Il funzionamento della giustizia e i processi nell

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IL FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA E I PROCESSI
NELL’ATENE DI ETÀ CLASSICA
Fabio Macciò
La particolare struttura politica della Grecia di età arcaica e classica, divisa in varie entità
regionali, ciascuna con le proprie tradizioni e consuetudini, ha impedito la nascita di un diritto
comune, un diritto che si possa definire “greco”. Ogni regione (Attica, Laconia, Beozia, ecc.)
doveva essere regolata da un proprio indipendente sistema legislativo, che noi non siamo quasi mai
in grado di ricostruire, data la scarsità di fonti (dirette e indirette) a nostra disposizione. Quelle che
abbiamo, come la celebre Rhïtra spartana (il più antico documento della storia greca, risalente forse
addirittura alla fine dell’VIII sec. a.C.) o la cosiddetta “legislazione di Gortina» (città dell’isola di
Creta), che risale alla prima metà del V sec. a.C. ma rispecchia istituti giuridici di epoca precedente,
insistono soprattutto sugli aspetti politico-istituzionali e poche notizie ci forniscono sulle procedure
giudiziarie in uso. Molto meglio (ma pur sempre con molti limiti) conosciamo da questo punto di
vista il diritto attico, grazie a preziosi ritrovamenti epigrafici, come la stele scoperta ad Atene nel
1843 contenente le leggi sull’omicidio involontario promulgate da Dracone (o Draconte: VII sec.
a.C.), integrata dalla fondamentale testimonianza di Demostene nella Contro Aristocrate (352 a.C.),
su cui avremo modo di tornare; ma anche, e soprattutto, grazie al fatto che ci sono state conservate
un buon numero di orazioni giudiziarie risalenti al V e IV secolo a.C., opera di alcuni tra i “principi
del foro” di quell’epoca (Antifonte, Lisia, Demostene), le quali ci illuminano su aspetti della
legislazione ateniese in materia giuridica che altrimenti ci sarebbero rimasti oscuri. Dei tre generi in
cui si suole distinguere l’oratoria attica antica – giudiziario, politico ed epidittico1 – è dunque
soprattutto il primo a costituire per noi una fonte importante per la ricostruzione del funzionamento
della giustizia e dei processi nell’Atene classica; ed è a esso che faremo riferimento.
Ad Atene il processo prende il nome di a(gw/n, termine che di per sé indica ogni forma di contesa,
di tipo sportivo, letterario (ricordiamo gli “agoni” tragici e comici), e, per l’appunto, giudiziario.
Esso poteva assumere due forme di procedimento fondamentali:
• la di/kh, ossia la causa privata, intentata dall’interessato in difesa di se stesso e/o della
propria famiglia;
• la grafh/, ossia la causa pubblica, che poteva essere intentata da qualsiasi cittadino a
tutela degli interessi della collettività, e quindi era rivolta contro tutti i crimini in grado
potenzialmente di destabilizzare la po/lij.
1
Al genere giudiziario (dikaniko_n ge/noj, iudiciale genus) è legata la figura di Lisia, al genere deliberativo o politico
(politiko_n ge/noj, deliberativum genus) quella di Demostene e al genere epidittico (e0pideiktiko_n ge/noj, da e0pi/deicij
= «dimostrazione, esibizione», demonstrativum genus) quella di Isocrate.
2
Quest’ultima doveva essere presentata per iscritto (gra/fw = “scrivo») e dietro libera scelta del
denunciante (particolare non secondario, dal momento che spesso la denuncia poteva essere
strumentalizzata per motivi politici). Potevano essere colpiti dalla grafh/ diversi tipi di reato,
rientranti tanto nella giurisdizione civile quanto in quella penale: dall’omicidio di un personaggio
politico, al reato di empietà, al tentato sovvertimento delle istituzioni, fino alla corruzione in atto
pubblico. Forse all’origine di questa seconda procedura giuridica ci fu l’esigenza di tutelare
maggiormente i cittadini deboli coinvolti in cause contro qualche potente: in questo modo, infatti, la
persona che avesse voluto sporgere denuncia per un qualsiasi danno ricevuto ma non si sentisse in
grado di vincere la causa, poteva indurre una terza persona, più autorevole, a sporgere denuncia in
vece sua per iscritto, trasformando in pratica la causa da privata in pubblica.
La pratica della grafh/, cardine di uno stato democratico come quello ateniese, si prestava però al
rischio che alcuni personaggi privi di scrupoli, delatori di professione, si dedicassero a tempo pieno
all’attività di denuncia, con la speranza di riceverne vantaggi economici. La legge ateniese, infatti,
prevedeva che, qualora la causa si fosse conclusa con la condanna dell’accusato, colui che aveva
sporto denuncia pubblica incamerasse la quinta parte dei suoi beni (non è un caso che le persone
accusate fossero quasi sempre dotate di un ingente patrimonio familiare). Inoltre, poteva accadere
che i delatori fossero indotti alla denuncia – e adeguatamente ricompensati – da qualche ricco uomo
politico che intendeva in tal modo rovinare o quantomeno mettere in cattiva luce di fronte
all’opinione pubblica un suo avversario. Ma la delazione poteva fungere anche da strumento di
ricatto nei confronti degli accusati, i quali spesso, messi con le spalle al muro, per non vedere
infangata la loro immagine, erano costretti a versare forti somme nelle tasche dei delatori per indurli
a ritirare la denuncia. Queste figure poco raccomandabili, malviste dalla collettività per la loro
spregiudicatezza e disonestà, erano definite sukofa/ntai, termine la cui origine è piuttosto incerta
(vedi Lessico, s.v.). Allo scopo di frenare la loro attività, era stata varata una legge secondo la
quale, se l’accusatore non avesse ottenuto dai giudici almeno un quinto dei voti favorevoli al
termine del processo, era obbligato a pagare una somma di 1000 dracme. Peraltro la legge non
dovette avere un effetto decisivo sul fenomeno dei sicofanti: infatti, visto e considerato che essi
avevano quasi sempre alle spalle uomini ricchi e potenti, l’eventuale multa loro inflitta sarebbe stata
pagata senza troppa difficoltà proprio da questi ultimi.
Le procedure della di/kh e della grafh/ non ne escludevano altre per così dire “di emergenza”,
come l’a0pagwgh/, ossia l’arresto sul posto del reo colto in flagrante, che veniva consegnato
immediatamente al magistrato per essere poi tradotto in carcere (desmwth/rion); oppure,
l’e0fh/ghsij, in cui il magistrato si recava (e0 f hge/ o mai) personalmente sul posto per procedere
all’arresto; o ancora, l’e!ndeicij, consistente in una denuncia al magistrato, allo scopo di procedere
all’arresto del reo.
Qualunque causa, pubblica o privata che fosse, veniva preliminarmente esaminata dall’arconte re
(a!rxwn basileu/j), il quale valutava l’attendibilità e l’entità delle prove addotte dalle due parti,
accusa e difesa. Quindi, decideva se inoltrare o meno la pratica al tribunale (dikasth/rion)
competente in materia (si concludeva così la fase del processo che con termine moderno potremmo
definire “istruttoria”).
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3
Per i casi di omicidio (fo/noj), la cui legislazione risaliva ai tempi di Dracone, esistevano ad
Atene ben cinque tribunali specializzati, su cui siamo ben informati grazie alla Contro Aristocrate
di Demostene (per la quale vedi Appendice).
1. L’Areopago ( 1 A reioj pa/ g oj = “colle di Ares», situato di fronte all’acropoli).
Tradizionalmente la roccaforte del conservatorismo, a cui in origine avevano accesso solo i
membri delle famiglie aristocratiche (i cosiddetti “eupatridi”), a partire dal 462 a.C. si aprì a
tutti i cittadini eletti a sorteggio: giudicava sul “delitto premeditato o volontario» (fo/noj e0k
pronoi/aj o e0kou/sioj), sulle “ferite procurate con l’intento di uccidere» (trau=ma e0k
pronoi/aj), sull’“avvelenamento» (farmakei/a) e sull’“incendio» (purkaia/). Cfr. Dem.
Contro Arist. 222. Pare che contro le decisioni dell’Aeropago non fosse possibile appellarsi in
alcun modo, come dimostra la testimonianza di Demostene (Contro Aristocrate, 67):
«[…] l’Aeropago è il solo tribunale in cui né un accusato condannato, né un
accusatore respinto hanno mai sporto querela per l’ingiustizia del verdetto
pronunziato» (trad. M.R. Pierro).
2. Il Palladio (Palla/dion): giudicava del “delitto non premeditato o involontario” (oggi diremmo
“colposo”: fo/noj mh\ e0k pronoi/aj o a0kou/sioj). Cfr. Dem. Contro Arist. 71-72 (vedi
Appendice).
3. Il Delfinio (Delfi/nion): giudicava del delitto detto “legittimo” (fo/noj di/kaioj) che non veniva
perseguito dalla legge e consisteva nell’uccidere involontariamente nel corso dei giochi oppure
per legittima difesa, o per difendere l’onore della propria moglie, figlia, sorella, o concubina.
Così Demostene riporta le disposizioni di Dracone in materia (Contro Arist. 53 e 60)3:
«Se uno uccide involontariamente un avversario durante i giochi o uno
sconosciuto in seguito ad una rissa sulla strada, o un soldato, in guerra, per errore,
o un uomo colto in flagranza di delitto con la moglie, la madre o la sorella o la
figlia o la concubina che egli ha preso per avere dei figli liberi, per questi motivi
l’autore dell’omicidio non sarà esiliato come un comune assassino.
[…] E se uno uccide senza premeditazione, per difendersi, colui che lo depreda
violentemente e ingiustamente dei suoi averi, l’omicidio non sarà perseguito»
(trad. M.R. Pierro).
4. Il Pritaneo (Prutanei=on): giudicava i delitti compiuti da ignoti o la morte procurata da animali
o oggetti. Cfr. Dem. Contro Arist., 76 (vedi Appendice).
5. Il Freatto (Freattu/j o Freattw/): giudicava i delitti volontari di cui si era macchiato chi si
trovava in esilio per aver precedentemente commesso un delitto non premeditato o involontario.
È interessante la procedura che veniva messa in atto in questo caso: l’accusato veniva
2
3
Cfr. anche Dem. Contro Arist. 65-69 (vedi Appendice).
Cfr. anche Dem. Contro Arist. 74 (vedi Appendice).
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4
processato fuori della città, in riva al mare (Freatto o Freatti, in greco Freattu/j, era il nome di
una località del Pireo) ed era costretto a sostenere la sua difesa stando su una barca ancorata alla
spiaggia, onde evitare di contaminare la terra patria con la macchia (mia/sma) dovuta al suo
precedente omicidio. Cfr. Dem. Contro Arist., 77-78 (vedi Appendice).
Quest’ultima pratica è assai significativa, perché serve a farci comprendere come all’omicidio,
volontario o involontario che fosse, venisse attribuita una valenza religiosa: chi se ne macchiava,
era considerato impuro, e dunque indegno di vivere all’interno della comunità, che correva il rischio
di essere contaminata dalla presenza di un uomo in odio agli dei. Per i congiunti dell’ucciso, poi, era
considerata empietà avere a che fare con l’omicida, o anche solo rivolgersi a lui, a meno che non
fosse per recargli danno. È quello che dice Lisia nella Contro Eratostene (cap. 24), quando decide
di far salire sulla tribuna (bh=ma) il suo avversario Eratostene, che lui accusa di aver ucciso suo
fratello Polemarco:
«Voglio farlo salire sulla tribuna e interrogarlo, giudici. Ho infatti un’opinione di
questo tipo: penso che sia una cosa empia (a0 s ebe/ j ) parlare di lui, nel suo
interesse, sia pure con un altro, mentre ritengo cosa santa e pia, per la sua rovina,
parlare proprio con lui in persona. Sali dunque e rispondi a ciò che ti chiederò»
(trad. C. Castelli).
Alla luce di questo modo di concepire il diritto in stretto rapporto con la sfera religiosa possiamo
anche più facilmente capire la ragione per la quale le leggi sull’omicidio si conservarono
praticamente inalterate dai tempi di Dracone fino almeno al IV sec. a.C. (epoca a cui risale la
Contro Aristocrate di Demostene): esse erano infatti sentite come sacre, divine, e dunque
intoccabili.
Tutti i tipi di reato che non comportassero l’uccisione di persone si trovavano invece sotto la
giurisdizione dell’Eliea ( 9Hliai/a), tribunale popolare istituito da Solone composto da 6000 cittadini
di età superiore ai trent’anni, scelti a sorteggio annualmente, divisi per tribù in dieci sezioni di 500
uomini ciascuna più 1000 di riserva.
Una volta che l’arconte re aveva accolto la denuncia e istruito la causa, la parte lesa o accusatore
(kath/goroj o o( kathgorw=n o o( diw/kwn) e l’imputato (o( kathgorou/menoj o o( feu/gwn) si
ritrovavano nel tribunale di competenza e affrontavano in prima persona. l’agone processuale,
alla presenza di giudici (dikastai/), sorteggiati tra i cittadini che si rendevano disponibili (nell’Eliea
fin dalla sua istituzione; nell’Aeropago, come detto, a partire dal 462 a.C., in seguito alle radicali
riforme istituzionali volute da Efialte). In origine, la funzione di giurato non veniva ricompensata in
alcun modo; fu Pericle a introdurre il pagamento di due oboli giornalieri per gli Eliasti, vuoi per
premiare i cittadini che si dedicavano a una attività meritoria per la vita democratica dello stato oltre
che di grande responsabilità, vuoi forse per scoraggiare possibili tentativi di corruzione dei giudici
da parte delle parti in causa. Il successore di Pericle, il demagogo Cleone, aumentò il misqo/j
(“compenso”) a tre oboli con un provvedimento che, stuzzicando l’avidità dei cittadini, finì per
provocare una vera e propria mania dei processi, efficacemente testimoniata dal comico Aristofane
(Vespe, vv. 86-112):
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5
«Ma se davvero volete saper qual è la malattia del padrone, fate silenzio: ve la
dirò. È maniaco dei tribunali [Filhliasth/j], come nessuno al mondo: è la sua
passione fare il giudice [dika/zein]; e si lamenta se non siede in prima fila. E di
notte non prende sonno neppure un momentino; e se chiude gli occhi, sia pure per
un attimo, il suo pensiero vola di notte intorno alla clessidra [kleyu/dra].
Abituato com’è a tenere in mano il ciottolo per il voto [yh=foj], si alza stringendo
le tre dita, quasi dovesse porre l’incenso sull’altare il primo giorno del mese. E,
per Zeus, se vede scritto su di una porta “Viva Demo” – il figlio di Pirilampo – ci
va a scrivere accanto: “Viva la Legge!”. E se il gallo canta non appena si fa notte,
dice che lo ha svegliato in ritardo, perché s’è lasciato corrompere: ha preso
denaro dai magistrati che presentano il rendiconto. E, subito dopo cena, reclama
urlando le scarpe; e, giunto laggiù, si addormenta sul far del giorno, attaccato alla
colonna come un’ostrica. Ha un caratteraccio… infligge a tutti il massimo della
pena, e se ne torna a casa come un’ape o un calabrone: con le unghie
impiastricciate di cera4. Per timore di restare senza ciottoli con cui emettere
sentenze, si tiene in casa una spiaggia. “Siffatti sono i suoi vaneggiamenti;
ammonito!”, sempre più fa il giudice» (trad. G. Mastromarco).
Le due parti in causa potevano avvalersi, qualora non si ritenessero in grado di organizzare
efficacemente la propria linea di difesa (a0pologi/a) o di accusa (kathgori/a, ai0ti/a), della
collaborazione dei cosiddetti logografi (logogra/foi), i quali, dotati di specifiche competenze nel
campo del diritto e soprattutto dell’arte oratoria, si assumevano dietro compenso il compito di
scrivere il discorso che i loro “assistiti” avrebbero dovuto poi pronunciare in tribunale ricordandolo
a memoria. All’attività di logografo è legata soprattutto la fortuna di Lisia, ma anche altri grandi
oratori, come Isocrate e Demostene, che si distinsero rispettivamente nell’oratoria epidittica e in
quella politica, vi si dedicarono, anche se vi furono spinti più che altro dalle contingenze5. Chi non
fosse stato in grado di pronunciare il discorso, per ragioni di età (troppo giovane o troppo vecchio) o
a causa di menomazioni fisiche o psichiche, poteva essere sostituito da un membro della famiglia
nelle cause private (di/kai) e da un “patrocinatore” (sunh/goroj), di solito una personalità di un
certo prestigio e autorità, nelle grafai/. Tanto nella prima quanto nella seconda circostanza, colui
che prendeva la parola al posto della parte in causa, poteva pronunciare un discorso
precedentemente elaborato da un logografo.
Quanto detto sarebbe di per sé sufficiente per comprendere la differenza tra un logografo del V-IV
sec. a.C. e un avvocato dei nostri giorni, ma su due punti è bene soffermare maggiormente
l’attenzione:
1. il logografo scriveva un discorso destinato a essere pronunciato da altri in tribunale e dunque
aveva l'esigenza di tagliarlo su misura per colui che glielo commissionava; la fama di Lisia, per
4
Secondo una procedura in uso, la condanna al massimo della pena veniva indicata dal giudice su una tavoletta di cera
tracciando con le unghie una linea lunga; la condanna al minimo della pena era invece indicata tracciando una linea
corta.
5
Demostene si dedicò con successo al genere giudiziario nel periodo del suo apprendistato giovanile, indirizzatovi
anche dalla necessità di recuperare il suo patrimonio illegittimamente usurpato dal suo tutore (e cugino) Afobo. Isocrate
vi fu costretto dalla necessità di far fronte alle difficoltà economiche seguite alla rovina della fortuna del padre dopo la
guerra del Peloponneso e non pare aver ottenuto in questo campo grandi soddisfazioni.
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6
esempio, è legata alla sua abilità nell’immedesimarsi nella personalità del suo “cliente”,
adattando a essa lo stile della propria argomentazione (si tratta della cosiddetta h0qopoii5a, lett.
“rappresentazione del carattere”)
2. il logografo sapeva di avere a che fare con una platea di giudici fatta di cittadini comuni,
sprovvista di competenze approfondite nel campo giuridico e dunque, piuttosto che snocciolare
una serie di articoli della legislazione (no/moj) vigente a sostegno delle sue argomentazioni,
faceva leva sulla capacità di persuadere l’uditorio ricorrendo a tutti i mezzi retorici atti allo
scopo.
Questo da una parte spiega perché i logografi erano più che degli esperti di diritto, degli uomini
provvisti di un ampio background culturale e perfetti conoscitori della retorica, ossia dell’arte della
persuasione; dall’altra serve a giustificare il frequente ricorso (attestato anche per Lisia) ad
argomenti capziosi e palesemente contrari alle norme in vigore: chi, infatti, avrebbe potuto
contraddirli se solo pochi erano a conoscenza di ciò che prevedeva la legge? Non era raro, poi,
imbattersi in quelli che potremmo definire “difetti di legislazione”, che consentivano ai logografi di
manipolare più facilmente l’opinione dei giurati, alla cui discrezionalità era affidata la decisione
finale. Non è un caso che nel suo trattato La Retorica (1354a-b), Aristotele, ben consapevole dei
condizionamenti a cui le giurie potevano essere sottoposte e della loro necessità di decidere in poco
tempo, sosteneva che la legge dovesse tendere a definire tutti i casi possibili:
«Soprattutto, leggi formulate correttamente dovrebbero esse stesse definire, per
quanto possibile, tutti i casi, e lasciare quanto meno possibile alla discrezione dei
giudici, in primo luogo perché uno o pochi uomini assennati e in grado di legiferare
e giudicare sono più facili a trovarsi che non molti; in secondo luogo le legislazioni
sono il risultato di riflessioni protratte nel tempo, mentre le sentenze vengono
emesse sul momento, e di conseguenza è difficile che i giudici possano stabilire
correttamente ciò che è giusto e opportuno. Tra tutte, però, la ragione più
importante è il fatto che il giudizio del legislatore non è rivolto al caso particolare,
ma riguarda il futuro e l’universale, mentre chi è membro di un’assemblea popolare
o giudice decide di questioni presenti o specifiche: costoro spesso sono influenzati
da amicizia, odio e interesse privato, sicchè non possono più vedere il vero in modo
adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale. Quanto
al resto, dunque, come si diceva, si deve abbandonare all’autorità del giudice il
minor numero possibile di questioni; quanto invece che una cosa sia avvenuta o non
sia avvenuta, che avverrà o non avverrà, che sia o non sia in un dato modo, è
necessario lasciarlo alla discrezione dei giudici, perché non è possibile che il
legislatore possa prevederlo» (trad. M. Dorati).
Prima di prendere la parola, le controparti prestavano un giuramento, detto diwmosi/a, in cui si
impegnavano a dire la verità e a non uscire dai confini della causa. Un tipo particolare di
giuramento, riservato però ai soli processi per omicidio, era la diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj, lett.
“giuramento sulla (propria) rovina”, con cui chi lo prestava invocava, in caso di dichiarazioni
mendaci, la rovina su se stesso, sulla propria stirpe e sulla propria casa.
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Data la composizione popolare delle giurie, i tempi del processo dovevano necessariamente essere
molto brevi: di norma, il processo si esauriva nell’arco della giornata (quanta differenza rispetto ai
procedimenti giudiziari dei nostri giorni, che durano talvolta parecchi anni!). Tanto l’accusa quanto
la difesa avevano diritto di pronunciare un’arringa che poteva durare da un minimo di 20 a un
massimo di 50 minuti e a entrambe le parti era di solito consentita una replica (u3steroj lo/goj),
della durata di circa 10 minuti.
Entrambe le parti potevano procedere, durante il discorso, alla lettura delle leggi (talvolta
indispensabile per le ragioni di scarsa preparazione in materia della giuria di cui abbiamo parlato
sopra) e potevano addurre testimoni (ma/rturej) a proprio favore. Sia durante la lettura delle leggi
che durante l’interrogazione dei testimoni il tempo, che veniva misurato con la clessidra ad acqua
(kleyu/dra), veniva fermato. Era possibile utilizzare anche la testimonianza degli schiavi, purchè
venisse ottenuta sotto tortura. Lo testimonia l’oratore Antifonte, il quale, coinvolto in prima persona
in un processo da lui intentato contro la propria matrigna, accusata di aver provocato la morte di suo
padre, si esprime a un certo punto in questi termini:
«E non vorrà affermare (sc. il fratellastro dell’oratore, che aveva preso le difese
della madre) di saper bene che sua madre non uccise nostro padre; perché quando
aveva la possibilità di sapere con certezza mediante la tor tura (para\ th=j
basa/nou) deg li sch iavi, non ha voluto» (Antifonte, Contro la matrigna, 6; trad.
M. Marzi).
Una volta ascoltate le parti, i giudici emettevano il verdetto (yh/fisma) attraverso una votazione,
che era segreta e avveniva immediatamente dopo l’ascolto delle parti, senza che i giurati si
riunissero e senza dunque alcun dibattito che servisse a pronunciare una sentenza condivisa.
Ciascuno dei giudici «possedeva due gettoni, uno bucato per la condanna, e uno intero per
l’assoluzione. Quello valido per il voto veniva deposto in un’urna di bronzo detta ku/rioj
a0mforeu/j; l’altro, entro un’urna di legno (a1kuroj a0mforeu/j), serviva al riscontro dei votanti»
(Castelli, p. 18). Se per l’imputato c’era l’assoluzione (a0po/lusij), il processo era terminato, se
invece era sancita la condanna (kata/gnwsij), i giudici procedevano alla somministrazione della
pena (zhmi/a o e0pitimi/a). Se il reato non rientrava tra quelli previsti dalla legge, la pena era stabilita
dai giudici dopo una discussione e dopo aver ascoltato le proposte delle controparti. In questo caso
il processo si definiva a0gw\n timhto/j, in cui cioè è necessaria una valutazione (tima/w) da parte
dei giudici in merito alla pena da infliggere. Se invece il reato era compreso tra quelli contemplati
dalla legislazione, si comminava la pena prevista per quel tipo di reato e il processo prendeva il
nome di a0gw\n a0ti/mhtoj.
Le pene potevano andare dalla condanna a morte (qa/natoj) per l’omicidio volontario o per
crimini commessi contro lo stato, come il sovvertimento delle istituzioni o il reato di empietà
(a0se/beia), all’esilio (fugh/) e alla confisca dei beni per la “lesione premeditata” (trau=ma e0k
pronoi/ a j) o per l’omicidio involontario, alla perdita dei diritti civili (a0timi/a) per chiunque si
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macchiasse di omicidio, di qualunque tipo esso fosse e in qualunque circostanza6, fino al pagamento
di forti somme di denaro (zhmi/a). Tra le pene capitali, una consisteva nella condanna a bere la
cicuta (kw/neion), un’erba velenosa che provoca l’arresto della circolazione del sangue, prevista, in
alternativa alla precipitazione, per il crimine di empietà. Rispetto alla precipitazione, che avveniva
in pubblico e aveva una spettacolarità di gran lunga superiore, la morte per mezzo della cicuta era di
solito riservata ai ricchi (infatti la cicuta era molto costosa e le spese per acquistarla ricadevano
sulla famiglia del condannato) o a quegli avversari politici che si volevano togliere di mezzo in
sordina, senza destare troppo clamore. Non a caso fu eliminato in questo modo nel 399 a.C. un
personaggio scomodo come Socrate, accusato di non credere negli Dei della Città e di corrompere i
giovani con la sua dottrina (due capi di imputazione che rientravano nel crimine più generale di
empietà). Anche il fratello di Lisia, Polemarco, fu ucciso dai Trenta, avidi di impossessarsi delle sue
ricchezze, con la stessa subdola procedura (Contro Eratostene, 17):
«A Polemarco i Trenta diedero l’ordine che veniva solitamente impartito a quel
tempo, quello di bere la cicuta (pi/nein kw/neion), senza dirgli il motivo per cui
doveva morire, tanto egli fu lontano dall’essere processato e dal potersi difendere»
(trad. Castelli).
Appendice
L’orazione Contro Aristocrate, documento importante dell’attività di logografo di Demostene,
scritta intorno al 352 a.C. per un certo Euticle, rappresenta un atto di accusa nel confronti di
Aristocrate, il quale aveva fatto approvare un decreto che concedeva una sorta di inviolabilità a
Caridemo, personaggio a noi poco noto, ma a quel tempo conosciuto per essere il capo di truppe
mercenarie al servizio di Atene. Secondo il decreto, chiunque lo avesse oltraggiato avrebbe dovuto
essere condannato all’esilio e considerato fuorilegge. Il provvedimento era palesemente illegale e
Demostene, nella prima parte del suo discorso, lo dimostra invitando i giudici a un confronto con le
leggi draconiane, di cui vengono ripresi ampi stralci, decisivi per la ricostruzione della legislazione
ateniese in materia di omicidio.
È consigliabile la lettura dell’intera orazione (la XXIII del corpus Demosthenicum), di cui si
riportano di seguito alcuni passi tratti dai parr. 65-78, in cui Demostene descrive le prerogative e il
funzionamento dei tribunali ateniesi che giudicano dei diversi tipi di omicidio:
«[65] Noi, Ateniesi, abbiamo dato a Caridemo il titolo di cittadino e, con questo
privilegio, lo abbiamo reso partecipe dei nostri costumi religiosi e civili, delle
6
Cfr. Demostene, Contro Aristocrate, 62: «Chiunque, magistrato o cittadino, violerà o muterà queste leggi (le leggi
sull’omicidio), sarà proscritto con i suoi figli e i suoi beni» (trad. L.Pepe); ma il termine preciso per l’espressione «sarà
proscritto» è a1timoj: la condizione di a0timi/a, come spiega Guidorizzi, comprende «non solo la perdita dei diritti di
cittadinanza attivi e passivi, ma altresì il fatto di essere dichiarato fuorilegge e di non ottenere più protezione dalla
po/lij; come accadeva a Roma all’homo sacer, l’a1timoj poteva essere ucciso da chiunque».(p. 901, n. 9).
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nostre leggi e di tutto quello che noi stessi abbiamo in comune. Vi sono da noi
molte istituzioni tali quali altrove non ne esistono; ma ce n’è una, la più
veneranda fra tutte, che a noi soli appartiene, ed è il tribunale dell’Areopago.
Non esiste nessun altro tribunale in onore del quale si siano trasmesse tante nobili
storie: alcune ormai leggendarie, altre che hanno avuto noi stessi come testimoni
[…] [66] […] Oltre a queste considerevoli prerogative, l’Areopago è il solo
tribunale in cui né un accusato condannato, né un accusatore respinto hanno mai
sporto querela per l’ingiustizia del verdetto pronunciato. [67] […] Voi tutti sapete
certamente che nell’Areopago, dove la legge consente ed impone che venga
giudicato l’omicidio, per prima cosa colui che presenta un’accusa così grave
giurerà invocando la rovina sua, della sua famiglia e della sua casa [si tratta della
diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj]. [68] e poi non pronuncerà il giuramento nella forma
ordinaria: per cominciare, non nella posizione che viene naturale, ma come non si
giura in nessun altro caso, stando in piedi sulle carni delle vittime – un capro, un
ariete, un toro – immolate da persone qualificate e in giorni fissati, in modo che,
quanto al tempo e ai ministri del sacrificio, si rispettino tutte le norme del rito.
Inoltre, colui che ha pronunciato tale giuramento non è ancora creduto sulla
parola, e se si scopre che ha mentito, avrà ottenuto solo di far ricadere lo
spergiuro sui suoi figli e sulla sua discendenza. [69] Qualora poi risulti che
l’accusa è fondata, ed egli riesca a far condannare l’autore del delitto, neppure in
questo caso può disporre della sua persona, ma sono le leggi e, con le leggi,
coloro a cui spetta l’esecuzione della sentenza, che hanno il potere di punirlo. A
lui, l’accusato, è permesso di assistere all’esecuzione della condanna inflitta dalla
legge, niente di più. Questo è quanto concerne l’accusatore. Per l’accusato, la
forma del giuramento è la stessa, ma egli ha il diritto di andare in esilio dopo
avere pronunciato il primo discorso di difesa, senza che né l’accusatore, né i
giudici, né alcun altro possano impedirglielo. […]
[71] C’è poi un secondo tribunale, il Palladio, quello che giudica gli omicidi
involontari […]. Anche lì la stessa procedura: prima il giuramento, poi il dibattito
e infine la sentenza del tribunale. […] [72] Che colui che è stato condannato per
omicidio involontario abbandoni il paese entro un termine stabilito, seguendo un
percorso prescritto, e rimanga in esilio finché non sarà stato perdonato da un
parente della vittima. Allora gli è consentito tornare, non in un modo qualsiasi,
ma seguendo certe regole: la legge impone che egli faccia dei sacrifici, delle
purificazioni e adempia ad altri obblighi che vengono ben definiti; ed è molto
giusta la legge, Ateniesi, in tutte le sue prescrizioni. [73] È giusto infatti stabilire
per le colpe involontarie una pena minore che per quelle volontarie ed è giusto
infliggere l’esilio solo se vengono garantite le condizioni di sicurezza per la
partenza; ed è anche una cosa buona che l’esule al suo ritorno compia dei sacri
riti e si purifichi secondo certe norme tradizionali, e che le leggi siano sovrane
ovunque. […]
[74] Esiste poi un terzo tribunale, il più sacro e il più temuto di tutti, per i casi in
cui uno confessi il delitto, ma dica di averlo commesso in modo legittimo: il
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Delfinio. A me sembra, o giudici, che quelli che alle origini definirono il diritto in
questa materia, per prima cosa si siano posti il problema se nessun omicidio
debba considerarsi legittimo, o se si diano casi in cui esso è giustificabile […] e
hanno stabilito che possono verificarsi casi di omicidi legittimi […]. Giunti a
questa convinzione, essi hanno subito stabilito e definito con chiarezza i casi in
cui l’omicidio è legittimo. […] [76] Esiste un quarto tribunale, quello del
Pritaneo. Di che si occupa? Se una pietra, un pezzo di legno o di ferro o un altro
oggetto del genere cade su un passante colpendolo, qualora si ignori l’autore del
gesto, ma si conosca e si possieda l’oggetto che ha causato la morte, per tali casi
si fa il processo davanti ai giudici che siedono in questo tribunale.
[77] Considerate ancora le prerogative del quinto tribunale che egli (s c.
Aristocrate) ha disprezzato, quello del Freatto. Qui, Ateniesi, la legge dispone
che deve essere processato uno che, trovandosi in esilio per un delitto
involontario, e non essendosi ancora riconciliato con coloro che hanno causato il
suo bando, sia accusato per un altro omicidio, questo volontario. Ora, il
legislatore di tutta questa materia, non trascurò certo il suo caso per il fatto che
costui non poteva rientrare in patria, né, perché anche prima egli aveva compiuto
un delitto dello stesso genere, diede credito ad una analoga accusa contro di lui;
[78] ma trovò il modo, l’antico legislatore, di soddisfare al tempo stesso la
religione e di non lasciare l’accusato senza difesa e senza una sentenza. Che cosa
fece il legislatore? Egli portò i giudici in un luogo accessibile all’accusato,
fissando un punto della regione in riva al mare, conosciuto come “il recinto del
Freatto”. L’accusato, avvicinandosi alla costa su una barca, pronuncia il suo
discorso di difesa, senza toccare la terra; i giudici a terra l’ascoltano ed emettono
la sentenza. Se è condannato, subisce giustamente la pena che è dovuta per gli
omicidi volontari; se, invece, è assolto, è lasciato libero da questa pena, ma
rimane in esilio per l’omicidio precedente» (trad. M.R. Pierro).
Altra lettura consigliabile è quella della Contro Eratostene di Lisia, nella quale l’oratore
interviene in prima persona probabilmente durante il processo di rendiconto (eu0qu/nai) del 403
a.C.7, in veste di accusatore nei confronti di Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, imputato di aver
ucciso il fratello Polemarco nel tormentato periodo in cui Atene, sconfitta nella guerra del
Peloponneso, era governata da una commissione di trenta cittadini creata dagli oligarchici con
l’appoggio di Sparta (estate 404 – fine 404 o inizio 403). Soprattutto la parte iniziale e quella
conclusiva forniscono un bel repertorio del lessico giuridico.
Nella sezione seguente, riservata appunto al lessico, nel caso di termini attestati nella Contro
Eratostene, si è indicato, accanto al significato, anche il paragrafo (o i paragrafi) dell’orazione in
cui essi ricorrono, in modo che sia più agevole ritrovarli nel testo.
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La datazione proposta pare la più verisimile, ma non abbiamo certezze in merito. Sulla questione, cfr. Castelli, pp. 910. Eu0 q u/ n ai gli Ateniesi chiamavano l’annuale rendiconto a cui si sottoponevano i magistrati al termine del loro
mandato, in cui i cittadini potevano presentare accuse e reclami rispetto alla condotta da essi tenuta durante il periodo in
cui erano stati in carica. Mentre tutti i loro colleghi erano fuggiti dopo il ritorno ad Atene dei democratici guidati da
Trasibulo, solo Fidone e, per l’appunto, Eratostene, fra i Trenta, sarebbero comparsi davanti – pare – all’Eliea per il
regolare processo di eu0qu/nai.
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Lessico
a0gw/n, a0gw=noj, o( : “processo”, in quanto “contesa, lotta” tra accusa e difesa [cfr. a1gw]. Lisia,
C.E. 81.
a0gw\n timhto/j : “processo da valutare, da rimettere alla valutazione dei giudici” [cfr. tima/w =
“stimo, valuto”]; si tratta del processo in cui il reato commesso non è contemplato
dalla legge e la pena viene inflitta dai giudici a loro discrezione dopo una valutazione
delle circostanze e dopo aver ascoltato le proposte delle parti.
a0gw\n a0ti/mhtoj : “processo non soggetto a valutazione”, nel senso che la pena è già stabilita dalla
legge e ai giudici non resta che comminarla.
ai0ti/a, -aj, h( : “accusa”, pronunciata in tribunale dalla parte lesa (cfr. kathgori/a). Lisia, C.E.
17.
a0pagwgh/, -h=j, h( : “arresto”, procedura “di emergenza” secondo la quale il reo colto in flagrante
veniva condotto via (a0 p a/ g w) dal luogo del misfatto e portato alla presenza del
magistrato.
a0pologi/a, -aj, h( : “difesa”, pronunciata in tribunale dall’imputato. Lisia, C.E. 81, 82.
(a0pologei=sqai : “difendersi, pronunciare la difesa”. Lisia, C.E. 18, 38).
a0po/lusij, -ewj, h( : “assoluzione, proscioglimento dall’accusa”, che poneva fine al processo.
(a0polu/ein : “assolvere, prosciogliere”).
a0se/beia, -aj, h( : “empietà”, accusa che poteva comportare la condanna a morte per mezzo della
cicuta o della precipitazione [a0 priv. + rad. di se/bw = “venero, onoro”].
a0timi/a, -aj, h( : “privazione del possesso dei diritti civili”, che comportava l’esclusione dalla
comunità dei cittadini e la perdita di ogni protezione da parte dello stato. In altro
contesto, “infamia, disonore, disprezzo”.
(a1timoj, -ou, o( : “colui che è privato dei diritti civili”).
ba/sanoj, -ou, o( : “tortura”: unico sistema valido per accogliere la testimonianza di uno schiavo.
bh=ma, -atoj, to/ : “tribuna”, ossia una piattaforma su cui salivano (a0nabai/nein, a0nabiba/zein)
gli accusatori e gli imputati per pronunciare la loro difesa o i testimoni per essere
interrogati.
gnw/mh, -hj, h( : “sentenza”. Lisia, C.E. 35, 79.
grafh/, -h=j, h( : “azione giudiziaria, causa pubblica”, promossa da un cittadino a tutela non dei
propri interessi ma degli interessi della cosa pubblica, che doveva essere presentata
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per iscritto (gra/fw) e poteva riguardare ogni tipo di reato commesso ai danni della
collettività.
desmwth/rion, -ou, to/ : “carcere”, lett. “luogo in cui si viene legati” [desmo/j (de/ w ) + -th/rion,
suffisso tipico dei nomi di luogo]. Lisia, C.E. 17.
dikasth/j, -ou=, o( : “giudice” [dika/ z w = “giudico, sentenzio”]; la parte in causa si rivolge ai
giudici solitamente con il vocativo w] a1ndrej dikastai/ (o semplicemente w]
a1ndrej). Lisia, C.E. 1, 3, 37, 81, 84.
dikasth/rion, -ou, to/ : “tribunale”, lett. “luogo dove si amministra la giustizia” [dika/zw +
-th/rion].
di/kh, -hj, h( : “azione giudiziaria, causa privata”, promossa da un cittadino a tutela degli interessi
propri e della propria famiglia [dei/ k numi = “mostro”, ma anche “regolo,
amministro”]; in altro contesto (morale, politico, filosofico) il termine vale
“giustizia”, “diritto”. In ambito giudiziario il termine usato per “giustizia” è invece
dikaiosu/nh (Lisia, C.E. 5).
di/khn (grafh/n) dika/zein tini/ : “intentare un processo a qualcuno”. Lisia, C.E. 4.
di/khn (grafh/n) diw/kein : “intentare un processo”.
di/khn dido/nai tini\ u(pe/r tinoj : “pagare il fio a qualcuno per qualcosa”. Lisia, C.E. 37, 82.
di/khn feu/gein u(po/ tinoj : “subire un’accusa da parte di qualcuno”. Lisia, C.E. 4.
di/khn lamba/nein para/ tinoj : a) “punire qualcuno, dare la pena a qualcuno” (= lat. poenas
sumere, punto di vista dell’accusatore). Lisia, C.E. 29, 36, 37, 79, 82, 83, 84, 100;
b) “essere punito da qualcuno, espiare la pena” (= lat. poenas dare, punto di vista
dell’imputato).
diw/kwn, o( : “accusatore”, lett. “colui che insegue”, con metafora tratta dalla sfera della caccia.
diwmosi/a, -aj, h( : “giuramento” dell’accusatore e dell’imputato prima dell’avvio del processo
[di-o/mnumi].
diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj : “giuramento sulla propria rovina” [e0c-o/llumi], un giuramento prestato
nelle cause di omicidio, in seguito al quale si invocava su di sé, in caso di spergiuro,
la rovina propria, della propria famiglia e della propria casa (e0cw/leian au(tw|= kai\
ge/nei kai\ oi0ki/a)| . Lisia, C.E. 10.
e!ndeicij, -ewj, h( : “denuncia”, fatta al magistrato al fine di procedere all’arresto di un reo [e0ndei/knumi = “mostro, indico”].
e0pitimi/a, -aj, h( : “pena” (cfr. zhmi/a); lo stesso termine indica però anche il “possesso dei pieni
diritti civili”, in opposizione ad a0timi/a.
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e0fh/ghsij, -ewj, h( : “denuncia” di un reato fatta al magistrato, il quale si recava sul posto per
procedere all’arresto [e0f-hge/omai = “conduco verso”].
zhmi/a, -aj, h( : a) “pena”, quando ha un senso generale (cfr. e0pitimi/a). Lisia, C.E. 36;
b) “multa, pena pecuniaria”, quando ha senso più specifico.
h0qopoii5a, -aj, h( : lett. “rappresentazione del carattere”: si tratta della capacità del logografo di
immedesimarsi nella personalità del proprio “assistito”, adattando a essa lo stile e le
caratteristiche del proprio discorso.
qa/natoj, -ou, o( : “condanna a morte”, somministrata in caso di omicidio volontario o di reati
volti a colpire lo stato e le istituzioni.
kata/gnwsij, -ewj, h( : “verdetto di condanna”.
(katagignw/ s kein = “condannare”; ma talvolta, sempre in contesto giudiziario, “accusare,
incolpare”).
kathgori/a, aj, h( : “accusa”, pronunciata in tribunale dalla parte lesa [cfr. kata-a0 g oreu/ w =
“parlo contro”]. Lisia, C.E. 1, 3, 82.
kathgorei=n : “accusare, sostenere l’accusa”. Lisia, C.E. 1, 3, 37, 81, 100.
kath/goroj, -ou, o( : “accusatore”. Lisia, C.E. 1, 81, 99.
kathgorw=n, o( : “accusatore”, lett. “colui che accusa” [kathgore/w]. Lisia, C.E. 2.
kathgorou/menoj, o( : “accusato”, lett. “colui che viene accusato” [kathgore/w]; cfr. o( feu/gwn.
kleyu/dra, -aj, h( : “clessidra, orologio ad acqua” [kle/ptw (= “sottraggo, porto via”) + u3dwr],
che veniva utilizzata durante il processo per calcolare i tempi delle arringhe e delle
repliche delle due parti in causa.
kri/nein : “giudicare”; talvolta anche “accusare”. Lisia, C.E. 18, 82.
ku/rioj a0mforeu/j : lett. “anfora che ha potere”: così veniva definita l’urna in cui venivano deposti i
gettoni o le pietruzze valide per il voto, e dunque decisive per il verdetto di
assoluzione o condanna.
a1kuroj a0mforeu/j : lett. “anfora priva di potere”: così era definita l’urna in cui si deponevano i
gettoni o le pietruzze valide soltanto per il conteggio dei votanti e che dunque non
avevano alcun effetto sul verdetto finale.
kw/neion, -ou, to/ : “cicuta”, bevanda tratta da un erba molto costosa e letale per l’uomo (in quanto
provoca l’apoplessia); era la condanna riservata a coloro che erano stati condannati
per empietà (a0se/beia). Lisia, C.E. 17.
logogra/foj, -ou, o( : “logografo”, lett. “colui che scrive discorsi” [lo/goj + gra/fw] che altri
dovranno pronunciare in tribunale dietro compenso. Il termine viene spesso
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utilizzato per indicare i primi storici e geografi del VI sec. a.C. (come Ecateo di
Mileto), peraltro impropriamente, dato che esso vale più genericamente “scrittore di
prosa”.
ma/rtuj, -uroj, o(, h(, to/ : “testimone”, addotto dall’accusa o dalla difesa. Durante l’audizione dei
testimoni il tempo veniva fermato.
mia/sma, -atoj, to/ : “macchia, contaminazione”, di cui era portatore l’omicida, di qualunque tipo
fosse l’omicidio da lui commesso (anche non volontario); per evitare che la sua
macchia si propagasse nella comunità, egli veniva condannato a morte oppure
all’esilio al di fuori dei confini della patria oppure sottoposto ad un complesso rituale
di purificazione (kaqarmo/j).
misqo/j, -ou=, o( : così era definito l’“onorario” pagato dai “clienti” ai logografi, ma anche il
“compenso” giornaliero che la po/ l ij riconosceva ai cittadini che venivano
sorteggiati come giurati nei diversi tribunali (nell’Eliea a partire da Pericle).
no/moj, -ou, o( : “legge”, lett. “ciò che è attribuito, assegnato a ciascuno” [ne/ m w]; il primo
significato di no/moj è “uso, consuetudine”, ed è proprio da una formalizzazione
delle abitudini consolidate che nasce la legge. Lisia, C.E. 82.
purkaia/, -a=j, h( : “incendio”, reato che, se provocava la morte, era giudicato dall’Areopago ed
era passibile di condanna capitale.
sukofa/nthj, -ou, o( : “sicofante, delatore”. L’etimologia del termine è piuttosto incerta: secondo
Plutarco (Vita di Solone, 24), esso si riferiva originariamente a coloro che
denunciavano l’esportazione irregolare di fichi dall’Attica [su=kon = “fico” + fai/nw
= “mostro, indico”]. Secondo altri, si trattava di chi denunciava il furto di fichi sacri.
E. Pagani e A. Cosattini segnalano come preferibile la soluzione di L. Gernet
(«Mélanges Boisacq» 1, 1937, p. 393), secondo cui il sicofante è «“colui che mostra
i fichi”, mostrandoli nel vestito del delinquente» (Contro Eratostene, p. 22, sotto la
nota sukofa/ntai). Lisia, C.E. 5.
sunh/goroj, -ou, o( : “patrocinatore, procuratore”, lett. “colui che parla insieme” [su/ n +
a0goreu/w], ossia in appoggio della parte in causa; si tratta di un personaggio di un
certo prestigio e di una certa esperienza nel campo giuridico, che nelle cause
pubbliche (grafai/) poteva essere chiamato a intervenire in tribunale in luogo della
parte in causa, quando questa non fosse in grado di sostenere il processo.
tekmh/rion, -ou, to/ : “prova”. Lisia, C.E. 33.
trau=ma e0k pronoi/aj : “lesione premeditata”, reato che, data la sua volontarietà, veniva giudicato
dall’Areopago e poteva comportare la condanna all’esilio o alla confisca dei beni.
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u3steroj lo/goj : “discorso successivo, replica”, della durata di circa 10 minuti, che si concedeva
alle due parti dopo la pronuncia delle rispettive arringhe; l’ultima parola spettava
all’imputato.
farmakei/a, -aj, h( : “avvelenamento”, reato che, se conduceva alla morte, veniva giudicato
dall’Areopago, e poteva essere punito con la pena capitale.
feu/gein : “essere accusato, essere chiamato in giudizio”, spesso con il genitivo di colpa (fo/nou,
a0sebei/aj …); in altro contesto, “fuggire”
feu/gwn, o( : “accusato, imputato”, “colui che viene chiamato in giudizio” [cfr. feu/gein]; lett. “colui
che fugge (dall’accusa)”, con metafora tratta dalla sfera della caccia (cfr. o( diw/kwn).
Lisia, C.E. 2, 37.
fugh/, -h=j, h( : “esilio” [cfr. feu/gw = “fuggo dalla patria”], condanna che veniva comminata a chi
si macchiava di omicidio non volontario.
fo/noj, -ou, o( : “omicidio”, reato di cui esistevano diverse forme, giudicate ad Atene da cinque
diversi tribunali:
fo/noj e0k pronoi/aj o e0kou/sioj : “omicidio premeditato” o “volontario”, giudicato dall’Areopago;
fo/noj mh\ e0k pronoi/aj o a0kou/sioj : “omicidio non premeditato” o “involontario”, giudicato dal
Palladio;
fo/noj di/kaioj : “omicidio legittimo”, giudicato dal Delfinio.
(il Pritaneo e il Freatto giudicavano rispettivamente delle uccisioni provocate da animali o cose e
degli omicidi di cui si erano macchiati uomini che si trovavano in esilio per aver
precedentemente commesso un omicidio involontario).
yh/fisma, -atoj, to/ : “verdetto, sentenza”, che avveniva mediante votazione [cfr. h( yh=foj =
“pietruzza usata per il voto”].
yhfi/zein : “votare, emettere la sentenza”.
th\n yh=fon fe/rein : “dare il voto, emettere la sentenza” (cfr. lat. suffragium ferre). Lisia, C.E. 33,
100.
a0poyhfi/zein : “votare a favore, assolvere” (ma talvolta può assumere significato contrario). Lisia,
C.E. 34, 90, 100.
katayhfi/zein : “votare contro, condannare”. Lisia, C.E. 90, 91, 100.
Bibliografia essenziale
•
H. Bengtson, Storia greca, vol. 1, Bologna (Il Mulino) 1985, traduz. di C. Tommasi (titolo
dell’edizione originale: Griechische Geschichte, München, C.H. Beck Verlag, 1965).
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•
C. Castelli (a cura di), Lisia. Contro Eratostene, note al testo di E. Pagani e A. Cosattini,
Milano (Signorelli) 1994.
G. Guidorizzi, Il mondo letterario greco. Storia civiltà testi, vol. 2 (L’età classica), Milano
(Einaudi) 2007, pp.798-925.
M.T. Luzzatto, L’oratoria, la retorica e la critica letteraria, in Da Omero agli Alessandrini,
a cura di F. Montanari, Roma (La Nuova Italia Scientifica) 1988, pp. 207-256.
A.M. Santoro – F. Vuat, a1lfa bh=ta gra/mmata, Corso di lingua e civiltà greca, Esercizi 2,
Torino (Paravia) 2007, pp. 305-319.
M.R. Pierro (a cura di) Demostene. Contro Aristocrate, in Demostene. Discorsi e lettere,
vol. 2 (Discorsi in tribunale), Torino (UTET) 2000.
G. Mastromarco (a cura di), Aristofane. Commedie, vol. 1, Torino (UTET) 1983, pp. 456459.
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