MEDEA Da Euripide, Medea (a cura di Alessandro Grilli) Il mito. La vicenda di Medea nelle sue varie forme costituisce una sezione piuttosto circoscritta di una leggenda più ampia, fra le più antiche del patrimonio mitico greco: quella della spedizione degli Argonauti nella Colchide. Essa è nota già ad Omero (cfr. Odissea XII 70) e viene ricondotta da alcuni a un'impresa reale della peraltro semileggendaria tribù dei Minii, stanziata in epoca preistorica a Orcomeno, in Beozia, e a Iolco, in Tessaglia (gli Argonauti sono1 detti «Minii», in quanto discendenti dell'eroe eponimo MinÚaj, già in una delle più antiche versioni del mito: cfr. Pindaro, Pitiche IV 69). Per quanto elaborata forse in area milesia (Mileto aveva importanti rapporti commerciali con il Ponto), le radici della vicenda sono infatti tutte di area tessala. All'origine si collocano le figure degli eroi tessalo-beotici Creteo e Atamante, figli di Eolo. Il primo, padre di Esone e Pelia, era il mitico fondatore di Iolco; il secondo era re di varie località della Beozia nonché fondatore di Halos, nella Ftiotide (la regione costiera a nord della Tessaglia). Atamante sposò dapprima Nefele (la Nuvola), da cui ebbe i figli Elle e Frisso. Poi si unì in seconde nozze a una principessa tebana figlia di Cadmo, Ino, che gli diede i figli Learco e Melicerte. La gelosia per i figliastri spinse Ino a cospirare contro di loro, ma Frisso ed Elle, sul punto di essere sacrificati, vennero tratti in salvo da un ariete volante dal vello d'oro, dono di Ermes a Nefele. Durante il volo verso l'Oriente, Elle cadde nel mare che da lei prese il nome di Ellesponto, e Frisso giunse nella Colchide, dove il re Eeta gli concesse in sposa la figlia Calciope. L'ariete venne sacrificato (secondo alcuni esso fu trasformato nell'omonima costellazione) e il suo vello deposto nel tšmenoj di Ares, dove era custodito da un drago. La spedizione degli Argonauti fu voluta da Pelia, usurpatore del trono di Iolco, che sperava di liberarsi così del legittimo erede, Giasone, figlio del suo fratellastro Esone. Da bambino Giasone era stato sottratto alle insidie dello zio dai genitori, che lo avevano fatto uscire da Iolco con un falso funerale e lo avevano affidato al centauro Chirone (lo stesso che avrebbe poi educato anche Achille). Divenuto adulto, Giasone era tornato a Iolco per reclamare il trono. Attraversando un torrente aveva perso un sandalo, e nello straniero con una sola calzatura il vecchio Pelia aveva riconosciuto l'uomo destinato, secondo un oracolo, a spodestarlo. Decise così di imporgli una prova insuperabile: la conquista del vello d'oro, antico possesso della stirpe degli Eolidi. Sulla nave che li avrebbe portati agli estremi limiti orientali del mondo conosciuto (costruita per ispirazione e con l'aiuto di Atena) Giasone radunò alcune delle principali figure mìtiche della generazione eroica (anteriore alla guerra di Troia), fra le quali molte, in epoca storica, rivendicate come capostipiti dalle famiglie aristocratiche di Iolco. Durante il viaggio gli Argonauti ebbero numerose avventure. Giunto ad Aia, capitale dei Colchi, Giasone suscitò l'amore della figlia del re, Medea, che lo aiutò a superare le prove impossibili imposte da Eeta all'eroe (cfr. Euripide, Medea 478-82): domare e aggiogare due tori dagli zoccoli aurei e spiranti fuoco dalle narici, dono di Efesto; arare con essi un campo in cui seminare denti di drago, parte di quegli stessi seminati da Cadmo, il fondatore di Tebe. Dai denti sarebbero nati guerrieri in armi, che Giasone avrebbe dovuto affrontare e uccidere. I filtri di Medea resero Giasone invulnerabile al toro e fecero addormentare il drago custode del vello d'oro. I guerrieri si uccisero a vicenda provocati da un sasso che Giasone aveva gettato fra loro, sempre su suggerimento di Medea. Giasone riuscì così a ricondurre in Tessaglia il vello d'oro, con un viaggio di ritorno il cui itinerario varia enormemente nelle fonti: dalla navigazione nell'Oceano, raggiunto attraverso il fiume Fasi; alla risalita dell’Istro (il Danubio) fino all'Eridano (il Po), e poi attraverso il Mediterraneo fino a Iolco. Durante l'inseguimento Medea aveva ucciso il fratello Apsirto, gettandone il corpo smembrato dalla nave, per rallentare gli inseguitori. Una volta a Iolco, la donna aveva poi aiutato il suo sposo nei piani di vendetta ai danni di Pelia: avendo già magicamente ringiovanito il padre di Giasone, Esone, facendone bollire le carni in una pentola, Medea aveva convinto le stesse figlie di Pelia a uccidere il padre e a farlo a pezzi. Dopo l'omicidio, il figlio di Pelia Acasto espulse da Iolco Giasone e la sua sposa assassina. La coppia si rifugiò a Corinto, dove Giasone ruppe il matrimonio con Medea accettando in sposa la figlia del tiranno locale, Creonte. È a questo punto che si innesta la vicenda del dramma euripideo. Quale Medea? Le linee del mito fin qui delineate sono in realtà la sintesi sommaria di un insieme di leggende collegate i cui dettagli variano moltissimo. Dai numerosi riferimenti nei poemi omerici, la vicenda argonautica appare già formata all'epoca deWOdissea, in cui viene tra l'altro ricordata la parentela fra Eeta e la maga Circe, entrambi figli del Sole (cfr. Odissea X 134; XI 256-59; XII 59-72). La prima menzione esplicita di Medea risale alla Teogonia di Esiodo (vv. 956-62; 992-1002), che ne fa già la qaler¾n ¥koitin di Giasone. L'aiuto di Medea a Giasone e agli Argonauti era menzionato nei Canti di Naupatto (frr. 3-9 Bernabò), attribuiti all'epico Carcino, mentre la morte del sovrano Creonte e la fuga di Medea ad Atene erano ricordati in un episodio della Presa di Ecalia di Creofilo di Samo (fr. 9 Bernabé). Di grande interesse anche il resoconto del poeta epico Eumelo, che nelle sue Corintiache (sulla storia mitica di Corinto) metteva in evidenza l'antico legame della stirpe di Eeta con la città (frr. 3-5 Bernabé), che sarebbe stata quindi possesso ereditario di Medea. Altri particolari del mito, non sempre sovrapponibili alle versioni posteriori, ci sono noti dai lirici arcaici, che alludono più volte a episodi salienti della vicenda di Medea (cfr. ad es. Ibico, fr. 291 Page; Simonide, frr. 545; 548; 558 Page). Anche sulle scene ateniesi Medea era comparsa più volte: nelle Nutrici di Dioniso di Eschilo, dove ringiovaniva le vecchie nutrici del dio; nelle Donne di Colchide di Sofocle, dove aiutava Giasone a superare le prove, come pure negli Sciti e nelle Raccoglitrici di erbe, dello stesso autore, dove perpetrava gli assassini rispettivamente di Apsirto e di Pelia. Lo stesso Euripide aveva trattato episodi della storia di Medea in due tragedie anteriori al 431: nella prima, le Peliadi, con cui il drammatugo aveva debuttato nel 455 a.C, la vicenda era incentrata sull'inganno di Medea ai danni del tiranno di Iolco, Pelia. La maga convinceva le figlie di lui a ucciderlo e a farlo a pezzi, millantando di volerlo ringiovanire, come aveva fatto con il padre di Giasone (a questo episodio si allude anche nella Medea, vv. 486-87. Il ringiovanimento di Esone era già nel ciclo epico, come dimostra il fr. 7 Bernabé del poema I ritorni, attribuito ad Agia di Trezene). Nella tragedia di Euripide (di cui sopravvivono pochi frammenti) Medea ingannava le Peliadi trasformando un ariete in agnello dopo averne fatto bollire le carni. Anche nell'egeo (databile intorno agli anni '40 del secolo) Medea compariva come maga temibile, e cercava di ostacolare il ritorno in patria di Teseo, figlio del re di Atene Egeo, da lei sposato dopo la partenza da Corinto. Resosi conto delle trame di lei. Egeo la ripudiava e la allontanava dalla città. Per quanto miseramente documentate, le vicende di queste due tragedie mostrano quanto spazio lo stesso Euripide avesse accordato in precedenza ai poteri magici tradizionali di Medea. Ben diverso è l'approccio nella tragedia del 431, dove l'elemento della magia, pur presente, è relegato sullo sfondo, in rapidi accenni subordinati alla matrice umana e alla motivazione interiore del soprannaturale (cfr. ad es. vv. 384-85; 395 sgg.; 479 sgg. e soprattutto 789, con l'accenno ai doni avvelenati per la rivale). Unico vero oggetto di interesse sono le immani tensioni emotive che agitano un animo forte e passionale diviso fra pulsioni contrastanti. L'apporto di Euripide alla vicenda. Il contributo di Euripide non si limita peraltro all'interesse preponderante per la struttura psichica del personaggio. Un'innovazione non trascurabile da lui introdotta riguarda forse addirittura l'elemento essenziale dell'infanticidio come strumento di vendetta. Stando alle testimonianze precedenti. Medea non era univocamente responsabile della morte dei bambini. A Corinto esisteva un antico rito espiatorio, mantenuto fino alla conquista romana della città (146 a.C), istituito secondo la tradizione al fine di placare Era Acraia, irata per l'uccisione dei figli di Medea. Anche nel finale della tragedia euripidea (vv. 1381-83) la protagonista fornisce una spiegazione eziologica di questa antica usanza. Tuttavia, secondo una tradizione ben più antica di Euripide (già attestata nel poeta epico Creofilo e confermata dall'erudito alessandrino Parmenisco) la colpa dell'omicidio non era di Medea, ma dei Corinzi, che non volevano essere governati da una donna straniera (Corinto era un possesso della stirpe di Eeta), e che ne avevano quindi ucciso i figli, senza recedere nemmeno di fronte alla sacralità dell'altare di Era Acraia, dove quelli si erano rifugiati. Medea era stata poi calunniata dagli assassini, ansiosi di evitare il biasimo generale. Esisteva inoltre una diversa narrazione che parlava di un infanticidio solo involontario di Medea, regina di Corinto. Avendo suscitato il desiderio di Zeus, Medea lo aveva respinto per non incorrere nella gelosia di Era. La dea l'aveva così ricompensata promettendole l'immortalità per i suoi figli. Medea doveva quindi compiere su di loro un rito magico, che prevedeva forse un seppellimento rituale nel tempio della dea o l'esposizione al fuoco. Per qualche ragione non specificata dalle fonti, la magia falliva e i bambini morivano. Giasone, adirato, abbandonava la donna ed entrambi lasciavano la città. Anche questa versione, era già nel ciclo epico, nel poema di Eumelo sulle origini di Corinto, risalente alla metà dell'VIII secolo a.C. L'elemento che appare nuovo nella versione euripidea è dunque l'intenzionalità dell'omicidio compiuto da Medea e la sua natura strumentale ai fini della vendetta su Giasone. È possibile che Euripide avesse desunto questo importante particolare dal mito attico di Procne e Tereo, secondo cui la donna tradita puniva il marito uccidendo il figlio avuto da lui e facendogliene mangiare le carni. La vicenda era trattata nel perduto Tereo di Sofocle, di cui si ignorano però i rapporti cronologici con la Medea. Nel dramma di Euripide la decisione di Medea si configura come il risultato di un lungo travaglio interiore, in cui si affrontano nell'animo della donna pulsioni ugualmente radicate e profonde: l'odio per il traditore, che assorbe e trasforma in violenza distruttrice la precedente passione; e l'amore per i figli, sentimento viscerale e istintivo, che spingerebbe la donna verso scelte più deboli o compromissorie. L'attuazione dell'infanticidio asseconda così l'esigenza di infliggere all'uomo il peggiore destino possibile in una società come quella greca aristocratica (anche Polimestore nell’Ecuba, ad esempio, viene punito con l'accecamento e con la privazione dei figli, trucidati dalle prigioniere troiane); ma si tratta di una scelta sorretta alla fine dall'intera personalità di Medea, che, da grande eroina tragica, decide e agisce in piena consapevolezza delle conseguenze: uccidendo i figli, la donna sa di uccidere definitivamente il proprio amore per Giasone e, con esso, la parte più importante di sé. I personaggi: Medea e Giasone. L'eccezionale impatto drammatico di Medea è strettamente legato alla complessità delle sue dinamiche interiori. Da un punto di vista espressivo, il tratto saliente di questa complessità (particolarmente evidente nella rhesis monologica dei vv. 1021-80) è l'alternanza di esplosioni emotive e pause di lucida analisi razionale. Fin dalle prime esclamazioni di dolore, pronunciate fuori scena, Medea si mostra donna sensibile e vulnerabile; ma al tempo stesso, nella sicurezza delle scelte e nella freddezza con cui è in grado di valutarne ogni aspetto, Medea rivela la propria coscienza superiore, capace di compiere il male pur anticipandone e accettandone le conseguenze. La complessità psicologica del carattere di Medea forza in più occasioni i limiti espressivi anche del genere tragico; non è un caso che già i commenti antichi criticassero come poco credibili e quindi mal riusciti dettagli che sono invece frutto di un acutissimo scavo psicologico da parte dell'autore, come le lacrime versate dalla donna durante il discorso di inganno a Giasone. II personaggio dello sposo fedifrago viene invece costruito da Euripide in modo da farne risaltare i limiti e le responsabilità; la condanna per il suo comportamento è unanime, e riflette l'opinione della Nutrice di Medea come pure il giudizio delle ben più autonome donne di Corinto. Giasone viene presentato come un abile parlatore, e questo nel quadro di una precisa polemica contro l'abilità oratoria, immorale in quanto capace di dissociare l'eccellenza argomentativa dall'equità e dal diritto. Lo schieramento del Coro, che nel primo stasimo accusa gli uomini come spergiuri e alla fine del secondo si dissocia esplicitamente dal seduttore incostante, rafforza ulteriormente la negatività dell'antagonista. Giasone, dal canto suo, non si comporta in modo da rendere problematico questo giudizio. Anzi, nel IV episodio, mentre viene ingannato da Medea, lascia trapelare da più indizi tratti di carattere indiscutibilmente negativi: vanità, presunzione, insensibilità, viltà, opportunismo. Anche l'ottusità e la lentezza delle sue capacità intellettive evidenziano per contrasto la superiore prestanza intellettuale della donna, vera arbitra degli eventi. Tuttavia, una volta colpito in modo irrimediabile da Medea, e messo così di fronte al carattere illusorio delle proprie certezze, Giasone si connoterà come un essere debole e sopraffatto, non solo colpevole punito ma anche vittima degna di compassione. Il suo parziale recupero è facilitato dal fatto che nel finale della tragedia Medea assume i tratti demoniaci dell'essere semidivino (un particolare che disturbava già Aristotele come segno di incoerenza: cfr. Poetica 1454 b1), e interrompe così il fortissimo legame empatico instaurato in precedenza con il pubblico e col Coro. La struttura drammatica PROLOGO. La Nutrice di Medea tornisce in un lungo monologo le informazioni essenziali sull'antefatto e sugli sviluppi recenti della vicenda. Di fronte alla disperazione di Medea per il tradimento di Giasone, la donna si mostra preoccupata e preda di oscuri presentimenti. Sopraggiunge quindi il Pedagogo, che rivela le voci minacciose che parlano del bando della loro signora da Corinto. TRANSIZIONE ANAPESTICA ALLA PARODO. Si odono grida di Medea dall'interno della casa. Le imprecazioni di dolore contro i figli confermano le apprensioni della Nutrice. PARODO. Da uno degli ingressi laterali entra in scena il Coro di donne corinzie, che vengono ad esprimere la propria solidarietà a Medea e a pregare la Nutrice di far uscire dalla casa la padrona; la Nutrice acconsente, continuando a temere una terribile vendetta. PRIMO EPISODIO. Uscita in scena, Medea chiede al Coro di mantenere il silenzio sulle cose di cui verrà a conoscenza. Segue un dialogo fra Medea e Creonte, il tiranno della città, che è venuto di persona per comunicare alla donna il bando; supplicandolo, Medea ottiene un giorno di proroga. Dopo l'uscita di Creonte dalla scena, Medea confida al Coro i suoi propositi di vendetta e le sue preoccupazioni per l'esilio. PRIMO STASIMO. L'indignazione per il tradimento subito da Medea spinge il Coro ad augurarsi un sovvertimento dell'ordine del mondo e la fine delle calunnie misogine degli uomini. SECONDO EPISODIO. Con l'arrivo di Giasone, si assiste al primo confronto diretto di Medea con lo sposo di un tempo, che si conclude con una rottura definitiva. Medea rifiuta ogni profferta di aiuto e ribadisce l'insanabilità del torto subito. SECONDO STASIMO. Il Coro canta le lodi di Afrodite e si rivolge alla dea con parole miste di venerazione e timore; passa quindi a lamentare i dolori dell'esilio, e rivolge ancora una parola di compassione e di solidarietà a Medea. TERZO EPISODIO. Entra in scena il re di Atene Egeo, che passa da Corinto dopo essere stato a consultare l'oracolo di Delfi per risolvere il problema del suo matrimonio senza figli. Medea gli promette di aiutarlo in cambio di un giuramento che le garantisca asilo e protezione in Attica. Egeo acconsente e prosegue il suo viaggio. Nella scena successiva Medea espone finalmente al Coro il piano di vendetta che si è formato intanto nella sua mente. Invano le donne cercano di dissuaderla. TERZO STASIMO. All'incontro di Medea con il re ateniese Egeo fa seguito uno stasimo di entusiastica lode di Atene e dell'Attica, di cui sono ricordati i pregi più mirabili in opposizione all'abominio del crimine di Medea. QUARTO EPISODIO. Torna Giasone, disposto ad ascoltare le nuove richieste di Medea. La donna si dichiara pentita e si commuove alla vista dei figli. L'eroe ribadisce con benevolenza il proprio amore paterno. Medea gli chiede quindi di intercedere presso i sovrani di Corinto affinché venga revocato il bando contro i bambini. A tal fine manda doni preziosi alla sposa, con il fine dichiarato di renderla meglio disposta nei loro confronti. QUARTO STASIMO. L'angoscia del Coro si traduce in una precisa anticipazione descrittiva di ciò che accadrà alla sposa, seguita da due apostrofi patetiche a Giasone e a Medea. QUINTO EPISODIO. Matura ormai la katastrof» della tragedia. Saputo che i doni sono stati accolti, Medea dà sfogo alle ultime incertezze sul compimento della vendetta. Giunge poi un servo di Giasone che riferisce l'effetto devastante dei doni avvelenati sulla sposa e su Creonte, inutilmente accorso ad aiutarla. QUINTO STASIMO. Mentre le parole del Coro sottolineano e accompagnano l'azione, Medea dà seguito al progetto di uccidere i figli. I bambini fuori scena chiedono aiuto ma le donne non possono impedirne l'uccisione. Conclude il canto un richiamo all'infanticidio di Ino, che si distingue da quello di Medea in quanto indotto dalla divinità. ESODO. Accorre Giasone sconvolto: vuole parlare con Medea e sottrarre i figli all'ira dei parenti di Creonte. Il Coro gli comunica allora la parte più dolorosa della vendetta. Mentre l'eroe tenta di entrare in casa per vedere il corpo dei bambini, Medea appare sopra la casa, su un carro magico, dono del Sole, che la porterà ad Atene. La donna rifiuta con scherno ogni forma di accordo per la sepoltura, negando allo sposo anche la gioia del contatto coi figli e la consolazione degli adempimenti rituali. Il problema della Medea La dimensione paradossale evidenziata nell’Ecuba è massima nella Medea, dove i valori tradizionali sono recuperati e difesi da una figura che per molti versi non ha i titoli per farlo: la protagonista assomma infatti in sé alcune debolezze che basterebbero, ciascuna da sola, a rendere del tutto inattendibili o almeno inefficaci i suoi discorsi. Medea è donna, straniera, sapiente e innamorata. E l'emarginazione orgogliosamente percepita da Medea come la sua 'diversità' rispetto ai modelli comuni - è appunto il problema principale della tragedia, quello che più profondamente ne orienta gli schemi di valori e le possibilità di interpretazione; è quindi dai modi di questa integrazione problematica, soprattutto della donna e della straniera, che deve prendere le mosse ogni lettura complessiva del dramma e dei suoi significati profondi, in modo da evidenziare la profonda specificità delle situazioni psichiche rispecchiate dal dato oggettivo dell'emarginazione. Uno dei tratti che distinguono l'opera euripidea da quella degli altri due grandi tragici è senz'altro l'attenzione dedicata ai problemi della condizione femminile; in questo Euripide mostra una coerenza sorprendente, che va dalla sua più antica tragedia conservata, l’Alcesti, fino all'Ifigenia in Aulide, rappresentata postuma (e forse addirittura incompiuta). Non è un caso che la prima manifestazione di lucidità intellettuale di Medea dopo la sua entrata in scena coincida con una spietata analisi della subordinazione della donna all'uomo nella struttura familiare, analisi che non dimentica mai, pur nella sua formulazione assoluta e generica (vv. 230-31: «Di tutti gli esseri che hanno spirito e mente, noi donne siamo la specie più infelice»), la specifica sofferenza della protagonista. La disparità è infatti ricondotta subito alla diversa percezione dell'esclusività nel rapporto: «Un uomo», dice Medea, «quando si infastidisce di stare con i familiari in casa, esce e placa la noia del cuore» (vv. 244-45): è esattamente ciò che ha fatto Giasone secondo lei, che si rifiuta di credere alla teoria del matrimonio politico. La donna, al contrario, è obbligata alla più totale fedeltà (v. 247). A ciò la costringe la sfiducia nei suoi confronti implicita nel senso comune e nelle stesse istituzioni (vv. 236-37: «Per le donne infatti il divorzio è un disonore né è loro possibile ripudiare il marito»). La profondità argomentativa di Medea consiste nel postulare implicitamente un'equivalenza delle due principali matrici di emarginazione, l'essere donna e l'essere straniera. Il matrimonio, luogo emblematico della prevaricazione, è definito come una spedizione nell'ignoto: la donna giunge «a nuovi costumi e a nuove usanze» (v. 238) come la straniera che abbandona patria e famiglia d'origine. Ogni donna, cioè (e in questo la base della solidarietà fra protagonista e Coro appare già ben salda) è straniera accanto all'uomo che ha sposato. In questo senso è chiara anche la transizione argomentativa al punto seguente, in cui Medea si contrappone alle donne lamentando proprio il suo isolamento di straniera. Sulla condizione svantaggiata degli stranieri nelle città greche si può vedere la scheda a p. 96; Medea, già straniera in Grecia e a Corinto, viene per di più colpita da una condanna all'esilio che ne indebolisce ulteriormente la posizione. Il suo pensiero però non va tanto alle difficoltà materiali quanto alle perdite affettive; è evidente che da parte di Medea la sofferenza implicita nell'essere straniera viene percepita come contigua al dolore per l'abbandono di Giasone. E in effetti l'amore per l'eroe, che aveva spinto la fanciulla innamorata a rinnegare la patria e la lealtà ai congiunti, si configura come un sentimento che soslilui sce gli affetti familiari di un tempo, e che come tale ne assorbe anche le va lenze istituzionali in un rapporto che è sacro come un patto giurato (cfr. infatti vv. 2122, con il richiamo alla jrioxig che aveva sancito l'unione con l'eroe). Nell'incontro col marito in procinto di uscire a combattere, nel VI libro dell'Iliade, Andromaca gli ricorda appassionatamente la coestensione del rapporto coniugale con tutte le altre relazioni familiari: «Ettore, tu per me sei padre e madre adorata / e fratello, e sei il mio splendido sposo» (vv. 429-30). Il confronto - per quanto paradossale - è illuminante: Andromaca è orfana e i suoi fratelli sono morti. Ettore è tutto il suo mondo e la donna lo implora di non uscire a combattere mascherando con discrezione il proprio sentimento d'amore nella legittima richiesta di non rendere orfano il figlio. Per Medea, invece, l'amore ha sostituito il destino e la guerra: è lei stessa che ha scelto di rinnegare il padre e la patria, e addirittura di uccidere il fratello. Ma il risultato non cambia: lo sposo è diventato così tutto il suo mondo (v. 228: «mio marito [...] in cui per me era riposta ogni cosa). Sot- traendosi ai suoi impegni, Giasone fa ripiombare quindi Medea in una condizione che è insostenibile sul piano oggettivo proprio perché tale anche sul piano affettivo. L'assassinio dei figli farà così parte a pieno titolo del grottesco stravolgimento della situazione ideale definita dalla coppia omerica: come Andromaca riconduce all'amore comune per il figlio il proprio affetto per Ettore, così in Medea l'eliminazione dei bambini sancisce la negazione definitiva del suo affetto passato verso il loro padre. Non è azzardato affermare, perciò, che anche la condizione di straniera è nella Medea un ulteriore spazio espressivo per gli effetti del trauma amoroso. I temi a) Sof…a. Oltre alla sua problematica condizione di straniera, Medea deve fronteggiare i sospetti che si addensano sulle sue arti magiche e sul loro uso pericoloso. Creonte le rimprovera di essere «sapiente ed esperta di molti mali» (v. 285), e ne teme la presenza anche mansueta a Corinto proprio in quanto sof» (v. 320). Ma in Medea la gestione di un sapere superiore alla misura umana è subordinata a un'acuta consapevolezza di leggi universali capaci di determinare senza incertezze il bene morale. Per quanto in preda allo sconforto e al dolore, la donna è in grado di insistere sull'infrazione di un diritto da parte di Giasone e la sua opinione è condivisa sia dalla Nutrice che dalle ben più equanimi donne di Corinto. Per questo, subito dopo che il giuramento di Egeo le avrà consentito di completare il piano di vendetta, nelle sue prime parole Medea invocherà soddisfatta la Giustizia. In questa prospettiva essere «sapiente» non significa più gestire conoscenze occulte e soprannaturali, ma riconoscere il diritto e valutare ogni situazione nella più totale indipendenza dal senso comune. b) BouleÚmata / qumÒj. Alla sof…a si può ricondurre anche la straordinaria lucidità di Medea nell'analisi delle proprie dinamiche psichiche. Il momento culminante di questa paradossale compresenza di sentimento e intelletto è il lungo monologo deliberativo in cui la donna segue e valuta razionalmente i processi emotivi alla base delle proprie azioni, come pure le conseguenze strazianti delle scelte autolesive che avrà comunque la forza di portare a compimento. In questo ambito emergono le nozioni problematiche di qumÒj e bouleÚmata (identificabili a una ricognizione superficiale come la polarità tradizionale passione/ragione), contrapposte in uno scontro diretto che vede trionfare la prima a totale detrimento dell'altra (vv. 1078-80). In realtà la dialettica interna è più complessa e, come ha dimostrato H. Diller in un suo contributo giustamente famoso, il qumÒj si configura come una forza emotiva che ispira e orienta la capacità di deliberare, senza che però quest'ultima venga cancellata. I bouleÚmata infanticidi dei vv. 1044 e 1048 non sono discontinui rispetto ai bouleÚmata del v. 1079: questi ultimi infatti non identificano una semplice componente razionale, se non altro perché anche l'affetto per i figli si inserisce a pieno titolo nella sfera più profonda dell'emotività. Il qumÒj è kre…sswn non in quanto «più forte» ma, con un'accezione del termine ben attestata anche in Euripide, in quanto «signore» tîn bouleum£twn. L'invocazione monologica di Medea al v. 1056 (m¾ dÁta, qumš) non si pone perciò sulla stessa linea di analoghi precedenti nella lirica arcaica (cfr. Archiloco, fr. 128 West e Teognidc vv. 695; 877; 1029) che presuppongono la solidarietà fra l'individuo cosciente e il suo qumÒj, ma presuppone un dissidio interiore che nasce da profondità insondate della psiche. In questo senso il precedente più vicino al qumÒj di Medea è quello di Eraclito 22B85 Diels-Kranz: «È difficile combattere contro la passione (qumù). Ciò che essa desidera, lo acquista a prezzo dell'anima (yucÁj)», che vede la componente pulsionale come antagonistica rispetto allo stesso istinto di conservazione dell'individuo.