. 14.3.87, n. 2658, ALC,
1987, 270);
(e) le obbligazioni reali (nella specie, relative al servizio di portierato) gravano su ciascun
successivo proprietario relativamente al periodo in cui è stato titolare; l'attuale proprietario che
abbia pagato le spese maturate in epoca antecedente all'acquisto del bene è legittimato a surrogarsi
nei diritti del creditore e ad agire nei confronti dei precedenti danti causa (Trib. Napoli 28.12.91,
DG, 1992, 554, con nota di Gimmelli);
(f) in senso negativo, l’impossibilità di configurare l’esistenza di un’obbligazione reale può indurre
ad escludere la validità di una delibera condominiale che imponga determinate spese ai condomini
(Cass. 8.7.81, n. 4477, FI, 1982, I, 152: nella specie, si trattava delle spese di gestione dei locali di
bar-ristorante di proprietà del venditore delle singole unità immobiliari ma vincolati, con clausola
contenuta nel regolamento di condominio predisposto dallo stesso venditore, «per destinazione
perpetua ad uso dei condomini»);
(g) l’inadempimento di obbligazioni propter rem dà luogo a responsabilità contrattuale ex art. 1218
c.c., ed il termine di prescrizione è quello decennale (Cass. 15.10.76, n. 3472, GC, 1977, I, 315, con
nota di Caputo; RCP, 1977, 832; Cass. 24.2.81, n. 1131, GI, 1981, I, 1, 1586; Trib. Torino 17.12.79,
GI, 1980, I, 2, 552).
Il concetto in questione figura richiamato, altresì, a proposito di quanto previsto dall’art. 1122 c.c.,
che vieta al condomino di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio. Si tratta
- è stato affermato - di un’obbligazione di non fare incidente sul condomino propter rem, e il cui
inadempimento determina una presunzione di responsabilità (ex art. 1218 c.c.) alla quale il
condomino non può sottrarsi addossandola all’appaltatore cui l’opera sia stata commissionata
(soggetto sul quale egli potrà, eventualmente, rivalersi) (Cass. 15.10.76, n. 3472, GC, 1977, I, 315,
con nota di Caputo; RCP, 1977, 832; v. anche Cass. 10.12.93, n. 12152, ALC, 1994, 304; Cass.
27.4.89, n. 1947, ALC, 1989, 463; GC, 1989, I, 2631, con nota di de Tilla; sul punto, v. le critiche di
Rezzonico 1992, 294; e di Caputo 1977, 319 ss., secondo i quali si tratterebbe di un mero dovere di
astensione, come tale eventualmente fonte di responsabilità aquiliana). Parallelamente, il concetto di
obbligazione propter rem appare richiamato anche con riguardo alla responsabilità incombente su
tutti i condomini per i danni derivanti alle unità immobiliari in proprietà esclusiva dalle cose
comuni (Cass. 15.3.94, n. 2454, RFI, 1994, Com. e cond., 96; Cass. 21.6.93, n. 6856, ALC, 1993,
717).
Natura reale viene riconosciuta anche alla regola contenuta nell’art. 1132, u.c. (obbligo del
condomino che non abbia partecipato alla lite di contribuire alle spese per lui vantaggiose) (con
qualche dubbio, Bigliazzi Geri 1984, 114).
2.1.2. L’indennità di sopraelevazione ex art. 1127 c.c.
L’art. 1227 c.c., nell’attribuire al proprietario dell’ultimo piano dell’edificio la facoltà di
sopraelevare, impone allo stesso il dovere di corrispondere agli altri condomini un’indennità.
Si configura, in questa ipotesi, un’obbligazione avente carattere personale, in quanto corrispettivo
del diritto di sopraelevare, dovuto da chi effettua la soprelevazione (Bigliazzi Geri 1984, 92; Branca
1982, 528 s.; App. Messina 13.8.63, FP, 1964, I, 1014; contra Cass. 5.7.52, n. 2027, GI, 1953, I,
435; Trib. Palermo, 23.4.60, GI, 1961, I, 2, 19, con nota di Biondi; sul punto Dogliotti e Figone
1992, 236 ss.):
L’obbligo di corrispondere l’indennità di sopraelevazione prevista dall’art. 1127 c.c non ha natura di obbligazione
propter rem ma ha carattere meramente personale. Nel sistema della legge infatti l’obbligo non si trasferisce a carico
dei successivi acquirenti del piano sopraelevato fin quando non sia adempiuto, ma costituendo il corrispettivo
dovuto per l’esercizio della facoltà di sopraelevare, si cristallizza a carico del proprietario che l’abbia concretamente
esercitata
(Trib. Napoli 18.10.68, TNap, 1968, I, 343; RGE, 1969, I, 426; GI, 1969, I, 2, 144; DG, 1969, 416, con nota di
Bonacci; ND, 1969, 530, con nota di Zaccagnini).
Si precisa, poi, che tale indennità - che non riveste natura risarcitoria - costituisce un debito di
valore, e che per la decorrenza degli interessi sarà necessaria la costituzione in mora a norma
dell’art. 1282 c.c. (Cass. 5.12.87, n. 9032, RGE, 1988, I, 58; ALC, 1988, 385; NGCC, 1988, I, 513,
con nota di Bianco; Cass. 16.10.90, n. 10098, ALC, 1991, 301).
2.2. La responsabilità extracontrattuale.
La varietà di rapporti che ruotano attorno al condominio è tale, come s’è detto, da consentire
l’ingresso in campo di tutte o quasi le regole di responsabilità previste dal legislatore (abbiamo già
visto come l’esistenza di un rapporto di condominio non escluda che, oltre alle disposizioni relative
ai rapporti di vicinato - emulazione, immissioni, servitù -, possano venir invocate le regole generali
sulla responsabilità civile: Cass. 10.12.93, n. 12152, ALC, 1994, 304).
In particolare, con riguardo al territorio dell’illecito aquiliano, trovano modo di intervenire sia le
disposizioni che attribuiscono la responsabilità all’autore di un comportamento riprovevole
sanzionato a titolo di colpa o dolo, sia quelle che figurano fondare la traslazione del danno dal
patrimonio della vittima a quello del responsabile in base a criterî di imputazione oggettivi o a
distribuzioni degli oneri probatori favorevoli alla parte danneggiata.
2.2.1. La responsabilità per colpa.
Nella maggior parte dei casi, le ipotesi di responsabilità legate all’esistenza di un condominio si
presentano tali da consentire al danneggiato di invocare le regole a lui più favorevoli: responsabilità
da cose o animali in custodia, responsabilità per rovina di edificio, e così via (Rezzonico 1992, 325
ss.).
Non sono poche, tuttavia, le vicende nelle quali - esclusa per una o per l’altra ragione l’applicabilità di tali disposizioni, al danneggiato non rimane che appellarsi all’art. 2043 c.c.
E’ il caso, ad esempio, dei danni che un terzo abbia riportato a seguito della rottura di una
installazione comune dell’edificio condominiale (nella specie: tubo di scarico del liquame): ebbene,
ove tale rottura dipenda dalla colpevole condotta di uno degli utenti del servizio comune, il
risarcimento dovrà gravare non già sul condominio - quale custode della cosa comune - bensì in via
esclusiva sull’autore stesso del comportamento colposo (Cass. 12.5.81, n. 3146, RFI, 1981, Com. e
cond., 24).
Così, ai condomini che lamentino danni alla cosa comune per l’uso che terzi abbiano fatto di una
parte di proprietà esclusiva spetterà - oltre all’azione reale verso il proprietario di questa - anche
l’azione ordinaria di risarcimento contro gli autori materiali dell’illecito (Cass. 13.4.91, n. 3942,
ALC, 1991, 526).
Ha natura extracontrattuale, altresì, l’azione con la quale il conduttore chieda di venir risarcito per
le conseguenze delle molestie di fatto, poste in essere dal condominio, e limitanti il proprio diritto di
godere della cosa locata (Cass. 14.10.87, n. 7609, ALC, 1988, 68: nella specie, il condominio,
omettendo di eseguire la regolare manutenzione di una siepe, aveva creato intralcio all’ingresso del
garage concesso in locazione da un condomino).
In un altro caso, la S.C. ha qualificato come azioni di danno ex art. 2043 c.c. quella posta in essere
da un condomino il quale lamentava la perdita di aria e di luce provocata, al proprio appartamento,
dall’irrazionale piantagione di un numero di alberi sproporzionato alle modeste dimensioni
dell’aiuola condominiale; situazione resa ancor più grave dall’omissione di ogni attività di potatura
e sfoltimento delle chiome:
tale questione deve essere risolta non soltanto alla stregua dell’art. 892 c.c., occorrendo invece indagare se la
mancata manutenzione degli alberi, anche se piantati alla distanza legale, non costituisca un comportamento
negligente del condominio, idoneo a cagionare ingiusto danno ed a violare il principio per il quale l’uso delle parti
comuni non deve mai risolversi in pregiudizio di alcun condomino
(Cass. 24.8.92, n. 9829, ALC, 1993, 78).
Interessante, ancora, una vicenda affrontata dal Trib. Milano (30.5.88, GI, 1989, I, 2, 906, con nota
di Loy), relativa ai danni arrecati alla facciata dal conduttore di un appartamento il quale - senza
avvertire nessuno e con rapidità - aveva provveduto a verniciare la facciata esterna, in marmo, dello
stabile. In un caso del genere - affermeranno i giudici - la responsabilità non può essere posta a
carico del locatore, al quale non possono essere imputati comportamenti tenuti dal conduttore fuori
dall’ambito delle facoltà concessegli per l’uso e lo sfruttamento della cosa locata; una volta esclusa
l’applicabilità dell’art. 1122 c.c., non resta, al condominio, che l’azione ex art. 2043 c.c. nei riguardi
del conduttore.
Si può ricordare, ancora, come in un caso sia stata riconosciuta la responsabilità extracontrattuale
verso il singolo condomino dell’amministratore che aveva omesso di dare esecuzione alla delibera
con la quale l’assemblea aveva disposto la riparazione del tetto (Trib. Trieste 6.7.72, GI, 1974, I, 2,
512, con nota critica di Sampietro; su questa pronuncia, v. anche i rilievi di Rezzonico 1992, 277).
L’art. 2043 c.c. rappresenta, poi, lo strumento utilizzato per la soluzione di liti che si ripropongono
in maniera costante. Ci si riferisce, soprattutto, al contenzioso relativo alle immissioni (di rumori,
fumi, ecc.) che risultino dannose per la salute (v. infra, §§ 2.2.8. ss.), oppure alle liti - meno
frequenti ma ugualmente “classiche” - nelle quali si discute della responsabilità di chi viene
accusato di aver fornito ai ladri un’agevolazione nella realizzazione del furto (erigendo impalcature
aderenti all’immobile, non custodendo il proprio immobile, ecc.; v. infra, § 2.2.5.5.).
Sotto un diverso profilo, appaiono infine interessanti le conseguenze che una corte ha tratto
dall’esistenza di una clausola - inserita nel contratto di locazione - che esonerava il proprietario
dalla responsabilità per i danni da allagamenti e rotture di tubazioni. Verificatosi, nella specie,
l’allagamento dell’unità immobiliare a causa dell’inerzia del condominio nel provvedere a
necessarie modifiche dell’impianto di fognatura, mentre è stata dichiarata la responsabilità del
condominio stesso nei confronti del condomino, per la perdita dei canoni di locazione, si è ritenuta
invece preclusa l’azione ex art. 2043 c.c. del conduttore nei confronti del condominio:
l’accettazione della clausola in questione testimoniava infatti circa la consapevolezza
dell’eventualità di allagamenti, al punto far ritenere l’evento dannoso imputabile al conduttore
medesimo, che ben avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria diligenza (App. Napoli 2.7.87, ALC,
1987, 504).
2.2.2. Minori, incapaci.
I profili di responsabilità per eventi - verificatisi in ambito condominiale - che abbiano visto come
protagonisti soggetti incapaci o minori sono stati oggetto di indagine da parte della dottrina, la quale
ha rilevato, anzitutto, la scarsità della casistica; evidenziando poi come, allorché si discuta della
responsabilità per i danni cagionati dall’incapace o dal minore in condominio, non si pongano
problemi diversi da quelli destinati a sorgere in relazione ai danni che potrebbero venir cagionati da
qualsiasi condomino (Rezzonico 1992, 33 ss.; spec. 337).
Quanto, invece, al danno cagionato al minore, si suggerisce di prendere in considerazione le
conseguenze dell’utilizzazione degli impianti condominiali, oppure dalle parti comuni.
Una prima ipotesi è quella del danno conseguente al minore dall’utilizzo dell’ascensore (v.
Rezzonico 1992, 338, con riferimento a Cass. 5.5.82, n. 2826, FI, 1982, I, 2499: responsabilità
dell’albergatore per i danni riportati da un piccolo ospite al quale non era stato impedito di utilizzare
un ascensore: il minore, dopo aver forzato la porta, era saltato dalla cabina bloccata tra i piani).
Con riguardo, poi, all’eventualità di sinistri che coinvolgano bambini che giocano nel cortile
condominiale si prospetta la possibilità di un concorso tra le responsabilità del condominio (ex art.
2051), e quella dei genitori del minore (ex art. 2048) (Rezzonico 1992, 338 s.). Quanto alla prima, il
riferimento suggerito è alla decisione con la quale venne dichiarata la responsabilità del proprietario
di un edificio in costruzione che non aveva adottato le misure necessarie ad evitare che bambini si
introducessero nel cantiere (uno di essi, con un sasso attinto in quel luogo, aveva ferito un
compagno di giochi: Cass. 5.5.80, n. 2945, RFI, 1980, Com. e cond., 131). Esempio al quale si può
aggiungere quello della minore feritasi sbattendo contro una porta a vetri, un riquadro della quale
era rotto da tempo: nessun dubbio, anche qui, circa la responsabilità del condominio - ex art. 2051
c.c. (Trib. Milano 14.2.91, ALC, 1991, 594).
Quanto alla seconda, può citarsi una recente pronuncia nella quale è stata sanzionata la culpa in
vigilando dei genitori che avevano lasciato libero il bambino di giocare in un cortile nel quale erano
ammucchiati materiali edilizi, residuati dalla ristrutturazione dell’immobile (il bimbo aveva colpito
un compagno di giochi con un tondino di ferro raccolto nel cortile: Trib. Genova 11.95, GI, 1995, I,
2, 554; v. anche Cass. 21.11.84, n. 5957, RFI, 194, Resp. civ., 91, relativa alla responsabilità dei
genitori il cui figlio minore aveva colpito, con una freccia scagliata da un arco rudimentale, un altro
bambino presente nel cortile condominiale).
Altra casistica racconta di un minore che aveva riportato lesioni per essere stato colpito da calce
viva prelevata da alcuni bidoni, collocati nel cortile ove i bambini abitanti nello stabile erano soliti
giocare. In questa vicenda, la responsabilità del proprietario dell’immobile verrà esclusa, una volta
accertata la non colpevolezza della condotta del portiere - che aveva indicato agli operai il luogo
ove porre i bidoni. Toccava all’appaltatore - e ai suoi operai - accertare che il luogo indicato fosse
idoneo alla collocazione di materiali pericolosi (Cass. 4.2.60, n. 171, RCP, 1060, 402).
2.2.3. La responsabilità institoria.
Sicuramente operante, all’interno di talune liti condominiali, è il principio contenuto negli artt. 2049
e 1228 c.c.
Al di là delle questioni poste in luce, con riguardo a tali ipotesi di responsabilità (per tutti, v. Bielli
1997, 183 ss.; Bielli 1987, 55 ss.), occorre rilevare come, in relazione ai soggetti operanti nel
condominio, non sorgano particolari difficoltà interpretative.
2.2.3.1. Il fatto del portiere e di altri dipendenti.
Così anzitutto per quanto concerne il portiere dello stabile. Non v’è dubbio che costui rivesta la
qualifica di lavoratore dipendente: si tratta cioè di una figura che si colloca nel cuore della zona di
intervento dell’art. 2049 c.c. (Bielli 1997, 190 ss.; Bielli 1987, 134 ss.). Da qui la sicura
responsabilità del condominio in relazione a un evento che sia stato provocato dal portiere
(Rezzonico 1992, 346).
In particolare, ricordiamo il caso in cui, applicando l’art. 2049 c.c., il proprietario dello stabile è
stato dichiarato responsabile per le gravi lesioni che la portinaia aveva provocato ad una bambina
(Cass. 23.7.57, n. 3115, MT, 1958, 281); mentre si è conclusa con l’assoluzione di un altro
proprietario una diversa vicenda, ove era stata accertata l’assenza, nella condotta tenuta dal portiere,
di profili di censurabilità (Cass. 4.2.60, n. 171, RCP, 1060, 402).
Un’altra ipotesi, di cui si è occupata la giurisprudenza, riguarda il furto perpetrato da ignoti in un
appartamento dato in locazione, furto reso possibile dall’inadempimento del portiere ai propri
obblighi di custodia e vigilanza. Affermata l’appartenenza del servizio di portineria all’elenco delle
prestazioni accessorie comprese nel contratto di locazione dell’immobile, i giudici non hanno avuto
difficoltà ad attribuire al locatore le conseguenze dell’inadempimento del portiere, considerato
quale “ausiliario”, ai sensi dell’art. 1228 c.c. (Cass. 24.4.50, n. 1089, RCP, 1050, 220; v. anche
Cass. 29.7.75, n. 2938, GC, 1975, I, 1854, ove in un caso analogo è stata ritenuta legittima la
clausola che limitava la responsabilità indiretta del locatore).
Sempre a proposito della carente sorveglianza esercitata dal portiere, e della possibilità che questa
favorisca i furti negli appartamenti, si è sostenuto - in dottrina - che in determinate ipotesi la
responsabilità del condominio quale datore di lavoro, ex art. 2049 c.c., potrebbe concorrere con
quella, dello stesso condominio, da custodia, ove non venga rispettato l’obbligo, di cui all’art. 61,
r.d. 18.6.31, n. 773, di tenere aperto nelle ore notturne un solo accesso alla via pubblica e di tenerlo
illuminato sino ad una certa ora e chiuso nelle altre ore, in assenza di un custode (Rezzonico 1992,
352).
Con una certa frequenza, i repertori danno conto di liti aventi ad oggetto il mancato recapito della
posta, dovuto a inadempimento dell’obbligo contrattuale di distribuirla, esistente in capo al portiere.
Una volta accertato, infatti, che
con riguardo all’obbligo di distribuire la corrispondenza ordinaria che il portiere di uno stabile condominiale abbia
tra i propri doveri, costituisce inadempimento il rifiuto di prendere in consegna tale corrispondenza destinata ad uno
dei condomini, ancorché si tratti di espressi e plichi recapitati a mano da corrieri privati, essendo gli stessi inclusi a
norma del T.U. del 1973, n. 156 nella cosiddetta corrispondenza ordinaria nonostante la diversa modalità di
consegna
(Cass. 28.7.86, n. 4832, FI, 1987, I, 503);
né seguirà - con riguardo alla posizione del condominio/datore di lavoro - la certezza che,
laddove sussista l’obbligo contrattuale del portiere di ricevere e consegnare la posta, il mancato recapito, per fatto
del portiere o addirittura il rifiuto dello stesso di ricevere la posta, non potrà non costituire in responsabilità, ex art.
2049, il condominio
(Rezzonico 1992, 353).
Il rifiuto di ritirare la posta ordinaria e gli espressi rappresenta quindi una possibile violazione degli
obblighi contrattualmente assunti dal portiere verso i proprietari. Ove invece il rifiuto venga
opposto nei riguardi di inquilini,
la fattispecie può inquadrarsi nello schema della responsabilità contrattuale nell’ipotesi in cui il proprietario-locatore
assuma nei confronti del suo inquilino anche l’obbligo di assicurargli lo svolgimento del servizio di portineria
(Trib. Napoli 28.1.69, ND, 1070, 847; DG, 1070, 122, in entrambe con nota di Borselli).
In definitiva - secondo questo schema - l’inquilino non potrebbe far valere alcun diritto nei
confronti del portiere, il quale non sarebbe perciò responsabile ex art. 2043 c.c. dei danni
conseguenti al mancato recapito della corrispondenza, e ciò escluderebbe altresì l’azionabilità
dell’art. 2049 c.c. nei riguardi del condominio.
In dottrina, si è ipotizzata poi l’eventualità che la responsabilità del portiere (e quindi del
condominio) venga dichiarata in relazione al rilascio di informazioni sulla vita familiare e sulle
condizioni economiche degli inquilini (Visco 1976, 592).
Oltre al portiere, vi sono altri soggetti per l’operato dei quali può sorgere il problema della
responsabilità vicaria: ad esempio, gli addetti alle pulizie, oppure i giardinieri, e così via (v. l’elenco
delle figure previste dal vigente C.C.N.L. dei dipendenti da proprietari di immobili, riportato infra,
§ 4.5.).
Con riguardo, in particolare, ai primi, si precisa che la responsabilità ex art. 2049 c.c. sorgerà in
capo al condominio solo ove si profilasse una rapporto institorio diretto con questo; in caso
contrario, il danneggiato potrà eventualmente rivolgersi al soggetto titolare dell’appalto (Rezzonico
1992, 354).
Vale la pena di aggiungere come un rapporto institorio - tale da coinvolgere la responsabilità del
preponente - dovrà ritenersi sussistente ogniqualvolta si sia in presenza di un vero e proprio
rapporto di lavoro subordinato (come nelle situazioni esaminate da Cass. 24.2.79, n.1235, FI, 1981,
I, 854; Pret. Venezia 15.6.90, Ipr, 1991, 910; Pret. Parma 31.3.80, FI, 1981, I, 681), ma non potrà
venir escluso neppure con riguardo alle situazioni di confine, nelle quali la posizione di chi svolge
l’attività di pulizia non risulti dotata di sufficiente autonomia organizzativa e indipendenza [v. ad
es., Cass. 4.4.87, n. 3282, RFI , 1987, Lavoro (rapporto), 338: pulizie svolte dalla moglie
dell’”appaltatore”; Pret. Asti 16.12.85, Ipr, 1986, 759: subordinazione esclusa per assenza di
esercizio di potere direttivo e disciplinare da parte dell’amministratore].
2.2.3.2. Il fatto dell’amministratore.
Quanto all’amministratore, è pacifico in giurisprudenza che il legame che lo vincola al condominio
- e che giustifica l’intera sua attività - è quello di mandatario dello stesso, con poteri di
rappresentanza, che gli derivano dall’art. 1131 c.c.
A questo proposito possiamo ricordare quanto si afferma, in linea generale, con riguardo alle
conseguenze che gravano sul rappresentato nel caso di illecito commesso dal rappresentante (per la
dottrina e la giurisprudenza sul punto v., ampiamente, Bielli 1987, 209 ss.):
l’attività del mandatario costituisce fonte di responsabilità indiretta del mandante, a norma dell’art. 2049 c.c.,
quando il primo si sia avvalso della sua qualità di rappresentante per consumare l’illecito e la detta attività apparisca
verosimilmente, al terzo di buona fede, come rientrante nei limiti del mandato
(Cass. 27.6.84, n. 3776, AC, 1984, 1006; v. anche Cass. 23.7.66, n. 2013, GC, 1967, I, 571; GI, 1968, I, 1, 221).
Ne consegue che
il mandante condominio può essere tenuto a rispondere, ex art. 2049 c.c., del fatto illecito dell’amministratore, sia
allorché egli ecceda i propri poteri di rappresentanza, sia allorché egli commetta fatti illeciti, sia infine allorché
l’amministratore si renda responsabile di illeciti penali
(Rezzonico 1992, 350; nello stesso senso, Visco e Terzago 1972, 776 ss.).
Conclusioni diverse vengono raggiunte da chi riconosce al condominio il rango di vera e propria
persona giuridica: quella dell’amministratore è, in quest’ottica, rappresentanza organica, e il
condominio risponde in via diretta - non già ex art. 2049 - dell’illecito dell’amministratore (Branca
1982, 589).
Occorre dire che la casistica giurisprudenziale non appare abbondante. Tra le pronunce edite va
citata una decisione della S.C., la quale ha avuto modo di affermare che
ai fini dell’accertamento della necessità del condomino di disporre dell’immobile locato, il comportamento
fraudolento dell’amministratore del condominio, inteso a preordinare quella necessità, si risolve nella presunzione
del fraudolento comportamento dei singoli condomini, salva la prova contraria, a questi spettante, del dissenso
(Cass. 3.4.57, n.1140, RFI, 1957, Com. e cond., 138).
Sotto un diverso profilo si è sostenuto che, ove l’amministratore di un condominio, su incarico e per
autorizzazione dell’assemblea, compia un atto di spoglio nei confronti di un condomino, legittimati
passivi all’azione di reintegrazione saranno sia l’amministratore stesso, quale autore materiale dello
spoglio, sia la collettività condominiale, quale autore morale (Cass. 10.2.64, n. 301, GC, 1964, I,
781).
Può accadere, talvolta, che l’amministratore ponga in essere un’attività negoziale al di fuori delle
sue attribuzioni. Con riguardo ad una simile eventualità, si ritiene che - salva l’eventuale ratifica da
parte del condominio - il contratto sarà senz’altro inefficace, ma il condominio potrà essere
chiamato a rispondere ex art. 2049 c.c. del danno subito dal terzo (Rezzonico 1992, 284).
Le cronache riportano un episodio nel quale l’amministratore, onde far fronte a rilevanti spese per
l’ordinaria amministrazione, aveva accettato anticipi in denaro da un condomino. Nel proclamare
l’inefficacia di un simile accordo, la S.C. preciserà che:
Per quanto riguarda la copertura delle spese erogate per l’ordinaria amministrazione, l’amministratore ha l’obbligo
di riscuotere i contributi. Se il condomino non provvede ai versamenti, può invocare l’art. 63, comma 1, disp. att.
c.c. ed ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. E’ parimenti ammesso che l’amministratore possa
anticipare di tasca propria i fondi necessari. E’ invece difficile vedere come egli possa, sulla base delle attribuzioni
conferitegli dall’art. 1130 c.c., contrarre, in nome e nell’interesse del condominio, dei mutui. Se si ammette una tale
possibilità, si deve necessariamente ammettere che l’amministratore possa stipulare dei contratti di mutuo, a nome
del condominio, in modo del tutto generale: potrebbe quindi contrarre mutui non solo con i condomini ma anche con
dei terzi, ad esempio banche, contratti eventualmente produttivi di interessi. Tali contratti sarebbero direttamente
vincolanti per il condominio.
Una tale possibilità esorbita dalle attribuzioni conferite dall’amministratore dall’art. 1130 c.c. e richiede l’intervento
dell’assemblea
(Cass. 5.3.90, n. 1734, FI, 1990, I, 3221; ALC, 1990, 498; RaEquoC, 1990, 265; GC 1990, I, 2612, con nota di de
Tilla).
Non diversa - si precisa - la situazione che si determina allorché l’amministratore emetta delle
cambiali: il potere di obbligarsi verso i terzi appartiene senza dubbio all’elenco di quelli conferiti
all’amministratore con la nomina; tuttavia esso non include anche la rappresentanza cambiaria, non
prevista dall’art. 1130 c.c. ed anzi - restando esclusa tale rappresentanza quale presunzione pur in
presenza di facoltà generale di obbligarsi (art. 12, 1° co., l. camb.) - si conclude che
l’amministratore non può, di regola, provvedere al pagamento del corrispettivo ad appaltatori e fornitori a mezzo di
cambiali, salvo che tale maggiore potere gli sia stato conferito espressamente dal regolamento o dall’assemblea, in
sede preventiva o di ratifica successiva, ex artt. 1391 e 1399 c.c.
(Rezzonico 1992, 278).
2.2.4. L’esercizio di attività pericolose
Dalla lettura dei repertori non emergono esempi di applicazione della regola sulla responsabilità per
attività pericolose all’ambito specifico del condominio.
In dottrina si è sostenuto, tuttavia, che la regola dettata dall’art. 2050 c.c. sarebbe suscettibile di
venir invocata a proposito di molteplici momenti della vita condominiale, concernenti soprattutto le
attività edilizie, l’esercizio degli impianti condominiali (in particolare, di ascensore e riscaldamento), l’esercizio di
piscina nei complessi residenziali, l’esercizio e la conduzione di cancelli meccanici o automatici di accesso al
condominio
(Rezzonico 1992, 368 s.).
La giurisprudenza appare orientata in senso parzialmente diverso.
In tema di attività edilizie - rispetto alle quali il carattere di pericolosità risulta tendenzialmente
riconosciuto - occorre distinguere comunque fra le attività di un certo rilievo (ad es. quelle che
comportano scavi, movimenti terra, sbancamenti, o che richiedono l’allestimento di impalcature e
l’uso di macchinari: Cass. 3.11.95, n. 11452, RFI, 1995, Resp. civ., 154; Cass. 12.12.88, n. 6739,
RFI, 1988, Resp. civ.,138; Cass. 11.11.87, n. 8304, AC, 1988, 822; App. Brescia 24.3.88, RGEnel,
1989, 156; Trib. Terni 22.3.93, RGU, 1993, 693; Trib. Palermo 21.1.92, RGEnel, 1993, 217; Pret.
Perugia 21.1.93, RGU, 1993, 693), e le attività “minori”, che ad un’indagine concreta non
presentano rischi particolari (ad. es., il rifacimento di un intonaco: Cass. 17.12.91, n. 13564, RFI,
1991, Resp. civ., 113).
Con riguardo ai servizi condominiali più comuni, le corti si pronunciano uniformemente nel senso
dell’applicabilità della norma sulla responsabilità per cose in custodia (ascensore condominiale:
Cass. 21.7.79, n. 4385, RCP, 1980, 81; Trib. Terni 1.2.93, RGU, 1993, 699, con nota di Mezzasoma;
cancello meccanico: Trib. Genova 17.11.87, NGCC, 1988, I, 616, con nota di Franzoni; v. anche
Cass. 5.12.81, n. 6467, RCP, 1982, 746, con nota di Monateri; Cass. 24.2.83, n. 1425, RCP, 1983,
774, con nota di Oberto;) o, al più, di quella sulla rovina di edificio (Cass. 5.7.50, n. 1749, RCP,
1950, 430: danno a minore da guasto dell’ascensore).
Quanto alla piscina, l’attività pericolosa è stata bensì riscontrata in una certa vicenda, nella quale si
era però in presenza di un impianto aperto al pubblico, nonché di una particolare situazione di
torbidezza dell’acqua tale da impedire di percepire l’eventuale presenza di nuotatori in difficoltà
sotto la superficie (App. Firenze 24.11.64, RCP, 1965, 194).
Nel rigettare poi la domanda risarcitoria avanzata verso un condominio da parte di un condomino
inciampato in un tappeto posto su di un pianerottolo privo di ringhiera, e precipitato sul pianerottolo
sottostante, la S.C. ha escluso l’applicabilità della normativa speciale, posta a prevenzione degli
infortuni (d.p.r. 164/1956), non trattandosi, nella specie, di immobile in fase di costruzione o di
riparazione (Cass. 22.3.89, n. 1452, ALC, 1989, 471).
Di sicuro interesse, nell’ambito che qui si tratta, è invece il tema dell’esercizio delle condutture
elettriche. La presenza di normative che impongono all’esercente di rispettare determinate distanze
dai fabbricati consente infatti, in caso di incidente, di chiamare in causa la regola più favorevole al
danneggiato. Con riguardo, ad esempio, alle conseguenze patite dal proprietario di un’abitazione il
quale, nell’installare un’antenna televisiva, era entrato in contatto con una linea elettrica collocata
dall’ente di erogazione ad una distanza dal pavimento della terrazza inferiore ai minimi di legge, si
è affermato:
Anche l'esercizio di una conduttura aerea di energia elettrica a bassa tensione costituisce attività pericolosa ai sensi
dell'art. 2050 c.c., qualora l'ente gestore ometta di adottare le misure di sicurezza previste dalla normativa che
disciplina la costruzione e l'esercizio delle linee aeree esterne
(Cass. 29.5.89, n. 2584, GI, , 1990, I, 1, 234; RGEnel, 1990, 145).
2.2.5. Il danno da cose in custodia
Nel nostro campo, un ruolo di grande rilievo risulta svolto dalla responsabilità per i danni, cagionati
dalla cosa, che l’art. 2051 c.c. pone a carico di chi l’abbia in custodia (in generale sulla
responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., v. Ziviz 1989, 99 ss.; Geri 1974, 93 ss.; con particolare
riguardo al condominio, v. Rezzonico 1992, 380 ss.). E ciò anche se - si constata in dottrina
(Franzoni 1993, 630 s.; Rezzonico 1992, 402) - la giurisprudenza tende ad allargare
progressivamente la nozione di rovina di edificio, sottraendo spazi all’intervento dell’art. 2051 c.c.,
a favore dell’art. 2053 c.c.
Occorre preliminarmente rilevare come, in linea generale, all’interno di un condominio la qualifica
di custode di un determinato bene - parte dell’immobile, impianto, arredo, ecc. - possa venir
riconosciuta ad una pluralità di soggetti: alla collettività condominiale, al singolo condomino,
all’inquilino, al manutentore dell’impianto (sulla figura del custode, in rapporto alle varie situazioni
di appartenenza, v. Monateri 1992, 758 ss.).
E’ indubitabile che al condominio spetti la qualifica di custode delle parti e impianti comuni; ma lo
stesso può accadere con riguardo a parti che risultano bensì di proprietà esclusiva, e che sono
tuttavia destinate a svolgere una funzione anche a favore del condominio stesso (v. infra, §§ 2.2.5.3.
ss.).
Mentre, in linea di principio, sarà il proprietario a venir chiamato a rispondere per i danni derivanti
dalla propria unità immobiliare - che non presenti le caratteristiche viste sopra (v. infra, §§ 2.2.5.3.
ss.) - la situazione è destinata a complicarsi allorché la stessa figuri essere condotta in locazione: si
tratta infatti di individuare se, e in che misura, gli obblighi incombenti sul proprietario si estendano
o vengano traslati in capo al conduttore.
Non v’è dubbio allora che il conduttore non si sostituisca al proprietario per quanto riguarda la
custodia delle cose comuni (Cass. 4.7.87, n. 5855, RFI, 1987, Locazione, 167; Cass. 5.12.81, n.
6467, RCP, 1982, 746, con nota di Monateri; Pret. Napoli 18.3.89, ALC, 1990, 145).
Al di là di ciò, le soluzioni che si sono susseguite ed accavallate in giurisprudenza appaiono
molteplici, variabili e non di rado contrastanti (per una ricostruzione delle diverse posizioni, v. Ziviz
1995, 196 ss.; de Tilla 1993, 1917 ss.; Corradi 1992, 2217 ss.; Rezzonico 1992, 420 ss.; Ziviz 1988,
106 ss.; nonché la motivazione di Cass. Sez. U. 11.11.91, n. 12019, GC, 1992, I, 41; NGCC, 1992,
I, 81, con nota di Alpa; CorG, 1992, 180, con nota di Alpa; ALC, 1992, 43; GI, 1992, I, 1, 2218, con
nota di Corradi; FI, 1993, I, 922). Scorrendo infatti i repertori si incontrano decisioni le quali
figurano, volta a volta, attribuire la responsabilità:
(a) esclusivamente al proprietario, salva eventuale rivalsa nei confronti del conduttore (Cass.
22.7.87, n. 6407, RGE, 1987, I, 988; Cass. 19.1.87, n. 433, AC, 1987, 503; Cass. 18.11.86, n. 6785,
VN, 1987, 281; Cass. 12.3.83, n. 1868, RFI, 1983, Resp. Civ., 118; Cass. 19.7.82, n. 4246, ALC,
1982, 661; AC, 1983, 286);
(b) esclusivamente al conduttore, salva eventuale rivalsa verso il locatore (Cass. 9.10.91, n. 10599,
ALC, 1992, 291; Cass. 19.12.86, n. 7727, RFI, 1986, Resp. civ., 153: il locatore potrebbe rispondere
verso il terzo per omissione, ex art. 2043 c.c.; Cass. 18.6.86, n. 4068, GI, 1987, I, 461; Trib.
Piacenza 26.8.94, ALC, 94, 835; Contratti, 1995, 193, con nota di Ziviz: risponde solo il conduttore
se il danno proviene da parti volte a soddisfare esclusivamente sue esigenze);
(c) ad entrambi, in via solidale verso i terzi con possibilità di rivalsa nei rapporti interni (Cass.
22.2.85, n. 1589, ALC, 1985, 695; Cass. 18.5.84, n. 3063, RGE, 1984, I, 861; Trib. Cagliari 14.6.90,
RGSarda, 1991, 371, con nota di Castello).
Il contrasto figura affrontato, in tempi recenti, dalle Sezioni Unite della S.C., che hanno confermato
la condanna risarcitoria inflitta al conduttore per le lesioni riportate da un terzo, colpito da un ramo
staccatosi da un albero presente sul fondo locato (per un caso analogo, anche quanto alla soluzione
adottata, v. App. Milano 19.6.81, RDCo, 1982, II, 121, con nota di Bessone; AGCSS, 1981, 511; AC,
1981, 667). Ebbene, con l’intenzione di porre ordine nella controversa materia, le Sez. U. - dopo
aver riconosciuto la natura oggettiva della responsabilità in questione - hanno affermato la
coincidenza della nozione di “custodia”, contenuta nell’art. 2051 c.c., con quella di disponibilità che
sia al contempo “immediata” - nel senso di governo della cosa - e “giuridica”; da qui, la
riclassificazione di ipotesi e soluzioni, operata con le parole che seguono:
2.d) (...) il proprietario resta custode, innanzi tutto, di tutte le cose che non passano nella custodia del conduttore,
vale a dire le strutture murarie e gli impianti in esse conglobati, sui quali il conduttore non ha la possibilità di
intervenire per prevenire o riparare un danno. Tali sono, per esemplificazione, per forza di cose incompleta, le
murature, i cornicioni, i tetti e tutti quegli impianti idrici, sanitari, ecc. per raggiungere i quali occorre intervenire
sulle opere murarie le quali non possono essere manomesse dal conduttore, il quale è tenuto a restituire a fine
locazione al proprietario locatore lo stabile cosi come lo ha ricevuto (art. 1590 c. c.), con la precisazione che deve
trattarsi di danni a terzi e non già nell'ambito del contratto tra locatore e conduttore. Con la conseguenza che se dalla
struttura muraria si stacca una parte di essa, ovvero si rompe un impianto in essa conglobato, e reca danno a terzi, la
responsabilità è quella del proprietario-locatore, non avendo il conduttore la disponibilità di fatto e giuridica della
struttura, a parte eventuali responsabilità del conduttore interne al rapporto di locazione per l'omissione del mancato
avvertimento al locatore del pericolo, responsabilità che non interessano il terzo danneggiato.
2.e) Tale responsabilità del proprietario è ravvisabile non soltanto ai sensi dell'art. 2051, ma è comunque
considerabile anche ai sensi dell'art. 2053 c.c., in quanto il concetto di rovina di edificio è stato dalla giurisprudenza,
come più avanti ricordato, esteso alla rovina di parti dell'edificio, purché facenti corpo con esso.
La giurisprudenza dà alla rovina una nozione ampia, applicando l'art. 2053 c.c. anche alla caduta di elementi
accessori e ornamentali dell'edificio (Cass. 17.11.84, n. 5868). Anche dell'edificio è data una nozione ampia,
comprensiva delle opere connesse al suolo, anche in via provvisoria, indipendentemente dalla funzione che sono
destinate a svolgere (Cass. 29.1.81, n. 693). L'art. 2053 contempla l'ipotesi di un danno cagionato da vizio di
costruzione o difetto di manutenzione: la sussistenza del rapporto causale tra il vizio o difetto e il danno è sufficiente
a dar luogo alla responsabilità del proprietario.
In buona sostanza, l'art. 2053 costituisce una ipotesi di specie rispetto all'art. 2051 e di questa condivide la natura
oggettiva della responsabilità ed il limite del fortuito. Va, però, rilevato che nell'art. 2053 l'imputazione sorge in base
non ad una relazione di fatto con la cosa, come la custodia di cui all'art. 2051, ma di diritto, in base al testo
normativo. Per l'art. 2053 responsabile è il proprietario al tempo della rovina (anche parziale).
2.f) Viceversa, non può non far carico ex art. 2051 al conduttore la responsabilità per tutte le altre cose che fossero
nella sua disponibilità e sulle quali egli può intervenire onde prevenire il danno e - se intervenuto - sollecitamente
eliminarlo, onde non recare pregiudizio ai terzi. Ad esempio: allagamenti o intasamenti conseguenti al cattivo uso o
rottura dei servizi dell'appartamento sui quali egli può intervenire avendone la immediata disponibilità. Deve anche
qui tenersi presente che la responsabilità consegue «ipso facto» per aver il conduttore la custodia della cosa.
2.g) Responsabilità solidale. Il menzionato criterio della disponibilità della cosa porta ad escludere in tesi il principio
della solidarietà. Il proprietario che non abbia la disponibilità della cosa non deve generalmente rispondere dei danni
da essa arrecati, a meno che colui cui l'ha affidata non ne abbia avuto un possesso momentaneo.
Viceversa, il conduttore - detentore qualificato - risponde nei limiti della sua disponibilità, in quanto in tal caso a lui
incombe l'obbligo di custodia
(Cass. Sez. U. 11.11.91, n. 12019, GC, 1992, I, 41; NGCC, 1992, I, 81, con nota di Alpa; CorG, 1992, 180, con nota
di Alpa; ALC, 1992, 43; GI, 1992, I, 1, 2218, con nota di Corradi; FI, 1993, I, 922; v. anche Cass. 10.2.94, n. 1364,
RFI, 1994, Resp. civ., 128).
Di recente, poi, la S.C. è intervenuta onde precisare chi debba essere considerato custode della cosa,
nel caso in cui la stessa sia stata oggetto di un contratto preliminare:
In materia di responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, nell’ipotesi in cui la cosa, oggetto di un contratto
preliminare di compravendita, sia stata consegnata al promittente acquirente prima della stipulazione del contratto
definitivo, la qualità di custode ai fini dell’individuazione del responsabile del danno ai sensi dell’art. 2051 c.c.
spetterà esclusivamente a quest’ultimo ogni qual volta la consegna è avvenuta in esecuzione anticipata
dell’obbligazione del venditore di cui all’art. 1476 c.c.; mentre il dovere di custodia continuerà a far capo al
proprietario, ed a lui soltanto, se la consegna non ha avuto il carattere della definitività, ovvero se è stata effettuata
per consentire la soddisfazione di esigenze particolari e temporanee del promittente acquirente, non essendosi
consumato l’obbligo della consegna nascente dal contratto definitivo di compravendita
(Cass. 9.10.96, n. 8818, GC, 1997, I, 605).
Quanto, infine, al manutentore dell’impianto - in particolare con riguardo all’ascensore e al
riscaldamento centrale - l’attribuibilità della qualifica in questione in virtù degli obblighi
contrattualmente assunti è controversa (v. infra, § 2.2.5.1.3.).
2.2.5.1. Danni da parti e impianti comuni.
Passando in rassegna la giurisprudenza ci si imbatte, anzitutto, in una serie di ipotesi nelle quali la
regola di responsabilità in questione è destinata ad operare con riguardo ai danni derivanti dalle
parti o dagli impianti comuni. A questo proposito, si precisa - in dottrina - che
secondo i princìpi di diritto condominiale, la responsabilità da custodia delle parti comuni condominiali è a carico
della collettività condominiale e dell’amministratore. Fermo restando che la responsabilità dell’amministratore, in
materia, è responsabilità propria, conseguente agli obblighi derivanti dall’art. 1130 c.c. anche se, verso i terzi, gli
effetti della responsabilità si produrranno in capo alla collettività condominiale, per responsabilità institoria, ex art.
2049 c.c., salvo regresso sul piano dei rapporti interni
(Rezzonico 1992, 384).
Quanto poi all’eventualità che la vittima sia non già un terzo estraneo al condominio, bensì uno dei
condomini dello stabile, la giurisprudenza appare costantemente orientata nel senso di ritenere che
costui si trovi nella posizione di terzo, e come tale possa senz’altro agire anche avvalendosi della
norme a lui più favorevoli. In tal senso, si afferma, ad esempio, che
il singolo condomino può agire a norma dell’art. 2051 c.c. nei confronti del condominio per il risarcimento dei danni
sofferti per il cattivo funzionamento di un impianto comune o per la difettosità di parti comuni dell’edificio, dalle
quali provengono infiltrazioni d’acqua pregiudizievoli per gli ambienti di sua proprietà esclusiva, ponendosi quale
terzo nei confronti del condominio stesso, tenuto alla custodia ed alla manutenzione delle parti e degli impianti
comuni dell’edificio
(Cass. 11.2.87, n. 1500, ALC, 1987, 297; v. anche Trib. Milano 27.5.93, ALC, 1994, 613; Trib. Milano 2.3.92, AC,
1992, 813; Trib. Milano 4.7.91, ALC, 1991, 586).
Nel medesimo ordine di idee, si precisa, poi, che
il singolo condomino, allorché agisce per il risarcimento dei danni derivati alla sua proprietà individuale per la
difettosità delle parti comuni dell’edificio, si presenta in posizione di terzo nei confronti del condominio: questi è
obbligato a risarcire il danno ex art. 2051 c.c. e, qualora la situazione dannosa sia potenzialmente produttiva di
ulteriori danni è anche obbligato a rimuovere ex art. 1172 c.c. le cause del danno stesso; e ciò anche quando trattasi
di vizi costruttivi dell’edificio, in relazione all’obbligo del condominio, nella sua qualità di custode e in virtù del
precetto generale del neminem laedere, di rimuovere le caratteristiche dannose delle cose comuni, ancorché da altri
create
(Trib. Roma 13.11.91, ALC, 1992, 132).
In senso contrario si pronuncia parte della dottrina, la quale rileva come, nel caso di danno al
condomino proveniente dalla cosa comune, la qualifica di custode spetti allo stesso danneggiato in
quanto appartenente alla collettività, per cui la sua azione dovrebbe svolgersi sul piano del rapporti
interni senza la possibilità di avvalersi degli artt. 2051-2053, operanti esclusivamente a favore dei
terzi (per tutti, Rezzonico 1992, 258; Salis 1969, 977 ss.).
Passando alla casistica, si può ricordare la condanna del condominio pronunciata con riferimento
alle lesioni subite da un condomino, scivolato su di un pezzo di moquette collocato nell’andito con
la parte pelosa rivolta verso il suolo e quella gommosa verso l’alto: esclusa la responsabilità del
portiere (per mancanza di colpa nel suo comportamento) e di conseguenza l’operatività dell’art.
2049 c.c., i giudici hanno ritenuto senz’altro applicabile l’art. 2051 c.c. (Trib. Milano 21.3.91, ALC,
1991, 594). Medesima soluzione nel caso di un minore feritosi cadendo contro una porta a vetri, un
riquadro della quale risultava rotto da tempo (Trib. Milano 14.2.91, ALC, 1991, 594). E lo stesso
vale nel caso di rottura di un lucernario collocato su un marciapiede destinato al pubblico passaggio
(App. Roma 11.3.52, TR, 1052, 164). Con riguardo, poi, alla caduta di un casellario sul quale un
bambino si era arrampicato per prelevare della posta, la S.C. ha ritenuto - contro il parere dei giudici
di merito (App. Milano 15.3.55, FP, 1956, I, 86, con nota di critica Brasiello; RCP, 1956, 84;
RGCT, 1956, 768) - di doversi procedere applicando proprio la norma in questione (Cass. 5.6.57, n.
2045, RCP, 1957, 349).
Tocca, ancora, al condominio risarcire i danni derivanti dall’infiltrazione di acqua piovana o di
irrigazione nei box, la cui copertura è rappresentata dal fondo del giardino, di cui il condominio è
detentore e custode (Trib. Milano 9.3.89, ALC, 1989, 536). Ed è appunto una vicenda del genere ad
offrire un esempio di come possa venir raggiunta la prova liberatoria - del caso fortuito - attraverso
la dimostrazione dell’eccezionalità dell’evento, costituito nella specie da precipitazioni di intensità
tale da mettere fuori uso anche una pompa aspirante, collocata nel locale caldaia proprio allo scopo
di prevenire il verificarsi di allagamenti anche in presenza di eventi meteorologici di particolare
gravità (Trib. Milano 8.10.88, GI, 1989, I, 2, 208).
Con riguardo, poi, alla caduta di una persona, scivolata sulle scale rese viscide durante le operazioni
di pulizia, si è affermato che la qualifica di custode del detentore dell’immobile non viene meno per
il fatto che siano stati appaltati il lavori di pulizia, quando l’appalto non implichi il totale
trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile (Cass. 23.10.85, n. 5199, AC, 1986,
157).
2.2.5.1.1. Danni da difetti di costruzione.
Accade sovente che si discuta di danni conseguenti a difetti di costruzione della cosa comune. A
questo proposito, si precisa che l’eventuale responsabilità del costruttore (ex art. 1669 c.c.) non
esclude quella del condominio, quale custode della cosa comune. Ad esempio, con riguardo
all’azione intentata da uno dei condomini, il quale lamentava infiltrazioni al proprio appartamento,
provenienti dal terrapieno del parco condominiale, la S.C. ha affermato che
il condominio di un edificio, quale custode dei bene e servizi comuni, risponde dei danni che ne sono provocati, ai
sensi dell’art. 2051 c.c. ancorché i danni derivino da vizi costruttivi (art. 1669) comportanti la concorrente
responsabilità di terzi
(Cass. 6.11.86, n. 6507, VN, 1986, 1197; GC, 1987, I, 892, con nota di Lipari; ALC, 1987, 88).
Nello schema che in tal modo si delinea, ove il danno promani da una cosa comune, e possa essere
fatto risalire a un difetto di costruzione, il danneggiato potrà agire verso il condominio, ex art. 2051
c.c., nonché verso il costruttore ai sensi dell’art. 1669 c.c. - e quest’ultima azione potrà venir
esercitata altresì dal condominio, al fine di rimanere indenne dagli esiti negativi di una condanna
risarcitoria (Cass. 9.5.88, n. 3405, RFI , 1988, Com. e cond., 127; Trib. Palermo 27.4.92, TSic,
1992, 134).
Così, nel caso in cui i difetti di costruzione del muro perimetrale - privo di intercapedine - abbiano
dato origine ad un fenomeno di condensa all’interno dell’appartamento di un condomino, sarà il
condominio a dover risarcire il danno, rimanendo “irrilevante la possibilità di rivalsa,
eventualmente preclusa per prescrizione, nei confronti del costruttore” (Cass. 21.6.93, n. 6856,
ALC, 1993, 717).
2.2.5.1.2. Caduta di neve e ghiaccio.
Con una certa frequenza si presenta, davanti alle corti, la questione della responsabilità per i danni di regola riportati dalle vetture in sosta - conseguenti alla caduta di blocchi di neve o di ghiaccio,
accumulatisi sui tetti condominiali (sul punto, Ziviz 1989, 103 s.).
Anche a questo proposito la giurisprudenza risulta tendenzialmente orientata verso l’applicabilità
dell’art. 2051 c.c. (sembrano fare eccezione, riferendosi all’art. 2043 c.c., Pret. Torino 28.11.60,
ARC, 1961, 4; Pret. Milano 10.12.79, ALC, 1980, 277).
Inoltre, si esclude che il solo fatto di aver parcheggiato la vettura in prossimità dell’edificio possa
valere ad escludere la condanna risarcitoria o ridurne l’importo (Trib. Milano 31.1.87, NGCC, 1987,
I, 356, con nota di Di Blasi; Pret. Milano 2.11.88, RCP, 1989, 146, con nota di Chiavegatti; Pret.
L’Aquila 14.6.84, GC, 1985, 1490; Pret. Bologna 30.10.68, ARC, 1970, 98), salvo che nella
situazione specifica non sussistessero ulteriori elementi, idonei a fondare un giudizio di imprudenza
nei riguardi della condotta tenuta dal danneggiato (App. Trieste 6.6.84, RGCT, 1986, 534; Pret.
Torino 14.1.88, ALC, 1988, 389; AGCSS, 1988, 627: la responsabilità del condominio che abbia
apposto visibili cartelli di avvertimento del pericolo può essere esclusa o ridotta).
Così, anche l’eccezionale abbondanza della nevicata costituisce caso fortuito solo là dove
l’incidente si sia verificato nel corso della nevicata, o in un momento immediatamente successivo
(Cass. 11.11.87, n. 8308, ALC, 1988, 388; RCP, 1988, 169, con nota di Rigolino Barberis; AGCSS,
1988, 626; DPA, 1988, 127, con nota di Antinozzi), e non già allorché tra il termine della stessa e
l’evento dannoso risulti essere trascorso un tempo sufficiente all’adozione delle misure necessarie
per la tutela dei terzi (Trib. Milano 31.1.87, NGCC, 1987, I, 356, con nota di Di Blasi; Pret.
L’Aquila 14.6.84, GC, 1985, 1490; Pret. Milano 2.11.88, RCP, 1989, 146, con nota di Chiavegatti).
2.2.5.1.3. Danni da impianti comuni.
Con riguardo al danno da impianti condominiali - ascensore, riscaldamento, ecc.- possono
concorrere la responsabilità contrattuale dell’appaltatore che si sia assunto l’obbligo della
manutenzione e quella extracontrattuale del condominio.
Con riguardo all’ascensore, si rileva in dottrina la necessità di distinguere l’ipotesi del danno
conseguente a rottura o a crollo del bene, che comporta l’applicazione dell’art. 2053 c.c. nei
confronti del proprietario (v. ad es. Cass. 5.7.50, n. 1749, RCP, 1950, 430; Trib. Napoli 30.4.69,
RGE 1969, I, 976, con nota di Salis), dall’ipotesi di guasto, da risolversi invece con l’attribuzione
della responsabilità ex art. 2051 in capo al custode (Rezzonico 1992, 387; Visco e Terzago 1972,
1049 s.).
In quest’ultimo caso, sorge il problema di identificare il custode, soprattutto in presenza
dell’obbligo legale, imposto al proprietario (art. 5, l. 24.10.42, n. 1415; art. 19. d.p.r. 29.5.63 n.
1497), di affidare la manutenzione dell’ascensore ad una ditta specializzata. Un problema al quale la
giurisprudenza più recente (da ultimo, Trib. Terni 1.2.93, RGU, 1993, 699, con nota di. Mezzasoma;
in precedenza, Trib. Napoli 30.4.69, RGE 1969, I, 976, con nota di Salis) sembra rispondere
attribuendo al condominio la qualifica di custode dell’ascensore, precisandosi altresì che, anche ove
il servizio di manutenzione figuri appaltato a ditta specializzata
il trasferimento degli obblighi inerenti alla custodia e della connessa responsabilità presunta ex art. 2051 c.c. non si
verifica quando il bene resti nel potere fisico del proprietario committente, il quale continui ad averne il governo e
l’uso.
Tale situazione è ravvisabile nel caso in cui il condominio edilizio commetta l’incarico di manutenzione
dell’ascensore ad un’impresa specializzata con obbligo, da parte di questa, di ispezionare periodicamente l'impianto
e di eseguirvi le necessarie riparazioni: infatti la permanenza del bene nella sfera di disponibilità dei proprietari - i
quali ne conservano, con carattere di continuità, l'uso ed il godimento - implica che restino a carico degli stessi
condomini anche gli oneri di custodia e di vigilanza con l'inerente responsabilità presunta
(Cass. 21.7.79, n. 4385, RCP, 1980, 81; v. anche App. Genova 16.5.50, FP, 1950, 85).
Peraltro, l’esistenza del contratto di manutenzione consentirà al condominio di rivolgersi, a sua
volta, all’appaltatore inadempiente ai propri obblighi:
le prestazioni dovute dall'impresa appaltatrice del servizio consistono in operazioni periodiche di verifica dei
macchinari, in frequenti controlli, nella tempestiva sostituzione dei pezzi dell'impianto ecc,, tutte attività peraltro
insufficienti a caratterizzare l'oggetto dell'obbligazione nel suo complesso; in vero. la successione di atti dovuti
dall'impresa appaltatrice del servizio è finalizzata a procurare il soddisfacimento del committente, offrendogli il
regolare, costante e sicuro uso dell'impianto di ascensore. Si tratta, dunque, di una prestazione continuativa e
positiva di fare, da compiere, con la diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1176 c.c. tramite l'assiduo intervento
di personale specializzato e con il compimento di tutte le attività necessarie, secondo le regole della buona tecnica;
ma si tratta, altresì, precipuamente, di un'obbligazione di risultato nel senso che l'impresa appaltatrice è vincolata,
verso il committente, a procurargli un bene finale, specifico e concreto, cioè il normale funzionamento del servizio
di ascensore, senza che gli utenti ed altri soggetti, in genere, abbiano a ricevere danni.
Quando, perciò, venga meno la prestazione in tali sensi caratterizzata per un arresto improvviso dell'impianto che
produca danno al committente (nella specie consistente nell'obbligo di risarcimento del pregiudizio subito da terzi),
si ha l'inadempimento dell'appaltatore del servizio il quale deve, di conseguenza. risponderne, a sensi dell'art, 1218
cc., salva la prova che esso fu determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile
(Cass. 21.7.79, n. 4385, RCP, 1980, 81).
In senso contrario, in relazione alla caduta di un montacarichi, era stata in precedenza dichiarata la
qualità di custode della ditta incaricata della manutenzione (App. Milano 31.1.67, FI, 1968, I, 549;
RGE, 1968, 1023) e ancor prima - con riferimento al malfunzionamento di un montacarichi, le cui
porte si erano aperte pur in assenza della cabina al livello del piano - si era sostenuto che è il
manutentore, quale “custode tecnico” dell’impianto, a dover rispondere ex art. 2051 c.c. (Trib.
Torino 23.5.57, PI, 157, 302, con nota critica di Ascoli).
Quanto all’impianto di riscaldamento, si afferma che
è fuori discussione che la custodia dell’impianto centrale di riscaldamento è, di regola, riferita alla collettività
condominiale e al suo amministratore
(Rezzonico 1992, 392).
Anche qui, similmente a quanto accade a proposito dei danni provocati dall’ascensore, può porsi il
problema relativo all’individuazione del custode: figura che può astrattamente coincidere non
soltanto con il condominio, ma altresì con il manutentore.
La cronaca giudiziaria - non molto ricca, sul punto - riporta una decisione della Corte d’Appello di
Roma (11.5.77, TR, 1978, 117) la quale, in relazione ad un incendio sviluppatosi durante le
operazioni di riempimento del serbatoio della nafta, ha dichiarato solidalmente responsabili la
società che aveva contrattualmente assunto la conduzione e la manutenzione dell’impianto (ex art.
2050 e 2051 c.c.) e il condominio - quest’ultimo per aver adibito all’esercizio del riscaldamento un
locale inadatto.
Inoltre, allorché il danno - nella specie, infiltrazioni d’acqua nell’appartamento sottostante - derivi
dalle tubazioni del riscaldamento poste a valle “del punto di diramazione degli impianti ai locali di
proprietà esclusiva dei singoli condomini” (art. 1117, n. 3, c.c.), la responsabilità graverà sul
proprietario dell’appartamento interessato dalla rottura (App. Napoli 21.5.86, ALC, 1986, 657).
Il condominio è, inoltre, responsabile per danni che derivino dalle carenze tecniche dei tratti comuni
dell’impianto fognario (App. Roma 15.2.88, TR, 1988, 62; ALC, 1989, 498; Trib. Napoli 27.6.9,
ALC, 1993, 116) e più in generale di tutti gli impianti idraulici (Trib. Milano 13.4.89, ALC, 1990,
80). In particolare, ove il danno provocato ad un inquilino dello stabile dalla rottura del canale di
scarico della fognatura del condominio possa esser fatto risalire alla negligenza di una ditta
nell’effettuare certe riparazioni, la responsabilità di quest’ultima non escluderà quella concorrente
del condominio, quale custode della cosa fonte di danno (Trib. Milano 17.4.89, ALC, 1990, 77; v.
anche Trib. Milano 16.1.89, ALC, 1991, 342).
2.2.5.2. Danni da parti e impianti di proprietà esclusiva.
Ove il danno promani dalla proprietà esclusiva, la responsabilità graverà sul titolare di questa (v.
però retro, § 2.2.5., per l’ipotesi dell’immobile locato, nonché, infra, §§ 2.2.5.3. ss., con riguardo a
lastrici solari e terrazze a livello).
Così, nel caso delle infiltrazioni subite da un appartamento a causa della mancata manutenzione del
gocciolatoio del balcone soprastante il risarcimento graverà senz’altro sul proprietario di
quest’ultimo (Cass. 23.5.81, n. 3399, RFI, 1981, Resp. civ., 123).
Sovente, poi, il problema (non sempre agevolmente risolvibile: Rezzonico 1992, 416 ss.) è quello
dell’individuazione della provenienza del danno: occorre infatti distinguere l’ipotesi in cui il guasto,
la rottura, ecc., si siano verificati a monte delle diramazioni delle tubature degli impianti (idraulici,
del riscaldamento, della fognatura) dalla parte comune a quella esclusiva, da quella in cui tali
inconvenienti si siano verificati a valle di tale punto: solo in questo secondo caso, la responsabilità
potrà essere addossata al singolo proprietario.
2.2.5.3. Lastrici solari, terrazze a livello.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la responsabilità per cose in custodia sorge senz’altro, a
carico del condominio, per i danni che derivino dal lastrico solare - cioè dal tetto o dalla parte di
esso, piano e non coperto da tegole - secondo dinamiche diverse dalla rovina dello stesso. E’
pacifico, infatti, che
i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale, sono, a norma dell’art. 1117
c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti comuni, tra le quali il lastrico solare,
assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi
per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli art.
2051 e 2055 c.c. ove non provino, come unica causa di tali danni, il caso fortuito, e ciò a prescindere dalla
conoscenza o meno dei danni stessi (salvo regresso del condomino che abbia risarcito l’intero danno verso gli altri
condomini in ragione delle rispettive quote di proprietà)
(Cass. 25.6.90, n. 6405, RFI, 1990, Com. e cond., 83).
E la soluzione non dovrebbe mutare allorché i danni siano imputabili a difetto di costruzione, e il
danneggiato sia esso stesso un partecipante del condominio:
Con riguardo ai danni che una porzione di proprietà esclusiva, in un edificio condominiale, subisca per vizi delle
parti comuni imputabili all’originario costruttore-venditore, deve riconoscersi al titolare di detta porzione la
possibilità di esperire azione risarcitoria contro il condominio, non in forza dell’art. 1669 c.c., ma in base all’art.
2051 c.c., in relazione alla ricollegabilità di quei danni all’inosservanza da parte del condominio medesimo
dell’obbligo di provvedere, quale custode, ad eliminare le caratteristiche dannose della cosa, restando irrilevante la
possibilità di rivalsa nei confronti del costruttore, ovvero la sussistenza o meno di una concorrente azione
contrattuale ex art. 1490 segg. c.c. del condominio nei confronti del venditore
(Cass. 25.3.91, n. 3209, ALC, 1991, 543).
La norma di cui all’art. 2051 c.c. è applicabile anche in materia di condominio, perché il singolo partecipante si
pone come terzo nei confronti del gruppo della collettività condominiale che è tenuto alla custodia e alla
manutenzione delle parti e degli impianti comuni dell’edificio; il singolo può, quindi, agire contro il gruppo per il
risarcimento dei danni sofferti per il cattivo funzionamento di un impianto comune o per i difetti di parti comuni
dell’edificio
(Trib. Milano 27.5.93, ALC, 1994, 613).
Correlativamente, non v’è dubbio che, allorché il danno figuri originato da una parte in proprietà
esclusiva - com’è ad esempio un balcone - sarà il titolare della stessa a figurare suo custode, e a
rispondere nei confronti delle proprietà contigue (v., ad es., Cass. 23.5.81, n. 3399, RFI, 1981, Resp.
civ., 123: nella specie, il danno all’appartamento sottostante era attribuibile alla mancata
manutenzione dello sgocciolatoio per lo smaltimento delle acque provenienti dal piano di calpestio
del balcone).
La situazione si complica allorché - come sovente accade - l’uso e/o la proprietà del lastrico solare
(che pur continua a svolgere la propria funzione di copertura dello stabile condominiale) spettino in
via esclusiva solo ad uno o più condomini, oppure ad un terzo: è l’ipotesi contemplata nell’art. 1126
c.c., allo scopo di distribuire le spese di riparazione o ricostruzione. Si pone allora non soltanto il
problema di chi debba essere considerato “custode” del lastrico solare, ai fini dell’attribuzione della
responsabilità ex art. 2051 c.c., ma altresì quello dell’individuazione del criterio in base al quale il
carico risarcitorio andrà distribuito fra i soggetti ritenuti responsabili.
E occorre dire da subito che, su questi punti, la giurisprudenza non appare concorde.
Secondo un primo filone:
Il lastrico solare, anche se attribuito in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di uno dei condomini, svolge funzione
di copertura del fabbricato e perciò l’obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, sempre che non
derivi da fatto imputabile soltanto a detto condomino, grava su tutti i condomini, con ripartizione delle relative spese
secondo i criteri di cui all’art. 1126, c.c.; di conseguenza il condominio risponde, quale custode ex art. 2051, c.c., dei
danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione del lastrico solare, non rilevando
a tal fine che i necessari interventi riparatori o ricostruttivi non consistano in un mero ripristino delle strutture
preesistenti, ma esigano una specifica modifica od integrazione in conseguenza di vizi o carenze costruttive
originarie, salva in questo caso l’azione di rivalsa nei confronti del costruttore-venditore
(Cass. 29.10.92, n. 11774, ALC, 1993, 292; RaEquoC, 1993, 201, con nota di de Tilla; nello stesso senso, Cass.
17.5.94, n. 4816, RaLC, 1995, 161).
Si precisa, talvolta, che l’obbligazione del condominio e del proprietario del lastrico solare nei
confronti del condomino danneggiato non avrebbe natura solidale, stante la necessità di sottrarre dal
risarcimento dovuto la quota che lo stesso danneggiato sarebbe tenuto a pagare come partecipante al
condominio (Cass. 14.2.87, n. 1618, ALC, 1987, 294; GI, 1989, I, 1, 572, con nota di critica di
Vincenti; la condanna pro quota dei convenuti è dichiarata anche da Trib. Roma 6.6.90, ALC, 1991,
137).
Inoltre, il proprietario del lastrico solare - in quanto tale tenuto a risarcire una quota pari ad un terzo
del danno - che figuri altresì proprietario di una delle unità immobiliari sottostanti, sarà tenuto a
partecipare anche alla quota a carico del condominio, in proporzione al valore della propria unità
(Cass. 19.10.92, n. 11449, RFI, 1992, Com. e cond., 125).
I medesimi criterî risultano talvolta guidare pure la soluzione di liti aventi ad oggetto danni (in
genere, per infiltrazioni) provocati da terrazze a livello, le quali svolgono - oltre alla loro funzione
principale a vantaggio dell’appartamento del quale costituiscono pertinenza - anche quella di offrire
copertura ad una parte del fabbricato: elementi da ritenersi, salvo titolo contrario, appartenenti in via
esclusiva al proprietario dell’alloggio di cui formano strutturalmente e funzionalmente parte
integrante (Cass. 18.8.90, n. 8394, RFI, 1990, Com e cond., 32). Anche qui troviamo infatti
affermata sia la responsabilità del condominio, sia la distribuzione delle spese sulla base dell’art.
1126 c.c. (Trib. Roma 6.6.90, ALC, 1991, 137).
E lo stesso risultato - attribuzione al condominio dei due terzi del risarcimento - si raggiunge altresì
applicando, più o meno esplicitamente, l’art. 2051 c.c. anche ad ipotesi nella quali, traendo i danni
origine da un vero e proprio crollo del terrazzo a livello, si dovrebbe far luogo all’applicazione
dell’art. 2053 c.c., con conseguente responsabilità esclusiva del proprietario del manufatto (Cass.
7.12.95, n. 12606, FI, 1996, I, 103; DR, 1996, 470, con nota di Speranza 1996, 471).
2.2.5.3.1. Critiche e proposte alternative.
La soluzione sin qui descritta - che come visto mira in definitiva ad accollare in via automatica al
condominio un’ampia quota del carico risarcitorio - non si sottrae a critiche ed obiezioni; né
mancano verdetti orientati in senso ben diverso: nei quali si attribuisce cioè, la qualifica di custode
del lastrico o della terrazza, al proprietario/usuario esclusivo.
Si afferma infatti, con riguardo all’ipotesi del danno derivante da terrazza a livello di proprietà
esclusiva, con funzione di copertura dell’edificio condominiale, che
siffatta funzione assume rilevanza ai fini della ripartizione delle spese per le riparazioni o ricostruzioni del lastrico
solare, secondo i criteri indicati nell'art. 1126 c.c. che però (...) non valgono anche per la ripartizione dell'ammontare
dei danni cagionati a terzi.
L'obbligazione risarcitoria, infatti, trova la sua radice nella responsabilità aquiliana e va regolata dai relativi principi,
non già dalle norme in materia di ripartizione degli oneri condominiali.
Qualora, quindi, si verifichino danni all'appartamento sottostante la terrazza a livello di proprietà esclusiva per
infiltrazioni di acqua da questa derivanti, correttamente viene ritenuta applicabile la presunzione di cui all'art. 2051
c.c. a carico del proprietario del bene (...).
Infatti, a differenza di quanto avviene per le parti comuni dell'edificio condominiale, l'obbligo di custodia di quel
bene grava sul condomino-proprietario che ne ha la custodia in conseguenza del rapporto di fatto (con relativi poteri
di uso, gestione e godimento) che a lui fa capo e da cui nasce il dovere di vigilare onde evitare che esso produca
danni a terzi.
Né rileva, ai fini dell'anzidetta presunzione, l'esistenza - innegabile - di una limitazione al suo diritto di proprietà
derivante dalla funzione di copertura dell'edificio condominiale cui la terrazza adempie. Tale limitazione, infatti, si
concreta, essenzialmente, nel divieto di apportare modifiche al bene tali da ridurre o da compromettere quella
funzione. ma non incide sul predetto rapporto di fatto, di cui resta titolare il proprietario che, in quanto tale, riserva
esclusivamente a sé stesso l'uso ed il godimento del medesimo bene.
Da tali premesse si può trarre la duplice conclusione che, da un canto, egli non può sottrarsi all'obbligazione
risarcitoria mediante il pagamento di un terzo dell'ammontare dei danni, secondo i criteri dettati, a tutt'altro fine,
dall'art. 1126 cit. e dall'altro, che per liberarsi dalla presunzione di cui all'art. 2051 c.c. deve dare la prova del caso
fortuito, della forza maggiore o del fatto del terzo che può anche consistere nell'inerzia colpevole del condominio (o
degli organi preposti alla sua amministrazione) sempre che provi, in quest'ultimo caso, di averli tempestivamente
informati dell'esistenza dei guasti, vizi, o difetti della terrazza da cui derivò il danno, dovendo la loro responsabilità
essere inquadrata negli schemi dell'art. 2043 c.c.
(Cass. 30.5.88, n. 3696, GC, 1988, I, 2611; ALC, 1988, 710; nello stesso senso, v. Pret. Taranto 20.12.91, GM, 1992,
I, 1098, con nota di adesiva di de Tilla).
Ancor più nettamente è stato escluso, da parte di altri giudici, che il condomino proprietario della
terrazza a livello possa liberarsi dalla propria responsabilità di custode allegando “l’inerzia
colpevole del condominio, il quale nulla può riguardo a beni di esclusiva proprietà di un singolo
condomino” (Trib. Sanremo 20.11.92, GM, 1993, 318; AC, 1993, 930). E si è pure negata la
responsabilità - oltre che del condominio - del conduttore dell’appartamento dalla cui terrazza
provenivano le infiltrazioni (Pret. Napoli 18.3.89, ALC, 1990, 145).
Si tratta di una linea interpretativa applicata talvolta anche con riguardo al lastrico solare: sulla base
della considerazione che l’art. 1226 c.c. non debba operare nel caso di difetti dello stesso
indebitamente tollerati dal proprietario esclusivo, si è concluso infatti che la responsabilità ex art.
2051 c.c. doveva far carico solo a quest’ultimo, non già al condominio (Cass. 24.8.90, n. 8669, RFI,
1990, Com. e cond., 123).
L’applicabilità dell’art. 1126 c.c. al versante del risarcimento danni risulta contestata in dottrina da
chi ritiene che simili ipotesi - appartenenti all’area della responsabilità aquiliana - debbano venir
risolte attraverso le regole proprie di tale settore, e in particolare ricorrendo agli artt. 2051 c.c., in
capo al custode, 2043 c.c., con riguardo alle eventuali colpe omissive del condominio, nonché
all’art. 2055 c.c. - quest’ultimo da applicarsi sia a favore della vittima, sia al momento di distribuire
il carico risarcitorio fra i soggetti corresponsabili del danno (Speranza 1996, 474 ss.)
2.2.5.3.2. Un recente intervento delle Sez. U.
Con l’intenzione di mettere ordine in tutte le questioni di cui abbiamo appena dato conto, è
intervenuta una recentissima decisione delle Sezioni Unite della Cassazione - decisione volta a
risolvere i contrasti emersi e a giungere ad un’uniformità di indirizzo (Cass. Sez. U. 29.4.97, n.
3672, GD, 1997, n. 18, p. 17, con nota di De Paola 1997).
In tale pronuncia, la tesi di fondo è rappresentata dalla convinzione che il danno derivante dalla
mancata manutenzione del lastrico solare sia essenzialmente il frutto dell’inadempimento
dell’obbligazione gravante, propter rem, sui condomini; da ciò, la seguente affermazione:
“La specificità della normativa dettata in tema di condominio negli edifici induce a (...) ritenere che la responsabilità
si riconduce non al principio del neminem laedere, ma che derivi dall’inadempimento delle obbligazioni concernenti
la conservazione delle parti comuni”.
Scorrendo la motivazione, sembra allora possibile ricostruire il pensiero della S.C., in ordine alle
soluzioni suggerite con riguardo alle varie ipotesi tipiche di conflitto, secondo il seguente schema:
(a) il lastrico solare è di proprietà comune, e il danno da infiltrazioni è cagionato alla proprietà di
uno o più condomini, nel qual caso:
Se alle riparazioni ed alle ricostruzioni del lastrico solare sono obbligati solo i condomini, in quanto il lastrico
adempie soltanto alla funzione di copertura dell’edificio (e perciò appartiene solamente ai partecipanti al
condominio) al risarcimento dei danni cagionati all’appartamento sottostante dalle infiltrazioni d’acqua derivanti dal
lastrico per difetto di manutenzione sono tenuti i condomini, in proporzione alle quote riportate dalle tabelle
millesimali di proprietà.
(b) Stesso tipo di danno, ma lastrico di proprietà o di uso esclusivi:
Se invece alla riparazione ed alle ricostruzioni sono tenuti, oltre ai condomini, anche il titolare della proprietà
superficiaria o dell’uso esclusivi, perché il lastrico, oltre alla funzione di copertura, al proprietario superficiario o al
titolare dell’uso esclusivo offre concretamente altre utilità, dei danni rispondono, in concorso tra loro, tutti gli
obbligati inadempienti (condomini, proprietario superficiario, usuario esclusivo), secondo le proporzioni stabilite
dall’art. 1126 c.c. Vale a dire, i condomini, ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi; il
titolare della proprietà o dell’uso esclusivi, in ragine del terzo residuo.
(c) Danno che riguarda “la lesione di un diritto soggettivo dei condomini estraneo ai rapporti di
condominio (per esempio, del diritto all’integrità fisica o alla salute del proprietario del piano
sottostante), ovvero dalla lesione di un diritto dei terzi, i quali con l’edificio in qualche modo
entrano in relazione”:
Per la giurisprudenza dominante, la responsabilità si fonda sul disposto dell’art. 2051 cod. civ. (...). L’opinione deve
essere condivisa.
Entrambi gli elementi [di cui si compone la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c.] si rinvengono in ordine alla
fattispecie dei danni cagionati dalle infiltrazioni d’acqua, provenienti dal lastrico solare, a un diritto dei condomini
estraneo ai rapporti di condominio o a un diritto dei terzi, posto che si riscontra tanto il requisito oggettivo
dell’insorgenza nella cosa, di per sé atta a nuocere, di un processo dannoso provocato da elementi esterni, quanto
quello soggettivo della relazione tra il soggetto e la cosa, cui inerisce il rischio da custodia.
In questo caso, per quanto attiene alla imputazione , alla suddivisione ed alla valutazione del danno, valgono le
regole stabilite in tema di responsabilità extracontrattuale (artt. 2055, 2056, 1223, 1226 e 1227 cod. civ.)
(Cass. Sez. U. 29.4.97, n. 3672, GD, 1997, n. 18, p. 17, con nota di De Paola 1997).
Va rilevato come queste ultime affermazioni - e in particolare il riferimento all’art. 2055 c.c., e non
già all’art. 1226 c.c. - sembrerebbero il segno di un’adesione della S.C. alla tesi favorevole a
ripartire il danno, derivante dal lastrico solare, sulla base dei criter tipici della responsabilità
extracontrattuale (colpa, causalità) piuttosto che in misura calibrata sui millesimi di proprietà;
tuttavia, la stringatezza del riferimento, e la consapevolezza della stessa corte circa la natura di
obiter dictum di queste ultime affermazioni non consentono alcuna certezza in merito (opinione
diversa è manifestata dall’estensore della nota, il quale indica uniformemente il criterio di cui
all’art. 1226 c.c., quale misura del riparto del risarcimento fra i corresponsabili: De Paola 1997, 23).
2.2.5.4. La propagazione dell’incendio.
Un’ulteriore ipotesi di applicabilità dell’art. 2051 c.c. - all’interno dei rapporti condominiali - è
quella dell’incendio che, sprigionatosi nella cosa sottoposta a custodia, si propaghi danneggiando i
beni altrui (sul punto, Rezzonico 1992, 395 ss.; Ziviz 1989, 102 s.).
Occorre dire che nel passato alcuni giudici di merito si sono espressi negativamente circa
l’applicabilità della norma in questione all’ipotesi della propagazione dell’incendio, quando questo
non risulti attribuibile alla particolare infiammabilità della cosa: caratteristica che sola renderebbe
ragionevole l’applicazione della presunzione di colpa in capo al suo custode (App. Bologna 1.7.52,
FP, 1952, I, 1064 con nota adesiva di Peretti Griva; con data 1.8.52, FI, 1953, I, 96), e che si è
ritenuta assente, ad esempio, con riguardo ad una casa di abitazione ed ai mobili che essa contiene
(App. Napoli 23.8.51, FI, 1952, I, 781).
La posizione contraria appare, invece, sostenuta - già in quegli anni - non solo da altre corti di
merito (App. Torino 5.3.54, RCP, 1955, 180, con nota di Gentile; Trib. Cuneo 26.9.52, FI, 1953, I,
96), ma anche dalla S.C. (Cass. 10.6.61, n. 1343, RFI, 1961, Resp. civ., 175; Cass. 21.5.54, n. 1629,
RCP, 1955, 46; Cass. 7.8.54, n. 2897, RCP, 1955, 180, con nota di Gentile, che disapprova
l’interpretazione della Corte d’Appello di Bologna, sopracitata, pur confermandone, su diverse basi,
l’esito assolutorio), con affermazioni del tenore di quella che segue:
Il testo dell’art. 2051 cod. civ. non contenendo distinzioni ed eccezioni, non consente di sottrarre alla sua disciplina
il caso di danno cagionato dall’incendio sviluppatosi nelle cose tenute in custodia, né autorizza a distinguere tra
immobili e cose mobili, né infine, tra cose pericolose, nocive, infiammabili, e cose che tali non siano
(Cass. 22.3.55, n. 849, RCP, 1956, 43).
Da qui, anche più recentemente, l’affermazione per cui
nel caso di incendio sviluppatosi in un appartamento, il proprietario è civilmente responsabile dei danni subiti da
terzi se non dimostri che l’incendio sia dipeso da una causa autonoma non imputabile al possessore, integrante il
caso fortuito, la forza maggiore, il fatto illecito del terzo o altra causa imputabile allo stesso danneggiato
(Trib. Palermo 17.11.90, TS, 1991, 50).
In particolare si è precisato che, ove danneggiato risulti essere il locatario di un immobile, e
l’incendio risulti aver avuto origine in un locale attiguo, nella disponibilità del locatore, l’esistenza
del rapporto contrattuale non varrà a esimere quest’ultimo dall’obbligo generale del neminem
laedere, né a mutare la natura della responsabilità incombente sul custode: responsabilità che resta
extracontrattuale (Cass. 28.3.72, n. 991, RCP, 1972, 572).
Nel caso, poi, in cui l’alloggio dal quale sia partito l’incendio figuri essere condotto in locazione,
entrano in gioco gli artt. 1588 c.c., che attribuisce al conduttore - salva la prova dell’esistenza di una
causa a lui non imputabile - la responsabilità per la perdita o il deterioramento della cosa, anche
dovute ad incendio, nonché l’art. 1611 c.c., che, oltre a rendere corresponsabili verso il locatore tutti
gli inquilini, nel caso di incendio consente (2° co.) agli stessi di liberarsi dimostrando da quale
alloggio abbia avuto inizio l’incendio, oppure provando l’impossibilità che questo abbia avuto
origine nella propria abitazione (Cass. 5.4.95, n. 3999, ALC, 1995, 580; Cass. 14.6.94, n. 5775,
ALC, 1994, 760; Cass. 13.11.89, n. 794, RFI, 1989, Locazione, 390; Cass. 6.6.83, n. 3874, RFI,
1983, Locazione, 234; Cass. 6.4.83, n. 2418, RFI, 1983, Locazione, 237; Cass. 21.12.82, n. 7059,
RFI, 1982, Locazione, 205; App. Bologna 29.4.80, ALC,1981, 424).
Si tratta di norme la cui ratio viene riconosciuta identica a quella che sostiene l’art. 2051 c.c.,
dimodoché:
(a) in caso di alloggio in locazione, è il conduttore ad assumere la veste di custode dello stesso (per
un caso in cui è stata affermata la responsabilità di un subconduttore di un garage, nel quale erano
stati collocati materiali infiammabili, v. Cass. 16.5.60, n. 1200, RCP, 1960, 577; GI, 1961, I, 1,
320);
(b) ove il conduttore non sia riuscito a fornire la prova liberatoria, sarà responsabile
contrattualmente (artt. 1588 e 1611 c.c.) nei confronti del locatore, ed extracontrattualmente (ex art.
2051 c.c.) verso i terzi danneggiati (Cass. 28.5.92, n. 6443, GC, 1993, 1915, con nota di de Tilla;
Cass. 12.11.81, n. 5989, RFI, 1981, Resp. civ., 122; Cass. 15.10.55, n. 3203, RCP, 1956, 535; Trib.
Napoli 30.6.77, FN, 1977, 240).
Di interesse nel campo del condominio è anche l’ipotesi dell’incendio sviluppatosi in
un’autovettura, in vista della possibilità che questa si trovi all’interno dell’immobile - cortile,
garage - e che le fiamme danneggino le strutture comuni o le vetture di altri condomini e inquilini.
A questo proposito, si è affermato:
(a) che il custode del veicolo (proprietario, utilizzatore in leasing, ecc.) risponde ex 2051 c.c. dei
danni derivanti dall’incendio propagatosi dalla vettura (Trib. Taranto 11.6.93, FI, 1994, I, 3262);
(b) che tale responsabilità verrà esclusa allorché l’incendio risulti esser stato dolosamente appiccato
da parte di un terzo (Trib. Bari 5.12.88, AGCSS, 1989, 327; RGCT, 1989, 605, che conferma Pret.
Bari 14.5.87, AGCSS, 1987, 799);
(c) che l’addebitabilità dell’incendio a fatto del terzo deve essere dimostrata in maniera positiva,
rimanendo a carico del custode ogni incertezza circa le cause dell’evento (Cass. 15.2.82, n. 365,
RCP, 1982, 746, con nota di Monateri).
2.2.5.5. Il furto negli appartamenti.
La regola contenuta nell’art. 2051 c.c. risulta essere stata invocata pure a proposito dell’ipotesi del
furto commesso in appartamenti, magazzini, negozi, che risulti essere stato agevolato dalla presenza
di impalcature erette in aderenza allo stabile, oppure dalla carente sorveglianza esercitata su unità
immobiliari contigue.
Sebbene non sia mancata qualche pronuncia orientata nel senso di non escludere l’applicabilità
della norma in questione anche a simili fattispecie (v. Cass. 9.2.80, n. 913, GI, 1981, I, 1, 587; RCP,
1980, 509; FP, 1982, I, 257, con nota di Bessone: si ipotizza la responsabilità del condominio,
quale custode di un ponteggio eretto per effettuare certi lavori; App. Roma 28.3.72, ND, 1972, 584,
con nota di Zaccagnini; GC, 1972, I, 941, con nota di Geri), l’indirizzo prevalente tende a
respingere sia le domande fondate sull’art. 2051 c.c., sia quelle invocanti l’art. 2050 c.c. (Cass.
6.4.82, n. 2134, RCP, 1982, 745, con nota di Monateri; Cass. 28.8.78, n. 3994, DPA, 1979, 558;
Cass. 10.6.68, n. 1836, GI, 1969, I, 1, 907; RCP, 1969, 62, con nota di G.G.; Cass. 21.10.76, n.
3722, GI, 1977, I, 1, 223; AC, 1977, 296; FI, 1977, I, 1511; Trib. Milano 11.12.74, RCP, 1975, 278;
Trib. Roma 25.5.71, ND, 1972, 584, con nota di Zaccagnini; GC, 1972, I, 941, con nota di Geri;
Trib. Roma 24.2.71, TR, 1971, 548).
Si è affermata invece, in alcune occasioni, la responsabilità ex art. 2043 c.c. di chi aveva eretto le
impalcature ed aveva poi omesso di adottare quelle elementari misure preventive che le norme di
prudenza, diligenza e perizia impongono - misure peraltro espressamente richieste
dall’amministratore del condominio, anche a seguito di un precedente furto (Cass. 3.5.91, n. 5840,
RFI, 1991, Resp. civ., 57; Cass. 24.1.79, n. 539, RCP, 1979, 494; Trib. Milano 28.1.93, FP, 1993, I,
209; App. Milano 19.2.85, AC, 1985, 989; Trib. Firenze 4.6.81, GM, 1982, 271; RCP, 1982, 442; v.
anche Cass. 14.6.82, n. 3621, RFI, 1982, Resp. civ., 66).
2.2.6. La rovina di edificio
Il condominio si configura, per sua stessa natura, come luogo elettivo della responsabilità per rovina
di edificio (art. 2053 c.c.) (in generale, v. Franzoni 1993, 622; Bussani 1988, 583 SS.; Speciale
1985, 135 ss.; Geri 1974, 263 ss.; con particolare riguardo agli ambiti condominiali, v. Rezzonico
1992, 426 ss.).
E’ pacifico, in dottrina come in giurisprudenza, quale sia il rapporto che intercorre tra la regola
dettata in questo articolo, e quella contenuta nell’art. 2051 c.c.:
L’articolo [2053 c.c.] (...) si colloca tra le norme che disciplinano la responsabilità per danno da cose. È in rapporto
di specialità con l’art. 2051, giacché si riferisce solo ai danni cagionati dalla rovina di beni immobili e delle loro
pertinenze ed accessori: il sinistro deve essere occasionato da un crollo dell’edificio, ossia da un elemento
potenzialmente dannoso connaturato alla costruzione. La specialità di questa norma si desume altresì dal fatto che,
se mancasse, si applicherebbe quella in tema di danno da cose in custodia o, in alternativa, l’art. 2043
(Franzoni 1993, 622 s.; negli stessi termini, Bussani 1988, 587; Salvi 1988, 1229 s.; Speciale 1985, 136; Geri 1974,
268).
In buona sostanza, l'art. 2053 costituisce una ipotesi di specie rispetto all'art. 2051 e di questa condivide la natura
oggettiva della responsabilità ed il limite del fortuito
(Cass. Sez. U. 11.11.91, n. 12019, GC, 1992, I, 41; NGCC, 1992, I, 81, con nota di Alpa; CorG, 1992, 180, con nota
di Alpa; ALC, 1992, 43; GI, 1992, I, 1, 2218, con nota di Corradi; FI, 1993, I, 922; v. anche Cass. 10.2.94, n. 1364,
RFI, 1994, Resp. civ., 128).
Si tratta di un rapporto che esplica i propri effetti con riguardo sia all’individuazione del soggetto o dei soggetti - sui quali far gravare il carico risarcitorio, sia al tipo di eventi ai quali figura
subordinato il sorgere stesso delle responsabilità.
Né mancano le ricadute sotto il profilo processuale: è stata, infatti, ritenuta improponibile in
appello, in quanto domanda nuova, la richiesta del conduttore il quale - avendo subito danni a
seguito di un incendio sviluppatosi nei locali sovrastanti quelli da lui detenuti ed appartenenti al
medesimo proprietario - aveva dapprima agito verso quest’ultimo sostenendone la responsabilità
contrattuale (ex art. 1575 c.c.) ed extracontrattuale (ex artt. 2043 e 2051), per invocare
successivamente l’art. 2053, adducendo quale causa dell'incendio il crollo parziale dell'edificio
(Cass. 27.7.90, n. 7565, RFI, 1990, App. civ., 16).
2.2.6.1. I soggetti responsabili. Il “proprietario”.
L’art. 2053 c.c. individua il soggetto responsabile per la rovina dell’edificio nel proprietario:
Va rilevato che nell'art. 2053 l'imputazione sorge in base non ad una relazione di fatto con la cosa, come la custodia
di cui all'art. 2051, ma di diritto, in base al testo normativo. Per l'art. 2053 responsabile è il proprietario al tempo
della rovina (anche parziale)
(Cass. Sez. U. 11.11.91, n. 12019, GC, 1992, I, 41; NGCC, 1992, I, 81, con nota di Alpa; CorG, 1992, 180, con nota
di Alpa; ALC, 1992, 43; GI, 1992, I, 1, 2218, con nota di Corradi; FI, 1993, I, 922; v. anche Cass. 10.2.94, n. 1364,
RFI, 1994, Resp. civ., 128).
In altri termini,
nella norma in commento, il criterio di imputazione è dato dalla sussistenza di una situazione di diritto che
determina l’appartenenza dell’edificio ad un soggetto: la proprietà, in contrapposizione ad una situazione di fatto
sulla base della quale si individua la custodia nell’art. 2051 c.c.
(Franzoni 1993, 624; Salvi 1988, 1230; in senso contrario Geri 1974, 268, il quale ritiene entrambe le norme
ancorate al concetto di custodia).
Quanto poi alla precisazione che responsabile debba venir considerato chi risulti essere proprietario
al momento della rovina, si rileva che
il criterio appena enunciato trae origine da un principio generale in materia extracontrattuale, per cui l'obbligo di
riparare il danno sorge nel momento in cui se ne verifica il fatto generatore: nel caso della responsabilità di cui
all'art. 2053 cod. civ., dato che la parte obbligata è, in via generale, il proprietario della costruzione, tale proprietario
è quello che risulta esserlo al momento del crollo o della rovina
(Speciale 1985, 144).
Quella gravante sul proprietario non configura cioè un’obbligazione propter rem: responsabile - si
afferma pacificamente - è il soggetto che risulta titolare al momento del sinistro, mentre rimane
ininfluente qualsiasi vicenda traslativa che abbia avuto luogo prima o dopo di tale momento (Cass.
7.8.62, n. 2436, RCP, 1963, 149; Cass. 24.1.57, n. 226, ARC, 1958, 329; Franzoni 1993, 625 s.;
Rezzonico 1992, 431, 448; Bussani 1988, 594; Geri 1974, 266 ss.; in precedenza, Mazza 1951, 69).
I proprietari anteriori - si precisa - possono eventualmente venir chiamati a rispondere di una loro
colpa, ex art. 2043 (Rezzonico 1992, 448).
Così,
La responsabilità per rovina di edificio grava sul proprietario del medesimo, anche se questo abbia precedentemente
concluso un contratto preliminare di compravendita ed abbia inoltre eseguito la consegna dell’immobile al
promissario
(Cass. 3.3.65, n. 360, FI, 1965, I, 1249).
Lo stesso vale per chi sia stato espropriato dell’immobile prima del crollo (Cass. 11.8.55, n. 2533,
RCP, 1956, 358).
2.2.6.2. L’usufruttuario, l’acquirente con patto di riservato dominio.
Benché la norma, a differenza dell’art. 2054 c.c., non menzioni soggetti diversi dal proprietario,
occorre ugualmente affrontare la posizione di quanti, in virtù di un diritto di usufrutto, o per effetto
di un particolare assetto contrattuale, si trovino ad esercitare un controllo più o meno intenso ed
esclusivo sull’edificio.
Quanto all’acquirente con patto di riservato dominio la questione si ritiene risolvibile in senso
positivo attraverso il richiamo al testo dell’art. 1523 c.c., che attribuisce all’acquirente i rischi
derivanti dalla cosa sin dal momento della consegna (Franzoni 1993, 625; Geri 1874, 294). In
giurisprudenza - con riferimento però ad una fattispecie risolta tramite l’art. 2051 c.c. - si sostenuto
che
si deve ritenere che le norme le quali si riferiscono espressamente al proprietario (art. 2052-2053) sono estensibili
anche al compratore con patto di riservato dominio
(Pret. Celano 28.12.88, GC, 1989, I, 1246: nella specie è stata poi equiparata alla posizione dell’acquirente con
riserva di proprietà quella dell’assegnatario di alloggio popolare il cui acquisto sia subordinato al pagamento del
prezzo).
Dubbi si sollevano con riguardo alla posizione del titolare di usufrutto (per una ricostruzione del
dibattito, v. Bussani 1988, 597 ss.). La giurisprudenza appare tendenzialmente favorevole ad
affermare la corresponsabilità, tra quest’ultimo e il proprietario, e ciò talvolta dichiarando entrambi
sottoposti all’art. 2053 c.c. (Cass. 7.5.57, n. 1533, FI, 1958, I, 1310, con nota di Branca; RCP, 1958,
434; con data 7.12.56 - senza numero - T, 1957, 471, con nota di Pugliese; Cass. Sez. U. 21.9.70, n.
1638, RCP, 1971, 327, diritto d’uso), altre volte ritenendo che l’usufruttuario possa eventualmente
venir chiamato a rispondere ex art. 2043 c.c., e cioè per effetto della dimostrazione di un suo uso
anormale della cosa (Trib. Napoli 14.11.66, DG, 1967, 224).
In senso favorevole alla possibilità per il danneggiato di agire nei riguardi di entrambi i soggetti si
schiera anche parte della dottrina. In particolare, v’è chi ritiene che l’applicabilità dell’art. 2053 c.c.
debba essere dichiarata lasciando aperta la possibilità, al nudo proprietario, di dimostrare
l’addebitabilità della rovina alla omissione delle riparazioni ordinarie che sono poste a carico
dell’usufruttuario (Pugliese 1957, 475); altri sottolineano come la via della corresponsabilità
rappresenti
la soluzione più coerente con la logica della responsabilità aquiliana che favorisce il risarcimento mediante la
previsione della solidarietà tra coobbligati con un chiaro scopo di garanzia. Entrambi i soggetti, seppure per ragioni
diverse, traggono profitto dal medesimo bene, ed anche per questo è legittimo imputare congiuntamente il danno,
evitando interpretazioni formalistiche che risulterebbero in contrasto con la stessa finalità della responsabilità
oggettiva. Così, ad esempio, si deve ritenere che in caso di usufrutto, uso, abitazione ecc., il proprietario sia sempre
chiamato a rispondere secondo la speciale responsabilità in esame, in solido con l'usufruttuario, l'usuario, l'abitante
ecc. che risponderanno quali custodi della cosa
(Franzoni 1993, 627 s.; nello stesso senso, Speciale 1985, 146; Bessone 1982, 49)
E la diversità del trattamento che viene in tal modo a determinarsi, rispetto a quanto accade con
l’art. 2054 c.c., ove per i danni da circolazione di veicoli i soggetti - proprietario, usufruttuario,
acquirente con patto di riservato dominio, ed ora utilizzatore in leasing - figurano chiamati
alternativamente o disgiuntivamente, risulta così razionalizzata
assumendo la diversità dei soggetti passivi indicati nelle due formule un proprio particolare significato, vien fatto di
coglierne la ratio nel diverso fondamento della rispettiva responsabilità. Ambedue hanno come presupposto
l’esistenza di un diritto reale, ma laddove il criterio di imputazione dell’una, quella di cui all’art. 2053, va ricercato
nella titolarità del potere-dovere di vigilanza sulla cosa, spettante ad un tempo al proprietario ed all’usufruttuario,
nell’altra, quella di cui all’art. 2054 ult. comma, va invece ricercato anche nel godimento attuale esercitato sul
veicolo mediante la sua effettiva circolazione
(Geri 1974, 271).
Occorre dire però che - sul punto - la dottrina non è unanime; altre opinioni infatti oscillano tra il
considerare l’usufruttuario unico responsabile - negandogli altresì il diritto di rivalsa verso il
proprietario, pur quando la rovina sia dipesa da vizio di costruzione (Branca 1958, 1311 ss.), e chi
invece nega la correttezza di ogni interpretazione estensiva della norma (Gabrielli 1984, 279 ss.;
Pogliani 1969, 178).
2.2.6.3. Il possessore.
Ci si è chiesti - da parte di qualche autore - come debba venir affrontato il caso in cui il possesso
dell’immobile figuri essere esercitato da un soggetto diverso dal titolare (sul punto, v. Rezzonico
1992, 449). Queste le considerazioni sulle quali si è imbastita la risposta:
Egli [possessore] non è titolare del potere di governo sulla cosa e non può essere chiamato a rispondere né ai sensi
dell’art. 2053, e tanto meno ai sensi dell’art. 2051, non soltanto perché l’esercizio di fatto di tale potere può essergli
tolto in qualsiasi momento dal vero titolare, e l’art. 2053 non consente deroghe al di fuori di coloro che abbiano un
diritto reale sulla cosa, ma perché l’art. 2051 non si trova nel proprio naturale campo di applicazione, quando si tratti
di rovina, essendo questa prevista da una specifica disposizione dei legge, che prevale su quella generale
(Geri 1974, 296 s.).
Così:
L’art. 2053, in tema di rovina di edificio, sembra rinnegare il criterio della fattualità, e adeguarsi all’idea della
responsabilità del proprietario. Ma la logica esige che alla responsabilità oggettiva del proprietario si affianchi una
responsabilità del possessore o del debitore per negligenza, se scopre o deve scoprire il vizio dell’opera e non
provvede o non avverte il proprietario, e, si può credere, almeno a proposito del possessore, se non provvede alla
manutenzione. La responsabilità nascerà innanzi tutto nei confronti del proprietario, che l’incuria del possessore ha
esposto a responsabilità verso i terzi, e nascerà ugualmente verso i terzi sulla base dei principii comuni per cui chi ha
omesso l’adempimento di un‘obbligazione che incombe su di lui si considera responsabile degli eventi che ne
conseguono, come se li avesse positivamente provocati
(Sacco 1988, 369).
Con la regola speciale risponderà perciò, verso il terzo, il proprietario, salva la possibilità di
rivalersi sul possessore abusivo ove il primo riesca a dimostrare la connessione fra la rovina stessa e
la condotta colpevole del secondo.
Sul punto, la giurisprudenza si è pronunciata, sostenendo la coincidenza della posizione
dell’occupante senza titolo - il quale non abbia posto in essere atti di interdizione della sorveglianza
delle condizioni dell’immobile da parte del proprietario - con quella del locatario: entrambi sollevati
dalla responsabilità ex art. 2053, ma tenuti a rispondere per propria colpa (Cass. 6.6.73, n. 1632, GI,
1974, I, 1, 962; ARC, 1974, 306; DF, 1974, II, 466).
2.2.6.4. Il leasing immobiliare.
La dottrina si è interrogata sulla posizione dell’utilizzatore in leasing. Si rileva infatti che:
La soluzione può trarsi dalla ratio che si attribuisce all’art. 2053 c.c. Se la ratio è vista nella pericolosità del bene,
pare logico sottrarre il concedente alla responsabilità ex art. 2053; se invece la ratio è vista nella garanzia che la
proprietà immobiliare offre ai danneggiati è logica la soluzione opposta
(De Nova 1995, 83).
Ed è quest’ultima via - quella della responsabilità esclusiva del proprietario/concedente - ad essere
scelta da chi ritiene di doversi attenere alla lettera della norma, ed attribuire perciò in via esclusiva
la responsabilità ex art. 2053 c.c. alla società proprietaria (Gabrielli 1984, 282 ss.).
Naturalmente, resta sempre la possibilità di far luogo anche in questo caso ad una corresponsabilità,
a titolo diverso, di entrambi i soggetti (Franzoni 1993, 628).
E vi è, infine, chi chiude i discorsi relativi alle diverse figure passate in rassegna con le seguenti
parole:
Ora, che anche l’usufruttuario od il compratore con riserva - e, con quest’ultimo, l’utilizzatore in cosiddetto leasing
immobiliare - debbano rispondere dei danni provocati da una propria negligenza, sembra possibile ammettere, (...) in
applicazione della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. Ma di una responsabilità oggettiva dell’usufruttuario o del
compratore di riserva - e con lui dell’utilizzatore in cosiddetto leasing immobiliare - non sembra il caso di parlare
(Gabrielli 1984, 284).
2.2.6.5. Immobile locato.
Ulteriore conseguenza dell’individuazione del proprietario quale soggetto della responsabilità ex
art. 2053 c.c. consiste nel fatto che, ogniqualvolta il danno possa essere attribuito ad un evento
descrivibile come rovina, l’esistenza di un contratto di locazione non varrà - come può accadere
allorché criterio di imputazione figuri essere la custodia - a sollevare dalla responsabilità il
proprietario-locatore:
In caso di danni provocati a terzi a causa di difetti strutturali dell'edificio o di carenze di elementi accessori in esso
stabilmente incorporati dal proprietario, la responsabilità di questi non viene meno per effetto della locazione ad altri
dell'edificio con i suoi accessori, poiché il contratto di locazione non esclude la responsabilità ex art. 2053 c.c. ed il
dovere di vigilanza sull'efficienza dell'edificio e dei suoi impianti ex art. 2051 c.c.
(Cass. 17.10.89, n. 4155, RFI, 1989, Resp. civ., 153; v. anche Cass. 29.1.81, n. 693, RCP, 1981, 700; AC, 1981, 504;
GI, 1981, I, 1, 885; RDCo, 1982, II, 47 con nota di Bessone).
Tuttavia, occorre considerare l’eventualità che: a) il conduttore abbia trascurato di avvertire il
locatore circa la necessità di provvedere ad effettuare riparazioni eccedenti la piccola manutenzione
(obbligo impostogli dall’art. 1577); b) il conduttore abbia determinano egli stesso, con un
comportamento positivo, il crollo; c) il danno sia stato provocato da parti accessorie, per le quali si
esclude l’operatività dell’art. 2053 c.c.
Quanto alla prima ipotesi - violazione dell’art. 1577 c.c. - si confrontano tra loro le posizioni di chi
ritiene che simile scorrettezza esplichi i propri effetti sul solo piano interno, consentendo cioè il
regresso al proprietario, al quale tocca comunque di risarcire il terzo (in tal senso, Speciale 1985,
142; Geri 1974, 286; Cass. 29.1.81, n. 693, RCP, 1981, 700; AC, 1981, 504; GI, 1981, I, 1, 885;
RDCo, 1982, II, 47 con nota di Bessone; Trib. Roma 30.11.67, GI, 1968, I, 2, 436), e di chi
preferisce attribuire a tale condotta anche un riflesso all’esterno, dando cioè la possibilità al
danneggiato di agire pure contro il conduttore alla luce dell’art. 2051 c.c., o almeno ex art. 2043 c.c.
(Cass. 3.12.85, n. 6044, RFI, 1985, Resp. civ., 153; Cass. 17.11.84, n. 5868, FI, 1985, I, 123; RCP,
1985, 248; ALC, 1985, 823; Cass. 3.8.79, n. 4384, RFI, 1979, Resp. Civ., 161; Cass. 6.6.73, n. 1632,
GI, 1974, I, 1, 962; Cass. 10.3.66, n. 682, RGE, 1966, I, 1037, con nota di Vela; App. Firenze
13.11.67, ARC, 1968, 182; App. Genova 2.12.54, ARC, 1959, 641; Trib. Verona 28.3.73, GI, 1974,
I, 2, 415; sul punto: Franzoni 1993, 627; Bussani 1988, 600 ss.).
Nel secondo caso invece - ove il conduttore risulti aver fattivamente contribuito a determinare la
rovina - non sembra dubbio che simile comportamento sia tale da configurare una sua responsabilità
ex art. 2043 c.c. (v. Rezzonico 1990, 134; Geri 1974, 287).
Una sintesi della regola operativa fatta propria dalla giurisprudenza più recente è fornita dalla
massima che segue:
La responsabilità per rovina di edificio, ai sensi dell'art. 2053 c.c., realizza una ipotesi particolare di danni da cose in
custodia e grava sul proprietario dell'edificio stesso, con la conseguenza che per il principio di specialità il suo
configurarsi impedisce l'applicazione dell'art. 2051 c.c. e, quindi, il concretarsi della responsabilità del custode,
salvo il caso di concorso fattivo di quest'ultimo nella determinazione della rovina dell'edificio e, comunque, il
regresso ex art. 2055 c.c. spettante al proprietario per la violazione del dovere di vigilanza disposto dal cit. art. 2051
(Cass. 16.3.87, n. 2692, RFI, 1987, Resp. civ., 142; v. anche Trib. Roma 19.9.84, RGCT, 1985, 78).
Con riguardo alla terza eventualità, sarà il conduttore a confrontarsi con il danneggiato
ogniqualvolta la fonte della lesione sia rappresentata da un elemento estraneo alla pur ampia
nozione di edificio accolta dalla giurisprudenza. E’ il caso della tubatura di uno scaldabagno, che
costituisce “una pertinenza organicamente distinta” dall’edificio (Cass. 16.2.87, n. 188, ND, 1988,
555, con nota di Caianiello), oppure delle mattonelle di modesto costo, distaccatesi dalle pareti
dell’immobile locato (Cass. 11.7.95, n. 7578, RFI, 1995, Resp. civ., 183).
Questioni diverse sono destinate a sorgere con riguardo all’ipotesi di addizioni effettuate dal
conduttore, ai sensi degli artt. 1593 e 1592 c.c.
Esclusa pacificamente la responsabilità del proprietario dell’immobile, il quale acquisterà eventualmente - il diritto sull’addizione solo a fine locazione, si tratta di individuare quale sia la
regola sulla quale fondare la responsabilità del conduttore. A questo proposito, all’orientamento
giurisprudenziale che ha dichiarato applicabile al conduttore il solo art. 2043 c.c. (Cass. 28.10.58, n.
3529, ARC, 1959, 108) si è obiettato, in dottrina, che in situazioni del genere la norma cui fare
riferimento debba essere invece l’art. 2053 c.c.:
se legittimato passivo deve essere ritenuto il conduttore, al quale appartiene l’addizione, non si comprende perché
egli stesso non dovrebbe essere investito della presunzione contemplata in detta norma, quando l’addizione possa
farsi rientrare nella nozione di edificio od altra costruzione
(Geri 1974, 295).
Una volta dichiarata la responsabilità del conduttore, sarebbe, cioè
stato meglio fare un passo avanti e dichiarare l’applicabilità dell’art. 2053 c.c. e della presunzione ivi contemplata,
al conduttore cui appartengono le addizioni
(Visintini 1967, 481).
Non va, poi, trascurato il fatto che - stando all’interpretazione oggi prevalente - il conduttore stesso
compaia fra il soggetti attivamente legittimati ad esercitare l’azione in questione (Franzoni 1993,
626 s.; Rezzonico 1992, 468; Della Croce 1991, 138 s.; Bussani 1988, 602; Geri 1974, 288; Cass.
9.1.79, n. 110, RCP, 1979, 404; Cass. 6.6.73, n. 1632, AC, 1973, 592; App. Torino 22.3.65, FP,
1966,I, 356, con nota di Pogliani; in senso contrario, Cass. 10.8.65, n. 1912 RGE, 1967, I, 110; App.
Milano 2.10.79, RCP, 1980, 244).
Afferma a questo proposito la giurisprudenza recente:
La presunzione di responsabilità del proprietario di un edificio o di altra costruzione per i danni cagionati dalla loro
rovina, prevista dall'art. 2053 c.c., trova applicazione anche se danneggiato sia il conduttore dell'immobile (che nella
specie, aveva riportato gravi lesioni personali a seguito della caduta della porta basculante dell'autorimessa detenuta
in locazione), ma in questa ipotesi la prova liberatoria - a carico del proprietario - che la rovina non è dovuta a
difetto di manutenzione o vizio di costruzione, può riguardare l'inosservanza degli specifici obblighi incombenti al
conduttore in virtù del rapporto di locazione (previsti negli art. 1576, 1577, 1587, n. 1 e 1609 c.c.) come
comportamento idoneo ad eliminare o limitare la responsabilità del proprietario-locatore stesso
(Cass. 13.12.88, n. 6774, AC, 1989, 376; GC, 1989, I, 896; GI, 1989, I, 1, 966; ALC, 1989, 268; RCP, 1990, 128,
con nota di Rezzonico).
E in una decisione di poco precedente, la stessa S.C. ha così motivato l’esclusione della
responsabilità del proprietario per i danni patiti dal locatario a seguito di allagamento, provocato
dall’espulsione dalla propria sede di una valvola idraulica malamente avvitata:
Ritiene questo collegio che al quesito dell’applicabilità o meno della norma in esame nell’ipotesi suindicata (...) non
possa darsi risposta generale ed uniforme, ma che debba operarsi una distinzione secondo un preciso criterio ispirato
al sistema legislativo vigente.
Precisamente, se trattasi di danni derivanti da situazioni che non sono previste dalla specifica disciplina normativa
del rapporto di locazione, la disposizione dell’art. 2053, quindi la presunzione di responsabilità da esso posta, riceve
applicazione. Tale è, ad esempio, il caso di danni cagionati dal crollo dell’immobile locato.
Qualora, al contrario, trattasi di danni relativi a materia che nel rapporto di locazione trova specifica
regolamentazione legislativa, deve ricevere applicazione solo tale regolamentazione e va esclusa quindi l’operatività
dell’art. 2053, e perciò della prescrizione da esso stabilita
(Cass. 6.2.87, n. 1202, AC, 1987, 249).
2.2.6.6. Il problema dell’appalto.
L’elenco dei soggetti in capo ai quali è possibile ipotizzare una responsabilità ai sensi dell’art. 2053
c.c., non comprende l’appaltatore (v. Bussani 1988, 604; Speciale 1985, 149 s.; Cass. 24.3.59, n.
908, RFI, 1959, Resp. civ., 280).
Quest’ultimo, com’è noto, figura destinatario di un’apposita disciplina dettata dall’art. 1669 c.c. disciplina che si discosta da quella in commento sotto più profili (sul punto, Franzoni 1993, 639).
Di qui la massima che segue:
Nel caso di difetti di costruzione, il proprietario dell'immobile nel quale si sono manifestati i difetti i quali abbiano
causato danni ad un terzo non può pretendere che quest'ultimo, ove non abbia la qualità di avente causa dal
committente, ottenga il risarcimento del danno ex art. 1669 c.c. direttamente dall'appaltatore (o costruttore), ma è
tenuto a risarcire direttamente il danno (anche mediante l'eliminazione del fattore causativo) salvo ad agire, sempre
ex art. 1669 (anche ex art. 1495 c.c. nel caso di costruttore venditore), nei confronti dell'appaltatore per il
risarcimento dei danni direttamente subiti e per regresso relativamente a quelli risarciti al terzo
(Cass. 18.2.91, n. 1686, RFI, 1991, Appalto, 37).
In linea generale, si può affermare quindi che, ove la responsabilità figuri essere stata dichiarata ex
art. 2053 c.c., e la causa della rovina si riveli consistere in un vizio di costruzione, il proprietario
potrà rivalersi nei riguardi dell’appaltatore, del progettista, del direttore dei lavori (Cass. 28.4.84, n.
2676, GI, 1985, I, 1, 630; Cass. 20.11.70, n. 2448, RCP, 1971, 437; Cass. 4.3.70, n. 521, RCP, 1970,
589; App. Napoli 14.3.88, DG, 1988, 819, con nota di Metafora; v. anche Pret. Trani 18.2.64, RGE,
1965, I, 88).
La questione si presenta problematica allorché la rovina interessi un edificio ancora in costruzione.
Tuttavia, nonostante la presenza di una certa pluralità di posizioni (vedi la ricostruzione del dibattito
in Bussani 1988, 604 ss.), e la sentita esigenza di articolare la soluzione in sintonia con gli obblighi
gravanti, a diverso livello, sui vari soggetti coinvolti (in particolare, circa le ragioni che giustificano
l’operatività dell’art. 2053 c.c. anche nel corso dei lavori, v. Bussani 1988, 588 e gli autori ivi
citati), v’è chi ha ritenuto di poter sintetizzare una regola operativa con le parole che seguono:
Quindi. riassumendo, per quanto riguarda l'ipotesi di esistenza di un rapporto contrattuale di appalto si può
affermare che in caso di danni causati da rovina di edificio, rientranti nella previsione dell'art. 2053 cod. civ. (rovina
per difetto di manutenzione o vizio di costruzione) nei confronti dei terzi danneggiati è responsabile il proprietario
anche precedentemente alla consegna dell'immobile. Con questo tipo di responsabilità, ex art. 2053 cod. civ.,
concorrerà eventualmente quella dell'appaltatore, obbligato in solido ai sensi dell'art. 2055 cod. civ., ma sulla base, a
seconda dei casi, degli artt. 2043 cod. civ. 2050 e 2051 cod. civ.
Nei confronti del costruttore, successivamente, il proprietario può agire in rivalsa per quanto egli abbia risarcito al
terzo danneggiato e sulla base dei rapporti contrattuali intercorrenti. Se il costruttore si identifica con l'alienante
dell'edificio, il proprietario può agire nei suoi confronti a norma degli artt. 1490, 1491 e 1494 cod. civ., qualora ne
ricorrano i presupposti. Se il costruttore è identificabile con l'appaltatore dei lavori, il proprietario ha azione di
rivalsa nei suoi confronti sulla base dell'art. 1669 cod. civ., mentre contro l'esecutore autonomo dell'opera o contro il
progettista, egli deve valersi delle disposizioni degli artt. 2226 e 2236 cod. civ.
(Speciale 1985, 150).
A sostegno di tale ricostruzione il medesimo autore richiama alcune decisioni che hanno escluso
che tra i fatti del terzo aventi efficacia liberatoria per il proprietario potesse comparire anche il
comportamento tenuto da un soggetto operante, come l’appaltatore, per incarico del proprietario
stesso (Cass. 24.3.83, n. 2079, AC, 1983, 595; Cass. 25.8.84, n. 4697, RFI, 1984, Resp. civ., 126; cui
adde Cass. 20.12.88, n. 6938, RFI, 1988, Resp. civ., 172; Cass. 8.8.87, n. 6791, AC, 1988, 27; App.
Palermo 31.10.91, TS, 1991, 480).
A completamento di ciò si può ricordare quanto precisa un altro autore:
bisogna distinguere tra il danno cagionato nel corso (o a causa) dell’esecuzione, e quello prodotto da un vizio di
costruzione. Quanto al primo, la responsabilità è dell’appaltatore in via esclusiva, giacché il danno dipende proprio
dalla sua attività; nel secondo caso, invece, è il proprietario esposto, il quale, in un secondo tempo, potrà agire in
regresso verso l’appaltatore
(Franzoni 1993, 642).
2.2.6.7. L’“edificio” e la “rovina”.
E’ diffuso, fra i commentatori, il rilievo circa la tendenza ad una progressiva estensione dell’ambito
di operatività dell’art. 2053 c.c.
E’ questo il frutto dell’accoglimento di nozioni particolarmente ampie sia del termine “edificio” che
di quello di “rovina” dello stesso.
Quanto al primo termine, si constata che
per «edificio od altra costruzione» si intende qualsiasi opera umana, artificiale o naturale, connessa al suolo anche in
via provvisoria, nonché qualsiasi singola parte incorporata materialmente e stabilmente alla cosa principale tale da
costituirne parte integrante. Non è invece necessario accertare la funzione a cui è destinata la costruzione, rientrando
nella fattispecie anche i manufatti che non siano destinati al ricovero o al riparo dell'uomo, nonché il tipo di
materiale della costruzione: muratura, pietra, sassi ecc.
(Franzoni 1993, 629; v. anche Bussani 1988, 587; Speciale 1985, 142 s.).
Gli estensori di rassegne giurisprudenziali elencano, fra le ipotesi nelle quali è stato applicato l’art.
2053 c.c., qualsiasi manufatto o accessorio afferente all'edificio (Cass. 15.7.58, n. 2584, RCP, 159,
328); una saracinesca (App. Milano 19.1.62, DPA, 1962, 291; Cass. 8.9.78, n. 4064, ARC,
1979,128); una griglia di mattonelle di vetro sistemata nella sede stradale antistante il portone
d'ingresso di un edificio (Pret. Roma 30.11.60, TR, 1961,1, 103); una lastra di vetro staccatasi da
una finestra (Trib. Roma 30.11.67, GI, 1968, 1, 2, 436, con nota di Lunari); l'intonaco di un
cornicione (Cass. 24.11.70, n. 2509, RFI, 1971, Resp. civ., 79); le tegole di un tetto (Cass. 26.1.63,
n. 180, RCP, 1963, 401; Cass. 15.6.79, n. 3390, RFI, 1979, Resp. civ., 163); la banchina stradale
(Cass. 31.10.61, n. 2530, RCP, 1962, 147); la rottura di un tubo (Cass. 29.1.81, n. 693, RCP, 1981,
700; AC, 1981, 504; GI, 1981, I, 1, 885; RDCo, 1982, II, 47 con nota di Bessone; Cass. 17.11.84, n.
5868, FI, 1985, 1, 123; RCP, 1985, 248; ALC, 1985, 823; contra però Cass. 21.10.71, n. 2969,
RCP, 1972, 389); un bacino artificiale (Pret. Città di Castello 13.11.64, FP, 1967, 120); un
tabellone (Pret. Taranto 16.3.77, ARC, 1977, 594); una rete metallica posta come chiusura del vano
di accesso di un cantiere di lavoro (App. Roma 19.5.58, RGC, 1959, Resp. civ., 376); i ruderi di un
edificio già crollato per eventi bellici (Cass. 9.8.62, n. 2478, RCP, 1963, 154) (Speciale 1985, 143;
v. anche Bussani 1988, 589 ss.).
A tale elenco si può aggiungere il distacco di un tassello di vetrocemento da un lucernario sul quale
un passante sia inciampato (Trib. Roma 19.9.84, RGCT, 1985, 78: è rovina parziale, si applica l’art.
2053 c.c. norma speciale che impedisce l’intervento dell’art. 2051 c.c.).
Non si tratta, tuttavia, di una nozione priva di confini:
La responsabilità del proprietario d'un edificio o di altra costruzione per i danni cagionati dalla loro rovina può
ravvisarsi solo in caso di danni derivanti dagli elementi (anche accessori ma) strutturali dell'edificio o di altra
costruzione e perciò da parti essenziali degli stessi, ossia di danni derivanti dall'azione dinamica del materiale
facente parte della struttura della costruzione e non da qualsiasi disgregazione sia pure limitata dell'edificio o di
elementi o manufatti accessori non facenti parte della struttura della costruzione. Va, pertanto, esclusa la
responsabilità del proprietario dell'edificio, a norma dell'art. 2053 c.c., per infiltrazioni di acqua in un appartamento
dell'edificio, ove derivanti da una avaria che non riguardi la conduttura idrica strutturalmente incorporata
nell'edificio stesso bensì l'impianto di scaldabagno dell'appartamento soprastante e così una pertinenza
organicamente distinta dallo stesso
(Cass. 16.2.87, n. 188, ND, 1988, 555, con nota di Caianiello).
Viene esclusa, così, l’applicazione dell’articolo in questione con riguardo al crollo di uno steccato
(Trib. Torino 20.11.58, ARC, 959, 650); alla caduta di un albero (Cass. Sez. U. 11.11.91, n. 12019,
GC, 1992, I, 41; NGCC, 1992, I, 81, con nota di Alpa; CorG, 1992, 180, con nota di Alpa; ALC,
1992, 43; GI, 1992, I, 1, 2218, con nota di Corradi; FI, 1993, I, 922; Cass. 31.5.71, n. 1641, RFI,
1971, Resp. civ., 158); alla caduta di neve o ghiaccio dai tetti (v. retro, § 2.2.5.1.2.).
E’ poi necessario che l’immobile svolga appunto la funzione di edificio, dovendosi altrimenti
parlare di “rudere”, o di “macerie”: elementi idonei, tutt’al più, a far entrare in gioco la regola sulla
responsabilità del custode (sul punto, Franzoni 1993, 629; Bussani 1988, 588; Cass. 13.4.51, n. 894,
GCCC, 1951, II, con nota di Mazza).
Si precisa, ancora, che deve trattarsi di costruzione sporgente dal suolo o comunque costituita da un
livello superiore rispetto ad un piano di base: è, cioè, “edificio” anche quello costruito nel
sottosuolo; non lo è la semplice pavimentazione stradale (Franzoni 1993, 629 s.; Bussani 1988,
587). Discorso diverso per il lucernario collocato in un punto di passaggio: come già visto, il
proprietario risponde ex art. 2053 c.c. del danno riportato da un passante, inciampato nel foro
causato dal distacco di uno dei tasselli di vetrocemento (Trib. Roma 19.9.84, RGCT, 1985, 78).
Quanto alla nozione di rovina, la tendenza è ad estendere il concetto ben al di là del suo nucleo
fondamentale; in effetti,
si è stabilito che per rovina non si intende la sola disintegrazione o caduta di elementi che costituiscono la struttura
essenziale dell’immobile ma anche il distacco e la caduta di semplici manufatti, anche accessori e aventi un mero
scopo ornamentale che siano incorporati con esso
(Speciale 1985, 143; v. anche Bussani 1988, 591).
Così, le massime ribadiscono che
l’art. 2053 c.c., regolando, nell’ambito della disciplina dei fatti illeciti, la responsabilità del proprietario per il caso di
rovina dell’edificio, nel parlare genericamente di rovina, intende riferirsi ad ogni disgregazione, sia pure limitata
dell’edificio e dei suoi elementi accessori, dalla quale possa derivare danno a terzi
(Cass. 15.7.68, n. 2543, RGE, 1969, I, 30; v. anche Cass 8.9.78, n. 4064, RFI, 1978, Resp. civ., 139; Cass. 18.10.56,
n. 3713, GC, 1957, I, 676; Cass. 3.7.52, n. 1956, FI, 1953, I, 64; RCP, 1953, 238; App. Milano 19.1.62, DPA, 1962,
291; Trib. Napoli 13.8.52, DG, 1952, 357).
Anche qui, non mancano i limiti. Si precisa, ad esempio, che l’art. 2053 c.c. non va esteso oltre la
rovina dell’edificio per ricomprendervi ogni insidia pericolosa; non si applica cioè nel caso della
morte di una persona a causa dello scoppio di una bomba a mano che si trovava in una soffitta
(Cass. 17.10.69, n. 3405, RFI, 1969, Resp. civ., 267), e neppure con riguardo alla lenta infiltrazione
di terriccio attraverso le connessioni di un solaio in travi di legno (Cass. 11.6.57, n. 2127, RCP,
1957, 350). Così, come visto sopra, nel caso di incendio sarà l’art. 2051 c.c. a poter essere invocato
(v. retro, § 2.2.5.4.).
Né manca qualche critica a simile tendenza estensiva:
Questo ampliamento appare forse eccessivo; così dicendo viene meno il limite posto al concetto di rovina dalla
dottrina e dalla giurisprudenza meno recenti, limite fondato sulla distinzione tra la nozione di crollo e quella di
semplice guasto. Secondo la tendenza più recente, dunque, qualsiasi alterazione funzionale in atto nella costruzione
porta all'applicazione della norma. Certo resta la distinzione tra rovina e grave pericolo di crollo che, nonostante
possa creare danni, non consente l’applicazione dell'articolo in esame. Tuttavia s è enormemente ridotta la
differenza tra la responsabilità per il danno da cose in custodia e la responsabilità per il danno da rovina di edifici,
giacché si ammette il risarcimento ricorrendo indifferentemente ad una delle due figure
(Franzoni 1993, 630 s.).
2.2.6.8. Il nesso di causalità.
La regola di responsabilità di cui stiamo discorrendo è stata oggetto - sotto il profilo del rapporto di
causalità fra rovina e danno - di un particolare dibattito.
Punto centrale della discussione - più che l’ovvia sottolineatura circa la necessità di un legame
eziologico anche in questo campo - è stata la valutazione concernente lo sviluppo temporale degli
avvenimenti:
Nessuna questione sorge quando il danno si verifichi contestualmente al crollo di un edificio, ad esempio quando un
passante sia colpito dalle pietre mentre stanno cadendo; oppure quando un'automobile parcheggiata nei pressi di un
immobile sia distrutta dal distacco di un cornicione, di pezzi di intonaco, di un balcone, o di parti del tetto. Più
complesso è il problema se tra la rovina ed il danno intercorra un notevole lasso di tempo, sicché manchi la
immediatezza e la simultaneità tra il movimento del crollo ed il danno
(Franzoni 1993, 631).
La giurisprudenza - che mostra in un primo momento di accogliere la tesi della necessaria
simultaneità degli eventi considerati (Cass. 16.10.56, n. 3656, RCP, 1957, 28; App. Napoli 4.12.50,
FI, 1951, I, 1095, con nota di Azzariti; Pogliani 1966, 359 s.) - modifica successivamente la il
proprio orientamento: è sufficiente che il danno si sia manifestato in un momento nel quale non si
era ancora esaurita la fase dinamica della trasformazione dell’ambiente o delle strutture provocata
dalla rovina (Cass. 14.6.62, n. 1491, GC, 1962, I, 1651; Trib. Torino 19.11.62, FP, 1963, I, 354); in
senso favorevole a questa interpretazione, si rileva che
l’art. 2053 cod. civ. va applicato tenendo conto che l’immediatezza dell’evento in relazione alla rovina deve essere
inteso con un significato di ragionevole relatività. Nel caso invece, verificatosi con il crollo una nuova situazione più
o meno pericolosa per l’edificio, sia sorto nel proprietario o nel detentore un dovere giuridico di eliminarla, si
dovranno applicare, ai fini dell’individuazione del soggetto responsabile, gli artt. 2051 o 2043 cod. civ.
(Speciale 1985, 139).
Così:
tra la rovina e l'evento di danno non deve sussistere una immediatezza ed una assoluta contestualità. Tuttavia, ove
questa manchi, la dinamica va ricostruita secondo il criterio della probabilità e della normalità, per appurare se il
crollo abbia contribuito a provocare il sinistro, Ciò consentirà di stabilire se il fatto vada ricompreso nella figura in
esame o se invece vada collegato ad un'altra ipotesi di responsabilità: penso, ad esempio, al danno da cose in
custodia, se la rovina in sé sia stata semplicemente una occasione dell'evento, ma la cosa inanimata abbia
ugualmente concorso con efficienza a determinare l'evento.
Concretamente ciò significa che l'immediatezza del danno rispetto alla rovina va accertata in termini di ragionevole
relatività: con un giudizio da condurre caso per caso, secondo un ragionevole calcolo della probabilità, valutando
attentamente l'incidenza delle cause sopravvenute. Pertanto, se sia già esaurita la fase dinamica della trasformazione
ambientale o delle strutture che hanno provocato il crollo o la rovina, è possibile che il danno non sia in
collegamento causale con il fatto e che la responsabilità debba essere fondata sulla norma più generale dell'art. 2051
(Franzoni 1993, 633; v. anche Bussani 1988, 593 s.).
2.2.6.9. La prova liberatoria.
L’art. 2053 c.c. pone a carico del proprietario l’onere di dimostrare che all’origine della rovina non
vi fosse un difetto di manutenzione o un vizio di costruzione.
Nella lettura giurisprudenziale tale onere si risolve nella dimostrazione, positiva, circa
l’attribuibilità dell’evento ad una causa estranea alla sfera di controllo del proprietario, restando in
particolare a suo carico l’ipotesi in cui la causa rimanga ignota (Franzoni 1993, 634 s.). Si tratta di
un’interpretazione assai rigorosa, che depone (al di là degli ossequi formali prestati dalla stessa
giurisprudenza alla formula della presunzione di colpa) a favore di una lettura della norma in chiave
di responsabilità oggettiva (Franzoni 1993, 636 ss.; Speciale 1985, 140; Bessone 1982, 52 s.; per la
ricostruzione delle opinioni della dottrina sul punto, v. Bussani 1988, 584 ss.)
E’ questo l’effetto della massime ricorrenti:
La presunzione di responsabilità posta dall'art. 2053 c.c. a carico del proprietario per i danni cagionati dalla rovina di
un edificio o di altra costruzione può essere vinta unicamente dalla prova, su quello gravante, che la rovina «non è
dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione» e cioè dalla ricorrenza del caso fortuito, della forza
maggiore ovvero di altri fatti, posti in essere da un terzo o dallo stesso danneggiato, i quali assurgano, nella
causazione dell'evento dannoso, a fatti estranei alla sfera d'azione del proprietario dell'immobile, che abbiano cioè
un'efficacia causale del tutto autonoma rispetto alla condotta (positiva o negativa) di lui
(Cass. 24.3.83, n. 2079, AC, 1983, 595; Cass. 20.12.88, n. 6938, RFI, 1988, Resp. civ., 172; Cass. 8.8.87, n. 6791,
AC, 1988, 27; Cass. 25.8.84, n. 4697, RFI, 1984, Resp. civ., 126; App. Palermo 31.10.91, TS, 1991, 480).
Con riguardo al valore liberatorio del fatto del terzo occorre dire, anzitutto, che proprietario
risponderà senz’altro tutte le volte in cui il danno risulti provocato dalla condotta tenuta da chi
operava su suo incarico, come nel caso di lavori affidati in appalto (Cass. 25.8.84, n.4697, RFI,
1984, Resp. civ., 126; Cass. 24.3.83, n. 2079, AC, 1983, 595).
Come già visto, poi, l’esistenza di un contratto di locazione non solleva il proprietario dai suoi
doveri di vigilanza, e non ha effetto quanto alla formula liberatoria (Cass. 8.8.87, n. 6791, AC,
1988, 27; Cass. 17.11.84, n. 5868, FI, 1985, I, 123; RCP, 1985, 248; ALC, 1985, 823). L’eventuale
inadempienza del conduttore agli obblighi contrattuali di avviso circa la necessità di interventi
manutentivi esplica il proprio effetto solo nell'ambito dei rapporti interni fra le parti del contratto di
locazione e non vale a privare i terzi - i quali abbiano subito danni a causa dell'omessa
manutenzione e riparazione dell'immobile locato - dell’azione verso il proprietario (Cass. 17.10.89,
n. 4155, RFI, 1989, Resp. civ., 153; Cass. 17.11.84, n. 5868, FI, 1985, I, 123; RCP, 1985, 248; ALC,
1985, 823; Cass. 29.1.81, n. 693, RCP, 1981, 700; AC, 1981, 504; GI, 1981, I, 1, 885; RDCo, 1982,
II, 47 con nota di Bessone).
Tuttavia, allorché a venir danneggiato sia lo stesso conduttore - soggetto legittimato ad avvalersi
dell’art. 2053 c.c. - la prova liberatoria potrà ben consistere nella dimostrazione, fornita dal
proprietario, circa l'inosservanza degli specifici obblighi che la legge (artt. 1576, 1577, 1587, n. 1 e
1609 c.c.) impone al conduttore in virtù del rapporto di locazione (Cass. 13.12.88, n. 6774, AC,
1989, 376; GC, 1989, I, 896; GI, 1989, I, 1, 966; ALC, 1989, 268; RCP, 1990, 128, con nota di
Rezzonico). Ed è appena il caso di sottolineare come, anche ove la condotta del conduttore non sia
sufficiente a liberare il proprietario dalla responsabilità, ex art. 2053 c.c., resterà sempre la
possibilità di considerarla ai fini della quantificazione del danno ex art. 1227 c.c. (Della Croce 1991,
18; in giurisprudenza v., ad esempio, Cass. 3.3.65, n. 360, FI, 1965, I, 1249).
(Per ulteriore “casistica negativa”, v. Bussani 1988, 608 ss.).
E, ancora sotto il profilo del fatto del danneggiato, può citarsi l’ipotesi del sinistro occorso ad un
bambino, e riconducibile non già a vizi di costruzione o difetto di manutenzione del rustico non
ultimato nel quale egli si era introdotto, ma agli atti di demolizione e vandalismo posti in essere
dalla stessa vittima, insieme ad altri (Trib. Monza 6.10.83, RCP, 1984, 112).
Fatto del danneggiato potrebbe configurarsi l’aver posteggiato il proprio veicolo ignorando un
divieto di sosta, ma solo ove il condominio riuscisse a dimostrare che tale divieto era stato apposto
proprio allo scopo di evitare incidenti dovuti all’instabilità della costruzione (Cass. 24.11.70, n.
2509, RFI, 1971, Resp. civ., 79).
La prova può consistere nella dimostrazione positiva circa l’esistenza di una causa esclusivamente
addebitabile ad uno dei potenziali corresponsabili: come nel caso del crollo di un solaio divisorio
fra due appartamenti, dovuto alle infiltrazioni d’acqua provenienti dagli scarichi dell'appartamento
sovrastante (Cass. 30.3.85, n. 2234, ALC, 1985, 691; RGE, 1985, I, 727; AC, 1986, 308).
Il proprietario non risponde del fatto dei ladri che abbiano approfittato dello stato di abbandono in
cui si trovava l’immobile dopo il crollo (Cass. 24.2.70, n. 432, RGE, 1970, I, 555 che riforma App.
Catania 16.1.66, FP, 1966, I, 578).
Fortuito può essere l’evento naturale, purché di forza tale da consentire di escludere l’esistenza di
vizi dell’edificio, o comunque di renderli ininfluenti rispetto al prodursi degli eventi dannosi (sulla
casistica legata al fortuito meteorologico, v. Bussani 1988, 610). E anche sotto questo profilo,
l‘atteggiamento della corti appare tendenzialmente restrittivo. Così, nonostante il verificarsi di
precipitazioni particolarmente abbondanti, non è dovuto a caso fortuito il crollo di un muro di
contenimento non costruito a regola d’arte (Trib. Rieti 27.10.90, AC, 1991, 190).
E’ invece “forza maggiore” il violento nubifragio che abbia determinato il crollo di un lucernaio di
cui sia stata dimostrata la idoneità costruttiva e la corretta manutenzione (Pret. Roma 22.11.68, TR,
1969, 342).
2.2.6.10. La rovina delle parti in proprietà esclusiva.
Non v’è dubbio che, allorché la rovina interessi una parte di proprietà esclusiva, il carico risarcitorio
debba gravare sul titolare di questa: e cioè su chi risulti tale al momento della rovina.
La casistica è particolarmente ricca; in gran parte essa riguarda le terrazze e i balconi. Si afferma, a
questo proposito, che
in un edificio condominiale, a differenza del solaio divisorio di due piani, che funziona da sostegno del piano
soprastante e da copertura di quello sottostante, l’aggetto costituito da un balcone (o terrazzo) appartiene
esclusivamente al proprietario dell’unità immobiliare corrispondente, il quale, pertanto, è esclusivo responsabile del
danno cagionato a terzi da un pezzo di muratura staccatosi dal balcone
(Cass. 10.9.86, n. 5541, ALC 1987, 96).
Così, i danni subiti dall’alloggio sottostante a causa della caduta di pezzi di intonaco e calcinacci da
una terrazza di proprietà esclusiva sono a carico del titolare di questa, e non del condominio (Cass.
18.11.92, n. 12317, ALC, 1993, 174).
Stessa soluzione nel caso di caduta di un balcone, e ciò anche ove a rimanere danneggiato sia il
conduttore e pure in assenza di una precisa simultaneità fra rovina ed evento dannoso: nella specie,
il conduttore era accorso alle grida d’aiuto di una persona, ferita a causa del crollo di un balcone, ed
era precipitato nel vuoto (App. Torino 22.3.65, FP, 1966, I, 356, con nota di Pogliani); né le cose
cambiano allorché un simile incidente abbia coinvolto il promissario acquirente al quale era già
stata effettuata la consegna dell’immobile (Cass. 3.3.65, n. 360, FI, 1965, I, 1249).
Nel caso in cui a subire il danno sia stato invece l’usufruttuario, si ritiene - per effetto
dell’orientamento che lo vede come (almeno) corresponsabile ex art. 2053 c.c. - che a lui sia
preclusa la via extracontrattuale, rimanendo praticabile “la sola azione risarcitoria di carattere
contrattuale sulla base della disciplina specifica che regola i suoi rapporti interni con il proprietario”
(Della Croce 1991, 140).
Allorché la vetustà delle tubazioni ne provochi la rottura, risponde senz’altro il proprietario (Cass.
29.1.81, n. 693, RCP, 1981, 700; AC, 1981, 504; GI, 1981, I, 1, 885; RDCo, 1982, II, 47 con nota di
Bessone) e, secondo un diverso indirizzo, anche il conduttore (Cass. 17.11.84, n. 5868, FI, 1985, I,
123; RCP, 1985, 248; ALC, 1985, 823); quando, invece, le infiltrazioni d’acqua verificatesi
nell’appartamento sottostante siano state provocate da avaria dello scaldabagno - non trattandosi di
manufatto strutturalmente incorporato nell’edificio - non vi è spazio per l’applicazione dell’art.
2053 c.c. (Cass. 16.2.87, n. 188, ND, 1988, 555, con nota di Caianiello).
Il proprietario dell’immobile risponde per i danni provocati all’appartamento adiacente dalla rovina
seguita allo scoppio di una bombola di gas (Trib. Cagliari 10.1.93, RGSarda, 1994, 95).
Per la caduta di un solaio divisorio fra due appartamenti risponde il proprietario dell’unità
soprastante, allorché il crollo sia dovuto alle infiltrazioni di acqua provenienti dagli scarichi del suo
immobile (Cass. 30.3.85, n. 2234, ALC, 1985, 691; RGE, 1985, I, 727; AC, 1986, 308).
Si precisa poi che
a differenza del solaio divisorio tra due piani dell'edificio, in proprietà comune ai due rispettivi proprietari, il solaio
del piano terreno sottostante al relativo pavimento, costruito a livello della superficie di campagna, in quanto parte
integrante del solo piano terreno, appartiene in proprietà esclusiva al proprietario del piano, alla stessa stregua del
pavimento; ne consegue che in caso di vizio costruttivo del solaio, rivelatosi inidoneo a svolgere autonomamente la
funzione di sostenere l'unità immobiliare, la responsabilità per i danni che ne siano derivati alle singole proprietà
individuali deve ascriversi al proprietario del piano con esclusione di ogni responsabilità del condominio
(Cass. 26.3.93, n. 3642, ALC, 1993, 490).
Come già visto in tema di responsabilità del custode, può accadere che talune parti, benché di
proprietà esclusiva, rivestano una funzione a favore dell’intero condominio: è il caso, in particolare,
del lastrico solare o della terrazza a livello.
In questi casi, si sostiene,
agli effetti della responsabilità da custodia, soggetti passivi dell’azione risarcitoria saranno sia il singolo condomino,
sia la collettività condominiale nella loro qualità di custodi, mentre agli effetti della responsabilità da rovina - salva
l’azione di regresso - soggetti passivi saranno il singolo condomino o la collettività condominiale, nella loro qualità
di proprietari
(Rezzonico 1992, 450).
A questo proposito, la giurisprudenza non sembra tuttavia dar peso al dato testuale né al proprio
stesso insegnamento (v. retro § 2.2.6.1.), secondo il quale - nel caso di rovina dell’edificio - l’art.
2053 c.c. è norma speciale, per cui è il proprietario il soggetto responsabile; si preferisce infatti
affrontare le questioni con i medesimi strumenti cui si ricorre in sede di applicazione dell’art. 2051
c.c. (v. retro § 2.2.5. ss.); senza distinguere, in definitiva, il danno derivante - poniamo - da
un’infiltrazione dovuta a scarsa impermeabilizzazione del manufatto da quello provocato da un
crollo strutturale dello stesso. In particolare, di recente, la S.C. - occupandosi del crollo di una
terrazza a livello di proprietà esclusiva con funzione di copertura dello stabile condominiale - ha
non solo affermato la solidarietà passiva dei condomini nei confronti del terzo danneggiato, ma ha
riformato la pronuncia di merito, che aveva distribuito tra i corresponsabili i carichi in funzione
delle rispettive colpe, ex art. 2055 c.c., ribadendo il proprio indirizzo con la seguente massima:
In caso di danni a terzi, cagionati dalla omessa esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria su lastrico solare
in edificio condominiale, ed a carico del condominio, i singoli condomini sono tenuti, nei rapporti interni tra loro, a
concorrere al risarcimento dei danni secondo i criteri, di cui all’art. 1126 c.c.
(Cass. 7.12.95, n. 12606, DR, 1996, 470 con nota di Speranza 1996, 471; FI, 1996, I, 103).
(sul punto, v. anche Bussani 1988, 596, nonché App. Napoli 2.2.65, RGE, 1965, I, 52).
2.2.6.11. La rovina delle parti e degli impianti comuni.
La regola vigente in materia di rovina di edifici in condominio risulta così sintetizzata:
Allorché la costruzione rovinata appartenga a più soggetti - e purché il crollo sia totale o interessi parti comuni
dell’immobile - si ritiene che tutti i comproprietari debbano rispondere ex art. 2053 c.c., in solido tra di loro. Quanto
poi ai rapporti interni tra condomini, oltre a una ripartizione del danno proporzionale alle singole quote di dominio,
sarà certamente ammissibile una graduazione delle colpe a carico di ciascun proprietario, con diretta incidenza sulla
misura della porzione del rispettivo debito
(Bussani 1988, 596).
E in effetti non v’è dubbio che, per quanto riguarda l’art. 2053 c.c. ed il crollo delle cose comuni,
per “proprietario” debba intendersi il condominio (Cass. 20.11.76, n. 4694, GC, 1977, I, 837; Cass.
24.11.70, n. 2509, RFI, 1971, Resp. civ., 79).
E’ pacifico, poi, che allorché la cosa appartenga a più soggetti e la rovina riguardi la totalità
dell’immobile o le parti comuni, tutti verranno chiamati a rispondere ai sensi dell’art. 2053 c.c.;
quando invece la rovina sia solo parziale, la responsabilità toccherà solo al/ai titolare/i della parte
stessa (Speciale 1985, 145).
In un caso è stata definita “rovina” l’apertura di una voragine sotto lo stabile, e sono state
considerate risarcibili le spese sostenute dal Comune per evitare il crollo dell’edificio ed offrire una
sistemazione provvisoria agli inquilini sfrattati (Trib. Napoli 14.11.66, DG, 1967, 224). Tuttavia tale
opinione appare isolata, ritenendosi per lo più che la minaccia di crollo non rientri nell’area di
applicabilità dell’art. 2053 c.c. (per tutti, v. Bussani 1988, 592).
Il condominio risponde ex art. 2053 c.c. per il danno conseguente alla caduta di alcune tegole (Cass.
17.1.53, n. 120, FI, 1953, I, 763).
Interessante quanto precisato con riferimento alla caduta dell’intonaco di un cornicione
condominiale su di un’autovettura presente nel cortile: la responsabilità del condominio sussiste
anche in presenza di un divieto di sosta nell’area, salvo che tale divieto fosse stato apposto proprio
allo scopo di evitare simili incidenti (Cass. 24.11.70, n. 2509, RFI, 1971, Resp. civ., 79).
La responsabilità del condominio non comporta però, necessariamente, che l’azione debba essere
intentata nei confronti della totalità dei comproprietari o dell’amministratore; al contrario, proprio
perché si tratta di cosa comune, la responsabilità grava in via solidale su tutti i condomini: libero,
perciò, il danneggiato di rivolgersi ad uno dei comproprietari onde venir risarcito integralmente salva l’ipotesi del regresso del condomino escusso (v., ad es., Trib. Napoli 8.6.90, ALC, 1991, 134:
nella specie, il conduttore di un appartamento aveva vittoriosamente citato il proprietario dello
stesso per danni originati dal lastrico solare condominiale).
Quanto, ancora, all’eventualità che a rimanere danneggiato sia uno dei condomini, v’è chi ritiene
che - essendo lo stesso singolo condomino destinatario della norma in commento, e non potendo il
medesimo soggetto ricoprire al contempo i due opposti ruoli - il danneggiato non potrà avvalersi
dell’art. 2053 c.c. nei confronti della condominio stesso (Della Croce 1991, 140).
Al contrario la S.C. si è espressa chiaramente sul punto, dichiarando il condominio responsabile proprio ai sensi dell’art. 2053 c.c. - per i danni subiti da alcuni singoli condomini a causa del
disgregamento del muro condominiale (Cass. 20.12.76, n. 4694, GC, 1977, I, 837).
Si è parlato di rovina di edificio, in relazione ai danni prodotti dall’impianto di riscaldamento; nella
specie, si trattava di un guasto nelle tubazioni provocato dall’irrazionale disposizione degli attacchi
tra colonne montanti e tubazioni principali: disposizione che aveva accelerato i processi corrosivi
delle tubature in questione. In simile ipotesi la S.C., oltre a riconoscere la correttezza del richiamo
all’art. 2053 c.c., ha stabilito la responsabilità del condominio, nonché la legittimazione passiva
dell’amministratore, ex art. 1131, 2° co., c.c. (Cass. 15.5.68, n. 2543, RGE, 1969, I, 30).
E, ancora, la regola di cui all’art. 2053 c.c. figura essere stata applicata con riguardo ad incidenti
provocati dall’ascensore. Come già visto a proposito delle vicende riguardanti il medesimo
impianto, risolte alla luce della responsabilità del custode (soluzione adottata dalla giurisprudenza
più recente, v. retro, § 2.2.5.1.3., nonché Cass. 21.7.79, n. 4385, RCP, 1980, 81; sul punto, Speciale
1985, 137), anche qui risultano affrontate le questioni inerenti la presenza di soggetti cui, per legge,
deve essere affidata la manutenzione. E la soluzione adottata dai giudici risulta nettamente orientata
ad affermare che tali normative - di carattere essenzialmente amministrativo e penale - non
comportano alcuna esclusione o riduzione della responsabilità che l’art. 2053 c.c. attribuisce al
proprietario dell’immobile e dell’impianto (Cass. 5.7.50, n. 1749, RCP, 1950, 430; Cass. 27.12.48,
n. 1936, GCCC, 1949, I, 26, con nota di Cozzi; Trib. Napoli 30.4.69, RGE, 1969, 976, con nota di
Salis);
nulla toglie, peraltro, che il proprietario del fabbricato sia contrattualmente sollevato per tale responsabilità dalla
casa costruttrice dell’impianto o dal manutentore.
In tal caso, il proprietario del fabbricato che sia stato condannato a risarcire i danni potrà rivalersi verso questi
soggetti
(Perugini 1969, 863).
2.2.7. La responsabilità per danno cagionato da animali
Di regola, il problema degli animali in condominio figura affrontato in relazione ai divieti - di varia
natura - contenuti nei regolamenti condominiali.
Con riguardo a tale specifico problema (sul quale, Visco e Terzago 1972, II, 561 ss.), è appena il
caso di ricordare la recente presa di posizione della S.C.:
In tema di condominio di edifici il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici non può essere
contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, approvati dalla maggioranza dei partecipanti, non potendo detti
regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del
fabbricato appartenenti ad essi individualmente in esclusiva, sicché in difetto di un’approvazione unanime le
disposizioni anzidette sono inefficaci anche con riguardo a quei condomini che abbiano concorso con il loro voto
favorevole alla relativa approvazione, giacché le manifestazioni di voto in esame, non essendo confluite in un atto
collettivo valido ed efficace, costituiscono atti unilaterali atipici, di per sé inidonei ai sensi dell’art. 1987 c.c. a
vincolare i loro autori, nella mancanza di una specifica disposizione legislativa che ne preveda l’obbligatorietà
(Cass. 4.12.93, n. 12028, ALC, 1994, 798; in tale senso anche Trib. Piacenza 10.4.90, ALC, 1990, 287, con nota di
Maglia; Trib. Parma 11.11.68, RGE, 1971, I, 446, con nota di Salis).
D’altra parte, anche allorché il regolamento condominiale vieti validamente di tenere animali,
occorrerà pur sempre che questi siano causa di disturbo, costituendo altrimenti il divieto un
“intollerabile vincolo alla libertà individuale” (Visco e Terzago 1972, 565; v. anche Maglia 1990,
290; Rezzonico 1992, 479 ss; Salis 1971, 446; in giurisprudenza, tale soluzione è stata adottata con
riguardo alla clausola che vietava di tenere “cani o altri animali che possano turbare la quiete e
igiene della collettività”: Pret. Campobasso 12.5.90, ALC, 1991, 176; ND, 1991, 187; in senso
contrario, con riferimento a una clausola simile, Pret. Torino 7.11.89, ALC, 1990, 287, con nota di
Maglia).
In materia, non mancano gli esempi di ordini - emanati dal giudice con provvedimento d’urgenza,
ex art. 700 c.p.c. - volti a imporre l’allontanamento degli animali molesti dal condominio (Trib.
Napoli 8.3.94, ALC, 1994, 337; Trib. Napoli 25.10.90, ALC, 1990, 737: nella specie, il drastico
provvedimento appare peraltro legato alla gravità della situazione ed al contegno tenuto dai
proprietari degli animali).
In ogni caso poi, anche ove la detenzione dell’animale dovesse essere in sé ritenuta lecita, valgono
ugualmente le regole sulle immissioni (Cass. 4.12.93, n. 12028, ALC, 1994, 798):
La detenzione di un animale può integrare in astratto la fattispecie di cui all’art. 844 c.c., in quanto tale norma,
interpretata estensivamente, è suscettibile di trovare applicazione in tutte le ipotesi di immissioni che abbiano
carattere materiale, mediato o indiretto e provochino una situazione di intollerabilità attuale; pertanto, in mancanza
di un regolamento condominiale di tipo contrattuale che vieti al singolo condomino di detenere animali
nell’immobile di sua esclusiva proprietà, la legittimità di tale detenzione deve essere accertata alla luce dei criteri
che presiedono la valutazione della tollerabilità delle immissioni
(Trib. Piacenza 10.4.90, ALC, 1990, 287).
Il superamento della soglia di tollerabilità comporterà senz’altro il risarcimento del danno (Trib.
Piacenza 10.4.90, ALC, 1990, 287); quanto all’allontanamento dell’animale, si tratterà di verificare,
in concreto, se tale misura rappresenti davvero l’unica alternativa idonea ad eliminare le molestie.
Per ciò che concerne più specificamente la regola contenuta nell’art. 2052 c.c., che impone al
proprietario o a chi si serve dell’animale di risarcire il danno causato da questo, è ben possibile che
la presenza di animali in condominio comporti l’insorgenza di liti da risolvere in base all’art. 2052
c.c. (Rezzonico 1992, 479 ss.), anche se, occorre dire, non sembra che l’ambiente condominiale
presenti particolarità di rilievo con riguardo alle regole vigenti in questo campo (per le quali v., di
recente, le rassegne di Balzaretti 1995, 468 ss.; Ziviz 1990, 71 ss.).
Con riguardo alla casistica, si può pensare al caso del cane che morde un condomino, o un idraulico
che sta effettuando una riparazione (Cass. 23.2.83, n. 1440, RCP, 1983, 632).
Può essere interessante, ai nostri fini, ricordare come - in una non recente decisione - si sia stabilito
che, per i danni cagionati dal cane tenuto nell’alloggio, responsabile sia solo il “capo-famiglia”, ove
lo stesso non eccepisca che altri membri della famiglia abbiano il potere disposizione sull’animale
(Trib. Torino 15.1.58, AGCSS, 1960, 570). Valgono qui i rilievi sollevati in dottrina secondo cui,
dopo la riforma del 1975, si dovrebbe più correttamente parlare di responsabilità solidale dei
genitori, rendendo poi operativi - nel caso in cui l’animale sia di proprietà o sotto il controllo di un
figlio minore convivente - gli artt. 2047 o 2048, a seconda dei casi (Balzaretti 1995, 480).
2.2.8. Le immissioni.
Com’è noto, quello delle immissioni è un tema notevolmente frequentato dagli studiosi, stimolati in
ciò anche da un’ampia e variegata produzione giurisprudenziale.
In questa sede ci si limiterà a dar conto di quella casistica - già di per sé decisamente ricca - che
maggiormente riflette i conflitti tipici delle comunità condominiali (il lettore interessato ad
approfondire l’argomento potrà utilmente far riferimento alle più recenti voci enciclopediche di
Mattei 1993 311 ss.; Salvi 1989, 1 ss.; Visintini 1982, 1218 ss.; nonché alle monografie di Nappi
1986; Procida Mirabelli di Lauro 1984; Salvi 1979; ai saggi di Gambino 1983, 1071 ss.; assai
vivace - e utilissima fonte di informazione - è poi il dibattito condotto a livello di commenti alla
giurisprudenza edita).
Una casistica - quella relativa alle immissioni nel condominio - che è possibile introdurre con la
seguente dichiarazione:
È incontroverso che le norme sulle immissioni si applichino anche in tema di condominio, tanto nei rapporti tra i
piani o le porzioni di piano in proprietà esclusiva, quanto nei rapporti tra le unità immobiliari e le cose, i servizi e gli
impianti di uso comune. Qualora un condomino, nel godimento della propria unità immobiliare o delle parti comuni,
dia luogo ad immissioni moleste o dannose nella proprietà di altri condomini, il conflitto deve essere risolto secondo
i criteri dettati dall'art. 844 c.c.
(Cass. 15.3.93, n. 3090, ALC, 1993, 495, con nota di Maglia).
In effetti, tra le vicende appartenenti ai rapporti di vicinato che si instaurano nel condominio, grande
rilevanza assume la regolamentazione delle immissioni: quelle subite da un appartamento e
provenienti da un’altra unità di proprietà esclusiva, oppure dagli impianti e dai servizi comuni; le
immissioni provenienti dall’esterno in danno di parti comuni o esclusive, e così via (sulle
immissioni nel condominio, v. Rezzonico 1992, 485 ss.; Terzago 1992, 421 ss.; Maglia 1993a, 879
ss.; Maglia 1993, 21 ss.).
Allorché si parla di condominio - e quindi essenzialmente di immobili destinati a scopi residenziali
- in gioco, come vedremo, è non solo, o non tanto, la proprietà immobiliare bensì, sempre più, la
salute.
Ed è appena il caso di ricordare - prima di passare ad una ricognizione sistematica della casistica
giurisprudenziale - quali siano gli strumenti normativi di riferimento in questo campo, e quali le
forma di tutela che l’ordinamento offre.
Quanto ai primi, si tratta essenzialmente degli artt. 844, 2043, 2058 c.c., dell’art. 700 c.p.c., nonché
dell’art. 32 Cost.: si precisa infatti - da parte di un filone giurisprudenziale (legato a Corte Cost.
23.7.74, n. 247, CS, 1974, II, 882; GC, 1974, III, 430; FI, 1975, I, 18; GI, 1975, I, 1, 3; nonché a
Cass. 21.5.76, n. 1845, RCP, 1977, 272; GI, 1978, I, 1, 412) - che, allorché la domanda degli attori
concerna le conseguenze delle immissioni sulla loro sfera personale,
la fonte normativa a cui deve farsi riferimento non sia l’art. 844 c.c. (che regola i rapporti fra proprietari fondiari),
ma, piuttosto, l’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 32 della Costituzione, alla luce della fondamentale sentenza della
Corte costituzionale n. 184 del 1986
(Trib. Vigevano 9.8.91, ALC, 1991, 577; RCP, 1991, 910, con nota di Catalano).
In altri termini:
Poiché l'art. 844 c.c. disciplina i rapporti inerenti al diritto di proprietà dei beni immobili, dal suo ambito esulano i
diritti personali, tra i quali è da annoverare quello alla salute considerato dall'art. 32 cost., con la conseguenza che
per la tutela di quest'ultimo, in caso di denunziata lesione dipendente da atto o fatto illecito ancorché concernente
immissioni provenienti dal fondo del vicino, venendo in considerazione ed essendo applicabili, mediante le
opportune statuizioni riparatorie, ripristinatorie ed inibitorie, le norme dettate in via generale dagli art. 2053 e 2058
c.c. la relativa domanda, in quanto autonoma e distinta da quella fondata sul cit. art. 844 c.c., deve essere proposta in
modo espresso, senza potersi ritenere compresa in quella di natura reale intentata per l'inibizione delle immissioni a
norma dell'art. 844 c.c.
(Cass. 11.9.89, n. 3921, RFI, 1989, Proprietà, 21; v. anche Cass. 20.3.95, n. 3223, RFI, 1995, Proprietà, 31).
Una significativa conseguenza di tale rilievo è rappresentata dalla legittimazione attiva, che viene
riconosciuta non soltanto ai proprietari (in quanto tali, tutelati ex art. 844 c.c.), ma a chiunque
lamenti la lesione del proprio diritto alla salute (App. Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con nota di
Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI,
1994, I, 2, 717, con nota di Masucci, che conferma Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127: si ammette
l’intervento, nel processo, dei figli minori degli originari attori, a tutela del proprio diritto alla
salute, ex artt. 2043 c.c. e 32 Cost.).
Quanto alle misure di attuazione della tutela, si va dall’inibizione a continuare nell’immissione, al
risarcimento del danno, alla condanna alla corresponsione di un indennizzo nel caso in cui si giunga
a una valutazione circa l’ineliminabilità del disturbo - e dell’attività che ne è la fonte.
Con riguardo all’inibitoria, occorre rilevare come tale misura risulti sovente concessa pure in
seguito ad azioni fondate sulla lesione della salute, e cioè sull’art. 2043 c.c., ritenendosi applicabile
in via analogica il rimedio di cui all’art. 844 c.c., anche per quanto riguarda la possibilità di imporre
l’adozione di provvedimenti atti a ricondurre la situazione entro i confini del lecito (Cass. 6.4.83, n.
2396, ALC, 1983, 245; RGCT, 1983, 713; GI, 1984, I, 1, 537, con nota di Mastropaolo; App.
Milano 28.2.95, NGCC, 1995, I, 955, con nota di De Giorgi; FI, 1995, I, 955; ALC, 1995, 3291, con
nota di Loria, che conferma Trib. Monza 14.8.93, NGCC, 1994, I, con nota di De Giorgi; ALC,
1994, 122; RCP, 1994, 511; App. Milano 18.9.90, ALC, 1991, 109; Trib. Vicenza 24.11.86, FI,
1988, I, 289, con nota di Moccia). In altre sedi, l’inibitoria figura concessa quale effetto
dell’applicazione dell’art. 2058 c.c. (App. Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia;
NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2,
717, con nota di Masucci - che corregge, sul punto, Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127; Trib.
Verona 13.10.89, FI, 1990, I, 3292; RDPr, 1990, 620, con nota di Consolo; GI, 1990, I, 2, 374, con
nota di Basile; Pret. Verona 12.11.87, GM, 1990, I, 85, con nota di Benini; Pret. Brindisi 17.3.86,
AC, 1987, 177).
La corresponsione di un’indennità a fronte della non eliminabilità del disturbo figura adottata, in
particolare, nella soluzione di conflitti aventi ad oggetto immissioni industriali - ove alla
inopportunità del provvedimento inibitorio si fa seguire una condanna a un indennizzo, peraltro pari
al danno provocato (v. ad es. Cass. 1.2.93, n. 1226, NGCC, 1993, I, 280, con nota di Maugeri; CorG
1993, 982, con nota di Batà; FI, 1993, I, 1452; Cass. 23.2.82, n. 1115, FI, 1983, I, 1066; non
sembra però che nelle vicende si facesse riferimento alla lesione di diritti - salute, ambiente - diversi
da quelli dominicali):
“Mentre in caso di immissione eccedente la normale tollerabilità, è dovuto al proprietario del fondo danneggiato il
risarcimento del pregiudizio subito, consistendo l'immissione in un fatto illecito ex art. 2043 c.c., in caso di
immissione che, pur eccedendo la normale tollerabilità, sia consentita dal giudice, al proprietario del fondo, che vi
rimane soggetto, spetta l'indenizzo da atto lecito (nella specie, è stato ritenuto che l'indennizzo comprende il
risarcimento dei danni per il pregiudizio subito a causa dell'eccedenza delle immissioni rumorose pari alla parziale
perdita del godimento della casa e del giardino nonché le spese per la costruzione di un muro di cinta e
l'applicazione di doppi vetri alle finestre, escluso ogni pregiudizio relativo al deprezzamento degli immobili)” (Cass.
26.5.90, n. 4903, RGE, 1990, I, 645).
Non mancano inoltre giudici che reputano l’art. 844 c.c. direttamente applicabile al fine di tutelare
la salute (Trib. Savona 31.1.90, ALC, 1990, 306).
2.2.8.1. I criterî di valutazione delle immissioni.
In linea generale, con riguardo ai criterî di valutazione delle immissioni all’interno del condominio,
è interessante quanto affermato dalla S.C. in una non remota decisione:
Questa disposizione [art.844 c.c.] statuita per disciplinare fattispecie differenti (essenzialmente per i rapporti tra i
fondi vicini), nel condominio si rivela inadeguata per ragioni antitetiche, cioè per eccesso o per difetto. Dalla
convivenza nell'edificio, virtualmente perpetua, talora scaturisce la necessità di tollerare propagazioni intollerabili
da parte dei proprietari dei fondi vicini; per contro, la stessa convivenza suggerisce di considerare non tollerabili le
immissioni, che i proprietari del fondi vicini sono tenuti a sopportare. Il principio, dunque, va precisato in
considerazione delle condizioni di fatto, del tutto peculiari, consistenti nei confini in senso orizzontale e verticale tra
le unità abitative.
A fondamento della interpretazione evolutiva dell'art. 844 c.c. si colloca il concetto di «utilità sociale», recepito
dall'art. 42, secondo comma, Cost., che raffigura il criterio essenziale per contemperare i conflitti di interessi inerenti
alle situazioni economiche private.
Quando le disposizioni di natura pubblicistica, contenute nei piani urbanistici, non assegnano all'edificio una
determinata destinazione, cui i proprietari debbono conformarsi, il criterio per valutare la tollerabilità delle
immissioni si desume dalla destinazione assegnata di fatto dai proprietari. Nel caso in cui il fabbricato non adempia
ad un funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti - ad un tempo, ad abitazione e
ad esercizio commmerciale - il ricordato criterio della «utilità sociale» consente di graduare le esigenze, in rapporto
alle istanze di natura personale ed economica, che dall'ordinamento vengono diversamente valutate. All'utilità
sociale connessa con il godimento della abitazione, indirettamente ed in certa misura, si ricollegano numerose norme
costituzionali. Per esempio, in tema di tutela della famiglia o della maternità, l’art. 31, primo e secondo comma; di
inviolabilità del domicilio, l'art. 14; di accesso alla proprietà dell'abitazione, l'art. 47, secondo comma. In sintesi, la
tutela della abitazione riassume una serie di istanze fondamentali, alle quali la convivenza deve adeguarsi.
Pertanto, le esigenze personali connesse all'abitazione - il riparo, la sicurezza, il lavoro domestico, il riposo,
l'intimità familiare, la riservatezza, lo svago, le relazioni sociali ecc. - dall'ordinamento vengono di certo privilegiate
rispetto alle utilità meramente economiche, provenienti da un esercizio commerciale, di per sé lecite e meritevoli di
tutela, ma subordinate alle istanze ricordate sopra. Tra le regole capaci di razionalizzare l'uso delle unità abitative
comprese negli edifici multipiani esiste quella di non ledere, con attività utili ma, tutto sommato, meno rilevanti sul
piano della valutazione normativa e della considerazione diffusa nella comunità, il godimento dell'abitazione dei
vicini
(Cass. 15.3.93, n. 3090, ALC, 1993, 495, con nota di Maglia).
Da qui, nel caso di specie, l’ordine di rimuovere la canna fumaria di una pizzeria, innalzata in
aderenza al muro comune, in vicinanza delle finestre dei condomini e con emissione di fumi e
odori.
2.2.8.1.1. Le immissioni sonore.
Nell’esame circa la tollerabilità dell’immissione sonora, si fa ricorso al confronto fra l’intensità
(misurata in decibel) del rumore prodotto dall’attività sotto accusa ed il rumore “di fondo”,
riscontrandosi - nella generalità dei casi - l’intollerabilità in una differenza pari o superiore ai tre
decibel, con misurazione da effettuarsi, nel caso di fonti sonore esterne all’edificio, con le finestre
aperte (criterio che figura applicato ancorché più rigoroso di quello previsto in fonti normative volte
a contenere l’inquinamento - quali il D.P.C.M. 1.3.91, di attuazione della l. 833/1978, art. 4, o i
regolamenti comunali -, ritenute attinenti ad ambiti diversi rispetto a quello della tutela della
proprietà fondiaria individuale e della salute delle persone; in tal senso, le sentenze citate al
capoverso successivo; su questo punto, e più in generale sui criterî di valutazione delle immissioni
di rumore, v. Novo 1994, 439 ss.; v. anche Grillo 1988, 1013 ss.; il D.P.C.M. in questione risulta
peraltro applicato da Pret. Milano 22.12.92, FP, 1993, 227, e da Pret. Alessandria 24.1.92, GM,
1993, 1223, con nota di Belfiore, mentre secondo Pret. Pescara 15.3.92, ALC, 1992, 642; GM, 1993,
1211, con nota di Tulipani, esso concorre a determinare i limiti di tollerabilità).
Quanto poi alle misure da adottare, si procede dapprima alla verifica circa la possibilità di adottare
accorgimenti idonei a riportare i suoni entro la soglia lecita, procedendosi altrimenti ad ordinare le
cessazione dell’attività stessa (Cass. 1.7.94, n. 6242, FI, 1995, I, 1260; RCP, 1995, 314; Ambiente,
1995, fasc. 10, 63, con nota di Gabriotti; RGAmbiente, 1995, 677, con nota di Damiani; CorG,
1994, 1356, con nota di Batà; App. Milano 28.2.95, NGCC, 1995, I, 955, con nota di De Giorgi; FI,
1995, I, 955; ALC, 1995, 3291, con nota di Loria, che conferma Trib. Monza 14.8.93, NGCC, 1994,
I, con nota di De Giorgi; ALC, 1994, 122; RCP, 1994, 511; App. Torino 23.3.93, ALC, 1994, 823;
NGCC, 1995, I, 321, con nota di De Giorgi; GI, 1995, I, 2, 343, con nota di Armone; che conferma
Trib. Alessandria 7.5.92, GI, 1995, I, 2, 344, con nota di Armone; App. Milano 29.11.91, NGCC,
1992, I, 844, con nota di Visonà; GC, 1992, I, 1921, con nota di de Tilla; ALC, 1992, 113; RCP,
1992, 424, con nota di Verrando, che conferma Trib. Milano 7.1.88, FI, 1989, I, 903, con nota di
Formica; ALC, 1989, 538; GI, 1989, I, 2, 386; con data 11.7.88, RCP, 1988, 1003, con nota di
Coggi; App. Milano 18.9.90, ALC, 1991, 109; Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di
Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi, RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI,
1994, I, 2, 717, con nota di Masucci; Trib. Milano 21.1.91, ALC, 1991, 792; Trib. Vigevano 9.8.91,
ALC, 1991, 577; RCP, 1991, 910, con nota di Catalano; App. Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con
nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano;
GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci, che riforma sul punto Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991,
127, riducendo la misura inibitoria al divieto di svolgere l’attività rumorosa in certe ore del giorno;
Trib. Monza 4.11.91, ALC, 1992, 345; Trib. Napoli 17.11.90, ALC, 1991, 578; Pret. Monza 18.7.91,
ALC, 1991, 578; RCP, 1991, 910, con nota di Catalano; App. Milano 9.5.86, FI, 1986, I, 2870, con
nota di Moccia, RCP, 1986, 559; GM, 1986, 1069; App. Venezia 31.5.8, FI, 1986, I, 2871 con nota
di Moccia; GM, 1986, 1069).
Occorre segnalare, però, come l’argomento sul quale molte pronunce fondano la dichiarazione di
intollerabilità a carico di immissioni di rumore inferiori ai livelli stabiliti a livello normativo - e cioè
la sostanziale autonomia delle due sfere, quella della salute pubblica, e quella dei conflitti
interprivati - finisca per essere utilizzato anche in senso contrario:
Le disposizioni della l. 13 luglio 1966, n. 615, contenente provvedimenti contro l'inquinamento atmosferico,
disciplinano comportamenti che prescindono da qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria e che vengono
presi in considerazione in sé e per sé nell'interesse collettivo alla salvaguardia della salute in generale e non per
stabilire i limiti di equilibrio nella utilizzazione di tale proprietà che rimangono affidati alla disciplina delle
immissioni ex art. 844 c.c., senza trovare sanzione nella detta legge avente una diversa sfera di operabilità; pertanto,
in materia di conflitti tra fondi vicini il comportamento dannoso del proprietario di uno di essi, quale l'emissione di
fumo prodotto da combustione dalla finestra di un locale adibito a panificio, pur essendo contraria alle dette norme
contro l'inquinamento atmosferico, non attribuisce ex se al proprietario di un appartamento nell'edificio in
condominio col primo il diritto di chiederne l'eliminazione se non nel caso in cui egli dimostri che l'immissione di
fumo nel suo appartamento supera il limite della normale tollerabilità ai sensi dell'art. 844 c.c.
(Cass. 16.3.88, n. 2470, AC, 1988, 804; VN, 1988, 268; ALC, 1988, 551; GA, 1988, 484, RCP, 1990, 162, con nota
di Pulli).
2.2.8.1.2. Le altre immissioni.
L’autonomia dei criterî civilistici di valutazione, rispetto alle normative pubblicistiche risulta
ribadita pure con riguardo ad immissioni diverse da quella di rumore, precisandosi, ad esempio, che
la norma di cui all'art. 844 c.c. e la l. n. 615 del 1966 contro l'inquinamento atmosferico tutelano oggetti diversi
essendo destinati, rispettivamente, alla salvaguardia della proprietà fondiaria l'una, e alla tutela della salute pubblica
l'altra, talché non è inconcepibile che il medesimo comportamento risulti illecito ai sensi della prima e non in
violazione della seconda
(Cass. 20.12.90, n. 12091, RFI, 1990, Proprietà, 27; Cass. 12.3.87, n. 2580, RFI, 1987, Proprietà, 22).
Di regola, le norme in tema di immissioni figurano offrire tutela a quei condomini che non trovano
nel regolamento di condominio strumenti idonei - in termini di limiti all’uso delle parti comuni o di
quelle di proprietà esclusiva - a salvaguardare la propria tranquillità (v. Cass. 27.5.85, n. 3848, ALC,
1985, 431). In taluni casi, è possibile, tuttavia, che il regolamento condominiale preveda limiti più
rigorosi di quelli desumibili dall’art. 844 c.c., e che, quindi, il giudizio sulla tollerabilità finisca per
essere condotto alla luce della disciplina pattizia (Cass. 4.2.92, n. 1195, ALC, 1992, 546;
RGAmbiente, 1993, 712, con nota di Damiani; GC, 1992, I, 2407, con nota di de Tilla; Cass. 7.1.92,
n. 49, GI, 1992, I, 1, 1465; ALC, 1992, 547; VN, 1992, 542; GC, 1992, I, 2407, con nota di de Tilla;
Trib. Milano 28.5.90, ALC, 1991, 792: abbaiare di cani; Cass. 15.7.86, n. 4554, ALC, 1986, 640:
esercizio di una trattoria; Trib. Napoli 17.11.90, ALC, 1991, 578: officina di lavorazioni metalliche);
mentre il fatto che il regolamento consenta in via generale lo svolgimento di determinate attività
non priva il condomino della possibilità di far valere i presidî a tutela della propria salute (Pret.
Torino 27.12.90, DFP, 1991, 1060).
2.2.8.2. La legittimazione attiva.
La legittimazione attiva contro le immissioni (sulla quale v., in particolare, Dell’Aquila 1988, 324
ss.) spetta anche all’usufruttuario (Cass. 6.3.79, n. 1404, GA, 1979, 539, con nota di Cappiello) e al
titolare di un diritto personale di godimento:
deve ritenersi che la legittimazione ad agire contro le immissioni spetti anche al conduttore sulla base della norma ex
art. 1585, 2° comma, non essendovi dubbio che le immissioni stesse altro non sono che molestie, e che, in tal caso,
la predetta norma possa essere integrata per analogia (sussistendo l’identica ragione di tutela) con i criteri per
l’interpretazione delle fattispecie immissive dettate dall’art. 844 c.c. per quanto attiene alla normale tollerabilità, al
contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà ed alla priorità dell’uso
(Cass. 22.12.95, n. 13069, FI, 1996, I, 533, con nota di Caringella; v. anche Cass 21.2.94, n. 1653, RFI, 1994,
Proprietà, 33).
Muovendo da tale convinzione, è stata accolta la domanda formulata dal promissario acquirente, al
quale era stato consegnato anticipatamente l’appartamento; e ciò in quanto riconosciuto anch’egli
titolare di un diritto personale di godimento, e quindi detentore qualificato - in posizione “per certi
aspetti poziore” rispetto a quella del locatario (Cass. 11.11.92, n. 12133, FI, 1994, I, 205, con nota
di Lener).
Secondo alcuni giudici, tuttavia, la legittimazione del non proprietario (nella specie, del figlio dei
proprietari, con essi convivente) discenderebbe non già dall’art. 844 c.c. - essendo tale azione
esercitabile dal solo titolare del fondo - bensì, quale azione personale, dalla configurabilità
dell’inibitoria come misura ammissibile ex art. 2058 c.c. (Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496,
con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi, RCP, 1993, 1005, con nota di
Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci).
Di fronte all’invocazione del diritto alla salute, nessun rilievo sembra assumere il fatto che i
ricorrenti risultino anche essere i locatori dell’unità immobiliare fonte delle immissioni (Pret.
Pescara 15.3.92, ALC, 1992, 642; GM, 1993, 1211, con nota di Tulipani; v. anche Pret. Taranto
17.6.88, AC, 1988, 1210).
Con riguardo alla posizione dell’amministratore, si è precisato che - nel conflitto fra condomini,
avente ad oggetto il disturbo arrecato dall’attività svolta all’interno di una unità - legittimati ad agire
sono esclusivamente i singoli condomini; salva infatti l’ipotesi di un mandato ad hoc da parte di
ciascun interessato, l’amministratore può agire solo a tutela dalla proprietà comune, ex art. 1117
(Trib. Napoli 26.10.93, ALC, 1995, 168: nella specie, si trattava di un laboratorio di pasticceria sito
al piano terra del condominio). Inoltre, anche ove l’amministratore si sia attivato validamente nella
propria sfera di competenza - a tutela cioè delle parti comuni dell’edificio - egli non può esperire
azione di danni, non essendo il condominio un soggetto autonomo dotato di un proprio patrimonio
(Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991, 792).
Da segnalare, infine, una pronuncia che ha ammesso i proprietari ed i residenti di un immobile a far
valere il proprio interesse legittimo - leso dalla degradazione ambientale e dai rumori - nei confronti
dell’autorizzazione all’esercizio di un locale pubblico di alimenti e bevande al piano terreno dello
stabile, rilasciata dal Comune (T.A.R. Emilia-Romagna 10.11.92, ALC, 1993, 829).
2.2.8.3. La legittimazione passiva.
Legittimato passivo nei riguardi di un’azione risarcitoria da immissioni intollerabili, nel caso in cui
l’attività inquinante sia stata posta in essere da un inquilino, può essere anche il locatore, sia esso il
proprietario oppure l’usufruttuario (Trib. Napoli 17.11.90, ALC, 1991, 578) dei locali:
se sussiste il nesso oggettivo di causalità (e non di mera occasionalità) tra la condotta del proprietario e l'evento
dannoso e se risulta che l'eccedenza delle immissioni rispetto ai limiti legali, sia imputabile a sua colpa per avere
concesso il fondo in locazione con la consapevolezza della destinazione dello stesso ad attività di per sé molesta ai
vicini e per non avere adottato alcun provvedimento idoneo ad indurre il conduttore ad apportare modifiche ed
adattamenti necessari per eliminare le immissioni intollerabili
(Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991, 792; Trib. Vigevano 9.8.91, ALC, 1991, 577; RCP, 1991, 910, con nota di
Catalano; Cass. 15.7.86, n. 4554, ALC, 1986, 640; Cass. 24.1.85, n. 318, RFI 1985, Proprietà, 33; Cass. 9.5.83, n.
3190, RGE, 1984, 1, 227; GI, 1983, I, 1, 1951; Cass. 21.5.76, n. 1833, RCP, 1977, 59).
Una posizione - quella del locatore - che figura talvolta considerata in maniera ancor più severa: è
ciò che accade allorché la sua responsabilità figuri dichiarata non già in considerazione dell’aver
locato con la consapevolezza dell’attività che sarebbe stata svolta, bensì sulla base del potere di far
valere nei confronti del locatario gli strumenti contrattuali relativi all’abuso della cosa locata.
Dall’esistenza, cioè, dei mezzi giuridici a disposizione del locatore per intervenire contro le
immissioni del locatario a danno dei condomini, si trae al responsabilità del primo per il fatto del
secondo (Trib. Vigevano 9.2.82, GC, 1982, I, 2827).
Tale responsabilità - solidale nei confronti del danneggiato - potrà finire per gravare in tutto o in
parte sul locatore; si è sostenuto, infatti, che
nel caso di condanna del conduttore al risarcimento del danno provocato da immissioni nocive ed esorbitanti la
normale tollerabilità, il proprietario-locatore dell'immobile, nella misura in cui dette immissioni sono da imputarsi a
deficienze strutturali dell'immobile, deve tener indenne il conduttore di quanto quest'ultimo sia tenuto a pagare ai
danneggiati, essendo il locatore inadempiente all'obbligo sancito dall'art. 1575, n. 2, c.c.
(Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127, confermata sul punto da App. Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con nota di
Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con
nota di Masucci).
Non essendo però il locatore autore diretto delle immissioni, ove queste siano tali da assumere
rilevanza penale (ad es. art. 659 c.p.), egli non sarà tenuto a risarcire il danno non patrimoniale posta che resterà a carico esclusivo del conduttore (Trib. Vigevano 9.8.91, ALC, 1991, 577; RCP,
1991, 910, con nota di Catalano; in senso contrario, Trib. Venezia 7.7.87, GM, 1989, 721, con nota
di Bonamore, ove peraltro si ritiene accertata la colpa della società convenuta, locataria di un
immobile del tutto inidoneo ad essere adibito a discoteca).
Con riguardo però alla legittimazione passiva del conduttore - che comprende le immissioni
derivanti da attività esercitate da altri all’interno dell’immobile locatogli (Cass. 28.11.81, n. 6356,
AC, 1982, 378; RCP, 1982, 641: nella specie, si trattava di rumori prodotti dall’attività lavorativa
della moglie del conduttore) -, si è rilevato che questa è destinata a venir meno rispetto all’azione
inibitoria che comporti la realizzazione di modifiche strutturali sul bene da cui provengono le
immissioni - attività per sua natura preclusa al locatario (Cass. 22.12.95, n. 13069, FI, 1996, I, 533,
con nota di Caringella).
Ove le immissioni traggano origine da una parte o un impianto comune condominiale, la
legittimazione passiva spetta sia all’amministratore che ai singoli condomini (Trib. S. Maria Capua
Vetere 9.6.86, ALC, 1986, 669).
(In dottrina, sulla legittimazione passiva v., in particolare, Dell’Aquila 1988, 324 ss.).
2.2.8.4. Il risarcimento del danno. Lo stress psicofisico.
Con riguardo all’esistenza del danno, si è affermato più volte che - una volta accertata la
intollerabilità delle immissioni - il danno è in re ipsa, in termini di stress psicofisico, di perdita di
tranquillità, ecc. (App. Torino 23.3.93, ALC, 1994, 823; NGCC, 1995, I, 321, con nota di De Giorgi;
GI, 1995, I, 2, 343, con nota di Armone; che conferma Trib. Alessandria 7.5.92, GI, 1995, I, 2, 344,
con nota di Armone: danno presunto; App. Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia;
NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2,
717, con nota di Masucci, che conferma Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127; App. Milano
29.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà; GC, 1992, I, 1921, con nota di de Tilla; ALC,
1992, 113; RCP, 1992, 424, con nota di. Verrando, che conferma Trib. Milano 7.1.88, FI, 1989, I,
903, con nota di Formica; ALC, 1989, 538; GI, 1989, I, 2, 386; con data 11.7.88, RCP, 1988, 1003,
con nota di Coggi; App. Milano 9.5.86, FI, 1986, I, 2870, con nota di Moccia; RCP, 1986, 559;
GM, 1986, 1069; App. Venezia 31.5.85, FI, 1986, I, 2871, con nota di Moccia; GM, 1986, 1069;
Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De
Giorgi: RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci; Trib.
Milano 18.5.92, ALC, 1993, 121; RCP, 1993, 170; GM, 1993, 20; Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991,
792; Trib. Milano 3.10.89, AC, 1990, 1148, con nota di Gallini; Trib. Vigevano 25.1.85, GA, 1985,
361, con nota di Busetto; CorG, 1985, 389, con nota di Vaccà; AC, 1985, 1454; FI, 1986, I, 2872,
con nota di Moccia; Trib. Vigevano 9.2.82, GC, 1982, I, 2827).
Non è mancato poi chi ha ritenuto necessario distinguere fra la menomazione dell’integrità
psicofisica del soggetto - lesione che necessita di prova specifica -, e il danno consistente nello
stress, nel fastidio, nell’esasperazione - questo sì sussistente in re ipsa, quale lesione del “diritto ad
un ambiente di vita idoneo a consentire un accettabile livello di benessere psicofisico” (App. Torino
4.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà; ALC, 1992, 345, con data 4.11.92, GM, 1993,
949, con nota di Del Peschio Liberatore, che conferma Trib. Biella 22.4.89, FI, 1990, I, 3303, con
nota di Simone; con data 16.9.89, RCP, 1989, 1191, con nota di Vaccà). E ancora diverso è il parere
di chi - partendo dalla medesima impostazione, muove dal diritto all’ambiente salubre per
concedere (ex art. 2058 c.c.) l’inibitoria, e per poi negare, in assenza di prova specifica, un
risarcimento monetario per il danno alla salute (Trib. Verona 13.10.89, FI, 1990, I, 3292; RDPr,
1990, 620, con nota di Consolo; GI, 1990, I, 2, 374, con nota di Basile).
Va precisato, ancora, come l’orientamento che abbina senz’altro l’intollerabilità del rumore al danno
da stress non risulti unanimemente condiviso: taluni giudici hanno infatti concesso il risarcimento
del danno alla salute solo a favore di quello, fra i condomini, che era stato in grado di allegare una
documentazione medica attestante il peggioramento del proprio stato di salute nel periodo durante il
quale si erano verificate le immissioni rumorose (Trib. Vigevano 9.8.91, ALC, 1991, 577; v. anche
Trib. Savona 31.1.90, ALC, 1990, 306); altri hanno addirittura respinto ogni richiesta risarcitoria
(Trib. Monza 14.8.93, NGCC, 1994, I, con nota di De Giorgi; ALC, 1994, 122; RCP, 1994, 511).
2.2.8.4.1. Segue. Il valore dell’immobile e le altre perdite patrimoniali.
Diverso appare il trattamento riservato sovente alla domande risarcitorie fondate sulla riduzione del
valore degli immobili o sul verificarsi di perdite patrimoniali d’altro genere: tali poste figurano
infatti oggetto di considerazione solo in presenza di precise prove (App. Milano 17.7.92, ALC,
1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con
nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci, che conferma Trib. Milano 2.7.90, ALC,
1991, 127; App. Milano 29.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà; GC, 1992, I, 1921, con
nota di de Tilla; ALC, 1992, 113; RCP, 1992, 424, con nota di Verrando, che conferma Trib. Milano
7.1.88, FI, 1989, I, 903, con nota di Formica; ALC, 1989, 538; GI, 1989, I, 2, 386; con data 11.7.88,
RCP, 1988, 1003, con nota di Coggi; App. Torino 4.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà;
ALC, 1992, 345, con data 4.11.92, GM, 1993, 949, con nota di Del Peschio Liberatore, che
conferma Trib. Biella 22.4.89, FI, 1990, I, 3303, con nota di Simone; con data 16.9.89, RCP, 1989,
1191, con nota di Vaccà; Trib. Milano 18.5.92, ALC, 1993, 121; RCP, 1993, 170; GM, 1993, 20;
Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991, 792; Trib. Verona 13.10.89, FI, 1990, I, 3292; RDPr, 1990, 620,
con nota di Consolo; GI, 1990, I, 2, 374, con nota di Basile).
Su quest’ultimo punto, occorre tuttavia segnalare come la S.C. abbia avallato una decisione di
merito che aveva assegnato agli attori - quale risarcimento del danno per il ridotto godimento
dell’appartamento nel periodo di durata delle immissioni - una somma determinata in via equitativa,
muovendo della riduzione del valore di mercato che l’appartamento aveva presentato durante il
medesimo periodo; e ciò con riferimento al principio - affermato anche in precedenza dalla stessa
S.C. - in base al quale
l'indennizzo spettante al proprietario del fondo danneggiato dalle immissioni in alienum di cui all'art. 844 c.c., deve
essere determinato, quando il bene è goduto direttamente dallo stesso proprietario, in modo da comprendervi la
riparazione del danno derivato dalla minore o impossibile utilizzazione del bene che può essere fatta ed avendo
riguardo alla naturale destinazione originaria di questo, alle possibili modalità di godimento del proprietario, nonché
alla maggiore o minore prevedibile durata delle immissioni
(Cass. 5.8.92, n. 9298, AC, 1993, 157; v. anche Trib. Vigevano 25.1.85, GA, 1985, 361, con nota di Busetto; CorG,
1985, 389, con nota di Vaccà; AC, 1985, 1454; FI, 1986, I, 2872, con nota di Moccia; Trib. Vigevano 9.2.82, GC,
1982, I, 2827).
Così, da parte di altri giudici, si è provveduto a liquidare con una somma onnicomprensiva sia il
danno biologico sia quello patrimoniale da attenuato godimento dell’abitazione (Trib. Milano
10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi; RCP,
1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci).
Con riguardo all’azione posta in essere dall’amministratore a difesa delle parti comuni interessate
dalle immissioni, è stata esclusa la configurabilità di un danno risarcibile in capo al condominio
stesso: il minor godimento e uso delle parti si configura quale diminuzione del valore economico
delle singole porzioni dell’edificio, ed il risarcimento può essere accordato soltanto ai titolari di
queste (Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991, 792).
2.2.8.4.2. Immissioni sonore e danno non patrimoniale.
Le immissioni di rumore possono dar luogo al reato previsto dall’art. 659 c.p. (per tutte, v. Cass.
pen. 18.9.95, n. 9704, ALC, 206), con la conseguente concessione del risarcimento del danno non
patrimoniale (Trib. Savona 31.1.90, ALC, 1990, 306; Trib. Milano 3.10.89, AC, 1990, 1148, con
nota di Gallini): posta destinata a rimanere a carico - per il principio della personalità del reato - del
solo autore delle immissioni e non già del proprietario-locatore (Trib. Vigevano 9.8.91, ALC, 1991,
577).
Secondo molti giudici, l’astratta configurabilità del reato non discenderebbe però dalla sola
accertata intollerabilità delle immissioni, occorrendo invece la violazione di altra disposizione
legislativa, regolamentare o amministrativa, regolante l’esercizio dell’attività inquinante (App.
Milano 17.7.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi;
RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci, che conferma
Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127; v. anche App. Milano 29.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota
di Visonà; GC, 1992, I, 1921, con nota di de Tilla; ALC, 1992, 113; RCP, 1992, 424, con nota di
Verrando, che conferma Trib. Milano 7.1.88, FI, 1989, I, 903, con nota di Formica; ALC, 1989,
538; GI, 1989, I, 2, 386; con data 11.7.88, RCP, 1988, 1003, con nota di Coggi; App. Torino
4.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà; ALC, 1992, 345, con data 4.11.92, GM, 1993,
949, con nota di Del Peschio Liberatore, che conferma Trib. Biella 22.4.89, FI, 1990, I, 3303, con
nota di Simone; con data 16.9.89, RCP, 1989, 1191, con nota di Vaccà; Trib. Vigevano 25.1.85,
GA, 1985, 361, con nota di Busetto; CorG, 1985, 389, con nota di Vaccà; AC, 1985, 1454; FI, 1986,
I, 2872, con nota di Moccia; Trib. Vigevano 9.2.82, GC, 1982, I, 2827).
In altra sede, la domanda di risarcimento del danno morale figura respinta in base alla necessità che
il disturbo venga arrecato ad una molteplicità di persone - non essendo cioè sufficiente che ad essere
colpito sia un unico gruppo familiare (Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia;
NGCC, 1993, I, 786, con nota di De Giorgi, RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2,
717, con nota di Masucci); e alla medesima soluzione si è giunti in base alla considerazione che le
immissioni erano provenienti non già dalla collettività dei condomini, bensì dal funzionamento
automatico di un impianto (Trib. Milano 18.5.92, ALC, 1993, 121; RCP, 1993, 170; GM, 1993, 20).
2.2.8.5. Immissioni e conflitto fra condomini.
Nel repertorio delle liti fra condomini, grande è lo spazio occupato - specie nel recente passato dalla casistica relativa alle immissioni di rumore.
Ebbene, è facile constatare come la soluzione al caso concreto sia il frutto di un uso flessibile degli
strumenti a disposizione dei giudici, e ciò soprattutto allorché figuri applicato il criterio che induce
a valutare come intollerabili le immissioni che superino di tre decibel il rumore di fondo.
Con riguardo, anzitutto, ai contrasti fra la fruizione delle singole unità immobiliari a fini economici
e quella a fini residenziali, può accadere che si giunga all’imposizione di un divieto definitivo allo
svolgimento dell’attività fonte di immissioni, come conseguenza dell’accertata impraticabilità
tecnica o economica di soluzioni miranti a ridurre convenientemente i rumori. E quanto accaduto,
ad esempio, allorché si è proceduto ad ordinare la chiusura di una sala giochi (Trib. Milano 21.1.91,
ALC, 1991, 792); oppure la cessazione di determinate attività produttive (Trib. Napoli 17.11.90,
ALC, 1991, 578: lavorazioni metalliche; decisione rafforzata dall’ordine di rimozione dei
macchinari aziendali; Trib. Milano 2.7.90, ALC, 1991, 127: panificazione).
Ove possibile e conveniente, si ordina invece l’adozione dei provvedimenti necessari ad attenuare le
immissioni di rumore (v. ad es. Cass. 11.11.92, n. 12133, FI, 1994, I, 205, con nota di Lener,
relativa a immissioni provenienti da un forno per la panificazione: si riconosce la legittimazione
attiva del promissario acquirente di un appartamento, cui lo stesso era già stato consegnato. In tema
di rumori da panificazione, v. anche Pret. Molfetta 27.2.89, ALC, 1989, 351).
Va segnalato tuttavia come, là dove i giudici ritengano di dover far riferimento ai parametri
regolamentari (in particolare a quelli stabiliti dal D.P.C.M. 1.3.91), si finisca per elevare la soglia
della tollerabilità e per favorire l’attività dell’immittente (Pret. Alessandria 24.1.92, GM, 1993,
1223, con nota di Belfiore: lecite le immissioni rumorose subite da uno studio professionale e
provenienti dal sottostante centro di abbronzatura artificiale).
Intollerabili possono essere giudicate, inoltre, le immissioni di calore, provenienti dalla canna
fumaria del locale terraneo adibito a rosticceria, tali di innalzare la temperatura delle pareti dei
condomini sino ad oltre i 50° C (Pret. Foligno 10.6.88, AC, 1988, 1081). E proprio con riguardo alle
immissioni di fumi e odori, ricordiamo come sia stata ordinata la rimozione della canna fumaria di
una pizzeria - edificata per di più in violazione delle norme sulle distanze - in considerazione della
violazione dell’art. 844 c.c., interpretato alla luce dei valori costituzionali e in particolare
dell’«utilità sociale» di cui all’art. 42 Cost. (Cass. 15.3.93, n. 3090, ALC, 1993, 495, con nota di
Maglia).
E’ appena il caso di rilevare, poi, come non siano soltanto le attività economiche a generare
contrasti, ma anche quelle appartenenti all’ordinaria fruizione dell’unità abitativa.
Fra i classici conflitti condominiali troviamo, infatti, quelli provocati dallo studio della musica e del
canto: non è consentito, ad esempio, esercitarsi per quattro ore al giorno nella lirica e nel pianoforte
elevando così in maniera intollerabile il rumore patito dagli abitanti dell’appartamento sovrastante;
tale attività deve perciò cessare fino all’allestimento di idonee misure di insonorizzazione, e salvo
comunque il risarcito del danno causato, in termini di stress psicofisico (App. Torino 23.3.93, ALC,
1994, 823; NGCC, 1995, I, 321, con nota di De Giorgi; GI, 1995, I, 2, 343, con nota di Armone; che
conferma Trib. Alessandria 7.5.92, GI, 1995, I, 2, 344, con nota di Armone; v. anche Pret. Milano
18.2.93, ALC, 1994, 391; NGCC, 1995, I, 321, con nota di De Giorgi; Pret. Milano 22.12.92, FP,
1993, 227: si ordina l’astensione dal suono del pianoforte senza sordina o fuori delle ore diurne;
Pret. Torino 27.12.90, DFP, 1991, 1060: si ordina la cessazione dell’attività pianistica).
Ricordiamo, poi, i problemi che derivano dalla presenza di animali negli appartamenti, e in
particolare dei cani che, con il loro abbaiare, disturbano gli altri condomini: vertenze risolte per lo
più con l’ordine di porre fine alle molestie (Trib. Milano 28.5.90, ALC, 1991, 792), quando non
addirittura con l’allontanamento dell’animale (v. retro, § 2.2.7.).
Continuando a scorrere l’elenco dei cause di lite più significative, incontriamo gli impianti di
condizionamento dell’aria: non sono tollerabili, ad esempio, le immissioni di rumori e di aria
riscaldata, provenienti da un simile impianto, e interessanti l’unità immobiliare soprastante (Pret.
Taranto 19.11.93, AC, 1994, 914, con nota di Fasano; Pret. Taranto 17.6.88, AC, 1988, 1210).
Nessun problema, invece, per la collocazione di vasi di fiori, e relativi sottovasi, sul balcone: anche
ove si voglia interpretare con ampiezza il dettato dell’art. 844 c.c., l’eventuale caduta di foglie
morte, stillicidio e perdita di luce non rappresentano certo una situazione intollerabile per il
proprietario dell’alloggio sottostante (Trib. Bologna 1.3.93, ALC, 1993, 319).
Da sottolineare, ancora, che alle vittime delle immissioni spetterà il risarcimento del danno patito
nel periodo in cui esse siano durate, e in particolare di quello alla salute e di quello derivante dalla
minor redditività (intesa talvolta anche come minor godimento) del bene (Cass. 5.8.92, n. 9298, AC,
1993, 157; Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con
nota di De Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci;
Trib. Milano 10.1.91, ALC, 1991, 792; Trib. Milano 28.5.90, ALC, 1991, 792; Trib. Venezia 7.7.87,
GM, 1989, 721, con nota di Bonamore).
Da notare, poi, come in questo campo il diritto di ciascuno singolo condomino non possa subire
limitazioni per effetto di decisioni assembleari. Precisa, infatti, la S.C.:
In tema di condominio di edifici, è nulla (e non soltanto annullabile) la deliberazione dell'assemblea presa a
maggioranza che approvi una utilizzazione particolare da parte di un singolo condomino di un bene comune, qualora
tale diversa utilizzazione - senza che sia dato distinguere tra parti principali e secondarie dell'edificio condominiale rechi pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei coesistenti diritti altrui, quali asservimenti, immissioni, o molestie
lesivi del diritto degli altri condomini alle cose e servizi comuni o su quelle di proprietà esclusiva di ognuno di essi
(nella specie la corte suprema ha annullato la decisione del merito che aveva ritenuto la validità della deliberazione
presa a maggioranza che aveva autorizzato un condomino ad appoggiare sul muro perimetrale comune una canna
fumaria destinata a smaltire le esalazioni prodotte dal forno di un esercizio commerciale ubicato a piano terra,
collocata nella parte terminale a breve distanza dalle finestre di altro condomino)
(Cass. 28.8.93, n. 9130, ALC, 1994, 326; RGE, 1994, I, 714, con nota di de Tilla).
2.2.8.6. Immissioni e conflitto fra condomino e condominio.
Numerose sono le vicende giudiziali - che vedono uno o più condomini in lite con il resto del
condominio - innescate dalla rumorosità di impianti comuni, in particolare, della centrale termica
(Trib. Milano 10.12.92, ALC, 1993, 496, con nota di Maglia; NGCC, 1993, I, 786, con nota di De
Giorgi; RCP, 1993, 1005, con nota di Catalano; GI, 1994, I, 2, 717, con nota di Masucci; Trib. S.
Maria Capua Vetere 9.6.86, ALC, 1986, 669; App. Milano 16.7.68, RGE, 1969, I, 100) o
dell’impianto di autoclave (Trib. Milano 18.5.92, ALC, 1993, 121; RCP, 1993, 170; GM, 1993, 20;
Pret. Monza 18.7.91, ALC, 1991, 578; RCP, 1991, 910, con nota di Catalano; Pret. Brindisi 17.3.86,
AC, 1987, 177), o da entrambi (App. Milano 29.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà;
GC, 1992, I, 1921, con nota di de Tilla; ALC, 1992, 113; RCP, 1992, 424, con nota di Verrando, che
conferma Trib. Milano 7.1.88, FI, 1989, I, 903, con nota di Formica; ALC, 1989, 538; GI, 1989, I,
2, 386; con data 11.7.88, RCP, 1988, 1003, con nota di Coggi).
Assai significativo un caso, trascinatosi nei vari gradi di giudizio per quasi un ventennio. La
vicenda - che trae spunto dall’installazione di una caldaia per il riscaldamento, alimentata a gasolio
e collocata sotto l’appartamento degli attori - figura oggetto di una pronuncia della S.C., così
massimata:
Il bene della salute ha carattere primario ed assoluto, e nell'ambito della tutela dei diritti assoluti assicurata dagli art.
2043 e 2058 c.c., deve essere protetto contro qualsiasi attività che possa menomarlo, ma l'assolutezza e
l'incomprimibilità del diritto non escludono la necessità di accertare quali siano le condizioni obiettive nel cui
contesto il diritto viene esercitato, e se sia razionale il sacrificio totale di ogni altra esigenza in potenziale conflitto
con esso, tenuto anche conto che la ricerca dell'effettiva esistenza della menomazione (ossia del confine tra
un'attività che reca un semplice fastidio psico-fisico ed un'attività che determina una vera e propria menomazione di
quel bene, nel senso di dar luogo ad oggettivi fenomeni patologici fisici o psichici) non può essere compiuta con
criteri puramente astratti, che prescindano dal concreto ambiente in cui la persona vive ed opera; pertanto, sia al fine
di accertare la concreta sussistenza della lesione, sia al fine di stabilire le concrete modalità della tutela, non può
ritenersi ingiustificato il ricorso all'applicazione analogica delle disposizioni dell'art. 844 c.c. in tema di immissioni
moleste, laddove fanno riferimento al criterio della tollerabilità della molestia ed alla possibilità di estendere
l'intervento del giudice al di là della barriera dell'inibizione assoluta, in modo da ricomprendere la determinazione
dei mezzi necessari per ricondurre l'attività aggressiva nei limiti del diritto
(Cass. 6.4.83, n. 2396, ALC, 1983, 245; RGCT, 1983, 713; GI, 1984, I, 1, 537, con nota di Mastropaolo).
Ed ecco le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’Appello (App. Milano 18.9.90, ALC, 1991, 109),
sollecitata a pronunciarsi per effetto del rinvio operato dalla S.C.:
(a) condanna del condominio a spostare la centrale termica, interrandola nel cortile condominiale, e
a sostituire il sistema di alimentazione, da gasolio a gas (ciò per effetto dell’ applicazione analogica
dei principi di cui all’art. 844);
(b) condanna del condominio e dell’impresa che aveva installato la caldaia (irrilevante essendo nei
confronti del danneggiato il rapporto contrattuale fra impresa e condominio) al risarcimento del
danno biologico a favore dell’attrice, abitante dell’alloggio in questione - danno rappresentato dal
peggioramento dei disturbi psichici dei quali la donna già risultava affetta -;
(c) condanna di entrambi i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale a favore sia della
persona residente nell’alloggio, sia del proprietario di questo (nel corso della lite era intervenuta
condanna penale nei riguardi dell’amministratore del condominio e del legale rappresentante
dell’impresa installatrice, per disturbo alla quiete e al riposo delle persone).
Interessante la precisazione per cui anche il condomino che abbia ottenuto dal condominio la
realizzazione delle opere necessarie all’insonorizzazione sarà tenuto a partecipare a tali spese,
essendo anch’egli proprietario dell’impianto (Trib. Milano 18.5.92, ALC, 1993, 121; RCP, 1993,
170; GM, 1993, 20; App. Milano 29.11.91, NGCC, 1992, I, 844, con nota di Visonà; GC, 1992, I,
1921, con nota di de Tilla; ALC, 1992, 113; RCP, 1992, 424, con nota di Verrando, che conferma
Trib. Milano 7.1.88, FI, 1989, I, 903, con nota di Formica; ALC, 1989, 538; GI, 1989, I, 2, 386; con
data 11.7.88, RCP, 1988, 1003, con nota di Coggi).
Ove sia il condominio - nelle sue parti comuni - a subire le immissioni, legittimato ad agire sarà
pure l’amministratore (Trib. Napoli 26.10.93, ALC, 1995, 168). E’ quanto accaduto, in particolare,
nel caso delle lamentele avanzate nei riguardi di una trattoria sita al piano terra di un condominio:
una volta riconosciuto che lo svolgimento di tale attività era fonte di disturbo per i condomini, e
contrastava altresì con il regolamento condominiale, i giudici hanno accolto la domanda - presentata
dall’amministratore del condominio - volta ad ottenere la chiusura dell’esercizio, oltre al
risarcimento dei danni subiti dal condominio stesso (Cass. 15.7.86, n. 4554, ALC, 1986, 640).
2.2.8.7. Immissioni e conflitto fra condomino e soggetto esterno.
Non meno frequenti di quelle che siamo andati sin qui passando in rassegna sono le ipotesi nelle
quali l’azione, in sede giudiziaria, figura intentata per reagire ad immissioni provenienti dall’esterno
del condominio.
Significativa, a tale proposito, la vicenda che ha visto contrapposti i titolari di una casa di abitazione
e i gestori di un opificio industriale, in relazione alle immissioni di rumore prodotte da queste
attività. Applicando anche in questo caso i criterî sopra descritti, e accertato in tal modo che le
immissioni superavano la soglia consentita, si è provveduto ad ordinare la riconduzione del rumore
entro una soglia accettabile, con l’alternativa della cessazione della stessa attività produttiva (App.
Milano 28.2.95, NGCC, 1995, I, 955, con nota di De Giorgi; FI, 1995, I, 955; ALC, 1995, 3291, con
nota di Loria, che conferma Trib. Monza 14.8.93, NGCC, 1994, I, con nota di De Giorgi; ALC,
1994, 122; RCP, 1994, 511; v. anche Trib. Vicenza 24.11.86, FI, 1988, I, 289, con nota di Moccia:
non essendo i rumori convenientemente riducibili, si ordina la cessazione dell’attività di un’officina
meccanica).
In una vicenda particolare, si è ordinato ai gestori di un campo sportivo di non svolgere
manifestazioni nelle ore serali, a causa “degli schiamazzi nonché dei frastuoni realizzati con ogni
mezzo disponibile e spinti assai spesso al massimo delle possibilità”, posti in essere dai tifosi delle
squadre in lizza (App. Roma 14.4.82, ALC, 1983, 274).
Interessante, poi, quanto affermato dai giudici di primo grado (non smentiti in ciò in sede d’appello)
in risposta agli argomenti fondati sulla priorità temporale di un insediamento industriale rispetto alla
edificazione delle abitazioni oggetto dell’immissione:
Né può tenersi conto della circostanza che l’impianto trovasi in loco da lungo tempo; ciò sia perché, come già
rilevato, «il criterio della priorità dell’uso ha natura secondaria e facoltativa, dovendo il limite della tollerabilità
accertarsi tenendo conto, anzitutto, della situazione dei luoghi e della necessità di contemperamento delle esigenze
della proprietà con quelle della produzione» (Cass., 23.5.81, n. 3401); sia perché l'abitazione degli attori trovasi
comunque in un comprensorio destinato ad edilizia residenziale di completamento, sia pure adiacente alla zona
industriale ove e ubicato lo stabilimento della convenuta.
Inoltre, per invocare la priorità dell'uso, occorrerebbe dimostrare che il livello delle immissioni sia rimasto
sostanzialmente pari a quello esistente al momento dell'inizio dell'attività, e non abbia invece subito incrementi - ad
esempio per l'impiego di un maggior numero di macchinari o per l'adozione di diversi metodi di lavorazione - nel
corso del tempo; mentre tale prova non è stata fornita
In ogni caso la priorità dell'insediamento industriale non potrebbe comunque autorizzare una possibile lesione del
diritto alla salute
(Trib. Monza 14.8.93, NGCC, 1994, I, con nota di De Giorgi; ALC, 1994, 122; RCP, 1994, 511).
Sullo stesso tema, ecco il parere della S.C., investita della lite fra uno stabilimento siderurgico e
alcuni proprietari di abitazioni della zona:
In proposito, ribadendo concetti già altre volte espressi da questa Corte suprema in sentenze pronunciate su casi
analoghi a quello in esame, deve evidenziarsi che la nozione di tollerabilità delle immissioni industriali sulla quale si
fonda l'assunto della società ricorrente contrasta con la lettera e con la ratio dell'art. 844 c.c., essendo da escludere
che, alla stregua di detta norma, nelle zone a preminente vocazione industriale le esigenze della produzione debbano
prevalere sulle ragioni della proprietà al punto che, per il solo fatto della destinazione dell'area interessata al
fenomeno immissivo siano da considerare lecite e tollerabili immissioni prodotte dall’esercizio delle industrie, quale
che possa essere la loro oggettiva entità (cfr. in terminis Cass. 20.5.73, n. 1616, FI, 1974, I, 804).
Al contrario, in linea di principio, deve ritenersi che, anche nelle aree industriali, come in ogni altra zona del
territorio, restino sempre intollerabili e, perciò, di massima non consentite, quanto meno, tutte quelle immissioni
che, superando la soglia della determinazione di semplici disagi e fastidi, finiscano per risolversi in una vera e
propria aggressione ai beni altrui ed in un materiale danneggiamento degli stessi.
La norma dell'art. 844 cod. civ., difatti, in quanto tesa al contemperamento delle, eventualmente, contrapposte
ragioni della produzione e della proprietà, non appare logicamente passibile di una interpretazione e di applicazioni
importanti il riconoscimento della liceità di immissioni che arrivino a menomare la stessa integrità materiale
dell'oggetto dei diritti dominicali e determinino, quindi, il completo sacrificio di tali diritti.
In presenza di immissioni produttive di un tal genere di effetti, quindi, la vocazione dell'area in cui le immissioni
stesse si verifichino può rilevare, non già al fine della eliminazione della illiceità del fenomeno immissivo ma,
esclusivamente in funzione della individuazione del contenuto della sanzione da applicare, e cioè nel senso di
attribuire al giudice il potere di astenersi, nella riconosciuta preminenza delle esigenze delle imprese, dall'adozione
di misure inibitorie, e di far luogo, invece, a statuizioni che, con il sacrificio della piena tutela della proprietà,
consentano la prosecuzione dell'attività industriale inquinante dietro il pagamento di un congruo indennizzo
(Cass. 1.2.93, n. 1226, NGCC, 1993, I, 280, con nota di Maugeri; CorG 1993, 982, con nota di Batà; FI, 1993, I,
1452).
Per un altro esempio di conflitto “classico” fra proprietà immobiliare e produzione industriale, si
può citare un’altra decisione nella quale, una volta accertato il superamento della soglia di
tollerabilità per le immissioni di fumo e calore, provenienti da una vetreria, i giudici hanno ordinato
ai convenuti la realizzazione delle opere necessarie ad abbattere le immissioni, e li hanno
condannati a risarcire i danni che le stesse avevano prodotto alle strutture dell’immobile di proprietà
dell’attore (Trib. Napoli 21.7.90, AC, 1991, 191). In un altro caso è stata ordinata la cessazione delle
attività (di un mangimificio) che risultavano fonte di rumori molesti pur dopo l’adozione di
accorgimenti tecnici di riduzione degli stessi (Trib. Milano 3.10.89, AC, 1990, 1148, con nota di
Gallini).
Le considerazione sul diritto alla salubrità dell’ambiente hanno indotto ad ordinare la definitiva
chiusura del reparto di verniciatura di un’industria, dal quale si propagavano verso le abitazioni
circostanti sostanze tossiche in quantità intollerabile (Trib. Verona 13.10.89, FI, 1990, I, 3292;
RDPr, 1990, 620, con nota di Consolo; GI, 1990, I, 2, 374, con nota di Basile).
Può essere citato, ancora, il caso dello scampanio e della diffusione di musiche sacre - attraverso
l’impianto di amplificazione di una chiesa - ad un volume eccessivamente alto: situazione che ha
indotto il giudice a ordinare di sigillare l’indice del potenziamento dell’impianto ad un volume che
fosse tollerabile per il vicinato (Pret. Verona 29.6.84, FI, 1984, I, 2906; GC, 1984, I, 3192).
2.2.8.8. Immissioni e conflitto fra condominio e soggetto esterno.
Ove sia il condominio, nelle sue parti comuni, a subire le immissioni, legittimato ad agire sarà
anche l’amministratore (Trib. Napoli 26.10.93, ALC, 1995, 168).
Di particolare interesse alcune pronunce della S.C., che ha dichiarato la giurisdizione ordinaria con
riguardo a conflitti aventi ad oggetto azioni possessorie miranti ad ottenere la tutela da immissioni
provocate da pubbliche amministrazioni. Si tratta dell’azione intentata verso un Comune,
organizzatore di rumorosi spettacoli di piazza (Cass. Sez. U. 26.8.93, n. 9005, NGCC, 1994, I, 406,
con nota di De Giorgi); dell’azione di nunciazione proposta da un condominio nei confronti di
Comune ed Azienda tramviaria, e originata dalle lesioni all’immobile provocate dall’intenso traffico
di automezzi pesanti (Cass. Sez. U. 24.4.91, n. 4510, AGCSS, 1991, 658; ALC, 1991, 519 e 750, con
nota di Annunziata; per un caso simile, concernente i danni provocati ad un albergo dagli scavi per
la costruzione della metropolitana, si è sostenuto che il fine pubblicistico perseguito potrà valere non già a rendere lecito il comportamento illecito, bensì - ad escludere la misura dell’inibitoria a
favore della concessione del solo risarcimento del danno: App. Roma 16.1.86, TR, 1986, 82).
E’ possibile che il condominio figuri chiamato in causa quale autore delle immissioni. Si è
affermato, infatti, che l’azione dell’Azienda municipale di gestione di un acquedotto, intentata nei
confronti di un condominio dal cui sistema fognario in cattivo stato si verificavano tracimazioni
interessanti le acque pubbliche, costituisce un’azione di manutenzione, avente come titolo l’art. 844
c.c., e si è concluso dichiarando l’illiceità delle immissioni - intollerabili anche perché nocive alla
salute - e ordinando la cessazione delle stesse (Pret. Torre Annunziata, sez. dist. Castellammare di
Stabia 25.11.94, FI, 1995, I, 3035).
SEZIONE III La responsabilità dell’amministratore
SOMMARIO 3. La figura dell’amministratore. Generalità - 3.1. La responsabilità verso il
condominio - 3.1.1. Le ipotesi di responsabilità. L’inosservanza degli obblighi di legge - 3.1.2. Le
altre violazioni dei doveri derivanti dall’incarico - 3.2. Responsabilità verso il singolo condomino 3.3. Responsabilità verso i terzi - 3.4. Cenni sulla responsabilità penale dell’amministratore.
3. La figura dell’amministratore. Generalità.
Com’è noto, il codice civile dispone (art. 1129, c.c.) che, in presenza di più di quattro condomini, si
provveda a nominare un amministratore.
Dottrina è giurisprudenza concordano sul carattere inderogabile di tale norma (Branca 1982, 552 e
565; Cass. 3.8.66, n. 2155, FI, 1967, I, 58):
il nostro codice, pur non ammettendo che la collettività condominiale costituisca una persona giuridica, come ente
distinto dai singoli partecipanti, impone la nomina di un amministratore che assuma la rappresentanza del
condominio, in modo che possa agire e verso cui si possa agire, per ogni controversia relativa alla gestione
condominiale
(Visco 1976, 482).
Il potere di nomina spetta all’assemblea dei condomini ma, in caso di inerzia di questa, la nomina
verrà fatta dall’autorità giudiziaria, su ricorso presentato da uno o più condomini ed anche
dall’amministratore uscente dimissionario non confermato (App. Torino 22.3.93, ALC, 1993, 309;
Trib. Roma 7.7.90, ALC, 1991, 125); si esclude, invece, che simile iniziativa possa essere intrapresa
dal conduttore di un’unità immobiliare (Cass. 17.6.91, n. 6843, RFI, 1991, Com. e cond., 182).
Inoltre la domanda giudiziaria dovrà essere proposta nei confronti della totalità dei condomini, pena
la nullità della sentenza emessa (Cass. 13.1.83, n. 255, RFI, 1983, Impugnazioni civili, 106).
Si tratta, quindi, di un organo necessario del condominio in cui siano presenti cinque o più
partecipanti (Cass. 23.12.51, n. 2813, RFI, 1951, Com. e cond., 87) mentre, al di sotto di tale limite,
la nomina è del tutto facoltativa (Cass. 3.1.66, n. 24, FI, 1966, I, 1322; GC, 1966, I, 706; Visco
1976, 482 s.), secondo le regole ordinarie della comunione (artt. 1105-1106 c.c., applicabili al c.d.
“piccolo condominio” sulla base del rinvio di cui all’art. 1139 c.c.: Cass. 24.4.75, n. 1604, GC,
1975, I, 287; GI, 1975, I, 1, 1434; FI, 1975, I, 1672). In particolare, allorché i condomini siano
soltanto due, si ritiene che la decisione debba essere unanime (Salis 1962, 140).
La scelta della persona dell’amministratore è libera, non essendo necessario né un particolare titolo
di studio, né l’appartenenza a qualche ordine professionale. Così, amministratore potrà essere
nominato uno dei condomini o un terzo (sul punto, Dogliotti e Figone 1992, 374).
Si discute, invece, circa la possibilità di procedere alla nomina di una pluralità di amministratori,
nonché con riguardo all’ammissibilità del conferimento dell’incarico ad una società di persone o di
capitali (sul punto, Terzago 1993, 217 ss.; Dogliotti e Figone 1992,375 s.; Visco 1976, 484 s.). A
questo proposito, la S.C. è intervenuta di recente dichiarando ammissibile la nomina ad
amministratore di uno “studio professionale” con le seguenti affermazioni:
Le norme del codice civile sulla nomina, la revoca e l’attività dell’amministratore del condominio negli edifici (art.
1129 c.c., 64 e 65 disp. att. c.c.) non escludendo la possibilità che l’amministrazione del condominio sia affidata ad
una pluralità di amministratori dato che, per un verso, la carenza di una specifica disposizione per l’individuazione
tra i diversi amministratori di quello tenuto a rappresentare il condominio nei rapporti con i terzi comporta solo, ai
sensi dell’art. 1131 c.c., che, l’attribuzione a tutti del potere di rappresentanza anche nei confronti di terzi e che, per
altro verso, grazie al rinvio alle norme sulla comunione, operato dall’art. 1139 c.c., deve ritenersi applicabile al
condominio negli edifici l’art. 1106 c.c., che, per una esigenza di tutela degli interessi dei comproprietari e di
razionalizzazione delle amministrazioni particolarmente complesse, comune anche al condominio negli edifici,
espressamente consente la delega per l’amministrazione della cosa comune ad uno o più partecipanti o anche ad un
estraneo; ne consegue la possibilità che l’amministrazione del condominio sia affidata anche ad una società di fatto
in cui la disciplina del potere di amministrazione come derivante da un rapporto di mandato fra la collettività dei
soci amministratori (art. 2260 c.c.) e l’attribuzione, nei rapporti esterni, della rappresentanza del socio
amministratore (art. 2266 c.c.) presenta un notevole parallelismo con quella dell’art. 1131 c.c., alla quale aggiunge
la predisposizione di regole legali per la risoluzione del conflitto tra gli amministratori (art. 2257), dovendosi
escludere che la possibilità di inserimento di nuovi soci, nelle società di persone, si rilevi incompatibile con il
carattere personale del mandato conferito all’amministratore dell’assemblea dei condomini, dato che, come nel caso
di nomina dell’amministratore unico, che è dotato della facoltà di delega dei suoi poteri ad un sostituto, l’intuitus
personae risiede nella originaria scelta del mandatario e che l’ingresso di nuovi soci non riduce, ma semmai
accresce, la garanzia per i condomini
(Cass. 24.12.94, n. 11155, FI, 1995, I, 1867; GC, 1995, I, 675, con nota di Triola; CorG, 1995, 476, con nota di Izzo;
ALC, 1995, 333; VN, 1995, 254)
(v. anche Trib. Piacenza 24.1.91, ALC, 1992, 158, che ammette la nomina di una s.r.l.; Trib. Roma
31.5.89, ALC, 1990, 550; GC, 1989, 2484, con nota di Murra, che ammette le società commerciali).
Tale decisione segue però di poco un’altra pronuncia, nella quale si è ritenuto inammissibile il
conferimento dell’incarico ad una società in accomandita semplice (Cass. 9.6.94, n. 5608, FI, 1994,
I, 3436; RaLC, 1994, 660, con nota di de Tilla; v. anche Trib. Monza 22.12.88, FP, 1989, I, 359; che
esclude sia le società di persone che quelle di capitali).
Con riguardo, poi alle attribuzioni dell’amministratore - elencate dall’art. 1130 c.c. - si precisa che il
regolamento condominiale potrà ampliare o ridurre tale lista (v. art. 1131 c.c.); in quest’ultima
ipotesi occorrerà tuttavia rispettare l’inderogabilità dell’art. 1129 c.c.: non si potranno, cioè,
restringere i poteri dell’amministratore fino a privarlo di ogni funzione (Branca 1982, 620 s.; Cass.
3.8.66, n. 2155, GC, 1966, I, 2120; FI, 1967, I, 58; Cass. 27.4.81, n. 2523, RFI, 1981, Com. e cond.,
79: con le delibere maggioritarie è possibile solo ampliare i poteri).
L’art. 1131 c.c. attribuisce all’amministratore la rappresentanza dei partecipanti al condominio, in
sintonia con i poteri conferitigli dal regolamento o dall’assemblea.
Secondo la tesi prevalente - che individua nel condominio un ente di gestione - l’amministratore è
mandatario del condominio, in base a mandato collettivo (Cass. 14.12.93, n. 12304, ALC, 1994,
300; GC, 1994, I, 2563).
3.1. La responsabilità verso il condominio.
Nonostante la carenza di soggettività giuridica in capo al condominio, è possibile individuare ambiti
di responsabilità dell’amministratore nei riguardi della collettività e non già meramente dei singoli
condomini.
Si afferma, a questo proposito, in dottrina, che
L’eventuale responsabilità dell’amministratore verso il condominio è problema sul quale non influisce la teoria
dell’organo. In questo campo, che l’amministratore sia la stessa voce del gruppo dei condomini (organo), come noi
pensiamo, o sia persona la quale, avendo e parlando una voce propria, ne faccia ricadere gli effetti in testa al gruppo
dei condomini (mandato con rappresentanza), è cosa che qui importa poco. Si tratta di vedere e giustificare il
contegno dell’amministratore, non più quale organo che esplicando le sue funzioni all’esterno è privo di personalità,
ma il suo comportamento di uomo nel rapporto (interno) col gruppo che lo ha scelto: c’è allora uno sdoppiamento
della persona, la quale riveste un ufficio, ma si pone di fronte all’ente collettivo per essere giudicata nei suoi atti di
uomo capace (o meno) di intendere e volere, nella sua autonomia di soggetto
(Branca 1982, 587).
In linea generale, la necessità di distinguere la responsabilità verso il condominio da quella verso i
singoli condomini è stata sottolineata - in giurisprudenza - affermando, da un lato, che un’azione
verso l’amministratore non è ammissibile se non dopo che l’assemblea abbia espresso il giudizio sul
suo operato ed esaminato il rendiconto e, dall’altro lato, che
qualora tale giudizio [sull’operato dell’amministratore] fosse negativo, spetterà alla stessa assemblea decidere se
proporre o no l’azione di responsabilità con effetto vincolante - nei rapporti esterni - per i condomini dissenzienti,
salvo il loro potere di impugnazione; a meno che taluno dei condomini non abbia risentito un danno particolare e
diretto a causa di atti colposi dolosi dell’amministratore, nel qual caso soltanto egli potrà agire individualmente
contro quest’ultimo
(Trib. Roma 19.7.61, TR, 1961, I, 394).
Nello stesso senso, sembra essersi espressa la S.C., in una decisione così massimata:
In tema di condominio di edifici l’approvazione assembleare dell’operato dell’amministratore e la mancata
impugnativa delle relative delibere preclude l’azione di responsabilità al singolo condomino leso dall’attività e dalle
iniziative arbitrarie dello stesso soltanto per le attività di gestione dei beni e dei servizi condominiali, per le quali il
potere di approvazione compete esclusivamente all’assemblea a norma dell’art. 1135, n. 3, c.c.; la delibera
assembleare di approvazione non esclude invece l’anzidetta responsabilità nel caso di mancata tempestiva
informazione da parte dell’amministratore di atti che hanno incidenza diretta sul patrimonio del singolo condomino,
come nel caso di mancato riferimento di perizie relative a controversie con altri soggetti
(Cass. 2.10.92, n. 10838, RFI , 1992, Com. e cond., 168).
Resta, tuttavia, il problema - rilevante, sotto il profilo della responsabilità - se l’amministratore sia
da considerarsi mandatario della collettività condominiale, oppure della somma dei singoli
condomini. A questo proposito, v’è chi rileva che
al di là delle interminabili dispute dottrinali e del sostanziale pragmatismo giudiziale, fondato sul caso per caso, il
quesito, che è nodale, ci sembra irrisolto (Rezzonico 1992, 266).
E, in effetti, al momento di stabilire a chi tocchi la legittimazione attiva nel caso di azione di
responsabilità contrattuale verso l’amministratore che abbia mancato ai doveri del proprio ufficio,
se è possibile trovare, in giurisprudenza, le affermazioni sopra citate - volte a riconoscere tale
legittimazione in capo al condominio, salvo che il singolo condominio non figuri aver risentito un
danno immediato e diretto -, accade anche di imbattersi in affermazioni contrarie: in dichiarazioni
cioè che attribuiscono senz’altro la stessa legittimazione a ciascun condomino:
pur essendo il mandato dell’amministratore un mandato collettivo (art. 1726 c.c.) perché conferito dalla pluralità dei
condomini, sembra che ciascuno di questi sia legittimato a far valere nei rapporti interni la responsabilità
dell’amministratore, inadempiente ai doveri del suo ufficio.
L’accertamento della responsabilità dell’amministratore può bene avvenire nei confronti di uno soltanto dei
condomini interessati alla esecuzione del mandato e d’altra parte l’adempimento coatto dell’obbligazione soddisfa
pienamente l’interesse alla detta esecuzione
(Pret. Napoli 8.4.63, TNap, 1963, I, 383, con nota di Sensale; ND, 1964, 579; con nota di Aliprandi).
Il rapporto tra amministratore e condominio non esclude un rapporto interno anche tra condomini e amministratore.
Ciascun condomino è legittimato a far valere nei rapporti interni la responsabilità dell’amministratore, qualora
questi, venendo meno alla diligenza quam in suis rebus, si renda inadempiente ai suoi doveri
(Trib. Foggia 13.7.65, DGi, 1866, 43).
3.1.1. Le ipotesi di responsabilità. L’inosservanza degli obblighi di legge.
Quanto alle ipotesi di responsabilità, va ricordato come l’art. 1131, u.c., c.c., preveda espressamente
- oltre alla revoca dal mandato - la responsabilità dell’amministratore per i danni derivanti dal
mancato rispetto del dovere (art. 1131, 3° co., c.c.) di informare senza indugio l’assemblea dei
condomini di essere stato destinatario di una citazione in giudizio o di un provvedimento
dell’autorità amministrativa di contenuto esorbitante le proprie attribuzioni (sul punto, Dogliotti e
Figone 1992, 412; Cass. 8.7.81, n. 4479, FI, 1982, I, 768).
Su questo punto, alcune precisazioni provengono dalla dottrina. Si afferma, anzitutto, che
ben si intende che la sola circostanza formale della mancata notificazione, per quanto concretante una grave
inadempienza, tanto da legittimare, per se stessa, la revoca dell’amministratore, non basterebbe a giustificare una
responsabilità per danni: dovendo, in ogni caso, questi essere reali e riferibili, con rapporto di causalità, alla
omissione dell’amministratore stesso
(Peretti Griva 1960, 442).
Con riguardo, poi, alla quantificazione dei danni da imputare in questi casi all’amministratore, si
ritiene che il carico risarcitorio possa venir determinato in base ad una serie di considerazioni:
Non basterà dimostrare che la lite si sarebbe perduta ugualmente qualora in giudizio avrebbe risposto il condominio
per mezzo di altro rappresentante. Il giudizio importa maggiori spese (per es. spese di lite) di quelle che si
sopportano soddisfacendo volontariamente la pretesa dell’attore. Questi oneri, per così dire, differenziali saranno
sempre a carico dell’amministratore, se egli non ha avvisato l’assemblea del condominio (salva la prova, da parte di
lui, che, anche avendone notizia, l’assemblea avrebbe deciso ugualmente di resistere: prova assai difficile); inoltre
gli potranno essere accollati quando egli ha dato avviso della lite all’assemblea con tanto ritardo da precipitare o
compromettere la decisione di quest’ultima: ché, se lo avesse fatto subito, la delibera sarebbe potuta essere più
giusta e ponderata. Infine (...) l’amministratore pagherà tutto intero il costo della lite (non soltanto gli oneri
maggiori) quando, oltreché trascurare il preavviso, si è comportato nel giudizio in modo tale da pregiudicarne il
risultato
(Branca 1982, 602 s.).
Un caso particolare è quello dell’amministratore che - nonostante la contraria deliberazione
dell’assemblea - si sia costituito in giudizio quale legale rappresentante del condominio: simile
carenza di potere, oltre a determinare la nullità dell’atto di costituzione in giudizio, si ritiene
rilevante sia quale fonte di responsabilità, sia sotto il profilo della revocabilità dell’amministratore
(Trib. Napoli 1.6.94, ALC, 1995, 886).
Altra ipotesi tipica riguarda l’inosservanza degli obblighi di rendiconto (art. 1130, u.c., c.c.), fonte
di sanzione in termini di revoca allorché tale rendiconto non sia stato reso per due anni (art. 1130,
u.c.):
Se poi dal mancato rendiconto deriva un danno al condominio, l’amministratore ne dovrà rispondere: e danni
possono essere anche quelli che derivano dalla necessità di ricorrere ad altri per l’elaborazione o la rielaborazione
dello stesso consuntivo
(Branca 1982, 584).
3.1.2. Le altre violazioni dei doveri derivanti dall’incarico.
Quelle appena trattate non rappresentano le uniche ipotesi di responsabilità alle quali
l’amministratore si trova esposto nei confronti del condominio in quanto tale. Infatti,
nell’espletamento del suo mandato, egli è rappresentante dei condomini ed è tenuto a indirizzare la
propria attività alla tutela dei loro interessi: la violazione di tale dovere lo rende responsabile dei
danni subiti dal condominio sul piano contrattuale (Cass. 11.2.81, n. 850, RFI , 1981, Com. e cond.,
71):
L’amministratore risponde sia quando eccede i limiti delle sue attribuzioni (che talora, nel regolamento, sono anche
maggiori di quelle legali) sia quando usa male i poteri-doveri conferitigli dalla legge, sia quando non fa quel che la
legge o il regolamento gli impongono di fare (inattività): e poco importa che il danno sia stato cagionato da lui
direttamente o da terzi incaricati da lui, consista in atti positivi o in omissioni
(Branca 1982, 588).
Così, ad esempio, se egli non curasse, avendone la possibilità e i mezzi economici opportuni, di provvedere a una
riparazione urgente, dovrebbe rispondere in proprio dei maggiori danni che dal colposo ritardo frapposto dalla
riparazione fossero derivati alla comunione, o ad alcuno dei condomini. La stessa mancanza di fondi non potrebbe
essere opposta come causa annullante la responsabilità, quando l’amministratore fosse stato in colpa per non aver
richiesto gli opportuni anticipi, essendo già in condizione di rilevarne la necessità
(Peretti Griva 1960, 441).
In ogni caso, sono applicabili nei confronti dell’amministratore, quale mandatario, le norme
sull’inadempimento contrattuale: inadempimento che verrà valutato alla luce dell’art. 1218 c.c.,
nonché dell’art. 1710 c.c. che stabilisce l’obbligo di spendere la diligenza del buon padre di
famiglia, salva la possibilità di valutare con minore rigore la responsabilità per colpa nel caso di
mandato gratuito:
L’azione promossa dal condominio contro l’amministratore dello stesso diretta a far valere la responsabilità dello
stesso per omesso versamento all’ente previdenziale dei contributi a carico del condominio che gli siano stati
corrisposti dai condomini è da qualificare come azione di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale
all’obbligo dell’amministratore di eseguire il mandato conferitogli con la diligenza del buon padre di famiglia a
norma dell’art. 1710 c.c.; tale azione è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale ex art. 2946 c.c.
(Cass. 27.5.82, n. 3233, RFI, 1982, Prescrizione e decadenza, 159).
E la colpa - si precisa - andrà valutata tenendo conto degli obblighi che gli artt. 1129 ss. prevedono
in capo all’amministratore (in generale, sulla colpa dell’amministratore, Rezzonico 1992, 269 s.).
Un esempio di grave irregolarità nella condotta dell’amministratore può essere fornito dalla
massima che segue:
Le gravi irregolarità di cui all’art. 1129 c.c. non si esauriscono nelle anomalie contabili, ma si estendono a tutti quei
comportamenti che fanno sospettare una gestione anomala, con l’unico limite della loro gravità; esula dalle
specifiche funzioni dell’amministratore condominiale influenzare l’assemblea dei condomini per l’assunzione di
particolari deliberazioni, caldeggiando soluzioni gradite ad alcuni condomini e malaccette ad altri; è altresì
censurabile la trasmissione ai condomini di un verbale d’assemblea ove si attacca duramente il condomino
dissenziente con espressioni grossolane e poco riguardose e con ripetuti «avvertimenti» circa ricorsi al giudice
penale; il comportamento così descritto giustifica la revoca giudiziale dell’amministratore per grave irregolarità
(App. Genova 6.11.90, FP, 1991, I, 162).
In giurisprudenza si è ventilata altresì la possibilità che l’amministratore venga dichiarato
responsabile per i danni derivati al condominio a seguito della mancata richiesta tempestiva dei
contributi dovuti dai singoli condomini (tale affermazione ha peraltro il sapore dell’obiter dictum;
nella specie, si trattava infatti di un amministratore il quale, onde fronteggiare rilevanti spese per
l’ordinaria amministrazione, aveva accettato anticipi da parte di un condomino, stipulando così un
contratto di mutuo senza averne i poteri; la decisione attiene ai soli profili di inefficacia di tale
negozio: Cass. 5.3.90, n. 1734, FI, 1990, I, 3221; ALC, 1990, 498; RaEquoC, 1990, 265; GC, 1990,
I, 2612, con nota di de Tilla).
Va esclusa la responsabilità dell’amministratore il quale abbia ottemperato ad obblighi imposti dalla
legge: come nel caso in cui abbia erogato certe somme al fine di procurare le planimetrie e la
documentazione necessarie alla iscrizione dell’immobile nel nuovo catasto edilizio urbano (Pret.
Roma 27.2.62, TR, 1963, 167: nella specie, il condominio aveva citato in giudizio l’amministratore
affermando che tali esborsi esorbitavano dalle sue attribuzioni).
Interessante, poi, quanto deciso dal Trib. Milano (24.6.91, ALC, 1991, 590), con riguardo ad una
vicenda innescata dal comportamento di un amministratore il quale, fattosi consegnare da una
condomina una certa somma, asseritamente necessaria per l’esecuzione di opere straordinarie ed
urgenti sulle parti comuni, se ne era poi appropriato, insieme ad altre somme detenute a causa del
proprio incarico. L’assemblea, nominato un nuovo amministratore, aveva deciso, da un lato, di non
promuovere azione legale verso il precedente amministratore e, dall’altro lato, di non tener conto nel calcolo dei contributi dovuti per la costituzione di un fondo spese, necessario a sopperire agli
ammanchi - delle somme versate a quest’ultimo dalla condomina. Di fronte a tale situazione, ecco
la soluzione adottata dal Tribunale lombardo:
(a) le somme versate in buona fede dal singolo condomino all’amministratore “entrano a far parte
del patrimonio della collettività dei condomini e se l’amministratore infedele se ne appropri, la
sottrazione avviene in danno della comunione e non del solo condomino che abbia fatto il
versamento”;
(b) “la deliberazione che abbia a maggioranza escluso di promuovere azione legale contro
l’amministratore del condominio che si sia reso responsabile di atti di mala gestio che abbiano
arrecato danni ai condomini è viziata da eccesso di potere”; da qui, l’annullabilità della
deliberazione stessa.
Una descrizione delle regole vigenti in questo campo può essere tratta dalla massima che segue:
L’amministratore del condominio, che è responsabile dei danni cagionati dalla sua negligenza, dal cattivo uso dei
poteri e in genere di qualsiasi inadempimento degli obblighi legali o regolamentari, non può essere ritenuto
responsabile, ancorché sia tenuto a far osservare il regolamento condominiale, dei danni cagionati dall’abuso dei
condomini nell’uso della cosa comune, non essendo dotato di poteri coercitivi e disciplinari nei confronti dei singoli
condomini - salvo che il regolamento di condominio, ai sensi dell’art. 70 att. c.c., preveda la possibilità di
applicazione di sanzioni nei confronti dei condomini che violano le norme da esso stabilite sull’uso delle cose
comuni - né obbligato a promuovere azione giudiziaria contro i detti condomini in mancanza di una espressa
disposizione condominiale o di una delibera assembleare
(Cass. 20.8.93, n. 8804, ALC, 1994, 80; RaLC, 1994, 87, con nota di de Tilla).
Infine, un’ulteriore fonte di responsabilità è quella che sorge in sede di rivalsa del condominio
relativamente al risarcimento che lo stesso abbia dovuto sborsare in quanto responsabile - ex art.
2049 - del danno cagionato a terzi dall’amministratore. In questi casi - sostiene qualcuno -:
Particolare è il criterio che deve regolare la responsabilità dell’amministratore verso i condomini.
Egli, come autore del fatto illecito, è, naturalmente, il principale responsabile dell’evento verso i terzi, in riguardo ai
quali è tenuto per la culpa et levissima. Ma, nei rapporti coi condomini, egli è obbligato solo alla diligenza in
astratto, o in concreto, giusta i rilievi fatti al principio del presente paragrafo [relativi alla natura onerosa o gratuita
del mandato]. Egli, quindi, può essere vincolato verso i terzi per il danno direttamente o indirettamente recato col
suo fatto, ed essere, invece, in diritto di riversare le conseguenza patrimoniali del fatto stesso sui mandanti, per
essere esclusa la sua colpa in grado efficiente a concretare la sua responsabilità contrattuale
(Peretti Griva 1960, 445).
Altrove, le dinamiche che si instaurano in simili ipotesi vengono così sintetizzate:
Nell’espletamento delle attribuzioni di cui all’art. 1130 c.c. l’amministratore è un rappresentante dei partecipanti al
condominio, alla tutela dei cui interessi di gruppo egli deve indirizzare la propria attività; la violazione di tale
dovere, se lo rende responsabile dei danni subiti dal gruppo dei condomini, si esaurisce nei rapporti interni con il
condominio, e, pertanto, non esclude o diminuisce l’eventuale responsabilità del condominio medesimo nei
confronti di altri soggetti, compreso tra questi il singolo condomino, distinto dal gruppo e come tale rimasto
danneggiato per la difettosità di parti comuni dell’edificio, da considerarsi nella custodia del condominio agli effetti
dell’art. 2051 c.c.
(Cass. 11.2.81, n. 850, RFI , 1981, Com. e cond., 71).
3.2. Responsabilità verso il singolo condomino.
Al di là delle questioni (trattate nel paragrafo che precede) relative alla legittimazione di ciascun
condomino ad agire nel caso di danni derivanti al condominio a causa delle scorrettezze
dell’amministratore, non v’è dubbio che quest’ultimo possa venir chiamato a rispondere allorché la
sua condotta - dolosa o colposa - abbia cagionato danni al singolo partecipante.
A questo proposito, occorre anzitutto prendere in considerazione l’amministratore quale esecutore
delle delibere assembleari (ex art. 1130, n. 1, c.c.). Qui, la questione della responsabilità è destinata
ad essere sollevata in due diverse ipotesi:
(a) l’amministratore ha dato esecuzione ad una delibera illegittima e foriera di conseguenze
negative per il singolo condomino;
(b) l’amministratore non ha dato corso ad una decisione collettiva, e da tale omissione sono derivati
danni al singolo.
Con riguardo all’ipotesi (a), secondo una tesi,
non potendosi all’amministratore, quale mandatario, attribuire il dovere, e, neppure il diritto, di sindacare la
decisione del mandante, assemblea, non lo si potrebbe però render responsabile per aver dato esecuzione alla
decisione stessa. Ciò non impedirebbe tuttavia all’amministratore di assumersi il rischio di non adempiervi, ove egli
la ritenesse illegittima
(Peretti Griva 1960, 416).
In senso contrario, v’è invece chi dichiara che
l’obbligo di dare esecuzione al provvedimento dell’assemblea nasce per l’amministratore solo quando il
provvedimento sia legittimo
(Branca 1982, 568).
Ed è quest’ultima la posizione che appare sposata dalla giurisprudenza, allorché afferma:
un condominio di edificio è un ente di gestione non dotato di personalità giuridica, né di autonomia patrimoniale;
perciò l’amministratore non è (o non è soltanto) un organo del condominio, bensì un mandatario, della collettività
dei condomini, cioè un soggetto che si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un altro, ma conserva
la libertà di determinazione e se commette fatti illeciti non può riversarne la responsabilità sul mandante, ma ne
risponde in concorso con esso
(Cass. 4.4.87, n. 3272, FI, 1988, I, 205, con nota di Greco).
Si ribadisce, perciò, che nel caso di spossessamento in danno di un condomino (nella specie, si
trattava del possesso di una servitù di passaggio), attuato in esecuzione di una delibera assembleare,
l’assemblea dei condomini assume la veste di autore morale dello spossessamento, mentre
l’amministratore ne è autore materiale: entrambi legittimati passivi rispetto all’azione di reintegra
intrapresa dal condomino (nello stesso senso: Cass. 10.2.64, n. 301, GC, 1964, I, 781).
Nella seconda ipotesi - (b) omissione di esecuzione di delibera - si tratta di verificare non soltanto
se sia prospettabile una responsabilità dell’amministratore nei riguardi del singolo condomino ma
altresì, in caso di risposta positiva, se tale responsabilità debba essere inquadrata nello schema
dell’illecito aquiliano, piuttosto che in quello dell’inadempimento di un’obbligazione di origine
contrattuale.
A questo proposito, in giurisprudenza è possibile imbattersi nella massima che segue:
ben può configurarsi una responsabilità aquiliana dell’amministratore di un condominio, in relazione ai danni
derivanti dall’avere egli omesso di far riparare il tetto dell’edificio condominiale, in esecuzione di una delibera
assembleare
(Cass. 14.6.76, n. 2219, RFI, 1976, Resp. civ., 58).
Si tratta di una dichiarazione che sembra (in tal senso, De Renzis 1995, 210) emessa a conferma di
una pronuncia di merito, la quale ha sostenuto che l’amministratore, il quale abbia omesso di dare
esecuzione ad una delibera assembleare, risponde in via extracontrattuale per i danni subiti dal
singolo condomino (Trib. Trieste 6.7.72, GI, 1974, I, 2, 512, con nota di critica di Sampietro).
Una posizione, occorre dire, che si confronta vuoi con le critiche di chi ritiene che casi del genere
debbano essere risolti nel rapporto fra condomino e gruppo - restando perciò esclusa la possibilità
per il primo di agire verso l’amministratore (Sampietro 1974, 514) -; vuoi con quelle di chi sostiene
la “sussistenza di una responsabilità contrattuale tra amministratore e condominio, rispetto alla
quale il condomino non è terzo, ma partecipe” (Rezzonico 1992, 277).
Questione diversa è quella che sorge allorché l’amministratore abusi dei propri poteri inerenti la
regolamentazione dell’uso della cosa comune (art. 1130, n. 2, c.c.), limitando ingiustificatamente la
fruizione di questa da parte di uno dei condomini. Afferma, sul punto, la S.C.:
Integra una molestia possessoria la regolamentazione dell’uso delle cose comuni da parte dell’amministratore di un
condominio, anche se adottata nel convincimento di agire nel legittimo esercizio delle attribuzioni a lui devolute
dall’art. 1130 n. 2 c.c., in difetto di esplicite limitazioni stabilite nel regolamento di condominio e sempre che tale
regolamentazione non risulti giustificata da particolari ragioni connesse, ad esempio, alla sicurezza dei condomini o
dei terzi o alla salvaguardia della stessa conservazione della cosa comune, che attenti al contenuto del diritto che su
di esse compete a ciascun condomino, in violazione dei principi che regolano l’uso delle cose comuni da parte dei
singoli partecipanti alla comunione; è, pertanto, illegittimo il divieto dell’uso del lastrico solare per limitate e
temporanee esigenze connesse al trasporto di alcuni mobili da un appartamento all’altro dello stesso fabbricato,
nonché il divieto di usare l’ascensore per il trasporto di materiale edilizio, ove non si accerti che tale uso risulti
concretamente dannoso, sia compromettendo la buona conservazione delle strutture portanti e del relativo abitacolo,
sia ostacolando la tempestiva e conveniente utilizzazione del servizio da parte degli altri condomini, in relazione alla
frequenza giornaliera del suddetto uso particolare e agli inconvenienti che possono derivarne al decoro dell’edificio,
tenuto conto delle cautele che vengono o meno adoperate in ciascun caso concreto per la custodia del materiale
trasportato, del numero degli utenti che normalmente si servono dell’ascensore per accedere alla varie unità
immobiliari, nonché di ogni altra circostanza rilevante per accertare le eventuali conseguenze pregiudizievoli che, in
ciascun caso concreto, possono realmente derivare dal suindicato uso particolare dell’ascensore
(Cass. 6.2.82, n. 686, RFI , 1982, Com. e cond., 60; v. anche Cass. 6.4.82, n. 2117, RFI , 1982, Com. e cond., 57).
Così, anche in precedenza, la S.C. aveva riconosciuto la legittimazione del condomino ad agire
contro l’amministratore il quale, con proprio provvedimento non sorretto dalla legge, né dal
regolamento condominiale, aveva disposto la chiusura del portone condominiale nelle ore diurne;
chiusura sino ad allora prevista nelle sole ore notturne: simile iniziativa integra una turbativa del
compossesso contro la quale ben può il condomino reagire (Cass. 21.3.74, n. 804, GC, 1974, I,
1058).
E nel medesimo solco sembra collocarsi una decisione che ha sottolineato come la delibera
assembleare di approvazione dell’operato dell’amministratore non escluda la responsabilità di
questi verso il singolo condomino il quale non sia stato tempestivamente informato di atti che hanno
incidenza diretta sul suo patrimonio, come nel caso di mancato riferimento di perizie relative a
controversie con altri soggetti (Cass. 2.10.92, n. 10838, RFI , 1992, Com. e cond., 168).
Sulla base dell’art. 1130, n. 2, c.c. - che pone a carico dell’amministratore il compito di vigilare
sull’uso delle cose comuni, da parte dei singoli proprietari - è stata dichiarata la responsabilità
dell’amministratore stesso per i danni conseguenti ad un condomino dalla tracimazione dei pozzetti
di decantazione delle acque nere e bianche: evento riconducibile anche alla negligenza dei
condomini nell’utilizzazione del servizio. Peraltro, non appare del tutto chiara in questa vicenda la
ragione per la quale i giudici - pur essendo l’azione intentata nei riguardi del solo amministratore, e
pur dopo averne dichiarato la responsabilità - ordinino infine (non già all’amministratore
convenuto, bensì ) ai condomini di risarcire il danno, per un importo che “sarà corrisposto a mezzo
del loro amministratore” (Trib. Pordenone 14.2.92, ALC, 1993, 127).
3.3. Responsabilità verso i terzi.
Di regola, le pretese risarcitorie di terzi danneggiati vedono l’amministratore convenuto in giudizio
non già per responsabilità propria, bensì in virtù del ruolo di rappresentante processuale del
condominio, che la legge (art. 1131, 2° co., c.c.) gli attribuisce. Da qui, il proliferare di massime
giurisprudenziali simili a quella che segue:
L’amministratore del condominio è passivamente legittimato rispetto all’azione per responsabilità extra contrattuale,
promossa dal conduttore di locali inseriti nell’edificio condominiale, per danni sofferti a causa di infiltrazioni di
acqua piovana da parti comuni dell’edificio stesso (esempio il tetto, i lastrici solari, le fognature) salva, nel merito,
l’efficacia liberatoria della prova, a carico del condominio, che l’effettiva disponibilità e, quindi, l’obbligo di
manutenzione di quelle parti comuni competevano ad un singolo condomino o ad altro soggetto, in forza di diverso
rapporto
(Cass. 7.5.81, n. 2998, RFI , 1981, Com. e cond., 78).
Nonostante la scarsità della casistica, non v’è dubbio comunque che l’amministratore possa venir
chiamato a rispondere in via extracontrattuale, nei confronti dei terzi (diversi dai singoli
condomini), per i danni derivanti da azioni od omissioni rientranti tra le attribuzioni riservategli
dalla legge o dall’assemblea; facendo naturalmente salvi, da un lato, la responsabilità del
condominio quale committente ex art. 2049 c.c. e, dall’altro lato, i riflessi della condotta scorretta
sul piano dei rapporti interni fra condominio ed amministratore (v. ad es. Visco 1976, 520 s.).
In dottrina, si fa l’esempio del danno causato dall’amministratore, nella sua qualità di mandatario
per la gestione degli impianti comuni, alla salute di un inquilino in conseguenza della rumorosità
dell’impianto di riscaldamento o dell’impianto idrico; ipotesi cui si affianca quella della violazione
degli obblighi relativi alla manutenzione del tetto condominiale, il cui sfondamento abbia prodotto
danni a un inquilino (v. Rezzonico 1992, 276 s.).
In giurisprudenza, è stata negata la responsabilità di un amministratore il quale aveva dapprima
concesso e poi revocato, ad una società locataria di un appartamento, l’autorizzazione per un
impianto di corrente trifase ad uso industriale, e ciò una volta accertato che: (1) il regolamento
vietava - legittimamente - l’esercizio di determinate attività; (2) la locataria era a conoscenza del
divieto; (3) l’autorizzazione era stata inizialmente rilasciata in via provvisoria, in attesa della
delibera assembleare, sulla base di informazioni provenienti dalla stessa locataria e non
corrispondenti alle effettive modalità di svolgimento dell’attività all’interno dell’unità locata (Cass.
27.6.73, n. 1865, GC, 1974, I, 663).
Ci si interroga, poi, sulla possibilità di riconoscere all’amministratore la qualifica di custode, in
vista di una eventuale responsabilità ex art. 2051 c.c.
A questo proposito, v‘è chi sostiene che
a nostro giudizio (...) dovrebbe potersi concludere che la custodia non può essere riferita esclusivamente ai
condomini, ma deve ritenersi estesa anche all’amministratore che, come mandatario ai sensi dell’art. 1130-1135, ha
obblighi ben precisi, in materia di manutenzione ordinaria e straordinaria
(Rezzonico 1992, 287 s.).
Si tratta però di una tesi che non trova riscontro nei repertori giurisprudenziali; ed all’assenza di
pronunce di condanna ex art. 2051 c.c. nei riguardi di amministratori condominiali fanno eco le
considerazioni che seguono:
Alla luce dei principi affermati in giurisprudenza in linea generale non può sostenersi una responsabilità autonoma e
personale dell’Amministratore, in quanto non può dirsi che lo stesso Amministratore assuma la custodia in proprio
dei beni comuni, la cui detenzione e possesso rimangono pur sempre ai condomini
(De Renzis 1995, 210).
Su di un altro versante - quello dell’attività negoziale posta in essere dall’amministratore - si ricorda
che
l’amministratore non può eccedere i limiti fissati intrinsecamente dalla natura delle sue funzioni o dalle clausole del
contratto condominiale, o dalle istruzioni della maggioranza: quando ne esorbiti, la sua attività resta a suo carico,
anche per le eventualmente dannose conseguenze, ove non segua la ratifica da parte del condominio o dei condomini
interessati. Ciò a norma dell’art. 1711 Cod. civ., riflettente le obbligazioni del mandatario
(Peretti Griva 1960, 441).
Così, nel caso in cui l’amministratore contragga, senza autorizzazione, un mutuo in nome del
condominio (come nella fattispecie esaminata da Cass. 5.3.90, n. 1734, FI, 1990, I, 3221; ALC,
1990, 498; RaEquoC, 1990, 265; GC 1990, I, 2612, con nota di de Tilla), si ritiene che egli sarà
responsabile contrattualmente verso il condominio, mentre per la responsabilità verso i terzi,
conseguente all’inefficacia del contratto, verrà chiamato a rispondere anche il condominio, ex art.
2049. E lo stesso vale con riguardo al rilascio di cambiali in assenza del conferimento di espliciti
poteri rappresentativi (Rezzonico 1992, 277 s.).
3.4. Cenni sulla responsabilità penale dell’amministratore.
Alcuni accenni devono essere fatti ai profili di responsabilità penale dell’amministratore, soprattutto
per i riflessi civilistici che da un’eventuale condanna potrebbero derivare (sulla responsabilità
penale dell’amministratore v. De Renzis 1995, 211 ss.).
Vale, anzitutto la regola per la quale
la responsabilità penale dell'amministratore di condominio va considerata e risolta nell'ambito del capoverso dell'art
40 cod. pen., che stabilisce che “non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a
cagionarlo”. Per rispondere del mancato impedimento di un evento e, cioè, necessaria, in forza di tale norma,
l'esistenza di un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo. Detto obbligo può nascere da qualsiasi ramo del diritto, e
quindi anche dal diritto privato, e specificamente da una convenzione che da tale diritto sia prevista e regolata com’è
del rapporto di rappresentanza volontaria intercorrente fra il condominio e l'amministratore
(Cass. pen. 14.3.75, Zucca, Italgiure; Cass. pen. 24.2.67, Bencini, Italgiure).
La prima ipotesi da prendere in considerazione è quella - disciplinata dall’art. 677 c.p. dell’omissione di lavori in edifici o costruzioni che minaccino rovina. E’ lo stesso articolo appena
richiamato, infatti, ad indicare fra i soggetti responsabili, oltre al proprietario, “chi è per lui
obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione”: indicazione che ben
si attaglia alla figura dell’amministratore condominiale (sul punto, RIONDATO 1989, 171 ss.).
Sul punto, la giurisprudenza è pacifica:
L’amministratore del condominio assume la qualità (...) di soggetto attivo del reato di cui all’art. 677 c.p., dovendo
egli attivarsi con la necessaria urgenza, in forza dei poteri riconosciutigli dagli art. 1130, n.3 e 4, e 1135, n. 2°
comma, c.c., per l’eliminazione delle situazioni idonee a cagionare la violazione del principio del neminem laedere;
l’obbligo di rimuovere il pericolo risorge in via autonoma a carico dei singoli condomini qualora, per comprovate
ragioni (ad es.: indisponibilità dei fondi occorrenti o rifiuto dell’assemblea, ovvero dei singoli condomini, di
contribuire alla costituzione del fondo spese) l’amministratore versi nell’impossibilità materiale di adoperarsi allo
scopo suindicato
(Cass. pen. 19.6.96, Vitale, FI, 1996, II, 684; v. anche Cass. pen. 4.5.73, Parisi, GP, 1973, II, 432; Cass. pen.
13.7.72, Lamarca, Italgiure; Cass. pen. 16.5.60, Boccalatte, FI, 1960, II, 108, con nota di Branca).
L’amministratore potrà, perciò, vedersi chiamato a rispondere - oltre che della contravvenzione
prevista dall’art. 677 c.p. - delle lesioni causate ad un passante dalla caduta di una tegola da un tetto
in stato di cattiva manutenzione (Cass. pen. 6.5.83, Scarabelli, RFI, 1984, Omicidio e lesioni
personali colpose, 108; Cass. pen. 6.12.80, Montagna, Italgiure), o di quelle provocate dalla caduta
di calcinacci staccatisi dalla facciata dell’edificio a causa della vetustà dello stesso: conseguenze
dalle quali potrà restare invece indenne dimostrando di aver correttamente agito e di non aver
protuto prevvedere alle riparazioni a causa della condotta negligente dei condomini (Cass. pen.
9.3.59, Calani, FI, 1961, II, 63).
Correlativamente, si esclude la responsabilità penale del singolo condomino allorché il crollo - nella
specie, di un solaio - non dipenda da difetti di manutenzione della sua proprietà esclusiva, visto che
l’obbligo di provvedere ai lavori sulle parti comuni incombe sull’amministratore o al più
sull’assemblea dei condomini (Cass. 22.4.80, Lavagna, RP, 1980, 918; ALC, 1981, 50; Cass. pen.
13.7.72, Lamarca, Italgiure).
Altro reato nel quale può incorrere l’amministratore è quello di appropriazione indebita: ipotesi che
può verificarsi allorché egli ometta di rendere il conto e di restituire il denaro di proprietà dei
condomini (Cass. pen. 13.7.66, RP, 1967, II, 22).
La responsabilità dell’amministratore potrà altresì derivare dal mancato adempimento dell’obbligo
(l. 13.7.66, n. 615, art. 10) di denunciare ai vigili del fuoco l’installazione dell’impianto di
riscaldamento al fine di consentirne il collaudo (Cass. pen. 14.3.75, Zucca, Italgiure; sugli
adempimenti previsti dalla normativa in capo all’amministratore e in relazione agli impianti di
riscaldamento, nonché in vista delle prevenzione degli incendi, v. De Renzis 1995, 215 ss.).
Con riguardo, poi, ai rapporti di lavoro che si instaurano all’interno del condominio, si è affermato
che
l'amministratore di un condominio, per la sua stessa qualità, assume al lavoro personale dipendente nell'interesse del
condominio, che per delega amministra, ed in persona propria. Egli, che contrae verso il personale le obbligazioni
derivanti dal rapporto di lavoro, facendosi poi rimborsare pro quota dai condomini le somme pagate, ha quindi la
qualifica di datore di lavoro e, di conseguenza, risponde penalmente dell'inadempimento degli oneri contributivi e
previdenziali al cui adempimento è tenuto
(Cass. pen. 28.5.73, Murolo, Italgiure; Cass. pen. 25.10.74, Bernardini, Italgiure).
Quanto al debito rimasto insoluto, si ritiene che - intervenuto il mutamento del reato di omesso
versamento contributivo in illecito amministrativo (l. 689/1981; più in generale, sugli effetti della
depenalizzazione in ambito condominiale, v. De Renzis 1995, 219 s.) - attualmente
l’Amministratore e i singoli condomini sono tenuti al versamento dei contributi omessi e somme aggiuntive in via
solidale
(De Renzis 1995, 214).
Da qui,in giurisprudenza, la seguente affermazione:
In virtù dell’istituto della prorogatio l’amministratore di un condominio di un edificio, cessato dalla carica per
scadenza del termine previsto dall’art. 1129 c.c. o per dimissioni, continua ad esercitare tutti i poteri previsti dall’art.
1130 c.c., attinenti alla vita normale ed ordinaria del condominio, fino a quando non sia stato sostituito con la
nomina di altro amministratore; pertanto, l’amministratore deve continuare a provvedere, durante la gestione
interinale, all’adempimento delle incombenze ed attribuzioni previste dall’art. 1130 c.c. e così a riscuotere i
contributi condominiali e ad erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni
dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni, compreso quello di portierato, con la conseguenza che, in caso di
ritardata presentazione delle denunce contributive e di ritardato pagamento dei contributi previdenziali dovuti per il
portiere, l’amministratore è tenuto a rivalere il condominio delle somme da quello versato all’Inps a titolo di
sanzioni amministrative
(Cass. 25.3.93, n. 3588, RFI, 1993, Com. e cond., 204).
Una diversa ipotesi è quella che si configura - ex art. 650 c.p. - nel caso di inosservanza di
provvedimenti dell’autorità, A questo proposito, benché si sia affermato che incorre in tale reato
l’amministratore di condominio il quale ometta di intervenire onde evitare la rumorosità
dell’impianto di riscaldamento (Cass. 6.12.80, Montagna, RFI, 1981, Inosservanza di
provvedimenti, 3), si è anche precisato che
ai fini della sussistenza delle ipotesi di reato di cui all’art. 650 c.p. (inosservanza di provvedimenti dell’autorità), è
necessario che il provvedimento sia emesso esclusivamente per ragioni di giustizia e di sicurezza, di ordine pubblico
o di igiene della collettività, e non di privati individui (nella specie, relativa a ritenuta insussistenza del reato,
l’imputato, amministratore di condominio, non aveva osservato il provvedimento con il quale il sindaco gli aveva
ordinato, nell’interesse specifico di un condomino, di adottare gli opportuni accorgimenti per ridurre l’intensità dei
rumori conseguenti all’uso dell’impianto di riscaldamento)
(Cass. pen. 4.12.85, Giannetti, ALC, 1987, 97).
La responsabilità dell’amministratore non è - comunque - destinata a sorgere solamente a seguito di
comportamenti meramente omissivi. Risponde, ad esempio, del reato di diffamazione
l’amministratore il quale affigga nell’atrio dello stabile un avviso di convocazione dell’assemblea
contenente, nell’ordine del giorno, la notizia che un condomino era “indiziato di reità” in seguito a
denuncia dell’amministratore stesso (Cass. pen. 2.4.73, Italgiure).
Nessuna responsabilità invece, può essere addossata all’amministratore il quale non abbia impedito
ai condomini di abitare in alloggi privi del certificato di abitabilità: un simile dovere non è infatti
desumibile né dalla legge, né dal contratto (Cass. pen. 13.5.95, Capuano, Italgiure).
E, ancora, si è escluso che costituisca estorsione il fatto di avere l’amministratore richiesto ad un
inquilino - su incarico del proprietario dell’appartamento - una somma (quattrocentomila lire)
ulteriore rispetto al canone di locazione, quale contributo alle spese di manutenzione dei locali
(App. Milano 24.9.80, Riva, CP, 1981, 1674).
Infine, è il caso di ricordare come l’elenco dei compiti che la legislazione speciale più recente
attribuisce all’amministratore - e delle sanzioni alle quali costui rischia di andare incontro - sia
andato progressivamente allungandosi. Basta citare qui la l. 5.3.90, n. 46 (nonché il regolamento di
attuazione: d.p.r. 6.12.91, n. 447, ed una serie di decreti di rinvio dei termini entro i quali adeguare
gli impianti), con riferimento alla sicurezza degli impianti elettrici e alla protezione antincendio (sul
punto, De Renzis 1995, 220 ss.).
SEZIONE IV La responsabilità del condominio
SOMMARIO 4. Generalità - 4.1. Le obbligazioni contrattuali: la tesi della solidarietà - 4.1.1.
Segue. Altre proposte interpretative. - 4.1.2. Le anticipazioni effettuate dall’amministratore cessato
dall’incarico - 4.2. La solidarietà in relazione alla responsabilità extracontrattuale - 4.3.
Responsabilità verso il singolo condomino - 4.3.1. Delibere assembleari e danno al condomino 4.3.1.1. Segue. Casistica - 4.3.2. Inerzia del condominio e tutela degli interessi del condomino 4.3.3. L’accesso alla proprietà esclusiva - 4.3.3.1. Accesso, passaggio, danno e indennizzo - 4.3.3.2.
Il “diritto d’antenna” - 4.4. Responsabilità verso l’amministratore. Il compenso - 4.4.1. Il rimborso
delle anticipazioni effettuate dall’amministratore - 4.4.2. L’ipotesi di revoca anticipata - 4.5.
Responsabilità verso il portiere e gli altri dipendenti - 4.6. Responsabilità verso i terzi.
4. Generalità.
Nelle pagine che precedono, si è più volte fatto riferimento alle “obbligazioni del condominio”,
oppure alla “responsabilità del condominio”. Occorre, ora, soffermarsi sul significato e sulla portata
operativa di tali locuzioni.
Una volta esclusa, infatti, la sussistenza di una vera e propria persona giuridica, con conseguente
autonomia patrimoniale, ogni discorso circa l’assetto delle obbligazioni - di natura contrattuale o di
fonte extracontrattuale - originate dall’esistenza di parti e servizi comuni non può che risolversi in
un’indagine circa la situazione in cui viene a trovarsi ciascun partecipante.
Si tratta, in particolare, di
stabilire se e quando sorga un’obbligazione solidale dei singoli comunisti verso terzi per rapporti che riguardano la
cosa comune; ad es. la comunione assume un portiere: questi, se non viene pagato, può pretendere l’intera
retribuzione da ciascuno dei comunisti o può chiedere a ciascuno solo una parte proporzionata alla quota di lui? altro
es.: si fanno opere sulla cosa comune: e si incaricano dell’esecuzione alcuni operai che perciò hanno diritto a
compenso: ebbene, ogni comunista è tenuto a pagarlo pro parte o per intero (salvo regresso verso gli altri
comunisti)? In parole povere, se la comunione è debitrice di un terzo, questi può esigere l’intero debito da uno
qualunque dei comunisti? insomma l’obbligo di ciascuno di costoro di regola è solidale (cioè ha ad oggetto l’intera
prestazione) o parziario?
(Branca 1982, 332).
4.1. Le obbligazioni contrattuali: la tesi della solidarietà.
Con riguardo alle obbligazioni di fonte contrattuale, derivanti dall’attività negoziale svolta a favore
del condominio, dottrina e giurisprudenza maggioritarie appaiono nettamente orientate a favore
della natura solidale delle obbligazioni verso i terzi.
Muovendo soprattutto dalla valorizzazione della regola generale contenuta nell’art. 1294 c.c., si
afferma infatti che
la regola è perciò questa che, se i debitori d’un terzo sono più d’uno (come accade nella comunione), ciascuno di
costoro è obbligato in solido
(Branca 1982, 334).
In altri termini, si precisa che
il principio contenuto nell’art. 1123 cod. civ. trova applicazione solo nei rapporti interni tra i condomini, ma non
anche nei rapporti esterni nei confronti dei terzi creditori. Si è già in precedenza rilevato che il condominio è un ente
di gestione, sfornito di personalità giuridica, distinta da quella dei suoi partecipanti ed agisce di norma nell’ambito
delle cose comuni a mezzo della persona dell’amministratore che lo rappresenta, con le attribuzioni ed i poteri di cui
agli artt. 1130 e 1131 cod. civ. Ne consegue che quando l’amministratore (o in via eccezionale, il singolo condomino
ex art. 1134 cod. civ.) ha assunto obbligazioni in nome e per conto del condominio nei limiti delle sue attribuzioni o
in adempimento delle deliberazioni dell’assemblea, tali obbligazioni sono riferibili ai condomini, i quali sono legati
dal vincolo di solidarietà verso i terzi creditori. Trova pertanto applicazione il principio sancito nell’art. 1294 cod.
civ., secondo cui deve presumersi che i condebitori siano tenuti in solido, se non risulta il contrario dalla legge o dal
titolo dell’obbligazione
(Dogliotti e Figone 1992, 260).
Nello stesso senso, le indicazioni della giurisprudenza:
I condomini sono solidalmente responsabili per le obbligazioni contratte dal condominio nel comune interesse, salvo
il diritto di chi ha pagato di esercitare verso i (condomini) condebitori l’azione di regresso e di dividere nei rapporti
interni il debito; ne discende che il terzo creditore del condominio in forza di un simile rapporto, può agire in via di
cognizione, per il conseguimento del corrispettivo integralmente o parzialmente insoluto, sia contro l’amministratore
(o di chi altri abbia contratto l’obbligazione per delega ed in rappresentanza dei condomini), in ragione della
rappresentanza passiva attribuitagli dalla legge, sia nei confronti dei singoli condomini, quali obbligati diretti verso
di lui
(Cass. 17.4.93, n. 4558, ALC, 1993, 479; GC, 1993, I, 2683, con nota di de Tilla; v. anche Cass. 11.11.71, n. 3235,
RGE, 173, I, 23, con nota di Salis; ND, 1972, II, 665, con nota di Zaccagnini; GI, 1972, I, 282; FI, 1972, I, 2574).
Ovvero:
Quando l’amministratore del condominio (che è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica che di norma
agisce o è convenuto in giudizio nell’ambito delle cose comuni, per mezzo della persona dell’amministratore) abbia
assunto obbligazioni in nome e per conto del condominio nei limiti delle sue attribuzioni o eseguendo deliberazioni
assembleari, tali obbligazioni sono riferibili ai condomini, con la conseguenza che il terzo contraente può agire per
ottenere il pagamento sia nei confronti dell’amministratore sia nei confronti dei singoli condomini e che la sentenza
eventualmente ottenuta nei confronti dell’amministratore può essere fatta valere nei confronti dei singoli condomini,
pur se non indicati nominativamente nella sentenza, salvo il diritto di chi ha pagato di esercitare verso i condebitori
l’azione di regresso e di dividere nei rapporti interni il debito medesimo, mentre sono irrilevanti ai fini dell’obbligo
del condomino esecutato i rapporti interni dello stesso con il condominio o la eventuale esistenza di un fondo
comune che non è il patrimonio dell’ente
(Cass. 14.12.82, n. 6866, GI, 1985, I, 1, 380).
Ciò significa, ad esempio, che ciascun condomino si trova personalmente esposto (e per intero) alle
azioni di recupero svolte dal fornitore del combustibile, destinato al riscaldamento del caseggiato, il
quale abbia ottenuto un decreto ingiuntivo (divenuto definitivo) nei confronti dell’amministratore
(Cass. 5.4.82, n. 2085, GI, 1983, I, 1, 989), e lo stesso vale per i compensi dovuti ad un avvocato
che abbia svolto attività a favore del condominio (Trib. Napoli 24.6.72, ND, 1972, II, 775, con nota
di Zaccagnini), nonché per le spese di giustizia cui sia stato condannato il condominio (Pret. Roma
31.5.58, TR, 1959, 120: si respinge l’opposizione del condomino al quale era stato notificato
precetto per l’intero credito) e, ancora, per i crediti maturati sia dal portiere dello stabile [Cass.
15.12.79, n. 6539, RFI, 1979, Lavoro (rapporto), 282; Pret. Roma 24.10.85, DL, 1986, II, 348] che
dall’INPS in relazione alla retribuzione dovuta allo stesso portiere (Cass. 18.12.78, n. 6073, PS,
1979, 641; Cass. 24.10.56, n. 3897, GC, 1957, I, 654, con nota di Nocella; per ulteriore casistica, v.
Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 270 s.; in dottrina, v. anche Busnelli 1974, 457 ss.; Visco 1976, 738 ss.).
Seguendo questo schema, il condomino che avrà adempiuto l’intera obbligazione sarà legittimato ad
agire in via di regresso verso gli altri partecipanti, ottenendo da ciascuno di essi la quota di
spettanza, sulla base dei criterî dettati dagli artt. 1123 ss., c.c., o delle eventuali convenzioni
contenute nel regolamento condominiale.
Si tratta, palesemente, di una soluzione assai favorevole per il creditore - dispensato dagli oneri e
dai rischi cui andrebbe incontro ove costretto a raccogliere da ciascun condomino esclusivamente la
propria quota di debito -; e peraltro altrettanto gravosa per il partecipante che figuri essere stato
escusso. A mitigare la posizione di quest’ultimo soggetto, v’è chi ritiene tuttavia possibile
riconoscere l’esistenza - a suo favore - del beneficium excussionis: e ciò in base all’applicazione
analogica di quanto previsto dall’art. 2268 c.c. a favore del socio di società semplice (tra gli altri,
Branca 1982, 336 s.; per una voce contraria, v. Busnelli 1974, 461):
Il condomino pertanto, richiesto del pagamento di debiti condominiali, è legittimato a domandare la preventiva
escussione del patrimonio del condominio, indicando i beni sui quali il creditore possa agevolmente soddisfarsi
(Dogliotti e Figone 1992, 261).
E a risultati simili perviene chi - con riguardo alle obbligazioni che abbiano la propria fonte in
deliberazioni condominiali o in attività dell’amministratore - sostiene la natura sussidiaria della
responsabilità del singolo condomino: il terzo potrà aggredire (e per l’intero) i beni di pertinenza
esclusiva del singolo solo dopo essersi rivolto inutilmente verso il beni comuni (Amagliani 1992,
240 ss.).
4.1.1. Segue. Altre proposte interpretative.
La soluzione della parziarietà del debito anche nei confronti dei terzi - per effetto della validità
esterna dell’art. 1123 c.c. - figura essere stata sostenuta, nel passato, da alcuni autori (v. ad es.
Peretti Griva 1960, 369), nonché accolta in alcune pronunce giurisprudenziali (in particolare, la S.C.
ha negato la natura solidale del debito dei condomini nei confronti del portiere: Cass. 10.5.51, n.
1110, FI, 1951, I, 1029, con nota critica di Branca; in senso contrario, con riguardo alla medesima
ipotesi, v. Pret. Roma 24.10.85, DL, 1986, II, 348; Trib. Salerno 18.7.55, FI, 1955, I, 1251; per
ulteriore casistica v. Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 270 ss.).
Né sono mancate proposte intermedie - miranti ad evitare gli inconvenienti derivanti dalla rigida
applicazione delle regole della solidarietà o della parziarietà del debito. Si è sostenuta, ad esempio,
l’opportunità di ritenere l’operato dell’amministratore vincolante per i condomini solo entro i limiti
dell’art. 1123 c.c., e di far valere la solidarietà soltanto fra coloro che abbiano partecipato al
contratto direttamente, o indirettamente per mezzo di rappresentante; in quest’ottica, il terzo potrà
eventualmente rivolgersi ai condomini rimasti estranei al contratto esercitando, in via surrogatoria,
l’azione per il recupero di quanto da essi dovuto (in base all’art. 1123 c.c.) a chi abbia agito
nell’interesse comune:
Seguendo tale soluzione, non si corre dunque il pericolo che un partecipante al condominio per una quota esigua,
dopo aver dato il suo assenso in assemblea (anche se dissenziente, l’approvazione della maggioranza lo vincolerebbe
egualmente) per una spesa necessaria per un servizio in comune, si veda costretto dal terzo al pagamento di somme
vistose con l’onere di convenire poi i suoi condomini per ottenere da ciascuno di essi un rimborso pro quota
(Salis 1956, 156).
Così, più di recente - nel criticare una pronuncia della S.C., la quale pare aver nuovamente sposato
la tesi della parziarietà del debito dei condomini (Cass. 27.9.96, n. 8530, FI, 1997, I, 872, con nota
di Colonna 1997, 872 ss.; GC, 1997, I, 699, con nota di Triola 1997, in tema di recupero di somme
anticipate dall’amministratore cessato dall’incarico, sulla quale v. amplius al § successivo) - un altro
autore ha ritenuto superabile l’alternativa in questione:
La verità è che verso l’esterno viene certamente in rilievo una pluralità di soggetti (i partecipanti), ma pur sempre
caratterizzata da un’unitaria organizzazione e da un’unitaria rappresentanza, che non può essere ricondotta ai
«condomini singolarmente considerati»
(Colonna 1997, 881).
All’unicità dell’obbligazione della collettività verso l’esterno fa dunque riscontro la suddivisione
interna delle quote (ex art. 1123 c.c.) e, sul piano operativo, si conclude che
Più semplicemente, sarebbe preferibile riconoscere la legittimazione esclusiva del gruppo dei partecipanti, in
persona dell’amministratore: la pretesa del terzo va indirizzata verso il fondo comune (somme già accantonate), a
disposizione dell’amministratore (...); qualora il fondo risultasse insufficiente, il terzo potrebbe sempre agire, in via
surrogatoria (...) per il recupero dei crediti che il condominio vanta nei confronti di terzi o di singoli condomini
morosi
(Colonna 1997, 883).
4.1.2. Le anticipazioni effettuate dall’amministratore cessato dall’incarico.
La giurisprudenza figura periodicamente chiamata ad esprimersi con riguardo alle anticipazioni
effettuate dall’amministratore, il quale sia successivamente cessato dall’incarico senza aver prima
ottenuto, dai condomini, il dovuto rimborso.
E’ configurabile, in questo caso, un debito solidale dei condomini, oppure l’ex amministratore dovrà
rivolgersi a tutti i compartecipi, singolarmente considerati, e da ciascuno ottenere il pagamento nei
limiti della propria quota?
Ebbene, la ricerca della risposta che a tale quesito si è ritenuto - da parte di giudici e studiosi - di
dover dare non risulta sempre agevole.
Un punto sufficientemente fermo è rappresentato dalla possibilità, riconosciuta in capo
all’amministratore cessato dall’incarico, di rivolgersi - benché senza i vantaggi offerti dall’art. 63
disp. att. c.c. - verso i singoli condomini morosi, onde ottenere da questi le quote dovute da
ciascuno (Cass. 12.2.97, n. 1286, MGC, 1997, 227; Cass. 27.9.96, n. 8530, FI, 1997, I, 872, con
nota di Colonna 1997, 872; GC, 1997, I, 699, con nota di Triola 1997; Cass. 15.12.75, n. 4127, RFI,
1975, Com. e cond., 66; Trib. Milano 14.6.93, ALC, 1993, 782).
Quanto alla questione centrale - quella della natura solidale o meno del debito in questione - la
posizione più lineare, e coerente con quanto visto al paragrafo che precede, è quella che muove
dalla considerazione circa la posizione di terzo che anche l’amministratore assume nei confronti
della comproprietà: posizione che comporta l’applicazione a suo vantaggio della regola generale
della solidarietà passiva. Si tratta di una soluzione caldeggiata da parte della dottrina (Branca 1962,
1210 ss.; Rezzonico 1992, 262; ulteriori indicazioni in Colonna 1997, 877 s.), e fatta propria dai
giudici talvolta in maniera esplicita (App. Milano 24.10.61, FP, 1962, I, 1210, con nota di Branca
1962; in ND, 1963, II, 411, con nota di Vessia 1963; RGE, 1962, I, 804 e 1247; GC, 1962, I, 1138;
Pret. Udine 13.6.90, ALC, 1990, 571, con nota di Scalettaris), altre volte implicitamente (Cass.
21.10.75, n. 3463, FI, 1976, I, 1628, che sulla base di tale solidarietà ritiene sia consentito
all’assemblea di deliberare la costituzione di un fondo cassa volto ad evitare i danni che i condomini
subirebbero a causa della morosità di uno di essi).
In netta opposizione, sembrano collocarsi invece altre decisioni (e quegli autori: v., ad es. Visco
1976, 742 s.; Vessia 1963, 413 ss.; Peretti Griva 1960 439 s., il quale dichiara di aver mutato avviso
rispetto ad una precedente edizione della medesima opera), le quali affermano che
poiché trattavasi dei contributi dovuti dai singoli condomini in base allo stato di ripartizione approvato
dall’assemblea (art. 1130, n. 3 cod. civ.), ciascun condomino era tenuto in forza del detto stato di ripartizione (art. 63
disp. att. cod. civ.) ma da ciò non derivava alcun obbligo solidale degli altri condomini per il pagamento delle quote
non riscosse (...).
Pertanto, esulando il vincolo della solidarietà, la domanda di rimborso dell’amministrazione decaduta avrebbe
dovuto essere proposta nei confronti dei singoli condomini inadempienti (...) e non già verso tutti i partecipanti al
condominio legalmente rappresentati dal nuovo amministratore
(Cass. 11.6.68, n. 1865, FP, 1969, I, 613; Cass. 21.5.73, n. 1464, GC, 1973, 1722).
Tale contrasto giurisprudenziale sarebbe però - stando ad un autore - solo apparente, e superabile
tenendo conto della diversità di situazioni affrontate in ciascun caso giudiziario:
Occorre infatti distinguere tra le spese che l’amministratore anticipa nell’interesse del condominio, quando può
impegnarlo (ad es. in tema di spese urgenti di manutenzione straordinaria, di cui all’art. 1135, ultimo comma, c.c.) e
spese già deliberate che l’amministratore anticipa per singoli condomini morosi.
Mentre in ordine alle prime non può dubitarsi che l’amministratore può rivolgersi per il rimborso sia al condominio
che ai singoli condomini (i quali ... sono solidalmente responsabili), per quanto riguarda le seconde, invece, essendo
stata l’anticipazione effettuata nell’interesse dei singoli condomini, mediante l’accollo di un debito che questi
soltanto avevano nei confronti del condominio, il rimborso non potrà essere chiesto al condominio, né agli altri
condomini morosi
(Triola 1997, 703).
Ancora diverso è però l’indirizzo che sembra essere ormai preferito dalla S.C.: quello che consente
bensì all’amministratore cessato di citare in giudizio il nuovo amministratore, quale rappresentante
dei condomini, senza però che ciò comporti alcuna solidarietà fra questi ultimi (sul punto, Terzago
1992, 183 s.).
Occorre a questo proposito citare una decisione nella quale la Cassazione, pur dichiarando
ammissibile l’azione dell’ex amministratore nei riguardi del nuovo amministratore, rifiuta
esplicitamente di prendere posizione sulla questione della solidarietà, sostenendo che, quando non si
sia proceduto all’approvazione del rendiconto e della ripartizione delle spese, l’esperibilità
dell’azione nei riguardi del nuovo amministratore, quale rappresentante dei condomini, nulla a che
vedere ha con la natura solidale o meno dell’obbligazione, discendendo invece dall’applicazione
dell’art. 1720 al rapporto di mandato sussistente fra amministratore e condomini (Cass. 17.4.74, n.
1046, FI, 1974, I, 2360).
Da qui, una serie di pronunce, dal seguente tenore:
Nel caso di anticipazioni per spese condominiali da parte dell’amministratore, l’obbligazione restitutoria nasce a
carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione legittima e per diretto effetto di essa;
la situazione non muta in conseguenza della cessazione dell’anticipante dall’incarico di amministratore; la nomina
del nuovo amministratore amplia la legittimazione processuale passiva, ma non elimina quelle sostanziali e
processuali, passive originarie; quindi l’ex amministratore può proporre domanda giudiziale di rimborso nei
confronti sia dell’amministratore in carica, sia dei singoli condomini
(Cass. 24.3.81, n. 1720, GC, 1981, I, 2018, con nota di Basile; GI, 1981, I, 1, 1574).
L’amministratore del condominio di un edificio ha, ai sensi dell’art. 1131, 2° comma, c.c., la rappresentanza passiva
dei partecipanti, per qualunque azione concernente le parti od i servizi comuni; in forza di tale principio deve
ritenersi che la domanda avanzata da un amministratore cessato dall’incarico, per ottenere il rimborso di somme
anticipate nell’interesse della gestione condominiale, possa essere proposta, oltreché nei confronti dei singoli
condomini inadempienti all’obbligo di pagare le relative quote, anche nei confronti del condominio legalmente
rappresentato dal nuovo amministratore, non potendosi non considerare come attinente alle parti ed ai servizi
comuni un’azione che scaturisce dall’espletamento di un mandato riflettente proprio la gestione e conservazione di
quelle cose e servizi
(Cass. 23.5.75, n. 2046, RFI, 1975, Com. e cond., 69; v. anche Trib. Roma 9.2.91, ALC, 1991, 328).
Ancor più di recente, con una decisione a tutt’oggi nota solo in massima,si è sostenuto
L'Amministratore di condominio - nel quale non è ravvisabile un ente fornito di autonomia patrimoniale, bensì la
gestione collegiale di interessi individuali, con sottrazione o comprensione dell'autonomia individuale - configura un
ufficio di diritto privato oggettivamente orientato alla tutela del complesso di interessi suindicati e realizzante una
cooperazione, in regime di autonomia, con i condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con tratti
distintivi in ordine alle modalità di costituzione ed al contenuto “sociale” della gestione, al mandato con
rappresentanza, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, dell'art.
1720, primo comma, cod. civ., secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nella
esecuzione dell'incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell'interesse della gestione condominio
legalmente rappresentato dal nuovo amministratore, anche contro il singolo condomino inadempiente all'obbligo di
pagare la propria quota.
L'amministratore di condominio cessato dall'incarico è attivamente legittimato a proporre l'azione per il recupero
delle somme da lui anticipate nell'interesse del condominio nel corso della sua gestione, non soltanto nei confronti di
quest’ultimo, bensì anche nei confronti dei singoli condomini, per le quote rispettivamente a loro carico; tale
legittimazione attiva trova il suo fondamento, nella disciplina del rapporto di mandato, quale è quello configurabile
tra i condomini e l'amministratore (art. 1720 cod. civ.). (Nella specie il convenuto aveva eccepito il difetto di
legittimazione attiva, affermando che l'attore, non essendo più amministratore del condominio, non poteva
pretendere dai condomini il pagamento di quanto essi dovevano per spese condominiali)
(Cass. 12.2.97, n. 1286, Italgiure).
Si tratta di indicazioni da correlare a quelle - di poco precedenti - contenute in una decisione di
notevole interesse, che figura così massimata:
L'amministratore cessato dall'incarico può chiedere il rimborso delle somme da lui anticipate per la gestione
condominiale sia nei confronti del condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore (dovendosi
considerare attinente alle cose, ai servizi ed agli impianti comuni anche ogni azione nascente dall'espletamento del
mandato, che, appunto, riflette la gestione e la conservazione di quelle cose, servizi o impianti) sia,
cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all'amministratore,
mandatario, le anticipazioni da questo fatte nell'esecuzione dell'incarico deve considerarsi sorta nel momento stesso
in cui avviene l'anticipazione e per effetto di essa e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo
amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e
processuali.
L'amministratore del condominio ha diritto di richiedere ai singoli condomini il rimborso delle somme da lui
anticipate per la gestione condominiale solo nei limiti delle rispettive quote dovendosi ritenere applicabile anche nei
rapporti esterni la disposizione dell'art. 1123 cod. civ., a norma della quale le spese necessarie per la conservazione
ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, per le prestazioni dei servizi nell'interesse comune e per le
innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della
proprietà di ciascuno
(Cass. 27.9.96, n. 8530, FI, 1997, I, 872, con nota di Colonna 1997; GC, 1997, I, 699, con nota di Triola 1997).
Stando a tale pronuncia (accolta con accenti assai critici: v. Colonna 1997, spec. 875 ss.; Triola
1997, 703 s.), l’amministratore dimissionario sarebbe libero di agire al contempo: (a) nei riguardi
del nuovo amministratore - rappresentante di tutti i condomini, singolarmente considerati - e per
l’intera somma; (b) nei confronti dei singoli condomini: con il limite che a questi ultimi egli potrà
chiedere solamente le quote dovute da ciascuno, escludendosi esplicitamente l’esistenza tra di essi
di ogni vincolo di solidarietà:
“Nei grandi condomini, dei quali fanno parte decine e decine di condomini - talora addirittura centinaia - la
disposizione darebbe luogo a inconvenienti considerevoli decisamente iniqui: ciascuno, infatti, sarebbe tenuto per
l’intero onerosissimo e incontrerebbe gravi difficoltà nell’esercitare la rivalsa” (Cass. 27.9.96, n. 8530, FI, 1997, I,
872, con nota di Colonna 1997; GC, 1997, I, 699, con nota di Triola 1997).
4.2. La solidarietà in relazione alla responsabilità extracontrattuale.
Abbiamo sin qui più volte incontrato ipotesi di responsabilità extracontrattuale “del condominio”:
ipotesi rispetto alle quali non sembra esservi dubbio circa la natura solidale della responsabilità dei
condomini nei riguardi della vittima.
E’ quanto accade con riguardo alla responsabilità institoria per gli illeciti commessi dal portiere, da
altri dipendenti, dall’amministratore (v. retro, §§ 2.2.3. ss.); oppure in relazione ai danni che il
condominio sia stato condannato a risarcire quale custode delle cose e degli impianti comuni (v.
retro, §§ 2.2.5. ss.) o quale proprietario delle parti comuni interessate dalla rovina (v. retro, §§
2.2.6.) o, ancora, a causa delle immissioni provenienti dagli impianti comuni - riscaldamento,
autoclave (v. retro, §§ 2.2.8.6.).
In tutti questi casi, la solidarietà - sulla quale concorda la prevalente dottrina (v. Rezzonico 1992,
263; Peretti Griva 1960, 442 ss.; Visco 1976, 740 ss.; Branca 1982, 331 ss.) - viene fatta derivare
dalla regola generale contenuta nell’art. 2055 c.c. (Cass. 18.4.92, n. 4759, FI, 1993, I, 1186; Cass.
25.6.90, n. 6405, RFI , 1990, Com. e cond., 83; Trib. Napoli, 8.6.90, ALC, 1991, 134, con riguardo
alla responsabilità per cose in custodia).
Ove, poi, il danno figuri promanare da impianti destinati a servire solo una parte del fabbricato, la
responsabilità graverà esclusivamente sul gruppo dei condomini che da quegli impianti trae utilità
(Trib. Napoli 27.6.92, ALC, 1993, 116).
Quanto ai rapporti interni, si sostiene generalmente che colui il quale sia stato chiamato a risarcire il
danno potrà a sua volta rivolgersi verso gli altri condomini, e ottenere da ciascuno di essi una
somma da calcolarsi in base alle regole che gli artt. 1123 ss., c.c., dettano in tema di ripartizione
delle spese. Si afferma, ad esempio, che
l’obbligazione risarcitoria ex art. 2049 sarà solidale non solo in capo alla collettività condominiale, ma anche agli
effetti del rapporto tra collettività condominiale preponente e amministratore preposto. Si ritiene, infatti, in dottrina e
in giurisprudenza che l’obbligo risarcitorio verso i terzi configuri una responsabilità solidale di tutti i condomini,
anche se nei rapporti interni, la suddivisione delle somme sborsate a titolo di risarcimento, e fatta dai condomini, in
proporzione delle rispettive quote
(Rezzonico 1992, 279).
L’atteggiamento della giurisprudenza può essere, perciò, ben sintetizzato dalle seguenti massime:
“I singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale, sono, a norma dell’art.
1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti comuni, tra le quali il lastrico solare,
assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi
per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli art.
2051 e 2055 c.c. ove non provino, come unica causa di tali danni, il caso fortuito, e ciò a prescindere dalla
conoscenza o meno dei danni stessi (salvo regresso del condomino che abbia risarcito l’intero danno verso gli altri
condomini in ragione delle rispettive quote di proprietà)” (Cass. 25.6.90, n. 6405, RFI , 1990, Com. e cond., n. 83).
“I danni riportati dall’appartamento e dal sovrastrante lastrico solare di proprietà esclusiva, provocati dalla difettosa
esecuzione dei lavori di riparazione dell’impianto centrale di riscaldamento di un supercondominio, in quanto
cagionati non dalla normale usura, ma da un illecito aquiliano, vengono ripartiti in misura proporzionale alle quote
di partecipazione al supercondominio” (App. Cagliari 27.10.89, RGSarda, 1992, 1, con nota di Massacci).
Ci si interroga, tuttavia, sulla possibilità che la distribuzione interna del carico risarcitorio avvenga
non già in proporzione alle quote millesimali di proprietà, bensì attraverso l’applicazione dell’art.
2055 c.c.: ciò comporterebbe, da un lato, la possibilità di prendere in esame il comportamento omissivo o commissivo - effettivamente tenuto dai partecipanti al condominio e, dall’altro lato (art.
2055, 3° co., c.c.), l’eventualità che si proceda alla ripartizione degli oneri risarcitori in quote
uguali, ogniqualvolta tale indagine non abbia avuto esiti, presumendosi infatti fra loro uguali, nel
dubbio, le colpe dei corresponsabili.
Il problema è già stato qui affrontato in precedenza, allorché si è dato conto del trattamento
riservato al danno provocato dal lastrico solare o dalla terrazza a livello in uso esclusivo ad un
condomino: ipotesi nella quale alla distribuzione derivante dall’art. 1126 c.c. - che pone un terzo
delle spese a carico del singolo, e il rimanente a carico del condominio - sembra continuare ad
opporsi la regola contenuta nell’art. 2055 c.c. - in base alla quale si tratterà di considerare le
rispettive colpe dei partecipanti (v. retro §§ 2.2.5.3. ss.).
Dandosi allora per note le questioni relative, in generale, alla solidarietà nella responsabilità
extracontrattuale, e specialmente per ciò che concerne i diversi orientamenti fatti propri dagli
studiosi con riguardo alla distribuzione interna del danno in presenza di criterî di imputazione
diversi dalla colpa (sul punto, di recente, v. Franzoni 1993, 749 ss.), possiamo in questa sede
ricordare alcuni spunti, emersi in dottrina con particolare attinenza al tema qui trattato.
Si afferma ad esempio, con riguardo alla rovina di edificio:
Nei rapporti interni oltre alla ripartizione proporzionale alle singole quote, non si può escludere, in astratto, una
graduazione di colpa di uno o più proprietari con diretta incidenza sulla misura della porzione del rispettivo debito,
quando si configuri e si possa accertare una colpa effettiva a loro carico
(Geri 1974, 291).
Quanto poi ai rapporti interni tra condomini, oltre a una ripartizione del danno proporzionale alle singole quote di
dominio, sarà certamente ammissibile una graduazione delle colpe a carico di ciascun proprietario, con diretta
incidenza sulla misura della porzione del rispettivo debito
(Bussani 1988, 596).
Oppure, con riguardo al danno da fatto illecito dell’amministratore:
nei rapporti interni le responsabilità si intendono dividersi fra i condomini, precisamente in misura proporzionale al
valore delle singole proprietà esclusive (...) sempre quando, beninteso, non sia, per speciali contingenze, opponibile
ad alcuno dei condomini una colpa efficiente nell’evento dannoso
(Peretti Griva 1960, 444).
Quanto, poi, alla possibilità che - presumendosi nel dubbio uguali le colpe - la distribuzione
avvenga non già proporzionalmente ai millesimi, bensì in parti uguali, si tratta di una soluzione non
trova l’adesione della giurisprudenza, e ciò pur quando di sia in presenza di accertate condotte
negligenti. In un caso recente, infatti:
La Corte territoriale ha confermato nella misura del 50% per ciascuno dei due condomini l’apporto di costoro
all’evento dannoso, osservando che questo era stato determinato dalla parimenti negligente omissione, da parte di
entrambi, di ogni necessario intervento manutentivo, facendo in tal senso applicazione del secondo comma del
menzionato art.2055, e rilevando che la norma non consente il riferimento ad automatismi di sorta, neppure ai sensi
dell’art. 1226 c.c.
(Cass. 7.12.95, n. 12606, FI, 1996, I, 103; DR, 1994, 470, con nota di Speranza 1996, 471)
Una opzione che verrà respinta dalla S.C.:
Si impone, pertanto, l’annullamento, sul punto, della sentenza, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte
territoriale, la quale si atterrà al seguente principio: in caso di danni a terzi, cagionati dalla omessa esecuzione di
lavori di manutenzione straordinaria su lastrico solare in edificio condominiale, ed a carico del condominio, i singoli
condomini sono tenuti, nei rapporti interni tra loro, a concorrere al risarcimento dei danni secondo i criteri, cui
all’art. 1226 c.c.
(Cass. 7.12.95, n. 12606, FI, 1996, I, 103; DR, 1994, 470, con nota di Speranza 1996, 471).
Da sottolineare, ancora, la precisazione per la quale, ove il danno promani da una parte destinata a
servire solo alcuni fra i condomini, la responsabilità graverà solo su questo gruppo e non già
sull’intero condominio (Trib. Napoli 27.6.92, ALC, 1993, 116).
4.3. Responsabilità verso il singolo condomino.
Si è più volte avuto modo di ricordare come - nonostante le perplessità di alcuni autori (per tutti, v.
Rezzonico 1992, 256 ss.) - la posizione del singolo condomino che risulti danneggiato da una parte
o da un servizio comune, oppure dal comportamento di uno dei soggetti operanti per conto del
condominio, non differisca sostanzialmente da quella del terzo.
Si afferma infatti:
dalla comproprietà delle cose, dei servizi e degli impianti comuni nascono per i condomini delle obbligazioni
propter rem con la conseguenza che, in particolare, la responsabilità per i danni derivanti alle unità immobiliari in
proprietà esclusiva dalle cose comuni grava su tutti i condomini, essendo questi tenuti alla manutenzione delle cose
comuni, con l’obbligo di adottare tutte le cautele idonee a scongiurare i pregiudizi, e quindi, responsabili ove tali
pregiudizi si verifichino
(Cass. 15.3.94, n. 2454, RFI, 1994, Com. e cond., 96).
Il singolo condomino può agire a norma dell’art. 2051 c.c. nei confronti del condominio per il risarcimento dei danni
sofferti per il cattivo funzionamento di un impianto comune o per la difettosità di parti comuni dell’edificio, dalle
quali provengono infiltrazioni d’acqua pregiudizievoli per gli ambienti di sua proprietà esclusiva, ponendosi quale
terzo nei confronti del condominio stesso, tenuto alla custodia ed alla manutenzione delle parti e degli impianti
comuni dell’edificio
(Cass. 11.2.87, n. 1500, ALC, 1987, 297; v. anche Trib. Milano 27.5.93, ALC, 1994, 613; Trib. Milano 2.3.92, AC,
1992, 813; Trib. Milano 4.7.91, ALC, 1991, 586).
La circostanza che ad essere danneggiato sia un condomino - soggetto egli stesso appartenente al
gruppo chiamato a rispondere del danno - varrà non già a respingere la domanda risarcitoria, bensì a
limitare (per la quota di sua spettanza) l’entità del ristoro che egli potrà ottenere a carico degli altri
comproprietari; in effetti,
qualora un condomino subisca un danno derivante dalla cosa comune, in capo a lui si radicano due posizioni
giuridiche soggettive diverse e separate: da un lato quella di danneggiato avente diritto al risarcimento, dall’altra
quella, appunto, di condomino; pertanto, all’obbligo di contribuzione su di lui gravante quale condomino questi non
può sottrarsi invocando il fatto di essere egli stesso danneggiato dal condominio
(Trib. Napoli 26.9.84, DG, 1984, 986).
Si tratta di regole che abbiamo visto applicate, in particolare, con riguardo ai danni provenienti da
cose delle quali il condominio figuri essere custode (v. retro, §§ 2.2.5.1.) o dalla rovina delle parti
comuni che abbiano travolto quelle di appartenenza esclusiva (v. retro, §§ 2.2.6.11.); in relazione
all’accertamento dell’intollerabilità delle immissioni provenienti dagli impianti comuni in danno
delle singole unità (v. retro, §§ 2.2.8.6.), nonché a proposito delle conseguenze del fatto dei
dipendenti del condominio - portiere, giardiniere, ecc. - (v. retro, § 2.2.3.1.), o dell’amministratore
(v. retro, § 2.2.3.2.).
A questo punto non resta che aggiungere alcune precisazioni.
La responsabilità del condominio nei confronti del singolo è destinata a sorgere anche allorché
quest’ultimo non venga posto in grado di fruire correttamente del proprio diritto sulle cose comuni.
Ad esempio, nel caso in cui un appartamento risulti insufficientemente riscaldato, e tale carenza
dipenda da una deficienza nell’organizzazione e nella gestione dell’impianto centralizzato, il
condominio potrà vedersi condannare non soltanto all’eliminazione dei vizi e dei difetti, causa del
disservizio, ma altresì al risarcimento di quanto sborsato dal condomino onde sopperire - con un
impianto autonomo - al disservizio stesso (Trib. Milano 26.1.89, ALC, 1990, 94).
La posizione di terzo che il condomino danneggiato assume nei confronti del gruppo vale, poi, a
porre fuori gioco molte delle regole che disciplinano i rapporti interni. Egli potrà, ad esempio,
avanzare la propria domanda di risarcimento senza doversi preventivamente rivolgere
all’amministratore né attivarsi al fine della convocazione dell’assemblea condominiale (Cass.
19.6.84, n. 3629, RFI , 1984, Com. e cond., n. 74; Cass. 6.11.86, n. 6507, VN, 1986, 1197; GC,
1987, I, 892, con nota di Lipari; ALC, 1987, 88; Trib. Napoli 14.1.87, ALC, 1987, 738; contra, Trib.
Napoli 4.7.79, RGE, 1979, I, 308). Correlativamente, agendo non già nella veste di condomino,
bensì in quella di proprietario esclusivo, il danneggiato non potrà impugnare la delibera
condominiale che abbia respinto le sue pretese risarcitorie, non risultando da quella pregiudicato in
alcun modo il suo diritto ad agire giudizialmente, quale terzo, nei confronti del condominio (Trib.
Parma 9.12.91, ALC, 1992, 128).
Inoltre - sempre in virtù della sua posizione di terzo - valgono anche nei confronti del condomino
danneggiato tutti i discorsi relativi alla natura solidale del debito risarcitorio del condominio (Pret.
Napoli 31.10.68, ND, 1969, II, 436, con nota adesiva di Zaccagnini).
E’, poi, appena il caso di precisare che il condomino, operando nell’ambito di propria appartenenza
esclusiva, può effettuare tutti gli interventi necessari ad accertare le cause del danno: ove tali
accertamenti consentano di attribuire queste ultime alle parti o impianti comuni, il condominio sarà
tenuto a rimborsare le spese a tal fine sostenute, senza poter pretendere il rispetto della procedura
dettata dall’art. 1134 c.c. (Cass. 5.8.83, n. 5264, RFI, 1983, Com. e cond., n. 78).
4.3.1. Delibere assembleari e danno al condomino.
E’ noto come - tra le questioni maggiormente dibattute in tema di condominio - vi siano quelle
relative alla natura giuridica, al ruolo, ai compiti e ai poteri dell’assemblea (sul punto, v. de Tilla
1992, 669 ss.; Dogliotti e Figone 1992, 31 ss.; Rezzonico 1992, 183 ss.; Terzago 1992, 255 ss.;
Branca 1982, 618 s; Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 505 ss.; Visco 1976, 524 ss.; Peretti Griva 1960, 446
ss.; Salis 1956, 225 ss.).
In questa sede, il profilo sul quale occorre focalizzare l’attenzione è tutavia essenzialmente quello
dell’invalidità delle decisioni collegialmente adottate. Ricordiamo allora, anzitutto:
In via generale, le deliberazioni annullabili sono quelle affette da vizi formali, ossia adottate in violazione di regole
legali, convenzionali o regolamentari con le quali si impone di seguire un certo procedimento per addivenire alla
manifestazione di volontà dell’organo condominiale; quelle inficiate da eccesso di potere, ossia gravemente
pregiudizievoli per le cose e i servizi comuni, se relative ad atti di ordinaria amministrazione, oppure in contrasto
con le norme di cui al primo e secondo comma dell’art.1108 cod. civ., ove riguardino innovazioni; quelle affette da
incompetenza perché relative a materie riservate all’amministratore.
Le delibere nulle sono invece quelle affette da vizi in ordine alla regolarità della costituzione dell’assemblea e alla
regolare espressione del diritto di voto dei condomini; quelle adottate senza le maggioranze di legge; quelle aventi
un oggetto impossibile o illecito; nonché quelle che ledono i diritti dei condomini sulle cose comuni o sulle parti di
proprietà esclusiva. All’interno della categoria delle deliberazioni nulle se ne individua una specie particolare,
rappresentata dalle deliberazioni inficiate da nullità c.d. relativa, in quanto lesiva non di tutti i partecipanti al
condominio, ma di soggetti determinati; la distinzione peraltro non rileva sul piano sostanziale, bensì su quello
processuale, ai fini della valutazione dell’interesse ad agire in capo a chi propone una domanda giudiziale di
accertamento del vizio dedotto
(Dogliotti e Figone 1992, 357 s.; v. anche Rezzonico 1992, 196 ss.).
Peraltro, in questo campo, le posizioni degli interpreti appaiono ancor più articolate. V’è, infatti, chi
individua alcune ipotesi di “inefficacia relativa” (Branca 1982, 652 s.); mentre altri ritengono che
debba trovar spazio operativo la nozione di inesistenza dell’atto (Terzago 1992, 294 ss.; Visco 1976,
593 ss.; Preite 1964, 456 ss.); altri ancora distinguono tra vizi di forma e vizi di sostanza precisando come la disciplina ed i limiti di cui all’art. 1137 c.c. riguardino solo i primi (Salis 1956,
294 ss.). Soprattutto in giurisprudenza, è poi frequente il ricorso al concetto di “eccesso di potere”
(tra le tante, v. Cass. 21.2.95, n. 1890, ALC, 1995, 615; Cass. 26.4.94, n. 3938, ALC, 1994, 789;
Cass. 5.11.90, n. 10611, RFI , 1990, Com. e cond., 155; Cass. 27.1.88, n. 731, VN, 1988, 249; Trib.
Milano 24.6.91, ALC, 1991, 590; Trib. Napoli 9.7.87, ALC, 1987, 720; Conc. Bari 10.10.89, ALC,
1990, 159; v. anche Peretti Griva 1960, 484 ss.; per una sintesi delle diverse posizioni emerse in
dottrina e in giurisprudenza, v. Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 570 ss.).
Quanto ai profili di responsabilità, si è sostenuto - in dottrina - che un danno al condomino non
potrebbe derivare che dall’esecuzione della delibera invalida e pregiudizievole per la proprietà del
singolo condominio o per la sua comproprietà sulle cose comuni, affermandosi esplicitamente che:
“la delibera nulla non può comportare, ex se, un danno al condomino” (Rezzonico 1992, 301).
Si tratta di un’affermazione dotata certamente di un proprio fondamento statistico, ma che non
sembra completamente condivisibile. Basta pensare a come già la sola adozione di una
deliberazione senz’altro nulla - ad esempio, quella che imponga limiti alle facoltà di godimento o di
disposizione del singolo proprietario, fuori dai casi in cui ciò si ritiene ammissibile (v. supra, §
2.1.1.) - potrebbe interferire nelle trattative che il condomino abbia in atto allo scopo di locare o di
vendere il proprio appartamento, inducendo la controparte (venuta a conoscenza della decisione
assembleare) a desistere dalla conclusione del negozio.
4.3.1.1. Segue. Casistica.
Venendo alla casistica, è appena il caso di segnalare alcune decisioni della S.C., la quale ha
precisato che nessuna responsabilità è destinata a sorgere in conseguenza di decisioni che risultino
regolarmente adottate dall’assemblea:
In tema di condominio negli edifici, dalla esecuzione di una deliberazione adottata con la prescritta maggioranza
nell’ambito riservato alla competenza e discrezionalità di valutazione della assemblea in relazione alle parti comuni
dell’edificio, non può normalmente derivare alcuna responsabilità per fatto illecito o contrattuale a carico della
maggioranza che ha approvato la deliberazione nei confronti della minoranza dissenziente
(Cass. 3.8.90, n. 7831, RFI , 1990, Com. e cond., n. 156).
Così, nel caso in cui si siano verificati dei danni a causa di un’imperfetta esecuzione di un appalto, e
ove l’assemblea abbia ciononostante deciso di far proseguire i lavori, affidandoli alla medesima
impresa, il condomino danneggiato - assente o dissenziente - potrà impugnare tale decisione, ma
non potrà pretendere il risarcimento da parte del condominio, la cui deliberazione non influisce
sulla possibilità del condomino stesso di agire nei confronti dell’appaltatore (Cass. 7.5.88, n. 3395,
ALC, 1988, 714).
Ben diverso è il caso in cui la decisione sia tale da colpire o comprimere il diritto del singolo
condomino.
L’esempio è quello dell’assemblea che deliberi l’installazione di un ascensore, privando il
condomino di una parte della sua proprietà o limitandone gravemente il godimento. Proprio con
riguardo ad una simile ipotesi, si sostiene che
avviando i lavori per l’installazione dell’ascensore, al condomino leso non rimarrà altro che proporre le azioni
petitorie (artt. 948-949 c.c.) o possessorie (artt. 1168-1170 c.c.), in forza dei propri diritti reali, quali derivanti dalla
comunione (l’impugnativa ex art. 1137 contro l’illegittimità della delibera potrebbe, infatti, giovargli solo prima
dell’esecuzione e non dopo). E ciò, oltre al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale, per lesione dei
diritti di proprietà e di godimento, spettanti al condomino
(Rezzonico 1992, 301).
E, in tal senso, si è espressa anche la giurisprudenza, allorché ha ordinato la rimessione in pristino
dei luoghi, oltre al risarcimento dei danni patiti dal condomino - il quale lamentava il mancato
rispetto delle distanze tra l’ascensore in fase di installazione e i propri locali - sulla base della
seguente affermazione:
L’installazione dell’ascensore non può comportare un pregiudizio intollerabile o un danno apprezzabile ad un
singolo condomino, nel qual caso l’innovazione non può essere considerata legittima, e ciò vale anche se l’ascensore
viene installato a norma dell’art. 3, l. 9 gennaio 1989, n. 13
(Trib. Napoli 16.11.91, ALC, 1992, 373, confermata da App. Napoli 27.12.94, ALC, 1995, 393).
(Per inciso, occorre precisare come in tema di installazione di ascensore e di superamento delle
barriere architettoniche si registrino in giurisprudenza indicazioni tendenzialmente favorevoli a
risolvere i contrasti mediante la valutazione comparativa degli interessi in gioco - ferma restando la
necessità che non venga arrecato danno alle parti di proprietà esclusiva -: v. Cass 25.6.94, n. 6109,
GC, 1995, I, 167, con nota di de Tilla; ALC, 1994, 756, con nota di Maglia; Cass. 29.4.94, n. 4152,
RFI, 1994, Com. e cond., 132; Trib. Foggia 29.6.91, ALC, 1992, 373; NGCC, 1993, I, 338 con nota
di Ditta; GC, 1991, I, 3089; Trib. Milano 9.9.91, ALC, 1992, 138, con nota di Maglia; Trib. Milano
11.5.89, GM, 1989, 1088; ALC, 1990, 325; Pret. Catania 14.5.91, GM, 1993, 351, con nota di
Minutoli).
Da segnalare anche una decisione relativa all’invalidità della delibera di destinazione di un’area
condominiale a parcheggio, destinazione tale da impedire l’accesso ad alcune autorimesse di
proprietà esclusiva (Cass. 5.9.89, n. 3858, GC, 1990, I, 738).
Quanto all’eventualità che la maggioranza deliberi in maniera tale da intaccare il diritto del singolo
sulle parti comuni, vale come esempio una vicenda, nella quale un condomino aveva effettuato senza autorizzazione alcuna - pessimi interventi di ristrutturazione sul pregevole androne del
palazzo, ricevendo poi dalla maggioranza assembleare una ratifica del proprio operato. I giudici non
avranno difficoltà a riconoscere, da un lato, l’illegittimità della delibera e, dall’altro lato, il diritto
del condomino dissenziente a venir risarcito del danno subito dalle parti comuni - in misura
proporzionale alla quota di proprietà dell’attore (Trib. Napoli 4.3.94, ALC, 1994, 338). E alle stesse
conclusioni si è giunti con riguardo all’autorizzazione - rilasciata ad un condomino dalla
maggioranza assembleare - a trasformare il tetto (comune) in terrazza ad uso esclusivo (Cass.
26.10.94, n. 8777, ALC, 1995, 371; in entrambi i casi, peraltro, il condomino danneggiato aveva
chiesto, ed ottenuto, la condanna al risarcimento del solo condomino illegittimamente avvantaggiato
dalla delibera).
Da citare, altresì, una decisione della S.C. la quale è stata chiamata ad occuparsi di una delibera
condominiale con la quale era stata autorizzata la costruzione - da parte di un condomino - di una
canna fumaria aderente ai muri perimetrali, e destinata a smaltire le esalazioni di una pizzeria sita al
pianterreno; decisione peraltro risoltasi nella lesione delle prerogative di un altro condomino
inerenti il godimento delle parti comuni ed esclusive. Ecco, allora, quanto affermato dai giudici in
quell’occasione:
In tema di condominio di edifici, è nulla (e non soltanto annullabile) la deliberazione dell’assemblea presa a
maggioranza che approvi una utilizzazione particolare da parte di un singolo condomino di un bene comune, qualora
tale diversa utilizzazione rechi pregiudizievoli invadenze nell’ambito dei coesistenti diritti altrui, quali asservimenti,
immissioni, o molestie lesivi del diritto degli altri condomini alle cose e servizi comuni o su quelle di proprietà
esclusiva di ognuno di essi
(Cass. 28.8.93, n. 9130, ALC, 1994, 326; RGE, 1994, I, 714, con nota di de Tilla).
Quanto però ai profili risarcitori, la S.C. ha ritenuto di dover confermare sul punto la decisione di
merito che aveva negato la responsabilità del condominio, e ciò sulla base dell’impegno - formulato
dal condomino autorizzato all’edificazione della canna fumaria - ad assumersi ogni responsabilità
per le eventuali conseguenze dannose del proprio operato.
Occorre a questo punto rilevare come - al di là degli esempi sin qui citati - la casistica non appaia
molto abbondante: di regola, infatti, la delibera illegittima figura adottata al fine di imporre al
condomino la cessazione di un’attività ritenuta fonte di fastidi dalla maggioranza; attività che
l’interessato continuerà ad esercitare anche nelle more del giudizio, per cui alla declaratoria di
invalidità delle pretese del condominio la parte vittoriosa non avrà in genere alcun danno di cui
lamentarsi (v., ad esempio, Cass. 27.6.5, n. 3848, ALC, 1985, 431; RGE, 1985, I, 697: nella specie,
il condominio aveva cercato far cessare l’attività di un ambulatorio medico).
Altre volte, è l’impossibilità di provare di aver subito effettivamente il danno a indurre i giudici a
respingere una domanda risarcitoria altrimenti senz’altro fondata; ad esempio - benché accertata
l’illegittimità del divieto di adibire un appartamento a studio professionale - una corte ha concluso
che la mancata affissione di una targa all’esterno dell’edificio (a seguito degli ostacoli frapposti dal
condominio) non rappresenti una prova sicura dell’esistenza di un danno emergente per mancato
avviamento professionale (Trib. Lecce 23.11.93, ALC, 1994, 581).
4.3.2. Inerzia del condominio e tutela degli interessi del condomino.
Non sono rare le ipotesi nelle quali la responsabilità del condominio figura sancita in relazione ad
eventi dannosi in qualche modo ricollegabili ad un’inerzia o a una trascuratezza nella gestione delle
cose comuni. Sono situazioni che si ripetono, in particolare, là dove si parla di danni da cose in
custodia (v. retro, §§ 2.2.5. ss.), o conseguenti alla rovina di un edificio (v. retro, §§ 2.2.6. ss.).
Al là di queste ipotesi “tipiche”, occorre più in generale domandarsi se, e a quali condizioni, una
serie di comportamenti omissivi da parte dell’assemblea condominiale - rifiuto di trattare o di
deliberare su di un punto, bocciatura di determinate proposte - possano risultare fonte di
responsabilità del condominio nei riguardi del condomino che, a seguito di tale inerzia, abbia subito
un danno.
Consideriamo, anzitutto, l’eventualità che il condominio trascuri di esercitare le azioni che gli
spetterebbero nei riguardi di un terzo, in relazione a danni cagionati alle cose comuni oppure a
inadempimenti contrattuali di vario genere.
In questi casi, la soluzione discende direttamente dalla posizione che le corti assumono con riguardo
alla natura giuridica del condominio. Una volta respinta, infatti, la tesi della piena soggettività, ne
consegue la possibilità - riconosciuta in capo a ciascun condomino - di agire direttamente a tutela
non solo dei propri diritti sulle parti di proprietà esclusiva ma anche di quelli sulle parti ed i servizi
comuni (fra le tante, v. Cass. 20.4.95, n. 4465, ALC, 1995, 844; Cass. 13.4.91, n. 3942, ALC, 1991,
526; Cass. 18.2.87, n. 1757, RFI , 1987, Intervento in causa e litisconsorzio, 18; Trib. Milano
8.6.92, ALC, 1993, 570; ulteriori riferimenti in Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 470 ss.). Da qui, la
conclusione per cui
il singolo condomino non può proporre azione di danno contro il condominio per il mancato promovimento
dell'azione contrattuale nei confronti dell'impresa installatrice dell'impianto [di riscaldamento malfunzionante] posto
che il condomino conserva il potere di agire a difesa non solo dei suoi diritti di proprietario esclusivo, ma anche dei
suoi diritti di comproprietario «pro quota» delle parti comuni, potendo ricorrere all'autorità giudiziaria nel caso di
inerzia dell'amministrazione del condominio a norma dell'art. 1105 c.c., dettato in materia di comunione, ma
applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio disposto dall'art. 1139 c.c.
(Cass. 15.12.93, n. 12420, CorG, 1994, 344, con nota di Frangini; RGE, 1994, I, 710, con nota di de Tilla; ALC,
1994, 796).
Ugualmente, il condomino che - in contrasto con la maggioranza degli altri comproprietari sostenga l’esistenza di vizi di costruzione in alcune opere commissionate dal condominio ad un
appaltatore, potrà senz’altro agire verso quest’ultimo, ma non potrà far valere tali difetti al fine di
rifiutare il versamento delle somme poste a suo carico in seguito alla delibera di approvazione delle
spese (Trib. Piacenza 3.9.93, ALC, 1994, 604, con nota di Arata).
Ben diversa è l’ipotesi nella quale gli organi condominiali - con la loro inerzia - consentano il
perdurare di una determinata situazione dannosa o il peggioramento della stessa. In tal caso, vale la
seguente regola:
Il diritto-dovere di ciascun condomino al mantenimento e, occorrendo, alla ricostruzione della cosa comune, nei
limiti di legge, comporta non solo l’obbligo di contribuire alle spese, ma anche tutti gli obblighi di fare e di pati
connessi alle modalità esecutive, sicché, se le opere necessarie al mantenimento od alla ricostruzione della cosa
comune non sono deliberate o vi è stata una delibera negativa, ciascuno dei condomini ha diritto di agire in giudizio
per la condanna del condominio all’adempimento dell’obbligo comune di fare; tale obbligo, in caso di accoglimento
della domanda, deve essere assolto dall’amministratore (con la cooperazione di tutti i condomini), mentre, ove
l’amministratore manchi (e non sia intervenuto provvedimento ex art. 1105 c.c.), oppure non vi sia stata costituzione
formale di condominio (per essere i condomini meno di quattro), ovvero l’opera riguardi solo alcuni condomini
(come nel caso di riparazione di solaio fra piani sovrapposti), il diritto del condominio all’adempimento dell’obbligo
comune di fare trova tutela diretta nei confronti degli interessati tenuti al facere comune, le modalità del quale
possono essere stabilite a piani (se richiesto), ovvero lasciate in tutto o in parte alle determinazioni del giudice
dell’esecuzione (art. 612 c.p.c.), in difetto di adempimenti, concordi e spontanei, dopo la condanna
(Cass. 11.3.82, n. 1579, RFI , 1982, Com. e cond., 35).
Al condomino, il quale miri a veder rimossa la situazione dannosa, l’ordinamento indica perciò il
seguente percorso, valido con riferimento alla generalità dei casi:
Il condomino il quale ritiene che si debba effettuare una spesa per lavori necessari, siano essi di manutenzione
ordinaria che straordinaria, non può adire direttamente il giudice in sede contenziosa, senza avere prima interpellato
l'amministratore del condominio affinché convochi l'assemblea dei condomini per l'approvazione dei lavori ed
eroghi la spesa relativa, ovvero senza avere, in caso di suo rifiuto od omissione, convocato direttamente l'assemblea
o fatto ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione a termini di regolamento o di legge, ovvero, infine, senza
avere, in caso di rifiuto da parte dell'assemblea di approvare la spesa e i lavori necessari, impugnata
tempestivamente detta deliberazione
(Cass. 18.3.72, n. 823, RFI, 1972, Com. e com., 105).
Laddove, invece, le spese si annuncino non soltanto necessarie, ma altresì caratterizzate
dall’urgenza, l’art. 1134 c.c. consente al condomino di attivarsi in prima persona, pur in assenza di
preventiva autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, e di reclamare successivamente il
rimborso (sul quale, v. Dogliotti e Figone 1992, 262 ss.; Terzago 1992, 184 s.; Branca 1982, 615 ss.;
Visco 1976, 369 ss.; Peretti Griva 1960, 362 ss.; Salis 1956, 260 ss.; Cass. 6.12.84, n. 6400, ALC,
1985, 271; Cass. 25.5.73, n. 1542, RFI, 1973, Com. e cond., 103; Cass. 6.2.72, n 475, RFI, 1972,
Com. e cond., 102, 107; Cass. 11.2.69, n. 473, RFI, 1969, Com. e cond., 251; Cass. 21.1.66, n. 261,
RFI, 1966, Com. e cond., 234; Trib. Milano 27.5.93, ALC, 1994, 128; Trib. Milano 8.6.92, ALC,
1993, 570; Trib. Milano 26.9.88, ALC, 1989, 733; Pret. Catania 29.5.90, ALC, 1991, 355; Pret.
Firenze 17.6.86, ALC, 1986, 497).
Le regole mutano, però, allorché il condomino decida di agire direttamente onde ottenere il
risarcimento del danno subito; il principio di cui sopra, infatti,
non può però affatto applicarsi alla fattispecie, nella quale non si è in presenza di un’azione del condomino intesa
alla effettuazione di opere incidenti sui beni comuni sibbene ad un’azione intesa ad ottenere la condanna del
condominio al risarcimento dei danni subiti dal bene individuale del condomino in conseguenza di situazioni
dannose inerenti i beni comuni: in tale ipotesi, come ha di recente evidenziato la sentenza n. 3629 del 1984 di questa
Suprema Corte [Cass. 19.6.84, n. 3629, RFI , 1984, Com. e cond., n. 74], la domanda del condomino non richiede
affatto, per la sua procedibilità, né la previa richiesta all’amministratore, né la necessità di istanza o convocazione
dell’assemblea condominiale, dovendosi tali previe richieste intendere previste solo in rapporto al godimento ed alla
conservazione delle cose comuni, non già in vista di una rifusione di danno che attiene al patrimonio del singolo
comunista
(Cass. 6.11.86, n. 6507, VN, 1986, 1197; GC, 1987, I, 892, con nota di Lipari; ALC, 1987, 88).
E un esempio significativo è fornito dalla seguente vicenda.
Un condomino subisce alcune infiltrazioni nel proprio appartamento, provenienti dagli impianti
condominiali. Per più di un anno, il condominio evita di prendere le misure del caso sinché il
danneggiato non si risolve ad agire in giudizio; a quel punto l’assemblea delibera l’esecuzione delle
riparazioni e cerca di chiudere la lite, rifiutandosi peraltro di rimborsare all’attore le spese
processuali già sostenute. Il giudizio prosegue perciò con tale oggetto, e il verdetto vedrà
soccombere il condominio convenuto, una volta che i giudici avranno riconosciuto il legame
esistente fra le spese in questione e l’inerzia dell’assemblea che aveva determinato
ingiustificatamente il persistere della situazione lesiva (Trib. Milano 23.5.94, ALC, 1994, 585).
Resta, tuttavia, da affrontare un interrogativo: è possibile - questa è la domanda - che il condomino
il quale abbia ritenuto di non utilizzare gli strumenti a sua disposizione per ottenere l’intervento
sulla cosa comune (art. 1105, 4° co., c.c.), o che non si sia avvalso della facoltà riconosciutagli
dall’art. 1134 c.c., e non abbia cioè provveduto direttamente alle spese urgenti, si veda validamente
opporre tale scelta come rilevante in termini di concorso nella determinazione dell’evento dannoso,
ex art. 1127 c.c.?
Con riguardo alla prima ipotesi, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che l’art. 1105, 4° co.,
c.c. non impone alcun onere particolare al singolo condomino danneggiato, al quale spetterà
senz’altro il risarcimento - ad esclusione della parte a lui imputabile quale comproprietario e, solo in
questa veste, corresponsabile dell’illecito omissivo (Trib. Napoli 14.1.87, ALC, 1987, 738, che
dichiara esplicitamente di modificare in parte il proprio orientamento, espresso precedentemente in
Trib. Napoli 4.7.79, RGE, 1979, I, 308).
Quanto, poi, al mancato esborso delle spese urgenti - consentito dall’art. 1134 c.c. - si è precisato in
una remota decisione che la responsabilità per i danni lamentati dal condomino, in conseguenza
dell’ingiustificato rifiuto degli altri condomini di concorrere alle spese di conservazione
dell’edificio pericolante non viene meno
per la facoltà che si riconosca al medesimo condomino di provvedere di propria iniziativa ed a proprie spese, salvo
rimborso, alle riparazioni necessarie
(Cass. 12.5.39, n. 1609, FI, 1939, I, 945).
Inoltre, è pacifico come la diligenza richiesta dall’art. 1227 c.c. non si spinga sino ad imporre al
danneggiato lo svolgimento di attività gravose, l’assunzione di rischi o il sostenimento di spese
rilevanti (sul punto, v. ROSSELLO 1990, spec. 76 ss.). E, a tacer d’altro, va ricordato come il
condomino il quale si sia determinato a sostenere certe spese, ritenendole erroneamente urgenti, sia
destinato a subire la perdita totale di tali somme: stando all’interpretazione prevalente, in tali casi al
condomino resta infatti precluso pure il recupero dell’arricchimento apportato al condominio
(Dogliotti e Figone 1992, 264 s.; Terzago 1992, 185 s.; Branca 1982, 617 s.; Cass. 15.11.94, n.
9629, FI, 1995, I, 1889; ALC, 1995, 362).
In definitiva, sembra di doversi concludere che gli spazi entro i quali poter rimproverare al
condomino danneggiato il fatto di essere rimasto egli stesso inerte si annunciano decisamente
ristretti: occorre, cioè, immaginare situazioni nelle quali a fronte di un intervento sulle parti comuni
indubbiamente di grandissima urgenza e necessità al fine di prevenire il danno, l’omissione del
danneggiato si palesi come del tutto ingiustificata perché consistente in un’attività davvero
minimale. Altrimenti,
ove il condomino, nel dubbio di poter ottenere dagli altri il rimborso pro quota della spesa che ritiene necessaria (il
carattere urgente della spesa è, ad esempio, dubbio), rimanga inattivo dopo il rifiuto da parte dell’amministratore o
degli altri condomini ad erogarla, e, per la mancata esecuzione dell’opera cui la spesa si riferiva, si producano dei
danni alla cosa comune od a quella di proprietà del condomino che aveva richiesto l’esecuzione dell’opera, la
responsabilità per il risarcimento di questi danni ricade sui condomini o sull’amministratore che senza
giustificazione abbiano rifiutato l’esecuzione dell’opera od il contributo nella relativa spesa
(Salis 1956, 262; v. anche Peretti Griva 1960, 367 ss.).
4.3.3. L’accesso alla proprietà esclusiva.
L’indissolubile intreccio che negli edifici in condominio si verifica tra parti di proprietà esclusiva e
parti ed impianti comuni determina - in certe occasioni - l’inevitabilità del sacrificio dello ius
excludendi alios a carico del singolo condomino. Vale cioè, anche in quest’ambito, il dettato
dell’art. 843, c.c.: il condomino deve consentire l’accesso ed il passaggio nel proprio appartamento
allorché ciò sia necessario per effettuare opere o riparazioni nell’interesse comune o di altri
condomini.
Non si tratta, precisa la giurisprudenza (sulla quale v. SANTILLI 1976, 291 ss. e, più di recente,
Salvi 1991, 125 s.; LORENZOTTI 1991, 78 ss.), di una servitù a carico della proprietà esclusiva,
bensì di
una obbligazione propter rem che si risolve in una limitazione legale del diritto del titolare del fondo per una utilità
occasionale e transeunte del vicino e che ha per contenuto la prestazione del consenso all’accesso ed al passaggio
(Cass. 27.2.95, n. 2274, DGA, 1995, 148; v. anche De Martino 1976, 195; Tabet, Ottolenghi e Scaliti 1981, 99 s.).
Diversamente, in dottrina, il sacrificio imposto in questi casi al proprietario figura indicato quale
“caratteristica limitazione legale della proprietà” (Bigliazzi Geri 1984, 28; Salvi 1982, 385).
Lo stesso art. 843 c.c. stabilisce comunque, al secondo comma, il diritto del proprietario a venir
indennizzato ove l’accesso abbia cagionato un danno. Si afferma, a questo proposito, che
l’ordinamento, nelle fattispecie in questione, «autorizza» l’ingerenza (incidendo sul potere di escludere del
proprietario), non la produzione del danno. Se danno vi sia, essa sarà dunque risarcibile, secondo i princìpi
(Salvi 1982, 386).
L’indennità dovuta per il danno cagionato al fondo funziona come lex specialis di fronte alla norma generale
sull’obbligo del risarcimento del danno; essa è quindi strettamente limitata al caso previsto dalla legge
(De Martino 1976, 199).
4.3.3.1. Accesso, passaggio, danno e indennizzo.
Sembra allora possibile - in linea generale - riordinare le conseguenze negative, che dalla norma
possono derivare per il proprietario, secondo una triplice partizione:
(a) i semplici disagi derivanti dal fatto in sé dell’accesso o del passaggio, per il quali nulla è dovuto
al proprietario del fondo (Dejana 1958, 275);
(b) i danni che dall’accesso (o dal passaggio: Dejana 1958, 275) siano derivati al fondo, per i quali
“è dovuta un’adeguata indennità” (art. 843, 2° co., c.c.), e corrispondenti - secondo qualcuno - nei
danni materiali subiti dal bene in conseguenza diretta ed immediata dell’accesso e altre attività inerenti e
conseguenti, ivi comprese anche piccole alterazioni o modifiche strutturali e strumentali del fondo che il proprietario
è tenuto a sopportare
(Trib. Genova 2.2.89, GI, 1990, I, 2, 628, con nota di Miglietta 1990);
(c) i danni ulteriori, prodotti in occasione dell’accesso o del passaggio ma esulanti dal
comportamento ammissibile, per i quali rivivono le regole generali sull’illecito.
Va detto che, in quest’ambito, le difficoltà interpretative riguardano essenzialmente il trattamento da
riservarsi alla richiesta del proprietario della singola unità - totalmente o parzialmente occupata - di
venir indennizzato per la perdita del godimento della stessa nel periodo di durata dei lavori.
In una recente pronuncia, la proprietaria di un appartamento si è vista respingere integralmente le
richieste indennitarie, fondate sui disagi derivanti dalla realizzazione di lavori - deliberati e fatti
eseguire dall’assemblea - sulla terrazza a livello di proprietà esclusiva dell’attrice ma con funzione
di copertura degli alloggi sottostanti. Nella specie, era certo che la presenza di operai e di materiali
edili nell’appartamento avesse “compresso il pieno e libero godimento del proprio appartamento
attraverso cui è necessario passare per accedere al terrazzo”. Netta - a questo riguardo la risposta dei
giudici, così massimata:
Il condominio ha il diritto di eseguire, in forza di propri legittimi deliberati, lavori di interesse comune, pur se
comportanti il passaggio o la temporanea occupazione di beni di proprietà esclusiva di singolo condomino; ne
consegue che l'incomodo derivante a quest'ultimo dai lavori condominiali, in quanto diretta conseguenza
dell'esercizio di un diritto, non configura gli estremi di un danno giuridicamente rilevante, e quindi risarcibile, bensì
comporta solo un pregiudizio con rilevanza economica; e tale pregiudizio, in mancanza di espressa previsione di
legge, la cui necessità discende dalla dedotta inapplicabilità degli art. 2043 seg. c.c., non è indennizzabile
(Trib. Napoli 16.2.94, ALC, 1994, 342).
Quello lamentato dalla condomina corrisponderebbe, dunque, ad un’ipotesi di danno meramente
patrimoniale, la cui risarcibilità viene - dalla corte partenopea - senz’altro esclusa (in tema di danno
meramente patrimoniale v. Castronovo 1997, 79 ss.).
Si tratta - in realtà - di un orientamento che non appare condiviso dagli autori che si sono interrogati
sul punto:
Ha diritto ad un risarcimento di danni il condomino al quale venga limitato il godimento dei suoi locali, per la
necessità di eseguirvi delle opere nell’interesse comune? Può capitare per varie ragioni, come quella di rafforzare le
fondazioni, restando inutilizzati per vario tempo i locali del pianoterra. A parte l’ipotesi di colpa da ascriversi ad un
condomino o ad un terzo o all’amministratore, nella quale è evidente il diritto al risarcimento, in base all’art. 2043,
quella della necessità dei lavori per vetustà del fabbricato o per eventi di forza maggiore, come una scossa di
terremoto, non costituisce un fatto illecito cui riportarsi, e perciò il condomino non può opporsi alla esecuzione dei
lavori ed anzi deve permetterli (va richiamata lo norma dell’art. 843 c.c.); ma ciò non significa che debba
interamente sopportarne il pregiudizio, per cui il risarcimento per la provvisoria occupazione di locali o per la
inabilità di essi, costituisce né più né meno che una partita delle spese necessarie per il compimento delle opere
intraprese e che, come tale, deve essere ripartito fra tutti i condomini
(Visco 1976, 293; posizione analoga figura assunta da Peretti Griva 1960, 301 s.).
E vi è poi chi - una volta affermata la necessità di distinguere il caso in cui l’accesso si concretizzi
in un mero passaggio, da quello in cui si verifichi invece una pur parziale occupazione del fondo afferma senz’altro che in questo secondo caso
il danno originato dall’accesso si identifica con il mancato godimento del fondo o di una sua parte” (Miglietta 1990,
632).
Così, pure i precedenti giurisprudenziali non appaiono in sintonia con la pronuncia napoletana sopra
citata (va ricordato però - poiché il dato potrebbe non essere stato, nei fatti, ininfluente - come la
casistica riguardi sempre l’occupazione temporanea di immobili adibiti ad usi imprenditoriali).
Ad esempio, in una sentenza si è affermato il diritto del proprietario delle botteghe site al pianoterra
a venir indennizzato delle perdite dovute alla chiusura delle stesse causata dai lavori svolti
nell’interesse del condominio: indennità che l’amministratore dovrà includere fra le spese comuni
(Trib. Napoli 9.10.56, DG, 1957, 116).
E più di recente, con riguardo al caso in cui la collocazione di un ponteggio - necessario al
rifacimento del tetto condominiale - aveva impedito al titolare di un Caffè sito al pianterreno di
sistemare i tavolini sull’area pubblica gestita in concessione i giudici affermeranno che
pur dovendosi escludere una responsabilità da illecito a carico del condominio, nondimeno ricorrono le condizioni
per l’applicazione della norma di cui all’art. 843 c.c., che riconosce il diritto ad un indennizzo in caso di
occupazione del fondo per la esecuzione di opere, anche se compiute nell’interesse comune allo stesso proprietario
(Trib. Milano 20.2.92, ALC, 1992, 617; nello stesso senso, seppur obiter, sembra esprimersi Trib. Genova 2.2.89,
GI, 1990, I, 2, 636, con nota di Miglietta 1990).
Da qui, il riconoscimento all’attore di un indenizzo giustificato - da un lato - dal diminuito
godimento dello spazio e - dall’altro lato - dal sostenimento “a vuoto” dell’indennità di occupazione
dell’area pubblica.
Minori difficoltà sembrano sorgere,invece, con riguardo al sacrificio imposto al proprietario dalla
presenza nel suo fondo di quanto necessario al vicino per la realizzazione dell’opera:
L'accesso al fondo del vicino, consentito dall'art. 843 c.c. qualora sia necessario per la costruzione di un'opera,
permette implicitamente che l'accesso sia accompagnato dal deposito di cose necessariamente strumentale alla
costruzione; con la conseguenza che, a necessità terminata, deve essere eliminata, a cura e spese del depositante, cui,
sin dall'inizio, fa carico l'obbligo del ripristino, ogni conseguenza implicante una perdurante diminuzione del diritto
del proprietario del fondo vicino che, invece, deve riprendere la sua originaria ampiezza (salva l'indennità nel caso
di danni)
(Cass. 9.2.82, n. 774, RFI, 1982, Proprietà, 17).
In questi termini, può rientrare nel sacrificio inevitabile la temporanea posa di manufatti necessari
alle riparazioni, mentre può essere vietato il deposito dei materiali edili (v. ad esempio Pret.
Sorrento 5.8.80, FN, 1981, 297; Pret. Napoli, sez. Nola 5.4.94, GI, 1994, I, 2, 740, con nota di
Manera; AC, 1995, 980) e, ove si verifichi un abuso in tal senso, si sarà al cospetto di un vero e
proprio fatto illecito, tale da obbligare al risarcimento ex art. 2043 c.c. (Cass. 8.3.58, n. 790, RFI,
1958, Proprietà, 22).
Non sembra esservi dubbio, invece, circa la riconducibilità all’ipotesi sub (a) (che non comporta
alcun indennizzo) della limitazione consistente nell’impossibilità per il proprietario di compiere
determinate opere che egli avrebbe la facoltà di realizzare ove il diritto di accesso non esistesse: il
che accade, ad esempio, allorché il diritto del condominio di accedere, attraverso la mansarda di
proprietà esclusiva, al tetto dell’edificio onde provvedere alla riparazione o alla manutenzione di
impianti condominiali impedisca l’apposizione di grate fisse alla finestre della mansarda interessata
(Cass. 27.2.95, n. 2274, DGA, 1995, 148).
4.3.3.2. Il “diritto d’antenna”.
In questa sede, vale la pena altresì di menzionare (per una più ampia ricostruzione del dibattito
dottrinale e giurisprudenziale sul c.d. “diritto d’antenna” si rinvia alle annotazioni alle sentenze che
verranno qui di seguito citate, nonché a Dogliotti e Figone 1992, 162 ss.) le regole che disciplinano
l’installazione di impianti per le telecomunicazioni.
Per quanto qui interessa, ricordiamo come la normativa di settore (artt. 1 ss., l. 6.5.40, n. 554; art.
232 ss., 397, d.p.r. 29.3.73, n. 156, T.U. poste e telecomunicazioni) preveda che il condomino non
possa opporsi all’appoggio o al passaggio degli impianti (antenne, condutture, fili ecc.) necessari
alle ricetrasmissioni, disponendo che tali impianti debbano comunque venir collocati in maniera tale
da non impedire il libero uso della proprietà (sul punto v. Trib. Roma 9.6.86, TR, 1988, II, 453, con
nota di Rossi: legittima la delibera assembleare che nega al condomino il consenso all’installazione
di un’antenna parabolica tanto ampia da occupare gran parte del lastrico solare; Cass. 6.11.85, n.
5399, FI, 1986, I, 707; GC, 1986, I, 397, con nota di Cecchella: il condomino può installare una
propria antenna pur in presenza di impianto centralizzato, ove non risulti violato l’art. 1102 c.c.;
Trib. Roma 27.10.80 e Trib. Roma 13.10.80, entrambe FI, 1981, I, 3007), né da danneggiare la
stessa; inoltre, lo stesso proprietario sarà tenuto, ove necessario, a sopportare il passaggio degli
addetti all’installazione, alla riparazione, alla manutenzione degli impianti.
Si tratta di un diritto di natura personale, riconducibile al diritto alla libera manifestazione del
pensiero, di cui all’art. 21 Cost. (tra le tante, v. Cass. 6.11.85, n. 5399, FI, 1986, I, 707; GC, 1986, I,
397, con nota di Cecchella), che figura riconosciuto a chiunque - condomino o inquilino (Pret.
Salerno-Eboli 24.10.90, ALC, 1992, 176; anche all’esercente di un’attività radiofonica
commerciale: Trib. Latina 16.11.92, GM, 1993, 945, con nota di de Tilla; Pret. Milano 24.3.88, FP,
1990, I, 374) - utilizzi un’unità immobiliare sita nello stabile (non all’utente che abiti in altro
stabile: App. Lecce 8.2.94, GM, 1994, 425).
Al sacrificio imposto al proprietario dell’immobile assoggettato alla presenza dell’impianto o al
passaggio degli addetti non spetterà in generale, indennità alcuna (art. 232, 5° co., d.p.r. 156/1973),
se non là dove sussista una “effettiva limitazione del libero uso della proprietà e di danno alla
proprietà stessa” (art. 11, 2° co., l. 554/1940), oppure allorché la situazione sia tale da comportare
l’imposizione di una vera e propria servitù (cioè fuori dai casi previsti dall’art. 232, d.p.r. 156/1974:
cfr. art. 233 s. dello stesso T.U.) o, ancora, nell’eventualità che la normativa in questione venga - in
sede di regolamento - applicata a favore dei concessionari dei servizi radioelettrici ad uso privato
(art. 397, u.c., T.U.).
Ove, poi, le modalità di realizzazione del diritto in questione figurino essere state tali da provocare
un danno, si farà luogo ad un vero e proprio risarcimento; data la natura personale del diritto,
legittimato passivo all’azione ex art. 2043 c.c. sarà l’inquilino - che aveva proceduto
all’installazione dell’antenna - non già il proprietario dell’appartamento locato (Cass. 25.2.86, n.
1176, NGCC, 1986, I, 522, con nota di Barenghi; ALC, 1986, 238: nella specie, si trattava di danni
arrecati al condominio nel corso dell’installazione di un’antenna televisiva).
Correlativamente, la stessa disciplina (art. 3, l. 554/1940; artt. 237, 397, T.U.) consente al
proprietario di effettuare qualunque lavoro o innovazione ancorché ciò comporti la rimozione o il
diverso collocamento degli impianti, senza dover per questo versare alcuna indennità all’utente
degli stessi: nel caso di lavori, toccherà, anzi, a quest’ultimo provvedere - a propria cura e spese -
sia alla rimozione che al riposizionamento delle antenne (Cass. 24.3.94, n. 2862, CorG, 1994, 1129,
con nota di de Tilla; ALC, 1994, 531, con nota di Maglia; FI, 1995, I, 1583).
4.4. Responsabilità verso l’amministratore. Il compenso.
Con riguardo al compenso dovuto all’amministratore, l’art. 1135, n. 1), c.c., definisce “eventuale”
tale retribuzione; peraltro, l’art. 1709 c.c., in tema di mandato, stabilisce la presunzione di onerosità
dell’incarico, rinviando alle parti o alle tariffe professionali o agli usi la determinazione della sua
misura.
E’ su questo doppio binario che dottrina e giurisprudenza affrontano i problemi legati al compenso
per l’opera svolta dall’amministratore (per tutti, v. De Renzis 1995, 35 ss.; Dogliotti e Figone 1992,
389 ss.; Terzago 1992, 230; Branca 1982, 557, 622 s.; Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 386; Visco 1976,
500 s.; Peretti Griva 1960, 438 s.).
Il regolamento di condominio o l’assemblea dei condomini potranno perciò decidere circa la
gratuità o meno dell’incarico, ed anche prevedere il pagamento di un compenso solo a favore di un
amministratore professionista e non già allorché a tali incombenze sottoponga uno dei condomini
(Cass. 16.4.87, n. 3774, ALC, 1987, 487). In ogni caso, ogni decisione relativa ai compensi aumenti, eventuali regalie d’uso, ecc. - spetterà all’assemblea, non essendo sufficiente
un’autorizzazione meramente verbale dei condomini (Trib. Roma 21.2.87, ALC, 1989, 120).
Stante comunque la presunzione di onerosità, toccherà al condominio fornire la prova contraria:
La presunzione di onerosità del mandato, stabilita iuris tantum dalla legge, può essere superata da una prova
contraria la quale può essere basata su circostanze quali la prassi esistente presso il mandante (nella specie: un
condominio di edificio) di conferire gratuitamente il mandato, nonché il contegno delle parti prima e dopo lo
svolgimento delle prestazioni (nella specie: l’amministratore nei cinque anni di espletamento del suo incarico e nei
sei anni successivi alla cessazione non aveva avanzato alcuna richiesta di compenso)
(Cass. 27.5.82, n. 3233, RFI , 1982, Mandato, 4).
Si sottolinea, poi, che l’amministratore al quale sia stato revocato anticipatamente l’incarico non
avrà diritto al compenso stabilito per la normale durata dello stesso, bensì ad una somma liquidata
in proporzione alla durata dell’incarico (Trib. Monza 27.6.85, ALC, 1985, 729). Correlativamente,
l’amministratore il quale, alla scadenza dell’incarico, continui ad esercitare ad interim i suoi poteri
spetterà un compenso da calcolarsi secondo i criterî stabiliti per i periodi precedenti (Cass. 14.6.76,
n. 2214, RFI, 1976, Com. e cond., 64).
Con riguardo, poi, all’amministratore nominato con provvedimento dell’autorità giudiziaria (art.
1129, 1° co., c.c.), si precisa che il compenso non andrà calcolato in base ai criterî di cui all’art.
1709 c.c., ma verrà determinato e liquidato dall’autorità giudiziaria che lo ha nominato, con i
parametri propri di tali incarichi (Trib. Vicenza 28.1.71, GI, 1972, I, 2, 328; RGE, 1973, I, 53, con
nota di Salis; CBVT, 1972, 65; ND, 1972, 838, con nota di Zaccagnini). In ogni caso, tali oneri
graveranno su tutti i condomini e non già esclusivamente su quelli che hanno dato luogo
all’intervento dell’autorità; verrà perciò respinta l’impugnazione di un condomino nei riguardi della
delibera dell’assemblea avente ad oggetto il compenso dell’amministratore: una volta fallita la via
ordinaria, e giunti alla designazione dell’amministratore da parte del giudice, diventa del tutto
irrilevante il fatto che il regolamento condominiale prevedesse che l’incarico venisse affidato, senza
alcun compenso, esclusivamente a soggetti appartenenti al condominio (Cass. 12.2.88, n. 1513,
ALC, 1988, 359; nello stesso senso, v. Capponi e Chiocca 1993, 217).
4.4.1. Il rimborso delle anticipazioni effettuate dall’amministratore.
Si è in precedenza già dato conto delle questioni relative al recupero delle somme anticipate, per
conto del condominio, da parte dell’amministratore cessato dall’incarico (v. retro, § 4.1.2.).
Occorre, ora, precisare soltanto come l’amministratore - in via generale - non sia affatto tenuto ad
effettuare tali anticipazioni. In effetti, con riguardo all’ipotesi in cui l’amministratore si trovi a non
avere la disponibilità delle somme necessarie per la gestione ordinaria e straordinaria, si rileva che
il legislatore conferisce in materia all’Amministratore tutti i possibili strumenti e rimedi.
Infatti un Amministratore accorto e diligente nel predisporre i preventivi di spesa deve tener conto di un probabile
aumento dei costi e, nel caso di eventi straordinari ed imprevedibili, può convocare l’assemblea per l’integrazione
dei fondi necessari in relazione a deficienze di cassa.
Nell’ipotesi, poi, di morosità, lo stesso deve tempestivamente rivolgersi all’autorità giudiziaria.
Qualora, tuttavia, le azioni giudiziali nei confronti dei condomini morosi si trascinino a lungo, l’Amministratore può
utilizzare il fondo di riserva, appositamente costituito, oppure chiedere l’integrazione dello stesso o la costituzione
del fondo medesimo
(De Renzis 1995, 108).
Tuttavia, ciò non impedisce che, in talune situazioni, l’amministratore figuri aver effettivamente - e
legittimamente - provveduto di tasca propria all’esborso di somme necessarie alla gestione del
condominio. Avrà, egli, diritto a venir rimborsato di tali spese?
Ancora una volta, la soluzione viene fatta risalire alla qualità di mandatario rivestita
dall’amministratore (sul punto, Dogliotti e Figone 1992, 398; Terzago 1992, 184; Branca 1982,
581):
Il rapporto di amministrazione del condominio è analogo a quello del mandato con rappresentanza (pur
differenziandosene nei tratti caratteristici peculiari della costituzione e del contenuto); ne consegue l’applicabilità
all’amministrazione di condominio della norma (art. 1720, 1º comma, c.c.) in base alla quale il mandante deve
rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico; norma che peraltro esprime un
principio comune nella disciplina dei rapporti di cooperazione, indipendentemente dalle loro peculiarità
(Cass. 24.3.81, n. 1720, GC, 1981, I, 2018; GI, 1981, I, 1, 1574; Trib. Milano 14.6.93, ALC, 1993, 782).
Una regola destinata a valere anche in presenza di ipotesi particolari, come quella
dell’”amministratore parziale”:
Qualora, in relazione al numero degli appartamenti, non sia stato nominato, ai sensi dell’art. 1129 c.c.,
l’amministratore del condominio, colui il quale, avendone ricevuto incarico, svolga talune delle funzioni attribuite
dalla legge all’amministratore (nella specie: gestione dell’impianto di riscaldamento per una stagione invernale), può
agire nei confronti dei condomini per il recupero delle somme anticipate sulla base dell’instaurato rapporto di
mandato; né esiste ultrapetizione qualora la somma sia stata richiesta dall’attore quale «amministratore» del
condominio e la decisione abbia posto a fondamento della condanna del convenuto il rapporto di mandato, stante la
sostanziale assimilazione tra la figura di amministratore condominiale e quella di mandatario
(Cass. 18.11.81, n. 6115, RFI , 1981, Com. e cond., 70).
V’è, poi, chi sottolinea che l’amministratore avrà altresì diritto agli interessi legali sulle
anticipazioni effettuate (De Renzis 1995, 109).
E, ancora, può ricordarsi un’ulteriore precisazione, proveniente dalla giurisprudenza:
Il diritto di credito per anticipazioni effettuate dall’amministratore per conto del condominio non è soggetto al
termine di prescrizione di cui all’art. 2956, n. 2, c.c., poiché l’attività di amministratore di condominio non può
ricomprendersi fra le attività professionali in senso stretto, anche se svolta da chi abbia la qualifica di iscritto in un
albo professionale; detto diritto è, tuttavia, soggetto al termine di cui all’art. 2948, n. 4, c.c., in quanto è onere
dell’amministratore sottoporre all’organo assembleare, all’inizio di ogni anno di gestione, il proprio rendiconto
(Trib. Milano 5.11.90, ALC, 1991, 123).
4.4.2. L’ipotesi di revoca anticipata.
Ai sensi dell’art. 1129, 2° co., c.c., “l’amministratore dura in carica un anno e può essere revocato
in ogni tempo dall’assemblea”.
A questo proposito, il problema che ha visto impegnati dottrina e giurisprudenza riguarda l’ipotesi
di revoca non sorretta da giusta causa.
Il potere di revoca qui è riaffermazione di quel principio generale che lo riconosce a persone fisiche e giuridiche le
quali abbiano dato incarichi a terzi o abbiano eletto un proprio organo amministrativo (art. 1722 e segg., 2259, 2383
ultimo comma). Pure nel condominio l’amministratore può essere revocato «in qualunque tempo», cioè anche prima
della scadenza del termine (...): dagli articoli citati, escluso il 2259, e dalla semplice affermazione contenuta nella
norma che andiamo commentando si ricava l’efficacia della revoca anche quando non si fondi su una giusta causa e
sia perfino immotivata
(Branca 1982, 559).
Sulla medesima lunghezza d’onda figura sintonizzata gran parte degli autori, ad eccezione di chi
sostiene invece che
l’ipotesi indicata come autorizzante la revoca [art. 1131 c.c.] sia stata dalla legge considerata senz’altro come giusta
causa: il che esonererebbe il condominio dal dovere di ricercare altre ragioni, o di essere passibile di condanna ai
danni per difetto di un’altra giusta causa sostanziale.
L’art. 1129 prevede però altre possibilità di revoca, sia per deliberazione dell’assemblea per motivi rimessi al suo
apprezzamento, sia per le cause espresse nel penultimo capoverso. Quando si tratti di revoca rimessa genericamente
al giudizio dell’assemblea, essa deve essere fondata su giusti motivi ove il mandato sia a titolo oneroso, ed esso sia a
tempo determinato, e, se sia a tempo indeterminato, nel caso che non sia dato congruo preavviso in mancanza di una
giusta causa, nell’ipotesi in cui questa è prescritta, sono dovuti i danni (art. 1725 Codice civile)
(Peretti Griva 1960, 409 s.).
Dal canto suo, la giurisprudenza ribadisce che
la revoca dell’amministratore di un condominio può avvenire in qualsiasi tempo e non richiede la menzione o la
sussistenza di una giusta causa, dato che il rapporto tra amministratore ed assemblea riposa esclusivamente sulla
fiducia che i partecipanti al condominio nutrono nei suoi confronti. Venuta meno tale fiducia, manca il fondamento
stesso della permanenza in carica dell’amministratore il quale, con l’adozione della delibera di revoca, perde ogni
potere inerente alle sue mansioni ed è tenuto, tra l’altro, a restituire ogni cosa di pertinenza del condominio
(Cass. 28.10.91, n. 11472, ALC, 1992, 282; ivi, 579, con nota di Aitala; RaEquoC, 1992, 303, con nota di de Tilla;
ulteriori precedenti in Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 387).
La possibilità di far valere una giusta causa di revoca - ad esempio, la mancata presentazione del
conto, o la scorretta tenuta dei libri oppure il verificarsi di una delle ipotesi che l’art. 1129, 3° co.,
pone a fondamento della revoca da parte dell’autorità giudiziaria (App. Genova 6.11.90, FP, 1991,
I, 162) - non è, tuttavia, irrilevante:
La giusta causa gioca un ruolo importantissimo sotto un altro aspetto: infatti, se essa manca nella revoca fatta prima
del termine, il condominio sarà tenuto a un indennizzo nei confronti di chi amministrava dietro un corrispettivo. E’
questa una norma che non viene ripetuta nell’articolo in esame ma apparisce innegabile e sicura: ritorna infatti nel
mandato (art. 723, 1725) e nelle società (art. 2383, 3° comma), dove l’amministratore è un organo come nei
condominii con più di quattro condomini; ed è principio generale (v. ad es. i rapporti di vicinanza, il diritto di
sopraelevazione, le servitù coattive) che la collisione di due interessi ugualmente legittimi si componga
coll’attribuire un potere al primo e accordare un’indennità (quando c’è danno) al titolare del secondo
(Branca 1982, 560 s.).
La mancanza di una giusta causa non determina, dunque, il sorgere di alcun obbligo risarcitorio nei
riguardi dell’amministratore al quale spetterà soltanto un’indennità che qualcuno ritiene
parametrabile al “compenso per il resto della durata della carica, se il compenso è annuale, o pari al
compenso globale, se è tale la pattuizione” (GRECO 1958, 203), e qualcun altro indica nel
corrispettivo dovuto per la durata (effettiva) dell’incarico, se retribuito periodicamente, o dell’intera
somma pattuita, se determinata forfettariamente per l’intera prestazione (Salis 1967, 57; Salis 1956,
233 s.; Terzago 1992, 226).
Altri parlano, invece di risarcimento (de Tilla 1992, 911; Dogliotti e Figone 1992, 382 s.; Rezzonico
1992, 273 ss.; App. Roma 20.1.55, GCMA, 1955, 147); tra questi, v’è chi specifica che il danno
andrà liquidato alla stregua del normale inadempimento contrattuale (danno emergente e lucro
cessante; danni imprevedibili solo in caso di revoca dolosa, con la possibilità di riconoscere altresì il
pregiudizio non patrimoniale nel caso di revoca ingiuriosa: Peretti Griva 1960, 410), e chi invece si
limita a menzionare il residuo importo del compenso ancora dovuto fino alla scadenza annuale del
mandato (De Renzis 1995, 60; in tal senso anche Visco 1967, 258; Visco 1976, 496, il quale peraltro
ricorre indifferentemente ai termini indennità e risarcimento).
Quanto alla giurisprudenza, le indicazioni che possono essere tratte dalle decisioni edite sembrano
testimoniare circa un atteggiamento tendenzialmente severo. All’amministratore anzitempo
revocato è stato riconosciuto, infatti, solo il compenso maturato sino alla data della revoca (Trib.
Monza 27.6.85, ALC, 1985, 729): un risultato al quale si è giunti attribuendo all’amministratore la
qualifica di prestatore d’opera intellettuale e non già quella di mandatario (Trib. Milano 6.11.89, Il
consulente immobiliare, 1990, 921). Ma non manca neppure, tra i precedenti giurisprudenziali, una
ricostruzione che - muovendo dalla qualificazione giuridica dell’amministratore quale “organo
necessario per la espressione di interessi generali o collettivi” - ha escluso l’applicabilità, diretta o
analogica, delle norme sul mandato, finendo per negare all’amministratore, revocabile ad nutum,
qualsiasi risarcimento o indennizzo per la perdita dell’incarico (Pret. Roma 26.10.66, GC, 1066, I,
2284; RGE, 1967, I, 52, con nota di Salis 1967; ND, 1967, con nota di Visco 1967).
4.5. Responsabilità verso il portiere e gli altri dipendenti.
Le tipologie di lavoratori subordinati che possono ruotare intorno al condominio sono molteplici
(sul punto v. Dogliotti e Figone 1992, 125 ss.). Fra i soggetti ai quali si applica il C.C.N.L. per i
dipendenti da proprietari di fabbricati, stipulato il 15.5.95 e valido sino al 31.12.98, possiamo
ricordare soprattutto:
- i portieri, i quali possono o meno fruire di un alloggio, e la cui prestazione principale risulta
individuata nella vigilanza; prestazione alla quale si accompagnano, in diverse combinazioni, la
custodia, la pulizia, nonché altre mansioni legate alle consuetudini locali (art. 3, lett. A, A1, B, B1,
C.C.N.L.);
- gli addetti alla pulizia dello stabile, ed eventualmente ad altri servizi quali l’impianto di
illuminazione, il portone, ecc. (art. 3, lett. C);
- gli operai addetti alla manutenzione degli immobili, degli impianti e delle apparecchiature (art. 3,
lett. D);
- gli addetti alla pulizia e/o alla conduzione di campi da tennis, piscine, spazi verdi, parcheggi
condominiali (art. 3, lett. E).
Naturalmente, la figura sulla quale si è maggiormente appuntata l’attenzione di dottrina e
giurisprudenza è quella del contratto di portierato: negozio che figura ricondotto entro l’ambito dei
contratti speciali di lavoro non inerenti all’esercizio di un’impresa, disciplinati dall’art. 2239 c.c.
(sul rapporto di portierato, v. Durval 1990, 1 ss.; Mazzotta 1985, 400 ss.; Cottrau 1984, 1119 ss.);
precisa, a questo proposito, la S.C.:
Il rapporto di portierato è caratterizzato, rispetto al normale rapporto di lavoro subordinato (della cui realtà
normativa partecipa), da aspetti particolari, connessi alla natura (non imprenditoriale) del datore di lavoro ed al tipo
di servizio (pulizia, custodia e vigilanza) affidato al lavoratore, ed è disciplinato, quanto ad alcuni istituti, da leggi
speciali come la l. 21 marzo 1953, n. 215 sulla gratifica natalizia, la l. 16 aprile 1954, n. 111 sull'estensione delle
feste infrasettimanali e la l. 16 maggio 1956, n. 526 sul trattamento economico del lavoro prestato nei giorni festivi
[Cass. 29.3.85, n. 2221, RFI, 1985, Lavoro (rapporto), 575].
Per quanto interessa in questa sede, si tratta essenzialmente di dar conto dell’esistenza del rischio di
infortuni del portiere - o degli altri dipendenti -: un rischio da affrontarsi attraverso gli ordinari
strumenti operanti all’interno del rapporto di lavoro (sul punto, v. Rezzonico 1992, 372 ss.).
A questo proposito, va sottolineato come l’art. 57, C.C.N.L. preveda l’obbligo di iscrizione dei
lavoratori destinatari del contratto, oltre che all’INPS, anche all’INAIL (sugli obblighi assicurativi
nei riguardi dei portieri addetti agli impianti elettrici e termici, v. Cass. 26.1.82, n. 522, RI, 1982, II,
69; Cass. 1.12.81, n. 6387, RI, 1981, II, 195; FI, 1982, I, 409; RGE, 1982, I, 670). E la
giurisprudenza ha avuto modo di precisare come tutti i condomini figurino solidalmente obbligati
nei confronti degli istituti di previdenza, per il pagamento dei contributi assicurativi dovuti per i
dipendenti (Cass. 18.12.78, n. 6073, RGE, 1979, I, 726; App. Napoli 9.1.68, ML, 1969, 108;
ulteriore casistica in Jannuzzi e Jannuzzi 1978, 270).
Quanto alle conseguenze delle omissioni contributive (su cui v., di recente, De Renzis 1995, 214 s.),
ricordiamo come l’art. 35, l. 24.11.81, n. 689, abbia depenalizzato le violazioni previste dalle leggi
in materia previdenziale e assistenziale, senza incidere invece sulla natura penale delle infrazioni
alla disciplina delle assicurazioni contro gli infortuni e le malattie professionali; in ogni caso, per
quanto riguarda le somme dovute a titolo di sanzione, il condominio sarà responsabile in solido con
l’amministratore autore dell’illecito - salva la possibilità dell’ente di agire successivamente in
regresso (art. 6, l. 689/81); in altri termini,
in caso di ritardata presentazione delle denunce contributive e di ritardato pagamento dei contributi previdenziali
dovuti per il portiere, l’amministratore è tenuto a rivalere il condominio delle somme da quello versato all’Inps a
titolo di sanzioni amministrative
(Cass. 25.3.93, n. 3588, RFI, 1993, Com. e cond., 204).
Con una certa frequenza si ripresenta, nella casistica, il problema del trattamento da riservarsi al
portiere il quale abbia prestato la propria attività lavorativa nel corso delle intere settimane, senza
fruire cioè del riposo settimanale. Al riguardo, le indicazioni della giurisprudenza più recente sono
ben chiare: posta la nullità - per contrasto con l’art. 36 Cost. - di una pattuizione che preveda la
rinuncia del lavoratore a fruire del riposo settimanale, e al di là delle maggiorazioni di retribuzione
previste per il lavoro domenicale,
“qualora avendo lavorato la domenica, il portiere non abbia fruito di un giorno di riposo compensativo, gli spetta il
risarcimento del danno; tale risarcimento, in mancanza di criteri legali o di principi di razionalità che ne impongano
la liquidazione in una somma pari ad un’altra giornata di retribuzione, deve essere liquidato in concreto dal giudice
di merito, alla stregua di una valutazione che, anche utilizzando strumenti ed istituti previsti dalla contrattazione
collettiva, tenga conto della gravosità delle varie prestazioni lavorative e dell’effetto usurante del mancato riposto,
non essendo il danno per il sacrificio del riposo settimanale determinabile in astratto” [Cass. 11.2.91, n. 1386, RIDL,
1992, II, 189; Cass. 26.10.91, n. 11429, RFI, 1991, Lavoro (rapporto), 445].
E’ appena il caso di ricordare come i servizi prestati dai lavoratori subordinati sopra citati possano
venir ottenuti attraverso la stipulazione di contratti di lavoro autonomo o di appalto (v., ad es., Cass.
16.1.81, n. 383, FI, 1981, I, , 680: tocca al giudice di merito verificare in concreto la sussistenza
degli elementi caratteristici di un rapporto di lavoro autonomo oppure subordinato; Pret. Torino
10.4.94, ALC, 1994, 853, che ha riconosciuto la natura di attività lavorativa autonoma al servizio di
portineria e manutenzione di impianti condominiali condotto senza continuità della prestazione e
senza previsioni specifiche circa l’orario di lavoro e le modalità concrete del servizio stesso).
Perlatro, la qualifica di lavoratore subordinato può venir riconosciuta anche al condomino il quale,
senza disporre di propria organizzazione autonoma, effettui giornalmente l’attività di pulizia delle
scale del condominio (Pret. Parma 31.3.80, FI, 1981, I, 681).
4.6. Responsabilità verso i terzi.
Giunti a questo punto, l’elenco delle responsabilità alle quali il condominio risulta esposto nei
riguardi di soggetti terzi - diversi dall’amministratore o dai dipendenti - può essere stilato
semplicemente richiamando le ipotesi già trattate in precedenza.
Con riguardo ai profili di responsabilità contrattuale, possiamo rinviare alla casistica menzionata
allorché (§§ 4.1. ss.) si è dato conto dei problemi relativi relativi alla posizione dei condomini in
relazione all’attività negoziale svolta a favore del condominio.
Quanto, poi, alle diverse ipotesi di responsabilità extracontrattuale, vanno ricordate:
(a) le vicende nelle quali il condominio figura chiamato a rispondere ex art. 2043 nei riguardi del
conduttore molestato nel libero godimento del bene locato (§ 2.2.1.); oppure i conflitti che vedono il
condominio nella veste di autore di immissioni illecite (§ 2.2.8.8.);
(b) le varie ipotesi di responsabilità vicaria, legata al fatto dell’amministratore o degli altri soggetti
che prestano la propria opera a favore del condominio con vincolo di dipendenza o comunque senza
una sufficiente autonomia (§§ 2.2.3. ss.);
(c) la responsabilità conseguente alla qualifica di custode che il condominio assume con riguardo
alle cose comuni (§§ 2.2.5.1. ss.);
(d) le conseguenze risarcitorie della rovina delle parti comuni (§ 2.2.6.11.).
SEZIONE V La responsabilità del condomino
SOMMARIO 5. Generalità - 5.1. Responsabilità verso il condominio - 5.1.1. L’art. 1122 c.c. 5.1.2. Le sanzioni previste dal regolamento condominiale - 5.2. Responsabilità verso gli altri
condomini - 5.3. Responsabilità verso i terzi.
5. Generalità.
Come abbiamo visto, sul condomino - quale partecipante alla collettività condominiale - è, in ultima
analisi, destinato a gravare il peso economico derivante da tutta una serie di vicende che vanno
dall’assunzione delle obbligazioni verso i terzi, necessarie alla gestione del complesso
condominiale, agli illeciti commessi dall’amministratore o dal portiere, ai danni prodotti dalle parti
comuni, e così via.
La responsabilità del singolo condomino, in quanto tale, appare invece legata ad una molteplicità di
ipotesi, connesse al suo rapporto con il resto del condominio - si pensi all’inadempimento delle
obbligazioni di contribuzione alle spese comuni, oppure alla violazione dei limiti alla fruizione delle
parti comuni o esclusive - oppure alla sua qualità di proprietario di un’unità immobiliare dalla quale
possano derivare danni alle altre proprietà (comuni o esclusive) o, ancora, da propri comportamenti
che risultino tali da violare diritti o interessi di altri soggetti (interni o terzi rispetto al condominio).
Prima di procedere ad una rassegna delle principali ipotesi di responsabilità del condomino, può
essere utile - quale notazione di carattere generale - ricordare la posizione nella quale viene a
trovarsi il condomino stesso nel caso in cui abbia dato in locazione la propria unità immobiliare, e il
locatore si sia reso autore di comportamenti scorretti in danno del condominio o degli altri residenti
nello stabile:
La responsabilità del condomino locatore per usi indebiti da parte del conduttore dei beni locatigli non può
estendersi all’indebito uso eventuale da questi altresì fatto di beni condominiali estranei al rapporto di locazione, la
cui tutela spetta appunto all’amministratore, senza che le conseguenze abbiano a gravare anche su quel singolo
condomino
(App. Milano 18.5.93, ALC, 1993, 771).
La responsabilità per i danni arrecati alla facciata da un condomino non può essere posta a carico del locatore
quando il danno derivi direttamente dal comportamento tenuto dal conduttore fuori dall’ambito delle facoltà
concessegli per l’uso e lo sfruttamento della cosa locata
(Trib. Milano 30.5.88, GI, 1989, I, 2, 906).
5.1. Responsabilità verso il condominio.
Anche a proposito della responsabilità del condomino nei riguardi del condominio è possibile stilare
un elenco riordinando le molteplici ipotesi nelle quali ci si è imbattuti nel corso dell’intera
trattazione.
Si tratta, in particolare, delle responsabilità conseguenti:
(a) alla violazione degli obblighi che si sogliono classificare all’interno delle categorie dell’onere
reale, dell’obbligazione propter rem, del limite alla proprietà (v. § 2.1.1.);
(b) ai danni derivanti alle parti comuni in seguito ad un’attività pericolosa esercitata nella propria
unità immobilare (§ 2.2.4.), oppure prodotti da una cosa della quale il condomino figuri essere
custode (§ 2.2.5.2. ss.); o, ancora, originati dal crollo di una parte in proprietà esclusiva (§
2.2.6.10.);
(c) al danno cagionato al condominio nell’ipotesi di immissioni illecite (§ 2.2.8.6.).
5.1.1. L’art. 1122 c.c.
A questo punto vale la pena di soffermarsi brevemente sulla regola dettata dall’art. 1122 c.c. (sulla
quale v. anche retro, § 2.2.1.), a tenore del quale il condomino “nel piano o porzione di piano di sua
proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio”. Una norma
che - si afferma - trova una propria ragione di essere nel fatto che il singolo condomino, nel
danneggiare una parte comune, danneggia una cosa che è anche sua: in altri termini, l’art. 1122 c.c.
sgombrerebbe il campo da ogni possibile dubbio circa la propsettabilità di una responsabilità per il
danno apportato alla cosa comune da parte del comproprietario (v. Rezzonico 1992, 291).
Non entra invece in gioco l’art. 1122 c.c. nel caso di opere eseguite direttamente sulle parti comuni:
si tratta, infatti, di violazione delle norme che regolamentano la fruizione del bene comune da parte
dei comproprietari.
Ecco come tali regole figurano sintetizzate in giurisprudenza:
A norma dell’art. 1102 c.c. la facoltà del singolo comproprietario di servirsi della cosa comune, è subordinata alla
duplice condizione che non venga alterata la destinazione della cosa e non sia impedito agli altri comproprietari di
fare uso di essa secondo i diritti; l’art. 1122 c.c. poi vieta di compiere, nel piano o nelle porzioni di piano di
proprietà esclusiva, opere che possano danneggiare le parti comuni dell’edificio, causandone un deprezzamento di
valore
(Pret. Roma 11.2.89, TR, 1989, 128; ALC, 1990, 596).
In tema di condominio di edifici, ciascun condominio può servirsi delle parti comuni a condizione che non ne alteri
la naturale destinazione, che non pregiudichi la stabilità, la sicurezza e il decoro architettonico del fabbricato e che
non arrechi danno alle singole proprietà esclusive e non impedisca, infine, agli altri partecipanti, di farne parimenti
uso secondo il loro diritto; con la conseguenza che devono ritenersi vietate le innovazioni alla cosa comune che ne
mutino la sostanza e la forma, incidendo sull’entità materiale della cosa, alterandone in tutto o in parte la
consistenza, la conformazione o la destinazione impressavi dalla volontà dei compartecipanti ed espressa dal titolo
(regolamento di condominio, deliberazioni assembleari o gradatamente dall’uso o dalla natura stessa della cosa) o
che arrechino limitazioni o danno all’uso degli altri condomini in guisa da turbare l’equilibrio tra i concorrenti
interessi dei medesimi
(Cass. 10.3.83, n. 1789, RFI, 1983, Com. e cond., 68).
Tra i comportamenti che, alla luce di tale disciplina, figurano esser stati interdetti al condomino
possiamo elencare: la costruzione nel cortile comune di uno scivolo per accedere ad una unità
immobiliare, sita ad un livello più elevato, attraverso una finestra trasformata in accesso carrabile
(Cass. 10.3.83, n. 1789, RFI, 1983, Com. e cond., 68); l’effettuazione nel sottotetto, di propria
iniziativa, di lavori comportanti la modifica del solaio (con lesione del vaso di espansione) nonché
di parti comuni dello stabile (con lesione della servitù di accesso per l’ispezione del tetto e danno
estetico) (App. Milano 25.9.92, ALC, 1993, 541); la trasformazione in veranda del balcone di
proprietà esclusiva allorché ciò finisca per limitare la circolazione dell’aria all’interno delle scale e
dei pianerottoli con conseguenti ristagni di odori nelle parti comuni dell’edificio (Trib. Milano
26.6.89, ALC, 1990, 321).
Si precisa, inoltre, che qualora uno dei condomini, senza violare i limiti di cui all’art. 1102 c.c.,
faccia uso della cosa comune (nella specie, mediante la costruzione di un comignolo sul tetto
dell’edificio), la mera mancanza delle concessioni o autorizzazioni amministrative non potrà essere
invocata dal condominio quale fonte di risarcimento del danno, riflettendosi esclusivamente nei
rapporti tra il privato e la p.a. (Cass. 8.8.90, n. 8040, ALC, 1991, 68; RGE, 1991, I, 352; v. anche
Cass. 7.8.89, n. 3625, GC, 1990, I, 742; GI, 1990, I, 1, 614; ALC, 1990, 36; AI, 1990, 1850, relativa
alla destinazione dell’unità immobiliare ad un uso diverso da quello consentito dalla licenza
edilizia; Trib. Napoli 24.11.90, GM, 1992, 583, con nota di de Tilla: nessuna responsabilità per il
proprietario del vano terraneo che abbia allargato il proprio ingresso senza compromettere estetica e
staticità dell’immobilem né incidere sui diritti degli altri condomini).
5.1.2. Le sanzioni previste dal regolamento condominiale.
Un’ulteriore fonte di obbligazioni per il condomino, nei riguardi del condominio, è rappresentata
dal sistema sanzionatorio stabilito a livello di regolamento condominiale.
A questo proposito, i discorsi ruotano intorno all’art. 70, disp. att. c.c., il quale consente di stabilire,
a titolo di sanzione per le infrazioni al regolamento, “il pagamento di una somma fino a lire cento”
(per una ricostruzione delle posizioni di dottrina e giurisprudenza sul punto, v., di recente, Capponi
e Chiocca 1992, 731 ss.; NUNZIATA 1994, 727 ss.).
Occorre dire che la portata operativa di tale disposizione risulta, negli ultimi tempi, oggetto di un
ridimensionamento da parte della S.C. Con riguardo, infatti, alla possibilità di superare il limite di
cento lire, si è affermato che
sono nulle, perché contra legem, eventuali disposizioni del regolamento di condominio che prevedano, per le
infrazioni allo stesso regolamento, sanzioni pecuniarie di importo superiore a quello (lire cento) previsto dall'art. 70
disp. att. c.c.
(Cass. 26.1.95, n. 948, FI, 1995, I, 1846; ALC, 1995, 315; RaLC, 1995, 284; Pret. Salerno 31.5.96, RaLC, 1996,
394).
Quanto, poi alla natura della sanzione nonché all’elenco dei soggetti ai quali questa può venir
irrogata, la stessa S. C. si è espressa in maniera altrettanto chiara:
La sanzione prevista dall'art. 70 disp. att. c.c. per le infrazioni al regolamento di condominio, attesa la sua natura
eccezionale di c.d. pena privata avente come destinatari i condomini, non è applicabile nei confronti dei conduttori
delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, i quali, benché si trovino a godere delle parti comuni dell'edificio,
rimangono tuttavia estranei all'organizzazione condominiale
(Cass. 17.10.95, n. 10837, FI, 1996, I, 952; ALC, 1996, 192; GC, 1996, I, 1738; RGE, 1996, I, 299, con nota di de
Tilla).
Si tratta di conclusioni che non risultano condivise né in dottrina, né dalla giurisprudenza di merito.
V’è chi rileva come, non essendo l’art. 70 disp. att. c.c. richiamato fra quelli che il successivo art.
72 dichiara inderogabili, al momento di determinare il quantum della sanzione, il regolamento può
senz’altro superare l’ormai anacronistico e irrisorio limite (Dogliotti e Figone 1992; Girino 1982,
399; Conc. Caserta 22.7.85, ALC, 1985, 578; Conc. Caserta 12.6.85, ALC, 1985, 578).
Secondo altri ancora, vi è spazio per sollevare la questione della legittimità costituzionale del limite
previsto dall’art. 70, disp. att., c.c., per contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 Cost. (Conc. Napoli 11.4.96,
ALC, 1996, 679).
Tra le pronunce che figurano non essersi attenute al limite in questione, si può menzionare una
decisione del Pret. di Milano il quale - con riguardo ad un regolamento che stabiliva determinate
regole relativamente ai posteggi condominiali, prevedendo sanzioni (ben superiori alle cento lire)
per quanti le avessero violate - ha affermato, da un lato, che tali regole debbono essere rispettate da
chiunque fruisca dei beni comuni, e in particolare anche dal comodatario dell’unità immobiliare
(nello stesso senso, Conc. Caserta 22.7.85, ALC, 1985, 578: applicabile la sanzione anche al
conduttore); dall’altro lato, che è perfettamente corretto inserire nel regolamento sanzioni
pecuniarie
che rappresentano una forma di risarcimento del danno derivante dall’inadempimento di obblighi contrattualmente
assunti forfettariamente quantificate in via preventiva, e come tali riconducibili all’istituto della «clausola penale».
Tutto il contesto del regolamento, contrattualmente accettato, conferma nelle singole disposizioni e nel complesso
delle medesime, che ogni violazione ai limiti imposti al godimento dei singoli costituisce «abuso dei beni comuni»
come tale perseguibile civilmente nell’interesse della comunità ed esclude che le sanzioni dal medesimo previste per
talune violazioni possano qualificarsi, come vogliono i convenuti, «multe in senso tecnico»
(Pret. Milano 13.3.86, GC, 1987, I, 2138).
Con riguardo, poi, alla reazione al ritardo nel versamento dei contributi condominiali, è prassi che
nel regolamento vengano fissati interessi moratori a carico del condomino ritardatario. Circa la
natura di tale clausola, non sembra esservi uniformità di vedute. Secondo una pronuncia della S.C.,
infatti
la disposizione di un regolamento condominale che preveda una indennità di mora in caso di ritardato pagamento
dei contributi da parte dei condomini non ha natura di clausola penale e di conseguenza non può essere soggetta a
riduzione in sede giudiziale, non competendo al giudice un potere di riduzione che finirebbe per modificare la norma
regolamentare secondo le diverse e concrete applicazioni con la conseguente perdita, nei confronti dei condomini,
della sua funzione
(Cass. 19.5.92, n. 5977, ALC, 1992, 775; NGCC, 1993, I, 170, con nota di Frigerio).
Di diverso avviso appaiono, in generale, i giudici di merito secondo i quali - essendo indubbia la
natura penale di tale clausola - essa è suscettibile di venir ridotta, ex art. 1384 c.c., ove di importo
manifestamente eccessivo (Trib Torino 24.3.86, GI, 1987, I, 2, 558; Pret. Roma 13.2.79, RGE,
1980, I, 135; Conc. Verona 19.4.89, ALC, 1989, 57). In particolare, si è affermato che
gli interessi di mora, fissati dal regolamento condominiale al tasso dell’uno per cento per ogni decade di ritardo nel
pagamento delle quote condominiali, sebbene elevati non possono ritenersi iniqui avendo, sostanzialmente, natura di
clausola penale (nella specie: il giudizio di non iniquità è stato espresso con riferimento ai tassi bancari correnti e
alle particolari condizioni del condominio, situato in zona montana e necessitato quindi a disporre puntualmente
delle somme occorrenti anche ad evitare danni a tutto il complesso)
(Trib. Roma 24.2.83, TR, 1983, 367).
5.2. Responsabilità verso gli altri condomini.
La molteplici occasioni in cui è destinata a sorgere una responsabilità - o comunque
un’obbligazione - del condomino nei riguardi di altri singoli partecipanti al condominio possono
essere così elencate:
(a) la violazione delle varie norme disciplinanti i rapporti di vicinato che si ritengono operanti
anche a livello di condominio (v. retro, § 1.2.), e in particolare di quelle relative alle immissioni (§
2.2.8 s.s., e spec. 2.2.8.5.);
(b) l’esercizio - da parte del proprietario dell’ultimo piano - della facoltà di sopraelevare, ex art.
1127 c.c. (v. retro, § 2.1.2.);
(c) i comportamenti colposi in danno di altri condomini, ove suscettibili di far sorgere una
responsabilità ex art. 2043 c.c. (v. retro, § 2.2.1.);
(d) il verificarsi di danni alle persone o alle altrui proprietà in seguito ad un’attività pericolosa
esercitata nella propria unità immobilare (§ 2.2.4.), oppure prodotti da una cosa della quale il
condomino figuri essere custode (§ 2.2.5. ss.); o, ancora, originati dal crollo di una parte in proprietà
esclusiva (§ 2.2.6.1. ss.); nonché provocati da animali detenuti nell’appartamento (§ 2.2.7.).
Va precisato ancora come, nonostante la lettera dell’art. 1122 c.c. vieti al singolo di eseguire sulla
propria unità opere che risultino dannose per la parti comuni, è pacifico che tale regola si applica
anche alle parti di proprietà esclusiva altrui: il condominio non può cioè, nell’uso e nella gestione
della sua proprietà esclusiva danneggiare le proprietà altrui ledendole materialmente o provocando
immissioni materiali o immateriali, dirette o indirette, o cagionando in altro modo una qualunque
diminuzione del godimento delle proprietà stesse (Branca 1982, 448 ss.).
Quale esemplificazione di alcune regole vigenti in quest’ambito, possiamo ricordare alcune
affermazioni ricorrenti in giurisprudenza:
Ciascun condomino può agire a tutela del suo diritto sulla cosa comune contro il condomino che, con l’uso
pregiudizievole delle cose di sua esclusiva pertinenza, abbia determinato il deterioramento o la distruzione della
cosa stessa, senza essere tenuto a ricercare se il danno sia stato prodotto dal condomino personalmente o da persona
a lui legata da un qualsiasi rapporto, cui il condomino che agisce sia estraneo, e ferma restando la possibilità per
quest’ultimo di agire contro il terzo responsabile con l’azione ordinaria di risarcimento per fatto illecito di cui all’art.
2043 c.c. e per il condomino giudizialmente chiamato a ripristinare la cosa danneggiata o distrutta a seguito di lavori
eseguiti nella parte dell’immobile di sua esclusiva proprietà, di rivalersi nei confronti dell’autore o degli autori
materiali del danneggiamento
(Cass. 13.4.91, n. 3942, ALC, 1991, 526).
Il danno derivante dall’innovazione che alteri il decoro architettonico di un edificio si verifica nei confronti dei
singoli condomini i quali sono i soli legittimati a domandarne il risarcimento
(Trib. Milano 16.6.88, GI, 1989, I, 2, 773).
La disposizione dell’art. 1120 c.c., nella parte in cui vieta le innovazioni che possono recare pregiudizio al decoro
architettonico del fabbricato o che rendono talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche
di un solo condomino, si limita a tutelare l’edificio in sé ed il modo di usare e godere della cosa comune;
conseguentemente, ove l’opera compiuta da un condomino o dal condominio sulla cosa comune rechi danno o
pregiudizio alla proprietà esclusiva di un singolo condomino, trattandosi di rapporti relativi a due immobili finitimi,
trova applicazione la disciplina dei rapporti di vicinato
(Cass. 26.5.89, n. 2548, CorG, 1989, 1081, con nota di Batà; ALC, 1989, 685);
E` legittima da parte di un condomino la citazione a giudizio dell’amministratore di condominio per l’annullamento
della delibera che abbia di fatto ratificato l’operato antigiuridico di un condomino e, contestualmente, del
responsabile del danno alla cosa comune per il risarcimento proporzionale alla sua quota di proprietà
(Trib. Napoli 4.3.94, ALC, 1994, 338).
Un problema particolare, al quale vale ancora la pena di accennare in questa sede, è quello relativo
alla proprietà del solaio divisorio fra due appartamenti sovrapposti: proprietà che si ritiene comune
non già all’intero condominio, bensì esclusivamente ai titolari delle unità interessate. Da qui,
un’eventuale responsabilità di chi, nell’effettuare i lavori necessari ad ovviare al deterioramento
dello stesso solaio, finisca per incidere sulle dimensioni dell’altro appartamento: in assenza di
consenso dell’altro comproprietario, quest’ultimo avrà diritto a venir risarcito per il danno
conseguente al restringimento della cubatura della sua proprietà (Cass. 15.2.82, n. 929, RFI, 1982,
Com. e cond., 29; Cass. 23.3.91, n. 3178, ALC, 1991, 545; RGE, 1991, I, 729, con nota di de Tilla;
VN, 1991, 956).
5.3. Responsabilità verso i terzi.
Nei riguardi dei terzi, il condomino si trova esposto, anzitutto, nella sua veste di comproprietario,
per tutte le obbligazioni - abbiano esse origine contrattuale o extracontrattuale - connesse
all’esistenza e alla gestione di parti e servizi comuni (v. retro, §§ 4. ss.). E’ questo, per così dire, il
cuore della responsabilità condominiale, comprendendo in particolare le obbligazioni derivanti:
(a) dall’attività negoziale dell’amministratore necessaria alla gestione del condominio (v. §§ 1.1.; 2.
ss.);
(b) dalla responsabilità institoria relativa alla condotta dell’amministratore, del portiere, o degli altri
lavoratori dipendenti del condominio (§§ 2.2.3. ss.);
(c) dall’esistenza di servizi condominiali ad elevata pericolosità (§ 2.2.4.);
(d) dalla responsabilità che grava sul condominio quale custode delle parti e degli impianti comuni
(§§ 2.2.5. ss., e spec. 2.2.5.1. ss.);
(e) dalla responsabilità per la rovina della parti comuni dell’edificio (§§ 2.2.6. ss., e spec. 2.2.6.11.);
(f) dalle conseguenze delle immissioni prodotte dagli impianti comuni e interessanti aree esterne al
condominio (§§ 2.2.8. ss., e spec. 2.2.8.8.).
Numerose sono poi le ipotesi nelle quali la responsabilità è destinata invece a sorgere in capo al
singolo condomino, in virtù di comportamenti propri, oppure per il legame di appartenenza con
l’unità immobiliare. Si tratta, in particolare, delle obbligazioni derivanti:
(a) dall’attività svolta dal condomino al fine di far fronte alla necessità di interventi urgenti sulle
cose comuni, ex art. 1134 (spese delle quali il condomino avrà successivamente diritto a venir
rimborsato: v. §§ 4.3., 4.3.2.);
(b) dal verificarsi di un danno provocato da un cosa della quale il condomino risulti essere custode
(§§ 2.2.5. ss., e spec. 2.2.5.2. ss.);
(c) dalla rovina di una parte dell’edificio di proprietà esclusiva (§ 2.2.6. ss., e spec. § 2.2.6.10.).
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