Modulo 3

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Percorsi tematici
Percorsi tematici
I Percorsi tematici che presentiamo permettono di ampliare il manuale con
unità didattiche costruite sui documenti
presenti nel database Ares (www.laterza.it/scuola/ares/). Tutti i brani presenti
in Ares sono consultabili on line e disponibili in formato Word.
Racconti del diluvio
universale [> Modulo 2]
Il motivo del diluvio, cioè della sommersione di tutte le terre e della conseguente cessazione di ogni forma di vita,
è assai diffuso in molte culture, anche assai lontane nel tempo e nello spazio, ma
tutte caratterizzate da un rapporto importante con il mare e i grandi fiumi. Lo
schema ricorrente è, a grandi linee, lo
stesso: per effetto di una punizione divina tutte le terre vengono sommerse da
una pioggia torrenziale o da un’inondazione; solo una o più coppie umane, avvertite della catastrofe imminente, si salvano su un’imbarcazione e, cessato il diluvio, raggiungono un approdo, rendono omaggio alla divinità e ripristinano il
ciclo della vita.
La più antica testimonianza sull’argomento ci viene da un poema, l’Epopea di
Gilgamesh, che rappresenta l’esempio
più alto della produzione letteraria di
ambiente mesopotamico ed è frutto della fusione di molteplici racconti indipendenti, a lungo trasmessi in forma
orale.
Un altro racconto del diluvio è presente
nella Bibbia e ha per protagonista il patriarca Noè: indubbie sono le affinità tra
la narrazione della Genesi e quella dell’Epopea di Gilgamesh, tanto che si è a
lungo ritenuto che quest’ultima sia stata
fonte per la narrazione biblica. Oggi
questa relazione di dipendenza è messa
in discussione ed è più diffusa l’opinione che il racconto biblico derivi da una
tradizione indipendente, molto antica.
Anche il mito di Deucalione e Pirra, nelle parole dell’erudito e filologo greco
Apollodoro, è un racconto del diluvio.
Questa narrazione presenta notevoli
analogie con l’Epopea di Gilgamesh,
analogie che sembrano avere radice in
un effettivo incontro e scambio culturale verificatosi, nell’VIII-VII secolo a.C.,
nell’Asia Minore frequentata dai Greci.
La presenza dei racconti del diluvio in
diverse culture ha spinto gli studiosi a
cercare conferma nei dati archeologici
di una avvenuta catastrofe naturale. Scavi archeologici condotti in più centri urbani mesopotamici hanno rivelato strati
alluvionali, cioè depositi di detriti trascinati da inondazioni, che hanno fatto
pensare a una grande catastrofe naturale di cui il diluvio di Utnapishtim sarebbe il ricordo. In realtà sembra che si sia
trattato di una serie di episodi locali,
non collegati tra loro, che hanno fornito
all’invenzione letteraria poco più di un
repertorio di immagini e un soggetto da
rielaborare. Anche il racconto della Genesi è stato oggetto di indagini sul campo. In particolare, sulla base della tradizione ebraica che denomina il Monte
Ararat, in Armenia, “Monte di Noè”, si
è voluto identificare in questo massiccio
montuoso, alto più di 5000 m, il luogo
dove l’arca di Noè sarebbe approdata.
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Percorsi tematici
Di ciò non è stata riscontrata alcuna prova concreta.
n Anonimo di Epopea di Gilgamesh
La più antica narrazione del diluvio
n Anonimo di Genesi Il racconto del
diluvio nella Bibbia
n Apollodoro Il diluvio dei Greci
Storie di vivi e di morti
[> Modulo 2]
La percezione egizia della morte oscillava tra due sentimenti contrapposti: da
un lato, una pessimistica rassegnazione
rispetto a un aldilà immaginato come tetro e minaccioso; dall’altro, la visione serena di un aldilà immaginato come un
mondo felice e privo di affanni.
Ad esempio, il Canto dell’Arpista, rinvenuto scolpito sulla parete di un edificio
tombale e databile alla fine del III millennio a.C., invita a non curarsi dei morti, a vivere e a godere della vita poiché
l’ineluttabilità del destino non fa tornare in vita chi è morto: è evidente l’immagine di un aldilà percepito come angosciante e incombente.
Allo stesso modo, nel Dialogo di un disperato con la sua anima, quest’ultima invita l’uomo a desistere dal suicidio, consigliandogli la vita terrena, in cui dilagano ingiustizia e malvagità, perché sicuramente preferibile alla sorte che attende
gli esseri umani dopo la morte.
In esplicita antitesi con la concezione
della morte espressa nei canti precedenti si pone un’iscrizione ritrovata sulla
parete di una tomba tebana del Nuovo
Regno: l’aldilà viene descritto come un
luogo giusto, corretto, privo delle lotte
che invece insanguinano il mondo dei vivi e in cui non ci sono nemici.
La morte non significava per gli Egizi la
scomparsa dalla faccia della Terra: presente con la sua essenza spirituale, con il
suo corpo reso incorruttibile dalla mummificazione, con la sua casa e la sua immagine fissate nella tomba e nella statua,
il defunto continuava a intrattenere rapporti con i vivi. Non si trattava solo degli incontri che avvenivano periodicamente, quando i vivi si recavano al sepolcro per portare offerte e celebrare i
rituali di commemorazione del defunto;
si riteneva, infatti, che i morti interagissero costantemente con il mondo terreno e influenzassero direttamente l’esistenza delle persone con cui avevano
avuto rapporti in vita. La rappresentazione più esplicita dell’idea che il trapassato fosse una personalità viva e attiva era costituita dalla pratica dei rapporti epistolari tra i vivi e i morti: possiamo leggerne un esempio nella Lettera
alla defunta Ankhiry.
n Anonimo di Canto dell’Arpista Che
cosa è avvenuto di loro?
n Anonimo di Dialogo di un disperato
con la sua anima «O mia anima...»
n Anonimo di Tebe Il paese della giustizia
n Anonimo di Lettera alla defunta
Ankhiry I vivi scrivono ai morti
Storie ebraiche
[> Modulo 2]
Le tradizioni relative alle origini di
Israele furono raccolte in alcuni libri
dell’Antico Testamento. Ma i racconti
biblici sono solitamente elaborazioni
posteriori, spesso molto posteriori, agli
eventi narrati e sono dunque basati su
dati incerti e indiretti. Questa distanza
cronologica, accanto all’intento dimostrativo su cui sono modellate le narrazioni, rende piuttosto scarsa la loro attendibilità storica. Il loro valore è dunque di carattere culturale: esse sono l’espressione del modo in cui gli ebrei rap-
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presentavano il loro passato e fondavano il rapporto con il loro Dio e con la loro terra.
Ad esempio, la tradizione secondo cui
Dio scelse Abramo per stabilire con lui
e la sua discendenza un’alleanza eterna,
come leggiamo nella Genesi, aveva un
intento preciso: presentare come un
evento unitario la migrazione nel territorio palestinese delle tribù d’Israele, già
riunite sotto la guida dei patriarchi, e fissare un tempo storico ben preciso per la
formulazione del patto tra Dio e il suo
popolo, che legittimava il possesso della
«Terra promessa» da parte degli ebrei.
Anche le vicende della permanenza degli ebrei in Egitto e del loro successivo
esodo verso la «Terra promessa» costituivano soprattutto il preludio di un
evento fondamentale per la storia d’Israele: il nuovo patto tra Dio e il suo popolo e l’emanazione delle leggi divine
per il governo della comunità, come leggiamo nell’Esodo. Attraverso questo impegno, stabilito una volta per tutte ancor
prima dell’insediamento nella «Terra
promessa», Israele si rappresentava come un popolo già perfettamente definito fin dal principio dalla fede monoteista
e da precise regole religiose, morali e
giuridiche.
Mentre gli ebrei si rappresentavano come un gruppo etnicamente, socialmente
e culturalmente definito fin dalle più
lontane origini, ben diverso era il modo
in cui gli “altri” vedevano gli ebrei. Gli
“altri” erano i sedentari: i contadini e gli
abitanti delle città della Siria e della Palestina, che subivano la pressione, spesso minacciosa, di gruppi di nomadi che
i documenti di quel periodo chiamano
con il termine accadico Habiru. Si è supposto che il nome “ebrei”, la cui origine
è a tutt’oggi incerta, possa derivare da
Habiru. Quindi nella percezione delle
popolazioni cananee del II millennio
a.C. le tribù d’Israele sarebbero confuse
con quelle aggregazioni indistinte di nomadi, vagabondi, banditi che minacciavano costantemente la sicurezza di città
e campagne, come leggiamo in una lettera ritrovata negli archivi egizi di ElAmarna.
La penetrazione delle tribù d’Israele in
Palestina, nella realtà storica, fu un fenomeno lento e tutt’altro che lineare.
Laddove il contesto non era ostile, soprattutto nelle aree meno abitate delle
campagne e negli spazi aperti, l’insediamento dei nuovi venuti si verificò verosimilmente attraverso la fusione con le
popolazioni preesistenti. Inevitabilmente traumatico e violento fu invece l’impatto con le zone più densamente abitate, con i fiorenti centri urbani cananei e
filistei: qui lo scontro diveniva inevitabile. Sono soprattutto questi scontri a caratterizzare, nel racconto biblico del Libro di Giosuè, l’occupazione della «Terra promessa».
n Anonimo di Genesi L’alleanza
n Anonimo di Esodo Il decalogo
n Anonimo di Lettere di Amarna
Ebrei-Habiru
n Anonimo di Libro di Giosuè La
conquista di Gerico
Il mito e la storia
[> Modulo 3]
Il percorso ha come tema centrale il mito, ovvero una narrazione simbolica di
fatti, con la quale gli antichi cercavano di
spiegare ogni aspetto della realtà, dall’origine del mondo alla nascita delle tecniche, al destino che attende l’uomo dopo
la morte. Ad esempio Eschilo, tragediografo greco vissuto ad Atene nel V secolo a.C., cercava di spiegare, attraverso il
mito di Prometeo, non solo la nascita ma
anche le acquisizioni culturali e tecniche
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Percorsi tematici
dell’uomo: Prometeo, proprio per l’aiuto concesso ai mortali, verrà punito da
Zeus.
All’origine del mito c’è spesso una realtà
storica: nella tradizione orale i fatti reali
si trasformano e diventano materia mitologica. Per Diodoro Siculo, ad esempio, il mito di Minosse, re di Creta, figlio
di Zeus ed Europa, era il simbolo della
potenza cretese.
Inoltre, nelle civiltà antiche, la creazione
del mito risponde anche al desiderio di
individuare modelli di comportamento
da seguire: elementi tipici della mitologia sono infatti gli eroi, personaggi dotati di caratteristiche fisiche e morali eccezionali. Benché si tratti di invenzioni
narrative cantate dagli aedi, le gesta degli eroi mitici greci, tramandate nei due
poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, sono
riconducibili a un contesto storico ben
preciso. Dietro le imprese di Odisseo,
infatti, intravediamo le reali esperienze
dei naviganti greci alla scoperta del Mediterraneo, come leggiamo nei versi di
Omero.
n Eschilo Prometeo e i mortali
n Diodoro Siculo Minosse: fra storia e
leggenda
n Omero L’aedo
n Omero Tra Scilla e Cariddi
La pòlis: una città
senza palazzo
[> Modulo 3]
Il percorso ha come tema centrale la pòlis, termine che indicava sia il centro urbano e il suo territorio, sia l’insieme dei
cittadini, ossia degli abitanti della città
che godevano dei diritti politici. Furono
le aristocrazie guerriere, che condividevano un comune stile di vita e gli stessi
ideali cantati da Omero, a valorizzare i
rapporti di uguaglianza tra di loro e a
creare così la nuova forma di governo
collettivo. Un ulteriore passo verso la
formazione di ideali di uguaglianza fu
l’invenzione della falange oplitica, una
tattica militare che prevedeva un blocco
di soldati tutti uguali, che segnò il passaggio dall’eroe aristocratico al soldato
della pòlis, come testimoniano i brani di
Omero e di Tirteo. L’ascesa di nuove
forze sociali tra il VII e il VI secolo a.C.
creò all’interno del corpo civico contrasti – secondo Teognide –, che portarono
all’accentramento del potere politico
nelle mani di singoli individui: i tiranni,
come leggiamo in Aristotele e Diodoro
Siculo. I processi che portarono alla formazione delle pòleis e alla comparsa della tirannide furono sostanzialmente simili in tutto il mondo greco. Ma le forme di governo che si crearono furono
due e diametralmente opposte: l’oligarchia, cioè il governo di pochi; e la democrazia, cioè il governo del popolo.
n Omero I valori aristocratici
n Omero Dall’eroe aristocratico all’oplita. Eroici furori
n Tirteo Dall’eroe aristocratico all’oplita. Fianco a fianco
n Teognide Odio aristocratico
n Aristotele Il tiranno tra dispotismo e
moderazione. Come i despoti orientali
n Diodoro Siculo Il tiranno tra dispotismo e moderazione. Il buon tiranno
La vita quotidiana degli
dèi greci [> Modulo 3]
Le pòleis greche, caratterizzate da una
forte autonomia politica ed economica,
erano spesso in guerra tra loro per interessi contrastanti o per rivalità. Nonostante ciò erano consapevoli di far parte
di un’unica civiltà. Uno dei principali
elementi di coesione per i Greci era si-
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curamente la religione. Gli dèi dell’Olimpo, monte in cui si immaginava vivessero, erano rappresentati in maniera
fortemente antropomorfa, cioè avevano
le sembianze e i caratteri dell’uomo e
provavano i sentimenti, le passioni tipiche dell’uomo. Nell’Odissea di Omero è
descritta la travolgente gelosia del dio
Efesto per il tradimento della compagna
Afrodite con Ares, mentre nell’Iliade la
passione amorosa di Zeus per Era rivela
quanto anche il dio fosse soggetto al desiderio, al pari degli uomini.
Gli dèi greci non vivevano in una dimensione separata e inaccessibile, bensì nello
stesso universo degli uomini: la familiarità con la loro presenza è testimoniata
dal fatto che non esisteva una distinzione
tra spazi sacri e spazi profani; le divinità
non erano lontane, e la loro frequentazione caratterizzava ogni momento e
ogni luogo significativi della vita quotidiana, come leggiamo in Aristotele.
La religione greca non si fondava su una
verità rivelata, non aveva alcun profeta
fondatore, né possedeva alcun libro sacro; non c’era, di conseguenza, bisogno
di sacerdoti. La religiosità greca infatti si
esprimeva essenzialmente nell’osservanza dei culti e dei riti prescritti dalla tradizione. Tra questi riti particolare rilievo
aveva il sacrificio di animali, cui seguiva
un banchetto al quale partecipavano uomini e dèi insieme, come leggiamo nell’Iliade. Nella religione greca, infine, l’aldilà non dispensava né punizioni né ricompense: gli dèi si disinteressavano del
destino ultraterreno dell’uomo. Tutte le
anime dei defunti erano accolte nell’oltretomba, immaginato come un mondo
triste e tenebroso così come testimoniano alcuni versi dell’Odissea.
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Omero Dramma della gelosia
Omero La passione di Zeus
Aristotele Gli dèi in cucina
Omero Placare gli dèi
n Omero Meglio ultimo dei vivi che
primo dei morti
La pòlis degli “uguali”:
Sparta [> Modulo 3]
Un esempio di regime oligarchico è dato
da Sparta. Gli antichi attribuivano le caratteristiche peculiari della pòlis spartana
a un personaggio avvolto nella leggenda:
Licurgo, come racconta Plutarco. In
realtà gli ordinamenti spartani furono il
risultato di un graduale processo, che si
completò nel VI secolo a.C. Un gruppo
esiguo di cittadini, gli spartiati, che negli
ideali di uguaglianza trovavano elementi
di coesione – secondo le parole di Senofonte –, deteneva il controllo economico e politico della città. La loro unica
attività consisteva nell’addestramento
militare: il cittadino spartano, che sin da
bambino era introdotto alla disciplina
militare – secondo le parole di Senofonte –, era innanzitutto un soldato coraggioso e rispettoso dell’onore, così come
emerge dai passi di Erodoto e di Tirteo.
Di contro, la sfera privata aveva un peso
estremamente ridotto, tanto che i pasti,
frugali, erano consumati insieme, come
leggiamo in Plutarco. Le attività produttive erano svolte dagli iloti, i discendenti
delle popolazioni sottomesse dagli Spartani al momento del loro insediamento in
Laconia. Gli iloti vivevano in condizioni
di semischiavitù ed erano costantemente
controllati dagli spartiati, che imponevano loro una condizione di degrado fisico
e morale, come leggiamo in Ateneo e
Plutarco. Altro elemento costitutivo della società spartana era rappresentato dai
perieci, in posizione intermedia tra spartiati e iloti, che abitavano i dintorni della
città. Nonostante il carattere semplice
della vita condotta e la semplicità dell’assetto urbanistico, nelle parole di Tucidi-
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de, la comunità spartana era culturalmente vivace e aperta a influssi esterni,
come leggiamo in Alcmane.
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Plutarco L’azione di un unico uomo
Senofonte Un ideale di uguaglianza
Senofonte L’educazione spartana
Erodoto Eroismo spartano. Vincere
o morire
Tirteo Eroismo spartano. Giovani e
vecchi
Plutarco Le mense pubbliche
Ateneo Un regime basato sul terrore. Un gruppo compatto e pericoloso
Plutarco Un regime basato sul terrore. La missione notturna
Tucidide L’immagine di Sparta
Alcmane Poesie spartane
Il popolo al potere:
Atene [> Modulo 3]
Il processo che portò alla formazione di
un governo democratico ad Atene fu lento. Nel VII secolo a.C. anche Atene era
retta da un governo aristocratico che,
però, fu scosso da una forte crisi economica e sociale. Solone, un arconte di grande
prestigio, introdusse una riforma che
avrebbe dovuto portare la pace sociale.
Ma i provvedimenti da lui presi – secondo
Aristotele – crearono un ordinamento timocratico, cioè basato sul censo, che lasciò insoddisfatti sia i nobili, sia i poveri.
Della difficile situazione approfittò Pisistrato, che, propostosi come difensore degli interessi del popolo, si impadronì del
potere divenendo tiranno della città, come racconta Aristotele. Alla morte di Pisistrato raccolsero l’eredità politica paterna i figli Ippia e Ipparco. Armodio e Aristogìtone, gli uccisori di Ipparco, vengono
ricordati da Ateneo come coloro che abbatterono la tirannide e ripristinarono la
democrazia ad Atene. In realtà fu solo con
le riforme di Clistene che si formò ad Ate-
ne un governo democratico. Tucidide,
uno storico greco del V secolo a.C., nella
sua opera fa pronunciare a Pericle un elogio della democrazia. Indubbiamente un
provvedimento come l’ostracismo, creato
per salvaguardare gli ordinamenti democratici, si trasformò in un’arma politica
per espellere dalla pòlis esponenti di fazioni avverse, come racconta Plutarco.
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Aristotele Autoritratto di Solone
Aristotele Ambiguità di Pisistrato
Ateneo Elogio dei tirannicidi
Tucidide A favore della democrazia:
un modello per tutta la Grecia
n Plutarco L’ostracismo
Gli esclusi dalla pòlis:
gli schiavi [> Modulo 3]
Nella nozione di cittadino proposta da
Aristotele non figura una categoria di
persone: gli schiavi. Gli schiavi, infatti,
non erano cittadini, e non erano nemmeno “persone”.
L’esclusione degli schiavi dalla pòlis era
totale: essi erano considerati tali per natura, come esplicita Aristotele, e poche
erano le voci che si levavano in loro favore, come quella del poeta tragico Euripide. Gli schiavi potevano essere venduti o
comprati come se fossero cose o animali.
Si diceva – come leggiamo in Platone e in
Senofonte – che per ottenere da loro la
massima efficienza fosse appunto necessario impiegare le stesse tecniche che si
usavano con gli animali. Un esempio
lampante di come fossero trattati gli
schiavi si trova nelle Rane di Aristofane,
un commediografo ateniese del V secolo
a.C.: durante i processi, per avvalorare la
propria tesi, si faceva ricorso alla testimonianza dello schiavo estorta sotto tortura, come se il supplizio fosse l’unica via
per far emergere la verità da individui
considerati inferiori. Nemmeno i meteci,
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gli stranieri che abitavano nella pòlis, erano considerati cittadini. Ma essi erano rispettati perché erano individui liberi che
davano un contributo fondamentale alla
vita economica, come testimoniano le
pagine di Senofonte e di Euripide.
n Aristotele Visioni della schiavitù.
Schiavi per natura
n Euripide Visioni della schiavitù.
Umanità schiavile (A)
n Euripide Visioni della schiavitù.
Umanità schiavile (B)
n Platone Come trattare gli schiavi.
Una proprietà difficile
n Senofonte Come trattare gli schiavi.
Cavalli, cuccioli e schiavi
n Aristofane La tortura dello schiavo
n Senofonte La condizione di meteco.
Gli stranieri e il benessere della città
n Euripide La condizione di meteco.
Lo straniero ideale
Una città “senza
donne”: la pòlis greca
[> Modulo 3]
In Grecia la donna libera era definita,
nella sua funzione sociale, dal matrimonio, nel quale svolgeva un ruolo del tutto passivo: era data in moglie dal padre
al marito in seguito a un accordo, che
non richiedeva il suo consenso. La donna arrivava al matrimonio da bambina,
in una condizione intellettuale e psicologica ancora infantile, poiché era cresciuta tra le pareti domestiche senza ricevere un’adeguata istruzione. Inevitabilmente il marito, generalmente molto più
grande, assumeva il ruolo di maestro ed
educatore, come leggiamo in Senofonte.
Nella dimora del padre e poi in quella
del marito, le fanciulle imparavano quello che era ritenuto indispensabile alla loro formazione: cucire, filare e cucinare.
Il divorzio, pur consentito dalla legge,
era biasimato dal costume, tanto che i
mariti si opponevano con forza a tali richieste, come ci racconta Plutarco.
L’uomo invece poteva sciogliere il matrimonio in qualsiasi momento semplicemente ripudiando la moglie. È quanto
accade a Medea, nell’omonima tragedia
di Euripide, che incarna più di ogni altra nella letteratura antica la condizione
femminile: essa è tradita e ripudiata dal
marito Giasone. Le etère erano le uniche
donne che godevano di libertà e tra loro
si trovavano anche donne brillanti e
istruite, come leggiamo nella Lettera di
Teano a Nicostrate.
A Sparta la condizione della donna era
diversa: educata dalla pòlis, il suo compito era quello di generare bambini sani,
destinati a diventare guerrieri coraggiosi e forti. Il loro modo di vita libero ed
estroverso faceva sì che le donne spartane apparissero fiere e poco disposte a
farsi dominare dall’altro sesso, come
racconta Plutarco.
Ma, escludendo il caso limite della donna spartana, in una società come quella
greca, fortemente politicizzata, la donna
non trovava spazio: il suo ruolo nella pòlis si riduceva a strumento di trasmissione del diritto di cittadinanza attraverso
la procreazione di cittadini.
n Senofonte La moglie addomesticata
n Plutarco Quando è la moglie a volere il divorzio
n Euripide Meglio combattere che
partorire
n Teano Dominare la gelosia
n Plutarco Le donne spartane
I Greci, i barbari
e la libertà [> Modulo 3]
Erodoto, storico greco del V secolo
a.C. che raccontò le guerre persiane,
nell’esordio della sua opera fa seguire,
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Percorsi tematici
a una definizione generica e comprensiva di “uomini”, una ripartizione in
due gruppi, Greci e barbari: «Questa è
l’esposizione delle ricerche di Erodoto
di Turi, perché le imprese degli uomini col tempo non cadano in oblio, né le
gesta grandi e meravigliose delle quali
hanno dato prova così i Greci come i
barbari rimangano senza gloria, e inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro» (Erodoto, Storie, Esordio).
I barbari cui Erodoto fa riferimento,
con i quali i Greci si scontrarono, sono
i Persiani. La ripartizione di Erodoto è
indizio di una concezione del mondo e
dell’uomo “ellenocentrica”: l’“identità
greca” costituisce una discriminante che
divide il genere umano in due gruppi.
Tutto il racconto erodoteo si configura
come un raffronto fra due popoli in lotta. Ma il punto fondamentale, la differenza più evidente sta proprio qui: i
Greci sono un popolo, mentre l’impero
persiano, secondo lo storico, è costituito da un’accozzaglia confusa di genti diverse. Nella descrizione delle battaglie
lo stesso Erodoto contrappone sempre
l’ordine greco al caos barbaro. Il carattere universale dell’impero persiano si
riflette nelle parole del re Dario, riportate in un’iscrizione monumentale della
reggia a Susa, capitale dell’impero.
L’imponenza e l’ostentazione del lusso
sono un altro aspetto che caratterizza i
barbari d’Asia e li differenzia fortemente dai Greci, come sottolinea Agamennone, nell’omonima tragedia di Eschilo,
alla moglie Clitennestra. Ma l’elemento
più importante di distinzione tra Greci
e barbari va individuato nella sfera politica: le pòleis greche erano comunità
basate sull’autogoverno dei cittadini,
che teoricamente detenevano tutti gli
stessi diritti; i barbari, invece, si piegavano al volere dispotico di un unico uo-
mo: non erano cittadini ma sudditi, come leggiamo nei Persiani di Eschilo.
n Erodoto Ordine e caos
n Dario I di Persia Il palazzo di Dario
n Eschilo «Drappi non stendere sul
mio cammino...»
n Eschilo I Greci, i barbari e la libertà
Il mestiere di spia
[> Modulo 3]
In quello che potrebbe definirsi l’“ambito dello spionaggio” molti sono gli
esempi riconducibili alla sfera dell’inganno, del tranello, dello stratagemma
in Grecia. Già in Omero un intero libro
dell’Iliade, la cosiddetta “Dolonia”, è
dedicato a una storia di spionaggio: le
spie del campo greco, Diomede e Odisseo, incontrano accidentalmente una
spia del campo troiano, Dolone, che sarà
costretto a rivelare informazioni preziose sui Troiani.
I racconti riferiti allo spionaggio che Erodoto raccoglie sono in gran parte riconducibili alle vicende dell’impero persiano, e in particolare alla necessità dei suoi
sovrani di esercitare un controllo capillare sui vasti territori imperiali. Ad esempio, il re Deioce pur vivendo asserragliato nel suo palazzo a Ectabana dispone di
“occhi e orecchi” che gli consentono di
esercitare un efficace controllo sull’intera regione da lui governata. Inoltre in più
luoghi della sua opera Erodoto indugia
sulla descrizione di metodi per comunicare segretamente. Anche Senofonte,
storico greco vissuto a cavallo tra V e IV
secolo a.C., e Diodoro Siculo, che visse
nel I secolo a.C., si soffermano sulle qualità delle comunicazioni dell’impero persiano, indispensabili per ricevere il prima
possibile informazioni utili.
n Omero Lo scontro delle spie
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Percorsi tematici
n Erodoto Gli occhi e gli orecchi del
re
n Erodoto Messaggi segreti. Una lepre
parlante
n Erodoto Messaggi segreti. Tatuaggi
n Erodoto Messaggi segreti. Sotto la
cera
n Senofonte Più veloci delle gru
n Diodoro Siculo Messaggi acustici
La cerchia di Pericle
[> Modulo 3]
Dall’epitaffio che Tucidide fa pronunciare a Pericle in memoria dei caduti del
primo anno della guerra del Peloponneso si evince la consapevolezza dello statista ateniese di aver reso Atene la città
più colta e civile dell’intera Grecia: «Affermo che siamo il luogo di educazione
dell’Ellade» (II, 41, 1). Plutarco racconta che la politica culturale di Pericle
prevedeva anche un programma di opere pubbliche, che avrebbero procurato
alla città una fama perenne; la direzione
dei lavori fu affidata a Fidia il quale, con
lo storico Erodoto, il tragediografo
Sofocle e l’etèra Aspasia, costituiva una
cerchia di ingegni vicini allo statista ateniese. Il rapporto disinvolto con Aspasia e la politica estera spregiudicata gli
alienarono le simpatie di alcuni concittadini, che lo criticarono duramente come leggiamo in Tucidide, Eupoli e Platone. In particolar modo veniva imputata a Pericle la responsabilità dello
scoppio della guerra contro Sparta: i
malumori dei contadini gravemente
danneggiati dalla guerra sono ben descritti in una commedia di Aristofane.
Nelle rappresentazioni teatrali, infatti,
si aprivano spazi importanti al dissenso
e alla satira. Durante il trentennio in cui
Pericle guidò la città attica, il teatro conobbe un grande sviluppo e giunse a es-
sere un fenomeno di massa, poiché fu
introdotto il theorikòn, un contributo
che permetteva anche ai più poveri di
assistere agli spettacoli. Il teatro divenne così un elemento importante della vita politica ateniese: gli spettacoli infatti
esprimevano i valori fondamentali della
pòlis.
n Plutarco L’Atene di Pericle e Fidia.
Una giovinezza perenne
n Plutarco L’Atene di Pericle e Fidia.
L’artista infamato
n Plutarco Aspasia l’etèra
n Tucidide Giudizi su Pericle. Una
guida autorevole e incorruttibile
n Eupoli Giudizi su Pericle. Il potere
della parola
n Platone Giudizi su Pericle. Un politico corrotto
n Aristofane Proteste in teatro
Perché le guerre?
[> Modulo 3]
Nelle società antiche, e quindi anche nel
mondo greco, la guerra era un’attività
quasi costante. Ad esempio, Atene nel
secolo e mezzo che va dalle guerre contro i Persiani (490 a.C. e 480-479 a.C.)
alla battaglia di Cheronea (338 a.C.) fu
in guerra per più di due anni su tre.
La guerra era considerata una condizione normale dell’esistenza, paragonabile a un fenomeno naturale. In misura
maggiore o minore, tutte le società antiche erano società “guerriere”. Per una
comunità, la guerra era spesso l’unica
occasione di arricchimento. Si combatteva per rapinare e per difendersi oppure, più semplicemente, perché l’arte
della guerra era un ideale, un codice
morale.
Gli storici antichi parlano quasi sempre
di eventi bellici e si soffermano spesso a
considerare le cause dei conflitti.
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Percorsi tematici
Erodoto, per spiegare l’origine profonda dello scontro tra Greci e Persiani, risale, ad esempio, a un passato più o meno leggendario o mitico.
Tucidide, storico greco contemporaneo
di Erodoto, fu l’unico tra gli storici a riflettere in maniera più approfondita sulle cause degli scontri, introducendo una
distinzione di tipo nuovo tra cause immediate e cause profonde del conflitto
che oppose Sparta e Atene per circa 30
anni. Lo stesso Tucidide individua nella
politica imperialistica degli Ateniesi la
causa del massacro compiuto a danno
dei Melii.
n Erodoto Di chi è la colpa?
n Tucidide Dinamismo e immobilismo
n Tucidide Le cause di una grande
guerra
n Tucidide La neutralità impossibile
Il re scelto dal destino:
Alessandro
[> Modulo 3]
La nascita di Alessandro, come quella di
altri personaggi storici che hanno lasciato una forte impronta nella memoria
dell’umanità, si diceva fosse stata accompagnata da segni inconsueti, come
ci narra Plutarco. Si tratta ovviamente di
racconti elaborati successivamente, che
contribuirono a rendere leggendaria la
sua figura. Sicuramente l’aspetto fisico,
la forte personalità, il carattere e il coraggio del Macedone favorirono la creazione di questi racconti, che leggiamo in
Diodoro Siculo. Ma fu l’impresa compiuta in Asia, la spedizione militare contro i Persiani, che consacrò Alessandro
tra gli immortali.
La sequenza ininterrotta delle vittorie dell’armata macedone da lui guidata convin-
se Alessandro della sua natura semi-divina, tanto da farsi proclamare figlio di Zeus
dall’oracolo di Zeus Ammone nell’Egitto
appena conquistato, come racconta Curzio Rufo. Lo stesso autore narra di come,
poi, questa natura divina avrebbe trovato
conferma in un fenomeno inspiegabile
che accadde alla morte di Alessandro.
In Alessandro l’idea di una investitura
divina si associava a quella di impero
universale. Alessandro infatti assunse il
titolo di Gran Re e i contrassegni esteriori tipici dei sovrani persiani, atteggiandosi a loro legittimo successore. La
sua idea di monarchia universale e divina divenne un fattore di coesione tra le
diverse realtà politiche e sociali dell’impero, contribuendo a suo modo al superamento delle differenze locali. La politica matrimoniale fu indubbiamente
una delle strategie messe in campo da
Alessandro per favorire la fusione fra
vincitori e vinti, come racconta Arriano.
n Plutarco La giovinezza di Alessandro. I segni del destino
n Diodoro Siculo Il primato del coraggio
n Curzio Rufo Alessandro dio. Figlio
di Zeus
n Curzio Rufo Alessandro dio. Un fatto miracoloso
n Arriano Nozze esemplari
La scienza
e le macchine
[> Modulo 3]
In età ellenistica si verificarono notevoli
progressi scientifici. Alcune dinastie, come quella dei Tolomei, promossero fortemente la medicina, come racconta Celso. Furono anche costruite nuove macchine, che stupirono i contemporanei e
non smettono di meravigliare i posteri. Si
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Percorsi tematici
tratta di gigantesche macchine belliche,
adoperate soprattutto nell’arte degli assedi, come racconta Plutarco, oppure di
giocattoli straordinari, che miravano a
sorprendere gli spettatori e ad accrescere il prestigio dei loro ricchi possessori,
come leggiamo in Ateneo e Polibio.
Gli scienziati, tuttavia, ritenevano di doversi occupare soprattutto di indagini
teoriche e che l’applicazione tecnica delle loro scoperte non li riguardasse, come
nel caso di Archimede narrato da Plutarco. Era diffusa, in altre parole, la convinzione che la ricerca del progresso tecnico fosse indegna di uno scienziato.
Ciò che distingue la scienza moderna da
quella antica è l’uso del cosiddetto “metodo sperimentale”. Tuttavia, alcuni passi di Vitruvio ed Erodoto mostrano con
chiarezza che la cultura greca non era del
tutto priva dell’idea di esperimento.
n Celso La medicina ellenistica
n Plutarco Il gigante «prendicittà»
n Ateneo Macchine meravigliose. Una
statua automatica
n Polibio Macchine meravigliose. Un’automobile?
n Plutarco Archimede e il disprezzo
per la tecnica
n Vitruvio Gli antichi e l’esperimento.
Per smascherare un imbroglio
n Erodoto Gli antichi e l’esperimento.
Un laboratorio linguistico
Storie di Romolo
[> Modulo 4]
La leggenda delle origini di Roma fu ripetuta infinite volte dagli storici antichi,
in un grande numero di varianti. La storia di Romolo e Remo è anzitutto una
grande avventura, piena di colpi di scena: l’abbandono dei neonati in una cesta
affidata alla corrente del fiume, la lupa
che li allatta, il pastore che li alleva, la
vendetta, la fondazione della città destinata a dominare il mondo... Ma è anche
una vicenda tragica, che culmina nella
rivalità tra i gemelli e nel fratricidio. Fin
dall’antichità, il racconto più famoso è
sempre stato quello di Tito Livio.
Plutarco, inoltre, presenta Romolo come un personaggio quasi divino, il quale, compiuta la sua opera, sarebbe scomparso nel nulla per entrare in una dimensione celeste.
I Romani insistevano sul carattere “aperto” della loro città, fin dalle sue origini,
e garantivano accoglienza agli stranieri
senza preclusioni etniche né sociali.
L’importante era che essi partecipassero
con entusiasmo e con valore alla nascita
della nuova città, come racconta ancora
Plutarco.
n Livio Romolo e Remo
n Plutarco Romolo ascende al cielo
n Plutarco Una città aperta
L’ordinamento sociale
nella Roma arcaica
[> Modulo 4]
Durante il periodo monarchico e nel primo secolo della repubblica lo strato superiore della società romana era costituito dai patrizi. Questi detenevano il
potere economico e dominavano totalmente la vita politica.
L’altro ordine della società romana arcaica era la plebe, esclusa da qualsiasi
partecipazione alla vita politica.
I rapporti tra patrizi e plebei erano regolati dall’istituto della clientela, come leggiamo in Livio. Il cliente contraeva un
rapporto di fedeltà, fides, con un patrizio
e ciò lo obbligava a fornire prestazioni di
lavoro e a sostenere devotamente il suo
protettore: è quanto apprendiamo da un
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Percorsi tematici
articolo di legge; a sua volta, il patrizio offriva al cliente la sua protezione.
Lo sviluppo economico, militare e sociale della Roma arcaica fu la causa del conflitto esploso all’inizio del V secolo a.C.
tra patrizi e plebei. I plebei rivendicavano una maggiore partecipazione alla vita politica e il miglioramento della condizione economica attraverso la cancellazione dei debiti. Lo strumento attraverso cui la plebe raggiunse i suoi obiettivi fu la “secessione”. Il primo grande
successo dei plebei fu la creazione di istituzioni proprie come il tribunato della
plebe, come racconta Livio; il secondo
fu la redazione delle prime leggi scritte,
le Dodici Tavole. Solo nel 367 a.C., con
le leggi Licinie-Sestie, ai plebei fu riconosciuto il diritto di accedere al consolato.
Ma questa parificazione non pose fine
agli squilibri sociali. Si formò infatti una
nuova oligarchia, composta dai patrizi e
dai plebei più ricchi e potenti. La società
romana ebbe ora dei nuovi protagonisti:
i nobili.
I nobili sono tali perché possono vantare antenati illustri, che hanno ricoperto
magistrature importanti. Per questo,
nelle loro dimore, hanno grande risalto i
ritratti (imagines) degli antenati, che testimoniano l’importanza di una famiglia
nobile nella storia della città, come racconta Polibio.
n Livio Patroni e clienti. Claudio e il
suo seguito
n Anonimo di Fontes Iuris Romani
Antejustiniani Patroni e clienti. Un
rapporto basato sulla fides
n Livio La prima secessione e il tribunato della plebe
n Anonimo di Dodici Tavole Le Dodici Tavole
n Polibio Quando muore un nobile
Le donne a Roma
[> Modulo 4]
La condizione della donna romana era per
molti aspetti simile a quella della donna
greca. Prima di esaminare i documenti relativi alle donne romane è necessario precisare, tuttavia, che le fonti antiche ci presentano molto spesso un quadro idealizzato della condizione femminile. Gli storici, in particolare, amavano celebrare l’esempio di donne eccezionali, proposte come modello di virtù. Spesso attorno a questi personaggi femminili ruotavano avvenimenti fondamentali della storia di Roma. L’episodio di Lucrezia è uno dei più
emblematici: la nobile matrona romana
infatti, dopo essere stata oltraggiata dal figlio di Tarquinio il Superbo, si libera dal
disonore uccidendosi. L’episodio viene
presentato da Livio come la causa principale della caduta della monarchia.
Come testimoniano le numerose iscrizioni funebri giunte sino a noi, la donna
ideale doveva possedere virtù quali la
castità, la laboriosità, l’amore per la casa, il coraggio nel mettere al mondo i figli, la capacità di allevare i figli, la devozione verso il marito.
L’amore tra i coniugi era a Roma una circostanza fuori dal comune, quasi un
evento eccezionale, come racconta Valerio Massimo; Porcia, figlia di Catone
l’Uticense, mostra invece un esempio di
assoluta dedizione nei confronti del marito, uccidendosi dopo aver appreso la
notizia della morte del suo compagno di
vita, Bruto, come narra ancora Valerio
Massimo. Era comunque ritenuto sconveniente manifestare fuori dalle pareti
domestiche le affettuosità coniugali, come racconta Plutarco.
Esemplare del coraggio virile rischiesto
alle donne è la cosiddetta Laudatio Turiae, un’iscrizione scritta dal marito in
onore della moglie morta: Turia, oltre a
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Percorsi tematici
possedere tutte le virtù canoniche della
matrona romana, aveva anche salvato
coraggiosamente la vita del marito.
L’immagine ideale della madre romana –
che chiude il nostro percorso nelle parole di Plutarco – è quella di Cornelia (II
secolo a.C.): come tale ella è stata celebrata dalla tradizione e la sua fama ha attraversato i secoli.
n Livio Lucrezia
n Anonimo di Corpus Inscriptionum
Latinarum Ritratti femminili
n Valerio Massimo Uniti per sempre.
Il sepolcro dei due innamorati
n Valerio Massimo Uniti per sempre.
Una donna virile
n Plutarco Un po’ di contegno! Pubbliche smancerie
n Plutarco Un po’ di contegno! Amore domestico
n Anonimo di Inscriptiones Latinae
Selectae Una moglie eroica
n Plutarco Cornelia, madre dei Gracchi (A)
n Plutarco Cornelia, madre dei Gracchi (B)
L’imperialismo romano
[> Modulo 4]
Il percorso ha come tema centrale l’imperialismo romano, cioè il processo di conquista che portò i Romani a sottomettere
altri popoli al fine di costruire un impero.
Lo storico Polibio (II secolo a.C.) ha individuato il momento iniziale di questo processo nell’occupazione della Sicilia e nelle
conseguenti guerre puniche. Secondo il
poeta latino Virgilio, invece, l’odio fra Romani e Punici ha inizio con la vicenda d’amore tra Enea e Didone. Abbandonata
dall’eroe troiano, fondatore della stirpe
romana, Didone muore suicida.
Il racconto delle guerre puniche ci è pervenuto esclusivamente da fonti romane,
le quali volutamente hanno evidenziato,
da un lato, i pregiudizi etnici nei confronti degli avversari, dall’altro, le virtù
proprie dei generali romani, anche
quando sono responsabili di sconfitte.
Ad esempio, il ritratto di Annibale tramandatoci dallo storico Livio rispecchia
a pieno i preconcetti che i Romani nutrivano nei confronti dei Cartaginesi:
crudeltà, falsità e spregiudicatezza sono
gli attributi con cui è caratterizzato il generale punico. Per contro, al console romano Terenzio Varrone, responsabile
della sconfitta subìta dai Romani presso
Canne, nelle parole dello stesso Livio
vengono tributati onori e acclamazioni
di popolo per aver comunque combattuto coraggiosamente in difesa della repubblica.
Secondo Polibio, invece, che per primo
ha analizzato il fenomeno dell’imperialismo romano, il successo di Roma era da
attribuire alla perfetta organizzazione
dell’esercito, oltre che alla sua forma di
governo, la “costituzione mista”.
n Polibio I Romani alla conquista del
mondo
n Virgilio Un odio eterno
n Livio Ritratto individuale e pregiudizi etnici
n Livio Onori a un generale sconfitto
n Polibio Castighi e ricompense. Punizioni individuali e decimazioni
n Polibio Castighi e ricompense. L’importanza dell’emulazione
I Romani visti dagli altri
[> Modulo 4]
Nel processo di formazione dell’identità
culturale romana l’incontro-scontro con
la civiltà greca ebbe grande importanza.
I Greci, fortemente impressionati dai
successi di Roma nel Mediterraneo,
avanzarono diverse ipotesi per spiegare
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Percorsi tematici
il fenomeno. Il filosofo Carneade, in ambasceria a Roma, interpretò l’espansionismo romano come una pratica di rapina, come racconta Lattanzio. Lo stesso
Filippo V, il re di Macedonia sconfitto
dai Romani, dei vincitori ammirava la
mentalità aperta, che li aveva portati al
successo. Anche lo storico Dionigi di
Alicarnasso aveva individuato il motivo
del successo romano nella politica della
cittadinanza più aperta di quella greca.
Gli ebrei, dal canto loro, videro nei Romani, in un primo momento, una comunità di uomini giusti, vittoriosi sui nemici e generosi con gli amici, come leggiamo nel libro biblico dei Maccabei.
Dal contatto con la raffinata e colta cultura greca la civiltà romana, più orientata verso la semplicità dei costumi, trasse
grande vantaggio. Non mancarono tuttavia episodi di ostilità nei confronti della cultura greca, specie da parte degli
ambienti più tradizionalisti che facevano capo a Catone, i quali temevano che
il contatto con la civiltà ellenica corrompesse gli antichi costumi romani, come
racconta Plutarco.
n Lattanzio Tornare alle capanne?
n Filippo V di Macedonia Fate come i
Romani!
n Dionigi di Alicarnasso Confronto
tra i Greci e i Romani
n Anonimo di Libro dei Maccabei I
Romani visti dagli ebrei
n Plutarco Chi ci salverà dai Greci?
La crisi sociale
e le riforme
[> Modulo 5]
All’inizio del II secolo a.C. Roma era ormai diventata un impero. L’afflusso di
ingenti ricchezze dai territori conquistati determinò profondi cambiamenti sul
piano economico e sociale.
Per prima cosa, la formazione di vasti latifondi portò all’impoverimento di contadini, come racconta Appiano, i quali
andarono a ingrossare le file del proletariato urbano. I contadini, inoltre, furono
fortemente danneggiati anche dall’incremento della manodopera schiavile,
frutto delle recenti conquiste, come racconta Varrone.
Queste trasformazioni sociali, verificatesi in un lasso di tempo relativamente
breve – circa un secolo – determinarono
l’insorgere di tensioni e conflitti sociali.
Alcuni uomini politici di tendenze progressiste tentarono di risolvere tali conflitti avanzando alcune proposte di riforma. Tra tutti spicca Tiberio Gracco, tribuno della plebe nell’anno 133 a.C., il
quale propose una legge agraria che prevedeva la redistribuzione delle terre dello Stato ai contadini sottraendole ai latifondisti. Dieci anni dopo Gaio Gracco,
fratello di Tiberio, anch’egli tribuno della plebe, cercò di attuare un programma
di riforme che prevedeva, tra le diverse
proposte, l’estensione della cittadinanza
agli Italici. Anche a ciò la reazione della
maggioranza dei senatori culminò in una
strage, come racconta Plutarco.
n Appiano La crisi delle campagne italiche
n Varrone Gli «strumenti parlanti»
n Plutarco Morte di Gaio Gracco
Le rivolte in Italia
[> Modulo 5]
Nel II e nel I secolo a.C. alcune rivolte si
verificarono in Italia e in Sicilia (pur essendo una provincia, la Sicilia era considerata, per la sua vicinanza, quasi una
parte dell’Italia). Furono avvenimenti
gravi, che scossero fortemente l’opinione pubblica romana: era infatti dai tempi della Seconda guerra punica che nel-
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Percorsi tematici
la penisola non si verificavano episodi
del genere.
Queste rivolte furono di due tipi. Ci furono anzitutto le «guerre servili», chiamate così perché ne furono protagoniste
grandi masse di schiavi. La prima rivolta scoppiò in Sicilia tra il 139 e il 132 a.C.
Lo storico Diodoro Siculo individua le
cause della sommossa nel crudele trattamento inflitto dai padroni agli schiavi
che coltivavano le loro terre.
Di tutt’altro genere fu la terribile «guerra sociale», scoppiata nel 90 a.C. Questa
volta il fronte dei rivoltosi non era costituito da bande di schiavi, ma da intere comunità italiche, composte da individui di
condizione libera che in molti casi avevano già militato nell’esercito romano in
qualità di alleati, come racconta Velleio
Patercolo. I ribelli ricorsero all’uso della
forza perché erano andati falliti tutti i
tentativi (a cominciare da quello di Gaio
Gracco) di trovare una soluzione politica
al problema della cittadinanza romana,
dalla quale gli Italici erano ingiustamente esclusi. Sconfitti sul piano militare, gli
Italici, tuttavia, ottennero rapidamente
la parificazione politica.
n Diodoro Siculo Anatomia di una rivolta
n Velleio Patercolo Le ragioni degli
Italici
La guerra tra le fazioni
[> Modulo 5]
La vita politica romana fu animata nel I
secolo a.C. dagli scontri tra le fazioni dei
populares e degli optimates, come racconta Cicerone. In questi scontri il contenuto sociale era relegato in secondo
piano, mentre rivestiva una importanza
preponderante la questione del potere
politico e, in particolare, quello dei capi
delle fazioni.
Il primo di una lunga serie di scontri si
ebbe tra Mario, capo dei populares, e Silla, capo degli optimates. In qualità di comandanti militari, entrambi poterono
contare sull’appoggio delle loro truppe.
La vittoria di Silla su Mario fu accompagnata da una spietata reazione dei sillani
nei confronti degli avversari, come racconta Appiano.
A questi disordini si aggiunse la rivolta
guidata nel 73 a.C. da un gladiatore di
origine tracica, Spartaco. Le forze ribelli riuscirono addirittura a sconfiggere le
legioni in alcune battaglie campali, ma
non potevano competere con l’organizzazione e con la potenza dell’esercito romano. Anche se a fatica, l’ordine fu ripristinato e i ribelli furono giustiziati,
come racconta Appiano.
Nel 63 a.C. Catilina, uno degli esecutori
delle stragi sillane, fu protagonista di un
progetto eversivo scongiurato dal console in carica Marco Tullio Cicerone.
Grazie anche alle orazioni pronunciate
in senato per denunciare Catilina, Cicerone riuscì a far giustiziare i congiurati.
La guerra civile scoppiata qualche decennio dopo tra Pompeo e Cesare riproponeva ancora una volta la solita contrapposizione: Pompeo era schierato
dalla parte degli optimates, Cesare dalla
parte dei populares. L’enorme potere acquisito da Cesare al termine della guerra era un chiaro segno del tramonto delle istituzioni repubblicane.
Nemmeno l’assassinio di Cesare ridiede
vigore alla legalità repubblicana. Il ricorso alle liste di proscrizione per eliminare i nemici, come racconta Plutarco,
da parte di Marco Antonio e Ottaviano,
gli eredi di Cesare, e lo scontro tra i due
per chi dovesse ufficialmente raccogliere l’eredità del dittatore, che leggiamo
nei versi di Orazio, segnarono la fine
della repubblica.
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Percorsi tematici
n Cicerone Il primato degli «uomini
buoni»
n Appiano Le stragi sillane
n Appiano La rivolta di Spartaco
n Cicerone «Fino a quando, Catilina?»
n Plutarco La morte di Cicerone
n Orazio La strage fraterna
Cesare storico
[> Modulo 5]
La fama di Giulio Cesare è legata al fatto di essere stato, al tempo stesso, uomo
d’azione e uomo di cultura, condottiero
e storico. Gran parte di quello che sappiamo sulle imprese di Cesare lo dobbiamo a Cesare stesso, che fu quindi il
creatore del proprio mito. La sua opera
principale è il cosiddetto De bello Gallico (La guerra gallica), che narra, in sette
libri, l’intero svolgimento della conquista della Gallia, dal suo inizio, nel 58
a.C., alla sua conclusione, nel 52. Già gli
antichi discutevano sul valore artistico
di quest’opera, che ebbe, fin dalla pubblicazione, i suoi ammiratori e i suoi detrattori, nel nostro percorso Cicerone e
Asinio Pollione.
Oggi, il giudizio su Cesare storico è,
tranne qualche rara eccezione, decisamente positivo. Con una prosa asciutta,
rapida, apparentemente fredda e distaccata, Cesare racconta le battaglie, i colpi
di scena, la forza e la debolezza dei nemici, il coraggio e la determinazione dei
Romani, analizza le situazioni politiche,
espone le ragioni delle proprie decisioni.
Le sue azioni non appaiono mai impulsive, ma sempre dettate dalla riflessione.
Prima di aggredire i nemici, Cesare cerca di comprendere la loro cultura, i loro
costumi.
Si devono a Cesare anche le prime descrizioni del modo di vita di popolazio-
ni quali i Germani e i Galli, sulle quali la
cultura greca e romana aveva fino a quel
momento notizie piuttosto vaghe. Solitamente si riteneva anzi che Germani e
Galli fossero due denominazioni diverse
della stessa gente. Cesare spiega invece
che si trattava di due culture diverse, e
dimostra che i Galli erano un popolo
molto più civilizzato dei Germani.
Nel De bello Gallico non troviamo soltanto acute descrizioni delle popolazioni con cui Cesare entrò in contatto. Vi
troviamo anche alcuni straordinari ritratti individuali, primo fra tutti, quello
del grande Vercingetorige, il capo degli
Arverni che fu sul punto di sconfiggere
il generale romano.
n Cicerone Giudizi su Cesare storico.
Una pura e luminosa brevità
n Asinio Pollione Giudizi su Cesare
storico. Una stesura provvisoria e imprecisa
n Cesare Cesare e la società dei Galli
n Cesare Cesare e la società dei Germani
n Cesare Vercingetorige. Un avversario degno di questo nome
n Cesare Vercingetorige. La sconfitta
Gli storici
e gli imperatori
[> Modulo 5]
La storiografia relativa agli imperatori
romani è, in gran parte, espressione dell’ideologia senatoria. I senatori, come
Tacito, rimpiangevano l’età repubblicana (durante la quale il senato era stato
l’organismo politico più potente) e condannavano il regime imperiale perché
con esso sarebbe scomparsa la libertà. I
più cauti affermavano che il regime imperiale era un male necessario per scongiurare il ripetersi di nuove guerre civili.
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Percorsi tematici
La stessa figura di Augusto, a cui tutti riconoscevano il merito di aver donato la
pace al mondo romano, non era esente
da critiche, come ci racconta lo stesso
Tacito.
I sovrani della dinastia giulio-claudia,
invece, sono tutti caratterizzati negativamente. I racconti sul loro conto sembrano ricalcare uno schema costante, che fa
nascere nel lettore dei sospetti: dopo un
iniziale periodo di buon governo, improvvisamente il carattere e i comportamenti del principe si corrompono. Tiberio, ad esempio, è rappresentato da Svetonio come un crudele dissimulatore;
Caligola, sempre da Svetonio, come
l’emblema della crudeltà; Claudio è descritto da Tacito come succubo delle
mogli e, soprattutto, dei liberti: l’astio
nei confronti di Claudio è dovuto in parte al fatto che egli aprì il senato ai provinciali; Nerone è rappresentato da Tacito come l’incarnazione della follia e
della crudeltà.
Ma la stessa realtà può essere giudicata
anche da altri punti di vista. Sappiamo,
per esempio, che sia Tiberio sia Claudio
furono buoni amministratori e che sotto
di loro l’impero visse un periodo florido,
i traffici con le province si intensificarono e l’urbanizzazione raggiunse punte
molto alte; le stranezze di Caligola e di
Nerone testimoniano, anche, la volontà
di trasformare il principato in una monarchia di stampo orientale e, nel caso di
Nerone, con le parole di Svetonio, di avvicinarsi ai sentimenti della plebe.
Altri imperatori hanno invece lasciato un
ricordo positivo nella tradizione. Tito, ad
esempio, viene definito da Svetonio
«amore e delizia del genere umano». L’apice negli elogi si raggiunge tuttavia con
Traiano, il cui comportamento viene disegnato da Cassio Dione come improntato alla razionalità, al coraggio e alla
lealtà, virtù tipiche del cittadino romano.
Si può affermare, in generale, che nei
confronti degli imperatori che si mostrarono disponibili e aperti verso il senato
la storiografia espresse giudizi favorevoli; mentre verso quelli che accentuarono
nel loro governo tratti dispotici furono
espressi giudizi negativi.
n Tacito La storiografia della libertà
perduta
n Tacito Opinioni divergenti sulla figura di Augusto. A favore
n Tacito Opinioni divergenti sulla figura di Augusto. Contro
n Svetonio Ritratti a fosche tinte. Un
ipocrita ambizioso
n Svetonio Ritratti a fosche tinte. Il
volto demoniaco del potere
n Tacito Governare vuol dire assimilare
n Tacito Nerone auriga e citaredo
n Svetonio Fiori sulla tomba di Nerone
n Svetonio Amore e delizia del genere
umano
n Cassio Dione Traiano e Decebalo
Gli spettacoli
e il consenso
[> Modulo 5]
L’imperatore Augusto aveva ben compreso l’importanza della cultura e degli
intellettuali ai fini della propaganda politica. A tale scopo si servì del circolo di
poeti e scrittori costituito da Mecenate. I
letterati divennero, quindi, parte integrante di una vasta operazione di organizzazione del consenso. Essi infatti celebrarono nelle proprie opere la grandezza
di Roma e del principe e la pax Augusta.
Orazio, ad esempio, cantò nelle Odi i meriti di Augusto e dei generali romani per
le vittorie da loro conseguite. Virgilio,
più di ogni altro, sembrò rispecchiare i
valori e i princìpi augustei. Nelle sue
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Georgiche la civiltà italica e la tradizione
agricola sono esaltate in pieno accordo
con la politica augustea, che mirava a sostenere la classe dei piccoli proprietari
terrieri e a riconfermare i valori morali e
religiosi legati all’antica civiltà agricola;
nell’Eneide il poeta imposta il racconto
nella prospettiva della missione universale di Roma, mentre l’impero di Augusto diventa il centro e il fine della storia.
Una funzione importante nella diffusione
del consenso era svolta anche dagli spettacoli, organizzati per il divertimento della
plebe: per gli spettatori erano un’occasione di manifestare i propri stati d’animo,
per l’imperatore di stabilire un legame con
il popolo. Le corse dei cavalli e dei carri,
che si svolgevano nel circo, davano agli aurighi vincitori fama e posizione invidiabili, come leggiamo nei versi di Sidonio
Apollinare, di Marziale e in un’iscrizione.
Fra gli spettacoli più amati dalla plebe erano certamente i combattimenti dei gladiatori e le “cacce”: un’eco delle meraviglie
esibite negli anfiteatri si ascolta nei versi di
Calpurnio Siculo. Non tutti gli spettatori,
però, apprezzavano le feroci esibizioni
nell’arena: il filosofo Seneca, ad esempio,
riteneva che esse inducessero la folla a cattivi comportamenti.
n
n
n
n
n
n
n
n
Orazio Al principe di tutte le genti
Virgilio Lode dell’Italia
Virgilio L’uomo del destino
Sidonio Apollinare Emozioni e personaggi del Circo. Via col vento
Marziale Emozioni e personaggi del
Circo. La meta della morte
Anonimo di Inscriptiones Latinae
Selectae Emozioni e personaggi del
Circo. Un’orgogliosa contabilità
Calpurnio Siculo La natura selvaggia nel cuore di Roma
Seneca Uno spettatore disgustato
Roma caput mundi
[> Modulo 5]
Le rovine delle città romane ci trasmettono spesso un’immagine di ordine e di solennità. Ma la realtà era molto diversa. Roma era la città più popolosa dell’antichità,
abitata da una gran massa di disoccupati,
come leggiamo in Svetonio. Il sovraffollamento rendeva particolarmente urgente il
problema dell’insufficienza degli alloggi.
I prezzi degli affitti erano alle stelle e si
pubblicizzava l’offerta di appartamenti
tramite annunci (come quello di Giulia
Felice), mentre la loro abitabilità era piuttosto precaria: lo sviluppo in altezza delle
abitazioni continuò e le insulae, gli «isolati» formati dai palazzoni costruiti perlopiù in legno, erano facile preda degli incendi. Le strade, di giorno, erano veri e
propri alveari umani, affollate e rumorose, tanto da apparire, a chi non riusciva ad
attraversarle in lettiga, dei gironi infernali. Attraversare le strade di notte significa
correre il rischio di essere colpiti da oggetti di varia natura provenienti dai tetti e
dalle finestre, oppure essere rapinati. Tutte queste situazioni di disagio rivivono nei
versi di Giovenale e Marziale.
Affollate al pari delle strade erano le terme, le quali oltre alla funzione igienica
svolgevano anche una rilevante funzione
sociale: erano luogo di incontro, di svago, di scambio di idee. La vivacità delle
terme rappresentava un vero e proprio
problema per chi aveva la sfortuna di
abitarvi vicino, come il filosofo Seneca.
n Svetonio Evitare la disoccupazione
n Anonimo di Inscriptiones Latinae
Selectae Casa dolce casa. Affittasi
n Giovenale Casa dolce casa. L’inferno degli appartamenti
n Giovenale L’inferno di giorno, la
paura di notte. Roma vuol dire rumore (A)
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Percorsi tematici
n Marziale L’inferno di giorno, la paura
di notte. Roma vuol dire rumore (B)
n Giovenale L’inferno di giorno, la
paura di notte. Attenti al buio
n Seneca Le terme
Una nuova religiosità
[> Modulo 6]
La religione romana aveva un carattere
prevalentemente sociale e politico: il cittadino doveva uniformare il proprio
comportamento ai valori della pietas e
della fides, che implicavano il rispetto e la
fedeltà verso gli dèi, l’osservazione dei riti, la devozione nei confronti dei genitori, la fedeltà verso lo Stato. Ogni elemento del rito, dai gesti alle formule, concorreva a predisporre favorevolmente gli
dèi. Verso la fine dell’età repubblicana, le
conquiste e i contatti con le altre culture,
unitamente ai cambiamenti verificatisi
nella società, avevano determinato una
crisi degli antichi culti. Nel suo progetto
di rinnovamento delle tradizioni romane, Augusto tentò di restaurare lo spirito
religioso del passato e di dare nuovo vigore alle tradizioni antiche, e in parte ci
riuscì. Ma molti Romani, ormai, si affidavano sempre più spesso a culti orientali
presenti a Roma da tempo, come quelli di
Cibele, Osiride, Iside e Mitra. Questi rispondevano a esigenze spirituali che la
religione tradizionale romana non era in
grado di offrire: il rapporto personale tra
il fedele e la divinità mediante la meditazione e la preghiera, e, soprattutto, la speranza di una vita ultraterrena dopo la
morte, ossia la salvezza, come leggiamo
in Apuleio. Per l’ebraismo, religione diffusa in Palestina, la speranza di salvezza
si concretizzava nell’attesa della nascita
del Messia, come leggiamo nel Vangelo
di Matteo. Nel contesto dell’ebraismo
prese corpo una nuova religione, il cri-
stianesimo, chiamata così dal nome del
suo predicatore, Gesù Cristo il Messia. Il
messaggio di Gesù conteneva una forte
carica rivoluzionaria, oltre a presentare,
a differenza dell’ebraismo, un carattere
universalistico: predicava infatti l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio,
riconsiderando anche il ruolo della donna, secondo le parole di san Paolo. Dell’ebraismo il cristianesimo accentuò il carattere spirituale, e criticò l’eccessivo formalismo rituale. Il cristianesimo prese le
distanze dall’ebraismo anche nella celebrazione del culto (Giustino) e nell’organizzazione delle comunità (Ignazio di
Antiochia).
n Apuleio La rivelazione di Iside
n Matteo Evangelista Razza di vipere!
n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la
donna. Nuovi princìpi
n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la
donna. L’uomo al di sopra della donna (A)
n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la
donna. L’uomo al di sopra della donna (B)
n Giustino La domenica
n Ignazio di Antiochia Onorate Dio e
il vescovo
Storie di convivenza
[> Modulo 6]
La diffusione del cristianesimo nell’impero pose il problema della convivenza
dei cristiani con i pagani e con l’autorità
costituita. Inizialmente i cristiani venivano confusi con gli ebrei, sui costumi dei
quali circolavano informazioni intrise di
pregiudizi. A differenza degli ebrei, i cristiani riconoscevano validità alle leggi
dello Stato romano: poiché ogni autorità
terrena deriva dall’autorità divina, il fedele non aveva ragione di opporsi al volere dei governanti, come spiega san Pao-
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lo. Un limite all’integrazione, tuttavia,
veniva dal rifiuto sia delle osservanze rituali romane, sia delle attività lavorative
connesse alle celebrazioni del culto pagano o contrarie alla morale cristiana, come leggiamo in Ippolito, fra le quali il servizio militare, come leggiamo in Tertulliano. Nel momento in cui il cristianesimo prese piede fra tutte le classi sociali, i
pagani divulgarono sul conto dei cristiani una serie di calunnie suscitate dalle loro abitudini e dal loro vivere la religione,
da cui i cristiani si difendevano: ce ne parlano Minucio Felice e Tertulliano.
Inizialmente le autorità romane si limitarono a contrastare il cristianesimo attraverso una serie di provvedimenti,
quali, ad esempio, l’imposizione del sacrificio agli dèi pagani e al genio dell’imperatore, come riportato nel testo di Aurelio Diogene. Nel tempo le misure contro il cristianesimo si inasprirono a tal
punto da sfociare in una vera e propria
politica persecutoria. Le persecuzioni,
tuttavia, rivelarono ben presto la loro
inutilità: le vittime cristiane, infatti, preferivano affrontare la condanna piuttosto che rinnegare la propria fede, come
leggiamo negli Atti dei martiri.
n Paolo di Tarso Ogni potere viene da
Dio
n Ippolito I mestieri proibiti ai cristiani
n Tertulliano I cristiani e il servizio
militare
n Minucio Felice Accuse pagane: i cristiani, una setta di cannibali
n Tertulliano Difese cristiane: «viviamo nel mondo insieme con voi»
n Aurelio Diogene Il certificato di sacrificio
n Anonimo di Atti dei martiri Eroi
cristiani. Vittime ostinate
n Anonimo di Atti dei martiri Eroi
cristiani. Come un uomo
Storie di banditi
[> Modulo 6]
Data la vastità dell’impero romano, vi
erano numerosi luoghi remoti – montagne, altipiani, foreste, paludi, deserti,
campagne – in cui la legge romana aveva difficoltà ad affermarsi o era del tutto
assente. In questi spazi, dove la natura
offriva ripari e facili nascondigli, dilagavano i banditi o, come li chiamavano i
Romani, i latrones, “ladroni”.
L’assenza di forze di polizia regolari e di
un moderno sistema di comunicazioni,
unitamente alla scarsa illuminazione
notturna, rendevano insicure anche le
campagne situate nei pressi delle città.
Viaggiare di notte era infatti considerata
una grave imprudenza: al calare delle tenebre, città e villaggi sprangavano le loro porte, impedendo a chiunque di accedervi. La stessa cosa accadeva nelle residenze di campagna dei ricchi, i quali
spesso disponevano di guardie private,
come racconta Apuleio. Non pochi erano i casi di persone scomparse per essere state catturate o addirittura uccise dai
banditi, come leggiamo in Plinio il Giovane e in alcune iscrizioni.
“Bandito” è un termine molto generico,
che abbraccia una vasta gamma di tipologie, e che pertanto richiede alcune
precisazioni.
Esisteva il cosiddetto bandito “sradicato”, che poteva agire da solo o con un piccolo gruppo di complici, come racconta
Galeno. Questo genere di bandito non
era certo il più pericoloso. La vera minaccia, infatti, era rappresentata dai banditi “radicati”, quelli che trovavano aiuti
e sostegno presso le popolazioni locali.
Questo fenomeno è detto “banditismo
sociale” ed è stato riscontrato dagli studiosi moderni in svariati contesti storici,
dall’età antica a quella contemporanea.
Mentre le autorità pubbliche bollavano
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questi individui con l’epiteto di “criminali”, le popolazioni contadine, oppresse
dai signori e dalle tasse, li consideravano
dei veri eroi, come racconta Apuleio. Per
il bandito il sostegno delle popolazioni
locali era di fondamentale importanza:
senza il loro aiuto egli era soltanto un vagabondo, destinato a cadere presto nelle
mani delle autorità pubbliche, come leggiamo in Erodiano.
Le autorità romane erano consapevoli
della gravità del fenomeno (che ebbe una
grande diffusione in concomitanza con la
crisi del III secolo) ed emanarono provvedimenti per colpire non solo i latrones,
ma anche coloro che li proteggevano, come leggiamo nel Digesto: senza aiuti, si
diceva chiaramente, «i banditi non possono restare nascosti a lungo». Le pene
previste dalla legge per reprimere il banditismo erano severissime. I banditi catturati erano spesso giustiziati sul posto;
quando venivano processati regolarmente, le pene erano terribili: venivano bruciati vivi, crocefissi, oppure condannati a
essere sbranati dalle belve nel circo. Ma
questa severità non bastò a estirpare un
fenomeno che attraversa tutta la storia
romana e che gli storici moderni possono
riscontrare in tutte le regioni dell’impero. I motivi per i quali lo Stato romano
non riuscì mai a debellare il banditismo
“sociale” sono evidenti: esso non era una
manifestazione di criminalità banale, ma
l’espressione della resistenza al governo
romano delle masse impoverite.
n Apuleio Mai di notte
n Plinio il Giovane Scomparsi
n Anonimo di Corpus Inscriptionum
Latinarum Uccisi dai banditi
n Galeno Il bandito sradicato
n Apuleio Curriculum di un bandito
n Erodiano Il bandito Materno
n Anonimo di Digesto Morte a chi li
protegge
Giuliano l’Apostata e la
fine del paganesimo
[> Modulo 6]
Per tutta la durata del suo regno l’imperatore Giuliano coltivò un sogno: restaurare il paganesimo e dare nuovo vigore alle antiche tradizioni culturali di
Roma. Tuttavia la sua politica di restaurazione del paganesimo era destinata al
fallimento: alla sua morte, essa fu accantonata dai suoi successori, i quali rimossero alcuni dei simboli del paganesimo,
come ad esempio l’altare della Vittoria,
e privarono delle sovvenzioni statali il
culto tradizionale romano. A nulla valsero le proteste degli aristocratici romani, come Simmaco, che si appellavano ai
princìpi della tolleranza religiosa e alla
tradizione: a quest’ultima il vescovo di
Milano Ambrogio contrapponeva i valori del progresso rappresentato dal cristianesimo.
Il tramonto definitivo del paganesimo si
ebbe per effetto delle leggi emanate da
Teodosio, che proibivano la pratica dei
culti pagani sia pubblici sia privati. Da
questo momento il paganesimo fu perseguitato in tutte le sue espressioni: i
templi furono distrutti, come racconta
Rufino, le scuole filosofiche furono
chiuse. Ipazia, filosofa di grande levatura morale oltre che culturale, fu addirittura assassinata da alcuni monaci fanatici, come narra Socrate Scolastico. Contestualmente l’evangelizzazione delle
campagne si andò configurando, in alcune regioni, come una vera e propria
guerra santa, come leggiamo in Sulpicio
Severo.
n Giuliano l’Apostata Giuliano l’Apostata e il tempio abbandonato
n Simmaco La controversia per l’altare della Vittoria. Molte sono le strade
per arrivare a Dio
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Percorsi tematici
n Ambrogio La controversia per l’altare della Vittoria. Nessuna concessione!
n Ambrogio La controversia per l’altare della Vittoria. La tradizione e il
progresso
n Teodosio I La proibizione del culto
pagano. Contro i culti pubblici
n Teodosio I La proibizione del culto
pagano. Contro i culti privati
n Rufino Assalto al paganesimo: la distruzione del Serapeo
n Rufino Tabula rasa
n Socrate Scolastico L’assassinio di
Ipazia
n Sulpicio Severo Martino, un santo
guerriero. Incantamenti
n Sulpicio Severo Martino, un santo
guerriero. Il fuoco addomesticato
n Sulpicio Severo Martino, un santo
guerriero. Guerra santa
La società tardoantica
[> Modulo 6]
Il clima di crisi in cui versava l’impero
romano del III secolo d.C. fu pienamente avvertito da alcuni osservatori contemporanei. In uno scritto indirizzato a
un pagano, il vescovo cristiano Cipriano
ben esprime questo senso di precarietà e
di sfacelo imminente.
La crisi politica, che in un cinquantennio aveva visto succedersi al governo
ben venti imperatori, era aggravata dalla crisi economica. In seguito alla campagna militare partica (162-165), infatti,
sulle regioni dell’impero si abbatté un’epidemia di peste che determinò un brusco calo della popolazione e una diminuzione delle rese agricole, per cui i
prezzi delle derrate alimentari crebbero
vertiginosamente.
La conseguenza più rilevante della crisi
economica fu l’accentuazione delle disu-
guaglianze tra i vari strati sociali: mentre
le famiglie aristocratiche accrescevano
sempre più le loro ricchezze, come racconta Olimpiodoro, i poveri si immiserivano sempre più. Le grandi casate detenevano oltre al potere economico anche il potere politico, rafforzato da vaste
clientele, come leggiamo in Ammiano
Marcellino.
Alla base della piramide sociale tardoantica c’erano i coloni, i quali, vessati
dagli esattori delle imposte, si legavano
sempre più ai loro padroni, cercandone
la protezione. Tutto questo contribuiva
a un ulteriore rafforzamento dei poteri
locali, a danno del sempre più debole
potere centrale, come spiega Libanio.
La condizione dei coloni, inoltre, era aggravata da un provvedimento emanato
dall’imperatore Costantino, che li vincolava a vita alla terra che coltivavano, limitando così la loro libertà personale.
Non dissimile da quello dei coloni era lo
stato sociale degli schiavi, i quali, in conseguenza dell’intervento umanitario della Chiesa, migliorarono entro certi limiti la loro condizione, come spiega san
Paolo. In una situazione di privilegio si
trovava invece la plebe urbana, descritta
con disprezzo dallo storico Ammiano
Marcellino: la plebe godeva di distribuzioni gratuite di generi alimentari. Nei
periodi di crisi, la mancata distribuzione
di viveri alla plebe affamata sfociava in
episodi di violenza, a danno dei ricchi.
n Cipriano Un mondo invecchiato
n Olimpiodoro La ricchezza degli aristocratici romani
n Ammiano Marcellino Ritratto di un
uomo potente. Come un pesce fuor
d’acqua
n Libanio Il patronato
n Costantino Servi della terra
n Paolo di Tarso Cristianesimo e schiavitù
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n Ammiano Marcellino Vita da Romani
n Ammiano Marcellino Le rivolte della plebe. Un pericolo scampato
n Ammiano Marcellino Le rivolte della plebe. Il vino e il fuoco
Aspettando i barbari
[> Modulo 6]
La penetrazione dei barbari entro i confini dell’impero romano non fu un evento improvviso. Essa infatti si era pesantemente manifestata già nel III secolo
d.C. A partire da quest’epoca si diffuse
tra i cittadini romani un clima di inquietudine e preoccupazione, dettato dal pericolo dei “barbari”. Definendoli così, i
Romani dimostravano scarsa considerazione verso quei popoli che in realtà erano portatori di una civiltà e di valori diversi. I racconti degli storici romani, infatti, abbondano di pregiudizi sui barbari, descritti come esseri crudeli, infidi
e ambigui, come leggiamo in Ammiano
Marcellino. Il re degli Unni Attila era
definito addirittura “flagello di Dio” per
la ferocia con cui conduceva le battaglie;
di tutt’altra natura l’opinione che del
condottiero aveva il suo popolo, come
scrive Giordane.
Il Sacco di Roma del 410 d.C. rappresentò per i contemporanei un vero e
proprio shock, come si evince dal racconto di san Girolamo. Questo stesso
evento è interpretato in maniera diversa
da Orosio, anch’egli cristiano, per il
quale l’invasione dei Visigoti è vista come una punizione divina nei confronti di
una città peccatrice; in questo racconto
i barbari appaiono addirittura più vicini
al messaggio cristiano degli stessi Romani. Prisco, diplomatico romano, racconta il suo incontro con un cittadino romano che aveva scelto di vivere tra i bar-
bari, rivelando l’angoscia dilagante tra
gli abitanti delle province e la diffusa
sensazione di una rovina imminente.
Questo clima di decadenza era avvertito
anche a Roma, dove il degrado si rifletteva persino sugli edifici pubblici, sottoposti a continue spoliazioni, come si
evince dal provvedimento emesso dall’imperatore Maioriano.
Entrando a contatto con i Romani, i barbari assimilarono molti aspetti della loro
cultura. Ma anche la cultura dei barbari
influenzò quella romana, come testimoniano alcune usanze che la legge romana
cercò invano di proibire nel Codice Teodosiano emanato da Onorio.
n Ammiano Marcellino Gli Unni, un
popolo di cavalieri
n Giordane Attila visto dai nemici. Il
flagello di Dio
n Giordane Attila visto dai suoi. Il più
grande degli Unni
n Girolamo Se Roma perisce...
n Orosio Il castigo di Dio
n Prisco Il romano divenuto barbaro.
Meglio vivere tra gli Unni che tra i
Romani
n Prisco Il romano divenuto barbaro.
La civiltà dei Romani
n Maioriano Il degrado di Roma
n Onorio Contro i costumi dei barbari
Bisanzio e il sogno
della riconquista
[> Modulo 7]
Gli storici adoperano comunemente l’espressione “impero bizantino” per designare l’impero romano d’Oriente. La
scelta del nome, derivato dalla città di Bisanzio, sulle cui rovine Costantino aveva
fondato Costantinopoli, sottolinea il carattere greco-orientale dell’impero. All’imperatore Giustiniano si deve, per
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Percorsi tematici
esempio, l’introduzione del rituale orientale della proscìnesi, come scrive uno storico suo contemporaneo, Procopio. L’imperatore era oggetto di una venerazione
quasi divina, tanto che il palazzo reale era
considerato una copia del palazzo celeste,
come leggiamo nel racconto del monaco
Cosma. Inoltre, ai consueti poteri assoluti degli imperatori romani, l’imperatore
bizantino associava l’autorità anche in
campo religioso. L’unione dei poteri religiosi e politici è denominata cesaropapismo, ed è una delle cause del distacco tra
il cristianesimo greco e quello latino, come
leggiamo nelle parole di papa Gelasio I.
A Giustiniano si deve anche il sogno di
ricostruire l’unità politico-territoriale
dell’impero romano, riconquistando i
territori occidentali in mano ai Germani. Prima tappa della riconquista furono
i territori nordafricani occupati dai Vandali: in un anno il generale bizantino Belisario sconfisse gli avversari, che non
avevano voluto integrarsi con la popolazione sottomessa, come scrive il vescovo
Vittore di Vita. Dall’Africa, l’esercito bizantino passò in Italia: la guerra con i
Goti fu lunga ed estenuante, scrive Procopio, e alto fu il prezzo pagato dalla popolazione della penisola in termini di
saccheggi, distruzioni, carestie e morti;
essa fu vinta soprattutto grazie all’intelligenza e alle doti morali di Belisario.
n Procopio La proscìnesi
n Cosma Il palazzo terreno e il palazzo celeste
n Gelasio I La teoria dei due poteri
n Vittore di Vita I Vandali in Africa
n Procopio Il prezzo della «liberazione» dell’Italia
n Procopio Il trionfatore morale
I Longobardi in Italia
[> Modulo 7]
L’invasione dei Longobardi, preceduta
dalla devastante guerra greco-gotica e
da una terribile pestilenza, come leggiamo in Paolo Diacono, che avevano spopolato città e campagne, rappresentò
per l’Italia una vera e propria cesura:
questi avvenimenti, infatti, segnarono il
crollo definitivo del sistema economico,
sociale e politico di tradizione romana e
portarono la penisola a una condizione
di decadenza economica e demografica.
Il popolo dei Longobardi, il cui nome
presumibilmente derivava dall’usanza di
portare capelli e barbe lunghe, come leggiamo nell’Origine del popolo longobardo, proveniva dalle regioni dell’Europa
settentrionale e probabilmente era migrato a causa di pressioni di altre tribù
germaniche o a causa della mancanza di
terre fertili, come scrive Paolo Diacono.
I Longobardi, guidati dal loro re Alboino, penetrarono in Italia praticando razzie e saccheggi, come scrive papa Gregorio Magno. Alla morte di Alboino seguì un lungo periodo di anarchia, di cui
profittarono i duchi per consolidare il loro potere. Si deve al re Autari l’opera di
rafforzamento della monarchia e il ridimensionamento dell’autorità dei duchi.
Il consolidamento del regno longobardo
è testimoniato anche dalla promulgazione, nel 643, per volontà di re Rotari di un
codice di leggi, la prima codificazione
scritta (in latino) delle leggi e delle usanze tradizionali dei Longobardi.
n Paolo Diacono Una terribile epidemia
n Anonimo di Origine del popolo longobardo Le origini dei Longobardi
n Paolo Diacono La migrazione dei
Longobardi
n Gregorio Magno I Longobardi in
Italia
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Cristiani e musulmani:
una convivenza
possibile [> Modulo 7]
Per il mondo occidentale il confronto
con la civiltà islamica divenne inevitabile quando i guerrieri musulmani, dopo
aver conquistato i territori degli imperi
bizantino e persiano, rivolsero le proprie
mire espansionistiche all’Europa, arrivando fino in Francia. I giudizi dei cristiani sugli Arabi risentivano dei pregiudizi che i popoli sedentari nutrivano nei
confronti dei popoli nomadi, tanto da
arrivare a considerare i musulmani infidi e crudeli e la loro religione simbolo di
tale inciviltà. Il rifiuto della religione
islamica trovò sostegno in operazioni di
mistificazione dei fondamenti della fede
musulmana e anche della figura del profeta Maometto, come leggiamo in una
cronaca del IX secolo. L’opposizione alla fede musulmana riportò addirittura in
vita il modello dei martiri cristiani, che
preferivano morire piuttosto che convertirsi, come leggiamo nella Passione di
san Michele il Sabaita.
Eppure per alcuni cristiani una convivenza tra i fedeli delle due religioni sarebbe stata possibile: l’imperatore di
Bisanzio, Eraclio, vedeva nella conquista araba una tappa del disegno divino
che avrebbe portato alla conoscenza di
Dio, come leggiamo nella Cronaca di
Séert; un frate domenicano, Guglielmo
da Tripoli, descriveva i conquistatori
arabi non come crudeli e violenti ma
come rispettosi dei luoghi e degli uomini; la conversione in massa di cristiani, inoltre, non sarebbe stata provocata da pressioni violente da parte
dei soldati musulmani, che anzi si rivelarono tolleranti nei confronti dei fedeli delle religioni monoteiste, ma sarebbe stata dettata da calcoli economici: la
loro avarizia li avrebbe portati a cam-
biare fede solo per non pagare il tributo loro chiesto, come scrive il patriarca
Isoyabb III.
La prova di una coesistenza possibile, pacifica e produttiva, è data dalla descrizione, databile al X secolo, della città “araba” di Palermo redatta da Ibn Hawqal.
n Anonimo di Cronaca I cristiani contro Maometto. La mistificazione del
profeta
n Anonimo di Passione di san Michele il Sabaita I cristiani contro Maometto. I nuovi martiri
n Anonimo di Cronaca di Séert I cristiani e gli Arabi: un incontro possibile. «Questo popolo è come la sera»
n Guglielmo da Tripoli I cristiani e gli
Arabi: un incontro possibile. Una
conquista senza traumi
n Isoyabb III I cristiani e gli Arabi: un
incontro possibile. Tolleranza islamica e avarizia cristiana
n Ibn Hawqal Palermo, città araba
I guerrieri di Allah
[> Modulo 7]
Alla base della prodigiosa espansione
dell’Islam sta l’antico spirito guerriero
delle tribù nomadi arabe. Un passo delle Storie di Ammiano Marcellino, uno
storico vissuto nel IV secolo d.C., costituisce la prima descrizione di queste
genti a noi pervenuta: un popolo nomade dedito a scorrerie e saccheggi, privo
dell’ordine tipico della civiltà romana.
Evidente appare l’incomprensione di un
rappresentante del mondo dei sedentari
per quello dei nomadi divisi in tribù, la
cui identità storica era affidata ai canti di
poeti come ‘Antara.
A questo temperamento combattivo il
messaggio predicato da Maometto e depositato nel Corano aggiunse alcuni requisiti che si rivelarono decisivi: la co-
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scienza dell’unità araba, propiziata
dall’accettazione di un credo monoteistico, e la potente motivazione ideale
rappresentata dal dovere di diffondere
la nuova fede, come leggiamo in un’orazione al re di Persia tramandataci dallo
storico persiano Tabari.
Una delle ragioni per cui Maometto riuscì velocemente a propagare l’islamismo
sia tra i Beduini sia tra gli Arabi sedentari fu sicuramente la sua capacità di
fondere l’intransigenza monoteistica di
un Dio creatore di ogni cosa con una
precettistica misurata, costituita da poche e semplici regole confluite nel Corano, che ben si adattavano alla mentalità
del suo popolo. Uno dei precetti da seguire era quello rappresentato dal jihad.
La prima “guerra santa” (così viene impropriamente tradotto il termine jihad)
fu quella combattuta dal profeta e dai
suoi seguaci contro le tribù arabe non
musulmane per portarle nel seno della
nuova fede e per liberare la Mecca, facendone il centro dell’Islam. Con l’espansione islamica oltre i confini della
penisola araba, la “guerra santa” si rivolse contro tutto quel mondo infedele
che si opponeva all’affermazione e alla
supremazia della religione di Allah: ne
leggiamo un’esempio nella Cronaca della battaglia di Qadisiyya.
Ma il concetto di jihad, se pure contiene
in sé l’idea che il credente debba dispiegare le proprie energie per affermare l’unica vera fede, non intende che questo
avvenga necessariamente attraverso la
violenza e la sopraffazione, vale a dire
con una “guerra” concreta. Esso afferma piuttosto un dovere morale del credente, che non è estraneo, del resto, anche al cristianesimo: quello di diffondere la parola di Dio. La diffusione deve
avvenire certo contrastando ogni resistenza, con ogni mezzo, ma senza superare i limiti imposti dalla giustizia e dal-
la misericordia di Dio, come leggiamo
nel Corano e nelle parole del filosofo alFarabi.
n Ammiano Marcellino Un popolo di
sparvieri
n ‘Antara La guerra e l’amore
n Tabari Un popolo giovane
n Anonimo di Cronaca della battaglia
di Qadisiyya La notte degli ululati
n Maometto Nel nome dell’Islam
n al-Farabi Il santo guerriero
Carlo Magno
padre dell’Europa
[> Modulo 8]
Un poeta anonimo, in un componimento scritto per ricordare l’incontro avvenuto tra Carlo Magno e il papa Leone III
nel 799 a Paterborn, in Sassonia, definisce Carlo rex pater Europae, il ‘re padre
dell’Europa’. L’espressione ha diviso negli anni gli storici, ma è ormai opinione
comune che Carlo contribuì a creare
l’Europa intesa come spazio politico e
culturale autonomo, fondando un impero che si sviluppava sull’Europa continentale, e non più, come in età romana,
su tre continenti con il Mediterraneo come baricentro. La dimensione europea
dell’impero carolingio era data anche
dalla religione professata, poiché il suo
territorio coincideva con la cristianità.
L’impero “europeo” fondato da Carlo
era il risultato delle continue e vittoriose
campagne militari, che confermavano le
tradizioni guerriere del popolo franco,
come leggiamo in Eginardo, e che gli
valsero l’appellativo di Magno. La richiesta di aiuto lanciata dal papa Adriano I contro l’espansionismo longobardo
rappresentò un’ottima occasione per
Carlo che, disceso in Italia con un’armata imponente, sbaragliò l’esercito nemi-
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co e conquistò Pavia, come leggiamo
nelle Gesta Karoli Magni redatte da
Notker I, un monaco di San Gallo. Dopo alcune battaglie dall’esito negativo,
tra cui quella di Roncisvalle di cui parla
sia Eginardo sia la Chanson de Roland,
Carlo riuscì a sottrarre al controllo islamico la Spagna settentrionale. Vittoriose furono anche le campagne militari
contro la popolazione degli Àvari, ai
quali i Franchi sottrassero un bottino
immenso, come racconta Eginardo.
Carlo assunse nei confronti della Chiesa
di Roma una condotta in linea con quella dei suoi predecessori carolingi: fedele
servitore di Roma, il re si pose sempre
come paladino della fede, senza mai
confondere potere spirituale e potere
temporale. L’episodio dell’incoronazione del Natale dell’800, tuttavia, conferma un intreccio tra religione e politica
che costituisce uno dei tratti originali
dell’età medievale. All’insaputa di Carlo, papa Leone III lo incoronò imperatore dei Romani, dando vita al Sacro romano impero, come leggiamo nel Liber
pontificalis. Con questo unico e astuto
gesto il papa rafforzava la propria posizione a Roma, disconosceva il potere degli imperatori bizantini, affermava che il
potere imperiale, discendendo da Dio,
era soggetto al papa.
Uno dei principali problemi di governo
che Carlo dovette affrontare fu quello di
dare omogeneità politica e culturale a un
impero che si presentava vasto ed eterogeneo. Diviso il territorio imperiale in
marche e contee affidate a funzionari pubblici, se ne assicurò il controllo diretto attraverso l’istituzione dei missi dominici,
come leggiamo in Teodulfo di Orléans.
n Eginardo Ritratto di Carlo Magno
n Notker I di San Gallo L’imperatore
di ferro
n Eginardo Realtà e leggenda di Roncisvalle. Un evento di secondo piano
n Anonimo di Chanson de Roland
Realtà e leggenda di Roncisvalle. La
Chanson de Roland
n Eginardo Tesori di guerra
n Anonimo di Liber pontificalis L’incoronazione di Carlo Magno
n Teodulfo di Orléans I sudditi e il potere
Il castello: simbolo
di una nuova società
[> Modulo 8]
In età carolingia si diffuse quella particolare forma di organizzazione politicosociale che caratterizzerà la società europea dei secoli IX-XII: il feudalesimo.
Con questo termine si intendono sia i
rapporti giuridico-politici basati sul vassallaggio, sia una particolare forma di organizzazione economica, il sistema curtense.
Carlo Magno, nel tentativo di legare a sé
l’irrequieta nobiltà franca, diede nuovo
impulso all’antica tradizione del vassallaggio, estendendola poi a tutte le terre
dell’impero. Si trattava di un vincolo di
natura morale, sancito da un giuramento, come quello rivolto a Carlo il Calvo,
che legava i potenti del regno al re: in
cambio di un beneficio, generalmente
un possedimento terriero, revocabile
dall’imperatore, i vassalli assicuravano al
signore fedeltà e sostegno militare, come
scrive Fulberto, vescovo di Chartres. I
vassalli di Carlo a loro volta ebbero altri
vassalli, sino alla creazione di una fitta
rete di relazioni.
Nel tempo, specie dopo la morte di Carlo Magno, i feudatari accentuarono la
tendenza a sottrarsi agli obblighi nei
confronti del potere centrale. Nell’877,
infatti, Carlo il Calvo fu costretto a emanare il capitolare di Quierzy, con il quale si riconosceva l’ereditarietà dei feudi
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Percorsi tematici
maggiori, ossia di quei feudi ottenuti direttamente dal sovrano. Successivamente questo privilegio fu esteso con la Constitutio de feudis, emanata da Corrado
II, a tutti i feudi, detti minori, perché
non concessi direttamente dall’imperatore, bensì da un feudatario ai suoi vassalli sovrano.
La graduale tendenza a ritagliarsi spazi
autonomi rispetto all’autorità centrale
ebbe il suo simbolo nel castello. Nati come fortezze per la difesa contro i nuovi
invasori – Saraceni, Ungari e Vichinghi
–, i castelli proliferarono anche quando
le invasioni cessarono e divennero emblema del potere coercitivo, il banno,
che il signore esercitava sul suo territorio.
Al nuovo ordinamento feudale corrispondeva un nuovo sistema economico,
fondato sulla curtis, la villa. Generalmente la villa comprendeva due parti: la
pars dominica, costituita dalle terre gestite direttamente dal proprietario; la
pars massaricia, costituita da un numero
variabile di poderi, affidati a singole famiglie di contadini o di servi, che dovevano al proprietario una parte del raccolto e servizi consistenti in giornate di
lavoro. Ne leggiamo una descrizione nel
celebre inventario redatto dall’abate Irminone.
n Carlo II il Calvo Il giuramento
n Fulberto di Chartres La fedeltà del
vassallo
n Carlo II il Calvo L’ereditarietà dei
feudi
n Corrado II La Constitutio de feudis
n Irminone La struttura di una curtis
carolingia
L’immaginario
dell’uomo medievale
[> Modulo 8]
L’uomo medievale – cavaliere, ecclesiastico o contadino che fosse – viveva all’interno di spazi e tempi dai confini imprecisati, in cui le distanze o le epoche
erano avvertite in modo confuso. Nella
geografia medievale accanto alle terre
popolate figuravano anche il paradiso
terrestre e l’inferno.
In tale prospettiva, il contatto tra la
realtà terrena e quella celeste era garantito dalle reliquie, i resti terreni della vita dei santi e di Gesù. Il possesso di una
reliquia era per una comunità o una
chiesa un requisito quasi indispensabile,
dal momento che il prestigio della reliquia si rifletteva sul luogo che la ospitava, come narra Guiberto di Nogent.
Il culto dei santi era a tal punto radicato
tra gli strati popolari da sfiorare forme di
idolatria pagana. In Francia, ad esempio, un cane ucciso dal suo padrone, dopo aver salvato il figlio di questi, era venerato dai contadini del luogo come un
martire: ne scrive l’inquisitore Etienne
de Bourbon.
L’immaginario popolare medievale si
nutriva soprattutto dei prodigi e delle
meraviglie operate dai miracoli: chiunque si rifiutasse di credere alla resurrezione di un animale a opera di santa Fede veniva considerato empio ed eretico,
nonché cieco di fronte all’evidenza, come leggiamo nella raccolta dei Miracoli
di santa Fede.
Era credenza comune che il tempo appartenesse a Dio e gli uomini che se ne
appropriavano commettevano un sacrilegio: per esempio, gli usurai che chiedevano gli interessi sul danaro prestato
non solo approfittavano delle disgrazie
altrui, ma speculavano sul tempo; ciò li
rendeva oggetto di condanne morali da
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parte della Chiesa, che leggiamo in Guillaume d’Auxerre.
Anche i fenomeni della natura venivano
interpretati dagli uomini del tempo come messaggi inviati da Dio. Ad esempio,
il passaggio della Cometa di Halley, nel
989, venne percepito come foriero di
eventi straordinari e terribili raccontati
da Rodolfo il Glabro. Questa visione timorosa e superstiziosa della realtà naturale conferma il sentimento precario
dell’esistenza e il pessimismo generale
presente nella cultura dell’epoca: la fine
del mondo, infatti, era sentita come vicina, come leggiamo in un componimento
poetico del XII secolo.
La stessa concezione della realtà sociale
si ispirava alla Trinità divina: il vescovo
Adalberone di Laon, all’inizio dell’XI
secolo, descrisse la società dell’epoca divisa in tre ordini: gli oratores, i bellatores,
i laboratores.
n Guiberto di Nogent Il potere delle
reliquie
n Etienne de Bourbon Il santo levriero
n Anonimo di Miracoli di santa Fede
Miracolo!
n Guillaume d’Auxerre Il tempo è di
Dio, non degli uomini
n Rodolfo il Glabro La cometa
n Anonimo di La vita è misera La vita
è misera
n Adalberone di Laon Pregare, combattere, lavorare
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