IL FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA E I PROCESSI NELL’ATENE DI ETÀ CLASSICA Fabio Macciò La particolare struttura politica della Grecia di età arcaica e classica, divisa in varie entità regionali, ciascuna con le proprie tradizioni e consuetudini, ha impedito la nascita di un diritto comune, un diritto che si possa definire “greco”. Ogni regione (Attica, Laconia, Beozia, ecc.) doveva essere regolata da un proprio indipendente sistema legislativo, che noi non siamo quasi mai in grado di ricostruire, data la scarsità di fonti (dirette e indirette) a nostra disposizione. Quelle che abbiamo, come la celebre Rhïtra spartana (il più antico documento della storia greca, risalente forse addirittura alla fine dell’VIII sec. a.C.) o la cosiddetta “legislazione di Gortina» (città dell’isola di Creta), che risale alla prima metà del V sec. a.C. ma rispecchia istituti giuridici di epoca precedente, insistono soprattutto sugli aspetti politico-istituzionali e poche notizie ci forniscono sulle procedure giudiziarie in uso. Molto meglio (ma pur sempre con molti limiti) conosciamo da questo punto di vista il diritto attico, grazie a preziosi ritrovamenti epigrafici, come la stele scoperta ad Atene nel 1843 contenente le leggi sull’omicidio involontario promulgate da Dracone (o Draconte: VII sec. a.C.), integrata dalla fondamentale testimonianza di Demostene nella Contro Aristocrate (352 a.C.), su cui avremo modo di tornare; ma anche, e soprattutto, grazie al fatto che ci sono state conservate un buon numero di orazioni giudiziarie risalenti al V e IV secolo a.C., opera di alcuni tra i “principi del foro” di quell’epoca (Antifonte, Lisia, Demostene), le quali ci illuminano su aspetti della legislazione ateniese in materia giuridica che altrimenti ci sarebbero rimasti oscuri. Dei tre generi in cui si suole distinguere l’oratoria attica antica – giudiziario, politico ed epidittico1 – è dunque soprattutto il primo a costituire per noi una fonte importante per la ricostruzione del funzionamento della giustizia e dei processi nell’Atene classica; ed è a esso che faremo riferimento. Ad Atene il processo prende il nome di a(gw/n, termine che di per sé indica ogni forma di contesa, di tipo sportivo, letterario (ricordiamo gli “agoni” tragici e comici), e, per l’appunto, giudiziario. Esso poteva assumere due forme di procedimento fondamentali: • la di/kh, ossia la causa privata, intentata dall’interessato in difesa di se stesso e/o della propria famiglia; • la grafh/, ossia la causa pubblica, che poteva essere intentata da qualsiasi cittadino a tutela degli interessi della collettività, e quindi era rivolta contro tutti i crimini in grado potenzialmente di destabilizzare la po/lij. 1 Al genere giudiziario (dikaniko_n ge/noj, iudiciale genus) è legata la figura di Lisia, al genere deliberativo o politico (politiko_n ge/noj, deliberativum genus) quella di Demostene e al genere epidittico (e0pideiktiko_n ge/noj, da e0pi/deicij = «dimostrazione, esibizione», demonstrativum genus) quella di Isocrate. 2 Quest’ultima doveva essere presentata per iscritto (gra/fw = “scrivo») e dietro libera scelta del denunciante (particolare non secondario, dal momento che spesso la denuncia poteva essere strumentalizzata per motivi politici). Potevano essere colpiti dalla grafh/ diversi tipi di reato, rientranti tanto nella giurisdizione civile quanto in quella penale: dall’omicidio di un personaggio politico, al reato di empietà, al tentato sovvertimento delle istituzioni, fino alla corruzione in atto pubblico. Forse all’origine di questa seconda procedura giuridica ci fu l’esigenza di tutelare maggiormente i cittadini deboli coinvolti in cause contro qualche potente: in questo modo, infatti, la persona che avesse voluto sporgere denuncia per un qualsiasi danno ricevuto ma non si sentisse in grado di vincere la causa, poteva indurre una terza persona, più autorevole, a sporgere denuncia in vece sua per iscritto, trasformando in pratica la causa da privata in pubblica. La pratica della grafh/, cardine di uno stato democratico come quello ateniese, si prestava però al rischio che alcuni personaggi privi di scrupoli, delatori di professione, si dedicassero a tempo pieno all’attività di denuncia, con la speranza di riceverne vantaggi economici. La legge ateniese, infatti, prevedeva che, qualora la causa si fosse conclusa con la condanna dell’accusato, colui che aveva sporto denuncia pubblica incamerasse la quinta parte dei suoi beni (non è un caso che le persone accusate fossero quasi sempre dotate di un ingente patrimonio familiare). Inoltre, poteva accadere che i delatori fossero indotti alla denuncia – e adeguatamente ricompensati – da qualche ricco uomo politico che intendeva in tal modo rovinare o quantomeno mettere in cattiva luce di fronte all’opinione pubblica un suo avversario. Ma la delazione poteva fungere anche da strumento di ricatto nei confronti degli accusati, i quali spesso, messi con le spalle al muro, per non vedere infangata la loro immagine, erano costretti a versare forti somme nelle tasche dei delatori per indurli a ritirare la denuncia. Queste figure poco raccomandabili, malviste dalla collettività per la loro spregiudicatezza e disonestà, erano definite sukofa/ntai, termine la cui origine è piuttosto incerta (vedi Lessico, s.v.). Allo scopo di frenare la loro attività, era stata varata una legge secondo la quale, se l’accusatore non avesse ottenuto dai giudici almeno un quinto dei voti favorevoli al termine del processo, era obbligato a pagare una somma di 1000 dracme. Peraltro la legge non dovette avere un effetto decisivo sul fenomeno dei sicofanti: infatti, visto e considerato che essi avevano quasi sempre alle spalle uomini ricchi e potenti, l’eventuale multa loro inflitta sarebbe stata pagata senza troppa difficoltà proprio da questi ultimi. Le procedure della di/kh e della grafh/ non ne escludevano altre per così dire “di emergenza”, come l’a0pagwgh/, ossia l’arresto sul posto del reo colto in flagrante, che veniva consegnato immediatamente al magistrato per essere poi tradotto in carcere (desmwth/rion); oppure, l’e0fh/ghsij, in cui il magistrato si recava (e0 f hge/ o mai) personalmente sul posto per procedere all’arresto; o ancora, l’e!ndeicij, consistente in una denuncia al magistrato, allo scopo di procedere all’arresto del reo. Qualunque causa, pubblica o privata che fosse, veniva preliminarmente esaminata dall’arconte re (a!rxwn basileu/j), il quale valutava l’attendibilità e l’entità delle prove addotte dalle due parti, accusa e difesa. Quindi, decideva se inoltrare o meno la pratica al tribunale (dikasth/rion) competente in materia (si concludeva così la fase del processo che con termine moderno potremmo definire “istruttoria”). - www.loescher.it/mediaclassica - 3 Per i casi di omicidio (fo/noj), la cui legislazione risaliva ai tempi di Dracone, esistevano ad Atene ben cinque tribunali specializzati, su cui siamo ben informati grazie alla Contro Aristocrate di Demostene (per la quale vedi Appendice). 1. L’Areopago ( 1 A reioj pa/ g oj = “colle di Ares», situato di fronte all’acropoli). Tradizionalmente la roccaforte del conservatorismo, a cui in origine avevano accesso solo i membri delle famiglie aristocratiche (i cosiddetti “eupatridi”), a partire dal 462 a.C. si aprì a tutti i cittadini eletti a sorteggio: giudicava sul “delitto premeditato o volontario» (fo/noj e0k pronoi/aj o e0kou/sioj), sulle “ferite procurate con l’intento di uccidere» (trau=ma e0k pronoi/aj), sull’“avvelenamento» (farmakei/a) e sull’“incendio» (purkaia/). Cfr. Dem. Contro Arist. 222. Pare che contro le decisioni dell’Aeropago non fosse possibile appellarsi in alcun modo, come dimostra la testimonianza di Demostene (Contro Aristocrate, 67): «[…] l’Aeropago è il solo tribunale in cui né un accusato condannato, né un accusatore respinto hanno mai sporto querela per l’ingiustizia del verdetto pronunziato» (trad. M.R. Pierro). 2. Il Palladio (Palla/dion): giudicava del “delitto non premeditato o involontario” (oggi diremmo “colposo”: fo/noj mh\ e0k pronoi/aj o a0kou/sioj). Cfr. Dem. Contro Arist. 71-72 (vedi Appendice). 3. Il Delfinio (Delfi/nion): giudicava del delitto detto “legittimo” (fo/noj di/kaioj) che non veniva perseguito dalla legge e consisteva nell’uccidere involontariamente nel corso dei giochi oppure per legittima difesa, o per difendere l’onore della propria moglie, figlia, sorella, o concubina. Così Demostene riporta le disposizioni di Dracone in materia (Contro Arist. 53 e 60)3: «Se uno uccide involontariamente un avversario durante i giochi o uno sconosciuto in seguito ad una rissa sulla strada, o un soldato, in guerra, per errore, o un uomo colto in flagranza di delitto con la moglie, la madre o la sorella o la figlia o la concubina che egli ha preso per avere dei figli liberi, per questi motivi l’autore dell’omicidio non sarà esiliato come un comune assassino. […] E se uno uccide senza premeditazione, per difendersi, colui che lo depreda violentemente e ingiustamente dei suoi averi, l’omicidio non sarà perseguito» (trad. M.R. Pierro). 4. Il Pritaneo (Prutanei=on): giudicava i delitti compiuti da ignoti o la morte procurata da animali o oggetti. Cfr. Dem. Contro Arist., 76 (vedi Appendice). 5. Il Freatto (Freattu/j o Freattw/): giudicava i delitti volontari di cui si era macchiato chi si trovava in esilio per aver precedentemente commesso un delitto non premeditato o involontario. È interessante la procedura che veniva messa in atto in questo caso: l’accusato veniva 2 3 Cfr. anche Dem. Contro Arist. 65-69 (vedi Appendice). Cfr. anche Dem. Contro Arist. 74 (vedi Appendice). - www.loescher.it/mediaclassica - 4 processato fuori della città, in riva al mare (Freatto o Freatti, in greco Freattu/j, era il nome di una località del Pireo) ed era costretto a sostenere la sua difesa stando su una barca ancorata alla spiaggia, onde evitare di contaminare la terra patria con la macchia (mia/sma) dovuta al suo precedente omicidio. Cfr. Dem. Contro Arist., 77-78 (vedi Appendice). Quest’ultima pratica è assai significativa, perché serve a farci comprendere come all’omicidio, volontario o involontario che fosse, venisse attribuita una valenza religiosa: chi se ne macchiava, era considerato impuro, e dunque indegno di vivere all’interno della comunità, che correva il rischio di essere contaminata dalla presenza di un uomo in odio agli dei. Per i congiunti dell’ucciso, poi, era considerata empietà avere a che fare con l’omicida, o anche solo rivolgersi a lui, a meno che non fosse per recargli danno. È quello che dice Lisia nella Contro Eratostene (cap. 24), quando decide di far salire sulla tribuna (bh=ma) il suo avversario Eratostene, che lui accusa di aver ucciso suo fratello Polemarco: «Voglio farlo salire sulla tribuna e interrogarlo, giudici. Ho infatti un’opinione di questo tipo: penso che sia una cosa empia (a0 s ebe/ j ) parlare di lui, nel suo interesse, sia pure con un altro, mentre ritengo cosa santa e pia, per la sua rovina, parlare proprio con lui in persona. Sali dunque e rispondi a ciò che ti chiederò» (trad. C. Castelli). Alla luce di questo modo di concepire il diritto in stretto rapporto con la sfera religiosa possiamo anche più facilmente capire la ragione per la quale le leggi sull’omicidio si conservarono praticamente inalterate dai tempi di Dracone fino almeno al IV sec. a.C. (epoca a cui risale la Contro Aristocrate di Demostene): esse erano infatti sentite come sacre, divine, e dunque intoccabili. Tutti i tipi di reato che non comportassero l’uccisione di persone si trovavano invece sotto la giurisdizione dell’Eliea ( 9Hliai/a), tribunale popolare istituito da Solone composto da 6000 cittadini di età superiore ai trent’anni, scelti a sorteggio annualmente, divisi per tribù in dieci sezioni di 500 uomini ciascuna più 1000 di riserva. Una volta che l’arconte re aveva accolto la denuncia e istruito la causa, la parte lesa o accusatore (kath/goroj o o( kathgorw=n o o( diw/kwn) e l’imputato (o( kathgorou/menoj o o( feu/gwn) si ritrovavano nel tribunale di competenza e affrontavano in prima persona. l’agone processuale, alla presenza di giudici (dikastai/), sorteggiati tra i cittadini che si rendevano disponibili (nell’Eliea fin dalla sua istituzione; nell’Aeropago, come detto, a partire dal 462 a.C., in seguito alle radicali riforme istituzionali volute da Efialte). In origine, la funzione di giurato non veniva ricompensata in alcun modo; fu Pericle a introdurre il pagamento di due oboli giornalieri per gli Eliasti, vuoi per premiare i cittadini che si dedicavano a una attività meritoria per la vita democratica dello stato oltre che di grande responsabilità, vuoi forse per scoraggiare possibili tentativi di corruzione dei giudici da parte delle parti in causa. Il successore di Pericle, il demagogo Cleone, aumentò il misqo/j (“compenso”) a tre oboli con un provvedimento che, stuzzicando l’avidità dei cittadini, finì per provocare una vera e propria mania dei processi, efficacemente testimoniata dal comico Aristofane (Vespe, vv. 86-112): - www.loescher.it/mediaclassica - 5 «Ma se davvero volete saper qual è la malattia del padrone, fate silenzio: ve la dirò. È maniaco dei tribunali [Filhliasth/j], come nessuno al mondo: è la sua passione fare il giudice [dika/zein]; e si lamenta se non siede in prima fila. E di notte non prende sonno neppure un momentino; e se chiude gli occhi, sia pure per un attimo, il suo pensiero vola di notte intorno alla clessidra [kleyu/dra]. Abituato com’è a tenere in mano il ciottolo per il voto [yh=foj], si alza stringendo le tre dita, quasi dovesse porre l’incenso sull’altare il primo giorno del mese. E, per Zeus, se vede scritto su di una porta “Viva Demo” – il figlio di Pirilampo – ci va a scrivere accanto: “Viva la Legge!”. E se il gallo canta non appena si fa notte, dice che lo ha svegliato in ritardo, perché s’è lasciato corrompere: ha preso denaro dai magistrati che presentano il rendiconto. E, subito dopo cena, reclama urlando le scarpe; e, giunto laggiù, si addormenta sul far del giorno, attaccato alla colonna come un’ostrica. Ha un caratteraccio… infligge a tutti il massimo della pena, e se ne torna a casa come un’ape o un calabrone: con le unghie impiastricciate di cera4. Per timore di restare senza ciottoli con cui emettere sentenze, si tiene in casa una spiaggia. “Siffatti sono i suoi vaneggiamenti; ammonito!”, sempre più fa il giudice» (trad. G. Mastromarco). Le due parti in causa potevano avvalersi, qualora non si ritenessero in grado di organizzare efficacemente la propria linea di difesa (a0pologi/a) o di accusa (kathgori/a, ai0ti/a), della collaborazione dei cosiddetti logografi (logogra/foi), i quali, dotati di specifiche competenze nel campo del diritto e soprattutto dell’arte oratoria, si assumevano dietro compenso il compito di scrivere il discorso che i loro “assistiti” avrebbero dovuto poi pronunciare in tribunale ricordandolo a memoria. All’attività di logografo è legata soprattutto la fortuna di Lisia, ma anche altri grandi oratori, come Isocrate e Demostene, che si distinsero rispettivamente nell’oratoria epidittica e in quella politica, vi si dedicarono, anche se vi furono spinti più che altro dalle contingenze5. Chi non fosse stato in grado di pronunciare il discorso, per ragioni di età (troppo giovane o troppo vecchio) o a causa di menomazioni fisiche o psichiche, poteva essere sostituito da un membro della famiglia nelle cause private (di/kai) e da un “patrocinatore” (sunh/goroj), di solito una personalità di un certo prestigio e autorità, nelle grafai/. Tanto nella prima quanto nella seconda circostanza, colui che prendeva la parola al posto della parte in causa, poteva pronunciare un discorso precedentemente elaborato da un logografo. Quanto detto sarebbe di per sé sufficiente per comprendere la differenza tra un logografo del V-IV sec. a.C. e un avvocato dei nostri giorni, ma su due punti è bene soffermare maggiormente l’attenzione: 1. il logografo scriveva un discorso destinato a essere pronunciato da altri in tribunale e dunque aveva l'esigenza di tagliarlo su misura per colui che glielo commissionava; la fama di Lisia, per 4 Secondo una procedura in uso, la condanna al massimo della pena veniva indicata dal giudice su una tavoletta di cera tracciando con le unghie una linea lunga; la condanna al minimo della pena era invece indicata tracciando una linea corta. 5 Demostene si dedicò con successo al genere giudiziario nel periodo del suo apprendistato giovanile, indirizzatovi anche dalla necessità di recuperare il suo patrimonio illegittimamente usurpato dal suo tutore (e cugino) Afobo. Isocrate vi fu costretto dalla necessità di far fronte alle difficoltà economiche seguite alla rovina della fortuna del padre dopo la guerra del Peloponneso e non pare aver ottenuto in questo campo grandi soddisfazioni. - www.loescher.it/mediaclassica - 6 esempio, è legata alla sua abilità nell’immedesimarsi nella personalità del suo “cliente”, adattando a essa lo stile della propria argomentazione (si tratta della cosiddetta h0qopoii5a, lett. “rappresentazione del carattere”) 2. il logografo sapeva di avere a che fare con una platea di giudici fatta di cittadini comuni, sprovvista di competenze approfondite nel campo giuridico e dunque, piuttosto che snocciolare una serie di articoli della legislazione (no/moj) vigente a sostegno delle sue argomentazioni, faceva leva sulla capacità di persuadere l’uditorio ricorrendo a tutti i mezzi retorici atti allo scopo. Questo da una parte spiega perché i logografi erano più che degli esperti di diritto, degli uomini provvisti di un ampio background culturale e perfetti conoscitori della retorica, ossia dell’arte della persuasione; dall’altra serve a giustificare il frequente ricorso (attestato anche per Lisia) ad argomenti capziosi e palesemente contrari alle norme in vigore: chi, infatti, avrebbe potuto contraddirli se solo pochi erano a conoscenza di ciò che prevedeva la legge? Non era raro, poi, imbattersi in quelli che potremmo definire “difetti di legislazione”, che consentivano ai logografi di manipolare più facilmente l’opinione dei giurati, alla cui discrezionalità era affidata la decisione finale. Non è un caso che nel suo trattato La Retorica (1354a-b), Aristotele, ben consapevole dei condizionamenti a cui le giurie potevano essere sottoposte e della loro necessità di decidere in poco tempo, sosteneva che la legge dovesse tendere a definire tutti i casi possibili: «Soprattutto, leggi formulate correttamente dovrebbero esse stesse definire, per quanto possibile, tutti i casi, e lasciare quanto meno possibile alla discrezione dei giudici, in primo luogo perché uno o pochi uomini assennati e in grado di legiferare e giudicare sono più facili a trovarsi che non molti; in secondo luogo le legislazioni sono il risultato di riflessioni protratte nel tempo, mentre le sentenze vengono emesse sul momento, e di conseguenza è difficile che i giudici possano stabilire correttamente ciò che è giusto e opportuno. Tra tutte, però, la ragione più importante è il fatto che il giudizio del legislatore non è rivolto al caso particolare, ma riguarda il futuro e l’universale, mentre chi è membro di un’assemblea popolare o giudice decide di questioni presenti o specifiche: costoro spesso sono influenzati da amicizia, odio e interesse privato, sicchè non possono più vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale. Quanto al resto, dunque, come si diceva, si deve abbandonare all’autorità del giudice il minor numero possibile di questioni; quanto invece che una cosa sia avvenuta o non sia avvenuta, che avverrà o non avverrà, che sia o non sia in un dato modo, è necessario lasciarlo alla discrezione dei giudici, perché non è possibile che il legislatore possa prevederlo» (trad. M. Dorati). Prima di prendere la parola, le controparti prestavano un giuramento, detto diwmosi/a, in cui si impegnavano a dire la verità e a non uscire dai confini della causa. Un tipo particolare di giuramento, riservato però ai soli processi per omicidio, era la diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj, lett. “giuramento sulla (propria) rovina”, con cui chi lo prestava invocava, in caso di dichiarazioni mendaci, la rovina su se stesso, sulla propria stirpe e sulla propria casa. - www.loescher.it/mediaclassica - 7 Data la composizione popolare delle giurie, i tempi del processo dovevano necessariamente essere molto brevi: di norma, il processo si esauriva nell’arco della giornata (quanta differenza rispetto ai procedimenti giudiziari dei nostri giorni, che durano talvolta parecchi anni!). Tanto l’accusa quanto la difesa avevano diritto di pronunciare un’arringa che poteva durare da un minimo di 20 a un massimo di 50 minuti e a entrambe le parti era di solito consentita una replica (u3steroj lo/goj), della durata di circa 10 minuti. Entrambe le parti potevano procedere, durante il discorso, alla lettura delle leggi (talvolta indispensabile per le ragioni di scarsa preparazione in materia della giuria di cui abbiamo parlato sopra) e potevano addurre testimoni (ma/rturej) a proprio favore. Sia durante la lettura delle leggi che durante l’interrogazione dei testimoni il tempo, che veniva misurato con la clessidra ad acqua (kleyu/dra), veniva fermato. Era possibile utilizzare anche la testimonianza degli schiavi, purchè venisse ottenuta sotto tortura. Lo testimonia l’oratore Antifonte, il quale, coinvolto in prima persona in un processo da lui intentato contro la propria matrigna, accusata di aver provocato la morte di suo padre, si esprime a un certo punto in questi termini: «E non vorrà affermare (sc. il fratellastro dell’oratore, che aveva preso le difese della madre) di saper bene che sua madre non uccise nostro padre; perché quando aveva la possibilità di sapere con certezza mediante la tor tura (para\ th=j basa/nou) deg li sch iavi, non ha voluto» (Antifonte, Contro la matrigna, 6; trad. M. Marzi). Una volta ascoltate le parti, i giudici emettevano il verdetto (yh/fisma) attraverso una votazione, che era segreta e avveniva immediatamente dopo l’ascolto delle parti, senza che i giurati si riunissero e senza dunque alcun dibattito che servisse a pronunciare una sentenza condivisa. Ciascuno dei giudici «possedeva due gettoni, uno bucato per la condanna, e uno intero per l’assoluzione. Quello valido per il voto veniva deposto in un’urna di bronzo detta ku/rioj a0mforeu/j; l’altro, entro un’urna di legno (a1kuroj a0mforeu/j), serviva al riscontro dei votanti» (Castelli, p. 18). Se per l’imputato c’era l’assoluzione (a0po/lusij), il processo era terminato, se invece era sancita la condanna (kata/gnwsij), i giudici procedevano alla somministrazione della pena (zhmi/a o e0pitimi/a). Se il reato non rientrava tra quelli previsti dalla legge, la pena era stabilita dai giudici dopo una discussione e dopo aver ascoltato le proposte delle controparti. In questo caso il processo si definiva a0gw\n timhto/j, in cui cioè è necessaria una valutazione (tima/w) da parte dei giudici in merito alla pena da infliggere. Se invece il reato era compreso tra quelli contemplati dalla legislazione, si comminava la pena prevista per quel tipo di reato e il processo prendeva il nome di a0gw\n a0ti/mhtoj. Le pene potevano andare dalla condanna a morte (qa/natoj) per l’omicidio volontario o per crimini commessi contro lo stato, come il sovvertimento delle istituzioni o il reato di empietà (a0se/beia), all’esilio (fugh/) e alla confisca dei beni per la “lesione premeditata” (trau=ma e0k pronoi/ a j) o per l’omicidio involontario, alla perdita dei diritti civili (a0timi/a) per chiunque si - www.loescher.it/mediaclassica - 8 macchiasse di omicidio, di qualunque tipo esso fosse e in qualunque circostanza6, fino al pagamento di forti somme di denaro (zhmi/a). Tra le pene capitali, una consisteva nella condanna a bere la cicuta (kw/neion), un’erba velenosa che provoca l’arresto della circolazione del sangue, prevista, in alternativa alla precipitazione, per il crimine di empietà. Rispetto alla precipitazione, che avveniva in pubblico e aveva una spettacolarità di gran lunga superiore, la morte per mezzo della cicuta era di solito riservata ai ricchi (infatti la cicuta era molto costosa e le spese per acquistarla ricadevano sulla famiglia del condannato) o a quegli avversari politici che si volevano togliere di mezzo in sordina, senza destare troppo clamore. Non a caso fu eliminato in questo modo nel 399 a.C. un personaggio scomodo come Socrate, accusato di non credere negli Dei della Città e di corrompere i giovani con la sua dottrina (due capi di imputazione che rientravano nel crimine più generale di empietà). Anche il fratello di Lisia, Polemarco, fu ucciso dai Trenta, avidi di impossessarsi delle sue ricchezze, con la stessa subdola procedura (Contro Eratostene, 17): «A Polemarco i Trenta diedero l’ordine che veniva solitamente impartito a quel tempo, quello di bere la cicuta (pi/nein kw/neion), senza dirgli il motivo per cui doveva morire, tanto egli fu lontano dall’essere processato e dal potersi difendere» (trad. Castelli). Appendice L’orazione Contro Aristocrate, documento importante dell’attività di logografo di Demostene, scritta intorno al 352 a.C. per un certo Euticle, rappresenta un atto di accusa nel confronti di Aristocrate, il quale aveva fatto approvare un decreto che concedeva una sorta di inviolabilità a Caridemo, personaggio a noi poco noto, ma a quel tempo conosciuto per essere il capo di truppe mercenarie al servizio di Atene. Secondo il decreto, chiunque lo avesse oltraggiato avrebbe dovuto essere condannato all’esilio e considerato fuorilegge. Il provvedimento era palesemente illegale e Demostene, nella prima parte del suo discorso, lo dimostra invitando i giudici a un confronto con le leggi draconiane, di cui vengono ripresi ampi stralci, decisivi per la ricostruzione della legislazione ateniese in materia di omicidio. È consigliabile la lettura dell’intera orazione (la XXIII del corpus Demosthenicum), di cui si riportano di seguito alcuni passi tratti dai parr. 65-78, in cui Demostene descrive le prerogative e il funzionamento dei tribunali ateniesi che giudicano dei diversi tipi di omicidio: «[65] Noi, Ateniesi, abbiamo dato a Caridemo il titolo di cittadino e, con questo privilegio, lo abbiamo reso partecipe dei nostri costumi religiosi e civili, delle 6 Cfr. Demostene, Contro Aristocrate, 62: «Chiunque, magistrato o cittadino, violerà o muterà queste leggi (le leggi sull’omicidio), sarà proscritto con i suoi figli e i suoi beni» (trad. L.Pepe); ma il termine preciso per l’espressione «sarà proscritto» è a1timoj: la condizione di a0timi/a, come spiega Guidorizzi, comprende «non solo la perdita dei diritti di cittadinanza attivi e passivi, ma altresì il fatto di essere dichiarato fuorilegge e di non ottenere più protezione dalla po/lij; come accadeva a Roma all’homo sacer, l’a1timoj poteva essere ucciso da chiunque».(p. 901, n. 9). - www.loescher.it/mediaclassica - 9 nostre leggi e di tutto quello che noi stessi abbiamo in comune. Vi sono da noi molte istituzioni tali quali altrove non ne esistono; ma ce n’è una, la più veneranda fra tutte, che a noi soli appartiene, ed è il tribunale dell’Areopago. Non esiste nessun altro tribunale in onore del quale si siano trasmesse tante nobili storie: alcune ormai leggendarie, altre che hanno avuto noi stessi come testimoni […] [66] […] Oltre a queste considerevoli prerogative, l’Areopago è il solo tribunale in cui né un accusato condannato, né un accusatore respinto hanno mai sporto querela per l’ingiustizia del verdetto pronunciato. [67] […] Voi tutti sapete certamente che nell’Areopago, dove la legge consente ed impone che venga giudicato l’omicidio, per prima cosa colui che presenta un’accusa così grave giurerà invocando la rovina sua, della sua famiglia e della sua casa [si tratta della diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj]. [68] e poi non pronuncerà il giuramento nella forma ordinaria: per cominciare, non nella posizione che viene naturale, ma come non si giura in nessun altro caso, stando in piedi sulle carni delle vittime – un capro, un ariete, un toro – immolate da persone qualificate e in giorni fissati, in modo che, quanto al tempo e ai ministri del sacrificio, si rispettino tutte le norme del rito. Inoltre, colui che ha pronunciato tale giuramento non è ancora creduto sulla parola, e se si scopre che ha mentito, avrà ottenuto solo di far ricadere lo spergiuro sui suoi figli e sulla sua discendenza. [69] Qualora poi risulti che l’accusa è fondata, ed egli riesca a far condannare l’autore del delitto, neppure in questo caso può disporre della sua persona, ma sono le leggi e, con le leggi, coloro a cui spetta l’esecuzione della sentenza, che hanno il potere di punirlo. A lui, l’accusato, è permesso di assistere all’esecuzione della condanna inflitta dalla legge, niente di più. Questo è quanto concerne l’accusatore. Per l’accusato, la forma del giuramento è la stessa, ma egli ha il diritto di andare in esilio dopo avere pronunciato il primo discorso di difesa, senza che né l’accusatore, né i giudici, né alcun altro possano impedirglielo. […] [71] C’è poi un secondo tribunale, il Palladio, quello che giudica gli omicidi involontari […]. Anche lì la stessa procedura: prima il giuramento, poi il dibattito e infine la sentenza del tribunale. […] [72] Che colui che è stato condannato per omicidio involontario abbandoni il paese entro un termine stabilito, seguendo un percorso prescritto, e rimanga in esilio finché non sarà stato perdonato da un parente della vittima. Allora gli è consentito tornare, non in un modo qualsiasi, ma seguendo certe regole: la legge impone che egli faccia dei sacrifici, delle purificazioni e adempia ad altri obblighi che vengono ben definiti; ed è molto giusta la legge, Ateniesi, in tutte le sue prescrizioni. [73] È giusto infatti stabilire per le colpe involontarie una pena minore che per quelle volontarie ed è giusto infliggere l’esilio solo se vengono garantite le condizioni di sicurezza per la partenza; ed è anche una cosa buona che l’esule al suo ritorno compia dei sacri riti e si purifichi secondo certe norme tradizionali, e che le leggi siano sovrane ovunque. […] [74] Esiste poi un terzo tribunale, il più sacro e il più temuto di tutti, per i casi in cui uno confessi il delitto, ma dica di averlo commesso in modo legittimo: il - www.loescher.it/mediaclassica - 10 Delfinio. A me sembra, o giudici, che quelli che alle origini definirono il diritto in questa materia, per prima cosa si siano posti il problema se nessun omicidio debba considerarsi legittimo, o se si diano casi in cui esso è giustificabile […] e hanno stabilito che possono verificarsi casi di omicidi legittimi […]. Giunti a questa convinzione, essi hanno subito stabilito e definito con chiarezza i casi in cui l’omicidio è legittimo. […] [76] Esiste un quarto tribunale, quello del Pritaneo. Di che si occupa? Se una pietra, un pezzo di legno o di ferro o un altro oggetto del genere cade su un passante colpendolo, qualora si ignori l’autore del gesto, ma si conosca e si possieda l’oggetto che ha causato la morte, per tali casi si fa il processo davanti ai giudici che siedono in questo tribunale. [77] Considerate ancora le prerogative del quinto tribunale che egli (s c. Aristocrate) ha disprezzato, quello del Freatto. Qui, Ateniesi, la legge dispone che deve essere processato uno che, trovandosi in esilio per un delitto involontario, e non essendosi ancora riconciliato con coloro che hanno causato il suo bando, sia accusato per un altro omicidio, questo volontario. Ora, il legislatore di tutta questa materia, non trascurò certo il suo caso per il fatto che costui non poteva rientrare in patria, né, perché anche prima egli aveva compiuto un delitto dello stesso genere, diede credito ad una analoga accusa contro di lui; [78] ma trovò il modo, l’antico legislatore, di soddisfare al tempo stesso la religione e di non lasciare l’accusato senza difesa e senza una sentenza. Che cosa fece il legislatore? Egli portò i giudici in un luogo accessibile all’accusato, fissando un punto della regione in riva al mare, conosciuto come “il recinto del Freatto”. L’accusato, avvicinandosi alla costa su una barca, pronuncia il suo discorso di difesa, senza toccare la terra; i giudici a terra l’ascoltano ed emettono la sentenza. Se è condannato, subisce giustamente la pena che è dovuta per gli omicidi volontari; se, invece, è assolto, è lasciato libero da questa pena, ma rimane in esilio per l’omicidio precedente» (trad. M.R. Pierro). Altra lettura consigliabile è quella della Contro Eratostene di Lisia, nella quale l’oratore interviene in prima persona probabilmente durante il processo di rendiconto (eu0qu/nai) del 403 a.C.7, in veste di accusatore nei confronti di Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, imputato di aver ucciso il fratello Polemarco nel tormentato periodo in cui Atene, sconfitta nella guerra del Peloponneso, era governata da una commissione di trenta cittadini creata dagli oligarchici con l’appoggio di Sparta (estate 404 – fine 404 o inizio 403). Soprattutto la parte iniziale e quella conclusiva forniscono un bel repertorio del lessico giuridico. Nella sezione seguente, riservata appunto al lessico, nel caso di termini attestati nella Contro Eratostene, si è indicato, accanto al significato, anche il paragrafo (o i paragrafi) dell’orazione in cui essi ricorrono, in modo che sia più agevole ritrovarli nel testo. 7 La datazione proposta pare la più verisimile, ma non abbiamo certezze in merito. Sulla questione, cfr. Castelli, pp. 910. Eu0 q u/ n ai gli Ateniesi chiamavano l’annuale rendiconto a cui si sottoponevano i magistrati al termine del loro mandato, in cui i cittadini potevano presentare accuse e reclami rispetto alla condotta da essi tenuta durante il periodo in cui erano stati in carica. Mentre tutti i loro colleghi erano fuggiti dopo il ritorno ad Atene dei democratici guidati da Trasibulo, solo Fidone e, per l’appunto, Eratostene, fra i Trenta, sarebbero comparsi davanti – pare – all’Eliea per il regolare processo di eu0qu/nai. - www.loescher.it/mediaclassica - 11 Lessico a0gw/n, a0gw=noj, o( : “processo”, in quanto “contesa, lotta” tra accusa e difesa [cfr. a1gw]. Lisia, C.E. 81. a0gw\n timhto/j : “processo da valutare, da rimettere alla valutazione dei giudici” [cfr. tima/w = “stimo, valuto”]; si tratta del processo in cui il reato commesso non è contemplato dalla legge e la pena viene inflitta dai giudici a loro discrezione dopo una valutazione delle circostanze e dopo aver ascoltato le proposte delle parti. a0gw\n a0ti/mhtoj : “processo non soggetto a valutazione”, nel senso che la pena è già stabilita dalla legge e ai giudici non resta che comminarla. ai0ti/a, -aj, h( : “accusa”, pronunciata in tribunale dalla parte lesa (cfr. kathgori/a). Lisia, C.E. 17. a0pagwgh/, -h=j, h( : “arresto”, procedura “di emergenza” secondo la quale il reo colto in flagrante veniva condotto via (a0 p a/ g w) dal luogo del misfatto e portato alla presenza del magistrato. a0pologi/a, -aj, h( : “difesa”, pronunciata in tribunale dall’imputato. Lisia, C.E. 81, 82. (a0pologei=sqai : “difendersi, pronunciare la difesa”. Lisia, C.E. 18, 38). a0po/lusij, -ewj, h( : “assoluzione, proscioglimento dall’accusa”, che poneva fine al processo. (a0polu/ein : “assolvere, prosciogliere”). a0se/beia, -aj, h( : “empietà”, accusa che poteva comportare la condanna a morte per mezzo della cicuta o della precipitazione [a0 priv. + rad. di se/bw = “venero, onoro”]. a0timi/a, -aj, h( : “privazione del possesso dei diritti civili”, che comportava l’esclusione dalla comunità dei cittadini e la perdita di ogni protezione da parte dello stato. In altro contesto, “infamia, disonore, disprezzo”. (a1timoj, -ou, o( : “colui che è privato dei diritti civili”). ba/sanoj, -ou, o( : “tortura”: unico sistema valido per accogliere la testimonianza di uno schiavo. bh=ma, -atoj, to/ : “tribuna”, ossia una piattaforma su cui salivano (a0nabai/nein, a0nabiba/zein) gli accusatori e gli imputati per pronunciare la loro difesa o i testimoni per essere interrogati. gnw/mh, -hj, h( : “sentenza”. Lisia, C.E. 35, 79. grafh/, -h=j, h( : “azione giudiziaria, causa pubblica”, promossa da un cittadino a tutela non dei propri interessi ma degli interessi della cosa pubblica, che doveva essere presentata - www.loescher.it/mediaclassica - 12 per iscritto (gra/fw) e poteva riguardare ogni tipo di reato commesso ai danni della collettività. desmwth/rion, -ou, to/ : “carcere”, lett. “luogo in cui si viene legati” [desmo/j (de/ w ) + -th/rion, suffisso tipico dei nomi di luogo]. Lisia, C.E. 17. dikasth/j, -ou=, o( : “giudice” [dika/ z w = “giudico, sentenzio”]; la parte in causa si rivolge ai giudici solitamente con il vocativo w] a1ndrej dikastai/ (o semplicemente w] a1ndrej). Lisia, C.E. 1, 3, 37, 81, 84. dikasth/rion, -ou, to/ : “tribunale”, lett. “luogo dove si amministra la giustizia” [dika/zw + -th/rion]. di/kh, -hj, h( : “azione giudiziaria, causa privata”, promossa da un cittadino a tutela degli interessi propri e della propria famiglia [dei/ k numi = “mostro”, ma anche “regolo, amministro”]; in altro contesto (morale, politico, filosofico) il termine vale “giustizia”, “diritto”. In ambito giudiziario il termine usato per “giustizia” è invece dikaiosu/nh (Lisia, C.E. 5). di/khn (grafh/n) dika/zein tini/ : “intentare un processo a qualcuno”. Lisia, C.E. 4. di/khn (grafh/n) diw/kein : “intentare un processo”. di/khn dido/nai tini\ u(pe/r tinoj : “pagare il fio a qualcuno per qualcosa”. Lisia, C.E. 37, 82. di/khn feu/gein u(po/ tinoj : “subire un’accusa da parte di qualcuno”. Lisia, C.E. 4. di/khn lamba/nein para/ tinoj : a) “punire qualcuno, dare la pena a qualcuno” (= lat. poenas sumere, punto di vista dell’accusatore). Lisia, C.E. 29, 36, 37, 79, 82, 83, 84, 100; b) “essere punito da qualcuno, espiare la pena” (= lat. poenas dare, punto di vista dell’imputato). diw/kwn, o( : “accusatore”, lett. “colui che insegue”, con metafora tratta dalla sfera della caccia. diwmosi/a, -aj, h( : “giuramento” dell’accusatore e dell’imputato prima dell’avvio del processo [di-o/mnumi]. diwmosi/a kat’ e0cwlei/aj : “giuramento sulla propria rovina” [e0c-o/llumi], un giuramento prestato nelle cause di omicidio, in seguito al quale si invocava su di sé, in caso di spergiuro, la rovina propria, della propria famiglia e della propria casa (e0cw/leian au(tw|= kai\ ge/nei kai\ oi0ki/a)| . Lisia, C.E. 10. e!ndeicij, -ewj, h( : “denuncia”, fatta al magistrato al fine di procedere all’arresto di un reo [e0ndei/knumi = “mostro, indico”]. e0pitimi/a, -aj, h( : “pena” (cfr. zhmi/a); lo stesso termine indica però anche il “possesso dei pieni diritti civili”, in opposizione ad a0timi/a. - www.loescher.it/mediaclassica - 13 e0fh/ghsij, -ewj, h( : “denuncia” di un reato fatta al magistrato, il quale si recava sul posto per procedere all’arresto [e0f-hge/omai = “conduco verso”]. zhmi/a, -aj, h( : a) “pena”, quando ha un senso generale (cfr. e0pitimi/a). Lisia, C.E. 36; b) “multa, pena pecuniaria”, quando ha senso più specifico. h0qopoii5a, -aj, h( : lett. “rappresentazione del carattere”: si tratta della capacità del logografo di immedesimarsi nella personalità del proprio “assistito”, adattando a essa lo stile e le caratteristiche del proprio discorso. qa/natoj, -ou, o( : “condanna a morte”, somministrata in caso di omicidio volontario o di reati volti a colpire lo stato e le istituzioni. kata/gnwsij, -ewj, h( : “verdetto di condanna”. (katagignw/ s kein = “condannare”; ma talvolta, sempre in contesto giudiziario, “accusare, incolpare”). kathgori/a, aj, h( : “accusa”, pronunciata in tribunale dalla parte lesa [cfr. kata-a0 g oreu/ w = “parlo contro”]. Lisia, C.E. 1, 3, 82. kathgorei=n : “accusare, sostenere l’accusa”. Lisia, C.E. 1, 3, 37, 81, 100. kath/goroj, -ou, o( : “accusatore”. Lisia, C.E. 1, 81, 99. kathgorw=n, o( : “accusatore”, lett. “colui che accusa” [kathgore/w]. Lisia, C.E. 2. kathgorou/menoj, o( : “accusato”, lett. “colui che viene accusato” [kathgore/w]; cfr. o( feu/gwn. kleyu/dra, -aj, h( : “clessidra, orologio ad acqua” [kle/ptw (= “sottraggo, porto via”) + u3dwr], che veniva utilizzata durante il processo per calcolare i tempi delle arringhe e delle repliche delle due parti in causa. kri/nein : “giudicare”; talvolta anche “accusare”. Lisia, C.E. 18, 82. ku/rioj a0mforeu/j : lett. “anfora che ha potere”: così veniva definita l’urna in cui venivano deposti i gettoni o le pietruzze valide per il voto, e dunque decisive per il verdetto di assoluzione o condanna. a1kuroj a0mforeu/j : lett. “anfora priva di potere”: così era definita l’urna in cui si deponevano i gettoni o le pietruzze valide soltanto per il conteggio dei votanti e che dunque non avevano alcun effetto sul verdetto finale. kw/neion, -ou, to/ : “cicuta”, bevanda tratta da un erba molto costosa e letale per l’uomo (in quanto provoca l’apoplessia); era la condanna riservata a coloro che erano stati condannati per empietà (a0se/beia). Lisia, C.E. 17. logogra/foj, -ou, o( : “logografo”, lett. “colui che scrive discorsi” [lo/goj + gra/fw] che altri dovranno pronunciare in tribunale dietro compenso. Il termine viene spesso - www.loescher.it/mediaclassica - 14 utilizzato per indicare i primi storici e geografi del VI sec. a.C. (come Ecateo di Mileto), peraltro impropriamente, dato che esso vale più genericamente “scrittore di prosa”. ma/rtuj, -uroj, o(, h(, to/ : “testimone”, addotto dall’accusa o dalla difesa. Durante l’audizione dei testimoni il tempo veniva fermato. mia/sma, -atoj, to/ : “macchia, contaminazione”, di cui era portatore l’omicida, di qualunque tipo fosse l’omicidio da lui commesso (anche non volontario); per evitare che la sua macchia si propagasse nella comunità, egli veniva condannato a morte oppure all’esilio al di fuori dei confini della patria oppure sottoposto ad un complesso rituale di purificazione (kaqarmo/j). misqo/j, -ou=, o( : così era definito l’“onorario” pagato dai “clienti” ai logografi, ma anche il “compenso” giornaliero che la po/ l ij riconosceva ai cittadini che venivano sorteggiati come giurati nei diversi tribunali (nell’Eliea a partire da Pericle). no/moj, -ou, o( : “legge”, lett. “ciò che è attribuito, assegnato a ciascuno” [ne/ m w]; il primo significato di no/moj è “uso, consuetudine”, ed è proprio da una formalizzazione delle abitudini consolidate che nasce la legge. Lisia, C.E. 82. purkaia/, -a=j, h( : “incendio”, reato che, se provocava la morte, era giudicato dall’Areopago ed era passibile di condanna capitale. sukofa/nthj, -ou, o( : “sicofante, delatore”. L’etimologia del termine è piuttosto incerta: secondo Plutarco (Vita di Solone, 24), esso si riferiva originariamente a coloro che denunciavano l’esportazione irregolare di fichi dall’Attica [su=kon = “fico” + fai/nw = “mostro, indico”]. Secondo altri, si trattava di chi denunciava il furto di fichi sacri. E. Pagani e A. Cosattini segnalano come preferibile la soluzione di L. Gernet («Mélanges Boisacq» 1, 1937, p. 393), secondo cui il sicofante è «“colui che mostra i fichi”, mostrandoli nel vestito del delinquente» (Contro Eratostene, p. 22, sotto la nota sukofa/ntai). Lisia, C.E. 5. sunh/goroj, -ou, o( : “patrocinatore, procuratore”, lett. “colui che parla insieme” [su/ n + a0goreu/w], ossia in appoggio della parte in causa; si tratta di un personaggio di un certo prestigio e di una certa esperienza nel campo giuridico, che nelle cause pubbliche (grafai/) poteva essere chiamato a intervenire in tribunale in luogo della parte in causa, quando questa non fosse in grado di sostenere il processo. tekmh/rion, -ou, to/ : “prova”. Lisia, C.E. 33. trau=ma e0k pronoi/aj : “lesione premeditata”, reato che, data la sua volontarietà, veniva giudicato dall’Areopago e poteva comportare la condanna all’esilio o alla confisca dei beni. - www.loescher.it/mediaclassica - 15 u3steroj lo/goj : “discorso successivo, replica”, della durata di circa 10 minuti, che si concedeva alle due parti dopo la pronuncia delle rispettive arringhe; l’ultima parola spettava all’imputato. farmakei/a, -aj, h( : “avvelenamento”, reato che, se conduceva alla morte, veniva giudicato dall’Areopago, e poteva essere punito con la pena capitale. feu/gein : “essere accusato, essere chiamato in giudizio”, spesso con il genitivo di colpa (fo/nou, a0sebei/aj …); in altro contesto, “fuggire” feu/gwn, o( : “accusato, imputato”, “colui che viene chiamato in giudizio” [cfr. feu/gein]; lett. “colui che fugge (dall’accusa)”, con metafora tratta dalla sfera della caccia (cfr. o( diw/kwn). Lisia, C.E. 2, 37. fugh/, -h=j, h( : “esilio” [cfr. feu/gw = “fuggo dalla patria”], condanna che veniva comminata a chi si macchiava di omicidio non volontario. fo/noj, -ou, o( : “omicidio”, reato di cui esistevano diverse forme, giudicate ad Atene da cinque diversi tribunali: fo/noj e0k pronoi/aj o e0kou/sioj : “omicidio premeditato” o “volontario”, giudicato dall’Areopago; fo/noj mh\ e0k pronoi/aj o a0kou/sioj : “omicidio non premeditato” o “involontario”, giudicato dal Palladio; fo/noj di/kaioj : “omicidio legittimo”, giudicato dal Delfinio. (il Pritaneo e il Freatto giudicavano rispettivamente delle uccisioni provocate da animali o cose e degli omicidi di cui si erano macchiati uomini che si trovavano in esilio per aver precedentemente commesso un omicidio involontario). yh/fisma, -atoj, to/ : “verdetto, sentenza”, che avveniva mediante votazione [cfr. h( yh=foj = “pietruzza usata per il voto”]. yhfi/zein : “votare, emettere la sentenza”. th\n yh=fon fe/rein : “dare il voto, emettere la sentenza” (cfr. lat. suffragium ferre). Lisia, C.E. 33, 100. a0poyhfi/zein : “votare a favore, assolvere” (ma talvolta può assumere significato contrario). Lisia, C.E. 34, 90, 100. katayhfi/zein : “votare contro, condannare”. Lisia, C.E. 90, 91, 100. Bibliografia essenziale • H. Bengtson, Storia greca, vol. 1, Bologna (Il Mulino) 1985, traduz. di C. Tommasi (titolo dell’edizione originale: Griechische Geschichte, München, C.H. Beck Verlag, 1965). - www.loescher.it/mediaclassica - 16 • • • • • • C. Castelli (a cura di), Lisia. Contro Eratostene, note al testo di E. Pagani e A. Cosattini, Milano (Signorelli) 1994. G. Guidorizzi, Il mondo letterario greco. Storia civiltà testi, vol. 2 (L’età classica), Milano (Einaudi) 2007, pp.798-925. M.T. Luzzatto, L’oratoria, la retorica e la critica letteraria, in Da Omero agli Alessandrini, a cura di F. Montanari, Roma (La Nuova Italia Scientifica) 1988, pp. 207-256. A.M. Santoro – F. Vuat, a1lfa bh=ta gra/mmata, Corso di lingua e civiltà greca, Esercizi 2, Torino (Paravia) 2007, pp. 305-319. M.R. Pierro (a cura di) Demostene. Contro Aristocrate, in Demostene. Discorsi e lettere, vol. 2 (Discorsi in tribunale), Torino (UTET) 2000. G. Mastromarco (a cura di), Aristofane. Commedie, vol. 1, Torino (UTET) 1983, pp. 456459. - www.loescher.it/mediaclassica -