01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 1 Percorsi tematici Percorsi tematici I Percorsi tematici che presentiamo permettono di ampliare il manuale con unità didattiche costruite sui documenti presenti nel database Ares (www.laterza.it/scuola/ares/). Tutti i brani presenti in Ares sono consultabili on line e disponibili in formato Word. Racconti del diluvio universale [> Modulo 2] Il motivo del diluvio, cioè della sommersione di tutte le terre e della conseguente cessazione di ogni forma di vita, è assai diffuso in molte culture, anche assai lontane nel tempo e nello spazio, ma tutte caratterizzate da un rapporto importante con il mare e i grandi fiumi. Lo schema ricorrente è, a grandi linee, lo stesso: per effetto di una punizione divina tutte le terre vengono sommerse da una pioggia torrenziale o da un’inondazione; solo una o più coppie umane, avvertite della catastrofe imminente, si salvano su un’imbarcazione e, cessato il diluvio, raggiungono un approdo, rendono omaggio alla divinità e ripristinano il ciclo della vita. La più antica testimonianza sull’argomento ci viene da un poema, l’Epopea di Gilgamesh, che rappresenta l’esempio più alto della produzione letteraria di ambiente mesopotamico ed è frutto della fusione di molteplici racconti indipendenti, a lungo trasmessi in forma orale. Un altro racconto del diluvio è presente nella Bibbia e ha per protagonista il patriarca Noè: indubbie sono le affinità tra la narrazione della Genesi e quella dell’Epopea di Gilgamesh, tanto che si è a lungo ritenuto che quest’ultima sia stata fonte per la narrazione biblica. Oggi questa relazione di dipendenza è messa in discussione ed è più diffusa l’opinione che il racconto biblico derivi da una tradizione indipendente, molto antica. Anche il mito di Deucalione e Pirra, nelle parole dell’erudito e filologo greco Apollodoro, è un racconto del diluvio. Questa narrazione presenta notevoli analogie con l’Epopea di Gilgamesh, analogie che sembrano avere radice in un effettivo incontro e scambio culturale verificatosi, nell’VIII-VII secolo a.C., nell’Asia Minore frequentata dai Greci. La presenza dei racconti del diluvio in diverse culture ha spinto gli studiosi a cercare conferma nei dati archeologici di una avvenuta catastrofe naturale. Scavi archeologici condotti in più centri urbani mesopotamici hanno rivelato strati alluvionali, cioè depositi di detriti trascinati da inondazioni, che hanno fatto pensare a una grande catastrofe naturale di cui il diluvio di Utnapishtim sarebbe il ricordo. In realtà sembra che si sia trattato di una serie di episodi locali, non collegati tra loro, che hanno fornito all’invenzione letteraria poco più di un repertorio di immagini e un soggetto da rielaborare. Anche il racconto della Genesi è stato oggetto di indagini sul campo. In particolare, sulla base della tradizione ebraica che denomina il Monte Ararat, in Armenia, “Monte di Noè”, si è voluto identificare in questo massiccio montuoso, alto più di 5000 m, il luogo dove l’arca di Noè sarebbe approdata. DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 1 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 2 2 Percorsi tematici Di ciò non è stata riscontrata alcuna prova concreta. n Anonimo di Epopea di Gilgamesh La più antica narrazione del diluvio n Anonimo di Genesi Il racconto del diluvio nella Bibbia n Apollodoro Il diluvio dei Greci Storie di vivi e di morti [> Modulo 2] La percezione egizia della morte oscillava tra due sentimenti contrapposti: da un lato, una pessimistica rassegnazione rispetto a un aldilà immaginato come tetro e minaccioso; dall’altro, la visione serena di un aldilà immaginato come un mondo felice e privo di affanni. Ad esempio, il Canto dell’Arpista, rinvenuto scolpito sulla parete di un edificio tombale e databile alla fine del III millennio a.C., invita a non curarsi dei morti, a vivere e a godere della vita poiché l’ineluttabilità del destino non fa tornare in vita chi è morto: è evidente l’immagine di un aldilà percepito come angosciante e incombente. Allo stesso modo, nel Dialogo di un disperato con la sua anima, quest’ultima invita l’uomo a desistere dal suicidio, consigliandogli la vita terrena, in cui dilagano ingiustizia e malvagità, perché sicuramente preferibile alla sorte che attende gli esseri umani dopo la morte. In esplicita antitesi con la concezione della morte espressa nei canti precedenti si pone un’iscrizione ritrovata sulla parete di una tomba tebana del Nuovo Regno: l’aldilà viene descritto come un luogo giusto, corretto, privo delle lotte che invece insanguinano il mondo dei vivi e in cui non ci sono nemici. La morte non significava per gli Egizi la scomparsa dalla faccia della Terra: presente con la sua essenza spirituale, con il suo corpo reso incorruttibile dalla mummificazione, con la sua casa e la sua immagine fissate nella tomba e nella statua, il defunto continuava a intrattenere rapporti con i vivi. Non si trattava solo degli incontri che avvenivano periodicamente, quando i vivi si recavano al sepolcro per portare offerte e celebrare i rituali di commemorazione del defunto; si riteneva, infatti, che i morti interagissero costantemente con il mondo terreno e influenzassero direttamente l’esistenza delle persone con cui avevano avuto rapporti in vita. La rappresentazione più esplicita dell’idea che il trapassato fosse una personalità viva e attiva era costituita dalla pratica dei rapporti epistolari tra i vivi e i morti: possiamo leggerne un esempio nella Lettera alla defunta Ankhiry. n Anonimo di Canto dell’Arpista Che cosa è avvenuto di loro? n Anonimo di Dialogo di un disperato con la sua anima «O mia anima...» n Anonimo di Tebe Il paese della giustizia n Anonimo di Lettera alla defunta Ankhiry I vivi scrivono ai morti Storie ebraiche [> Modulo 2] Le tradizioni relative alle origini di Israele furono raccolte in alcuni libri dell’Antico Testamento. Ma i racconti biblici sono solitamente elaborazioni posteriori, spesso molto posteriori, agli eventi narrati e sono dunque basati su dati incerti e indiretti. Questa distanza cronologica, accanto all’intento dimostrativo su cui sono modellate le narrazioni, rende piuttosto scarsa la loro attendibilità storica. Il loro valore è dunque di carattere culturale: esse sono l’espressione del modo in cui gli ebrei rap- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 3 Percorsi tematici presentavano il loro passato e fondavano il rapporto con il loro Dio e con la loro terra. Ad esempio, la tradizione secondo cui Dio scelse Abramo per stabilire con lui e la sua discendenza un’alleanza eterna, come leggiamo nella Genesi, aveva un intento preciso: presentare come un evento unitario la migrazione nel territorio palestinese delle tribù d’Israele, già riunite sotto la guida dei patriarchi, e fissare un tempo storico ben preciso per la formulazione del patto tra Dio e il suo popolo, che legittimava il possesso della «Terra promessa» da parte degli ebrei. Anche le vicende della permanenza degli ebrei in Egitto e del loro successivo esodo verso la «Terra promessa» costituivano soprattutto il preludio di un evento fondamentale per la storia d’Israele: il nuovo patto tra Dio e il suo popolo e l’emanazione delle leggi divine per il governo della comunità, come leggiamo nell’Esodo. Attraverso questo impegno, stabilito una volta per tutte ancor prima dell’insediamento nella «Terra promessa», Israele si rappresentava come un popolo già perfettamente definito fin dal principio dalla fede monoteista e da precise regole religiose, morali e giuridiche. Mentre gli ebrei si rappresentavano come un gruppo etnicamente, socialmente e culturalmente definito fin dalle più lontane origini, ben diverso era il modo in cui gli “altri” vedevano gli ebrei. Gli “altri” erano i sedentari: i contadini e gli abitanti delle città della Siria e della Palestina, che subivano la pressione, spesso minacciosa, di gruppi di nomadi che i documenti di quel periodo chiamano con il termine accadico Habiru. Si è supposto che il nome “ebrei”, la cui origine è a tutt’oggi incerta, possa derivare da Habiru. Quindi nella percezione delle popolazioni cananee del II millennio a.C. le tribù d’Israele sarebbero confuse con quelle aggregazioni indistinte di nomadi, vagabondi, banditi che minacciavano costantemente la sicurezza di città e campagne, come leggiamo in una lettera ritrovata negli archivi egizi di ElAmarna. La penetrazione delle tribù d’Israele in Palestina, nella realtà storica, fu un fenomeno lento e tutt’altro che lineare. Laddove il contesto non era ostile, soprattutto nelle aree meno abitate delle campagne e negli spazi aperti, l’insediamento dei nuovi venuti si verificò verosimilmente attraverso la fusione con le popolazioni preesistenti. Inevitabilmente traumatico e violento fu invece l’impatto con le zone più densamente abitate, con i fiorenti centri urbani cananei e filistei: qui lo scontro diveniva inevitabile. Sono soprattutto questi scontri a caratterizzare, nel racconto biblico del Libro di Giosuè, l’occupazione della «Terra promessa». n Anonimo di Genesi L’alleanza n Anonimo di Esodo Il decalogo n Anonimo di Lettere di Amarna Ebrei-Habiru n Anonimo di Libro di Giosuè La conquista di Gerico Il mito e la storia [> Modulo 3] Il percorso ha come tema centrale il mito, ovvero una narrazione simbolica di fatti, con la quale gli antichi cercavano di spiegare ogni aspetto della realtà, dall’origine del mondo alla nascita delle tecniche, al destino che attende l’uomo dopo la morte. Ad esempio Eschilo, tragediografo greco vissuto ad Atene nel V secolo a.C., cercava di spiegare, attraverso il mito di Prometeo, non solo la nascita ma anche le acquisizioni culturali e tecniche DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 3 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 4 4 Percorsi tematici dell’uomo: Prometeo, proprio per l’aiuto concesso ai mortali, verrà punito da Zeus. All’origine del mito c’è spesso una realtà storica: nella tradizione orale i fatti reali si trasformano e diventano materia mitologica. Per Diodoro Siculo, ad esempio, il mito di Minosse, re di Creta, figlio di Zeus ed Europa, era il simbolo della potenza cretese. Inoltre, nelle civiltà antiche, la creazione del mito risponde anche al desiderio di individuare modelli di comportamento da seguire: elementi tipici della mitologia sono infatti gli eroi, personaggi dotati di caratteristiche fisiche e morali eccezionali. Benché si tratti di invenzioni narrative cantate dagli aedi, le gesta degli eroi mitici greci, tramandate nei due poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, sono riconducibili a un contesto storico ben preciso. Dietro le imprese di Odisseo, infatti, intravediamo le reali esperienze dei naviganti greci alla scoperta del Mediterraneo, come leggiamo nei versi di Omero. n Eschilo Prometeo e i mortali n Diodoro Siculo Minosse: fra storia e leggenda n Omero L’aedo n Omero Tra Scilla e Cariddi La pòlis: una città senza palazzo [> Modulo 3] Il percorso ha come tema centrale la pòlis, termine che indicava sia il centro urbano e il suo territorio, sia l’insieme dei cittadini, ossia degli abitanti della città che godevano dei diritti politici. Furono le aristocrazie guerriere, che condividevano un comune stile di vita e gli stessi ideali cantati da Omero, a valorizzare i rapporti di uguaglianza tra di loro e a creare così la nuova forma di governo collettivo. Un ulteriore passo verso la formazione di ideali di uguaglianza fu l’invenzione della falange oplitica, una tattica militare che prevedeva un blocco di soldati tutti uguali, che segnò il passaggio dall’eroe aristocratico al soldato della pòlis, come testimoniano i brani di Omero e di Tirteo. L’ascesa di nuove forze sociali tra il VII e il VI secolo a.C. creò all’interno del corpo civico contrasti – secondo Teognide –, che portarono all’accentramento del potere politico nelle mani di singoli individui: i tiranni, come leggiamo in Aristotele e Diodoro Siculo. I processi che portarono alla formazione delle pòleis e alla comparsa della tirannide furono sostanzialmente simili in tutto il mondo greco. Ma le forme di governo che si crearono furono due e diametralmente opposte: l’oligarchia, cioè il governo di pochi; e la democrazia, cioè il governo del popolo. n Omero I valori aristocratici n Omero Dall’eroe aristocratico all’oplita. Eroici furori n Tirteo Dall’eroe aristocratico all’oplita. Fianco a fianco n Teognide Odio aristocratico n Aristotele Il tiranno tra dispotismo e moderazione. Come i despoti orientali n Diodoro Siculo Il tiranno tra dispotismo e moderazione. Il buon tiranno La vita quotidiana degli dèi greci [> Modulo 3] Le pòleis greche, caratterizzate da una forte autonomia politica ed economica, erano spesso in guerra tra loro per interessi contrastanti o per rivalità. Nonostante ciò erano consapevoli di far parte di un’unica civiltà. Uno dei principali elementi di coesione per i Greci era si- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 5 Percorsi tematici curamente la religione. Gli dèi dell’Olimpo, monte in cui si immaginava vivessero, erano rappresentati in maniera fortemente antropomorfa, cioè avevano le sembianze e i caratteri dell’uomo e provavano i sentimenti, le passioni tipiche dell’uomo. Nell’Odissea di Omero è descritta la travolgente gelosia del dio Efesto per il tradimento della compagna Afrodite con Ares, mentre nell’Iliade la passione amorosa di Zeus per Era rivela quanto anche il dio fosse soggetto al desiderio, al pari degli uomini. Gli dèi greci non vivevano in una dimensione separata e inaccessibile, bensì nello stesso universo degli uomini: la familiarità con la loro presenza è testimoniata dal fatto che non esisteva una distinzione tra spazi sacri e spazi profani; le divinità non erano lontane, e la loro frequentazione caratterizzava ogni momento e ogni luogo significativi della vita quotidiana, come leggiamo in Aristotele. La religione greca non si fondava su una verità rivelata, non aveva alcun profeta fondatore, né possedeva alcun libro sacro; non c’era, di conseguenza, bisogno di sacerdoti. La religiosità greca infatti si esprimeva essenzialmente nell’osservanza dei culti e dei riti prescritti dalla tradizione. Tra questi riti particolare rilievo aveva il sacrificio di animali, cui seguiva un banchetto al quale partecipavano uomini e dèi insieme, come leggiamo nell’Iliade. Nella religione greca, infine, l’aldilà non dispensava né punizioni né ricompense: gli dèi si disinteressavano del destino ultraterreno dell’uomo. Tutte le anime dei defunti erano accolte nell’oltretomba, immaginato come un mondo triste e tenebroso così come testimoniano alcuni versi dell’Odissea. n n n n Omero Dramma della gelosia Omero La passione di Zeus Aristotele Gli dèi in cucina Omero Placare gli dèi n Omero Meglio ultimo dei vivi che primo dei morti La pòlis degli “uguali”: Sparta [> Modulo 3] Un esempio di regime oligarchico è dato da Sparta. Gli antichi attribuivano le caratteristiche peculiari della pòlis spartana a un personaggio avvolto nella leggenda: Licurgo, come racconta Plutarco. In realtà gli ordinamenti spartani furono il risultato di un graduale processo, che si completò nel VI secolo a.C. Un gruppo esiguo di cittadini, gli spartiati, che negli ideali di uguaglianza trovavano elementi di coesione – secondo le parole di Senofonte –, deteneva il controllo economico e politico della città. La loro unica attività consisteva nell’addestramento militare: il cittadino spartano, che sin da bambino era introdotto alla disciplina militare – secondo le parole di Senofonte –, era innanzitutto un soldato coraggioso e rispettoso dell’onore, così come emerge dai passi di Erodoto e di Tirteo. Di contro, la sfera privata aveva un peso estremamente ridotto, tanto che i pasti, frugali, erano consumati insieme, come leggiamo in Plutarco. Le attività produttive erano svolte dagli iloti, i discendenti delle popolazioni sottomesse dagli Spartani al momento del loro insediamento in Laconia. Gli iloti vivevano in condizioni di semischiavitù ed erano costantemente controllati dagli spartiati, che imponevano loro una condizione di degrado fisico e morale, come leggiamo in Ateneo e Plutarco. Altro elemento costitutivo della società spartana era rappresentato dai perieci, in posizione intermedia tra spartiati e iloti, che abitavano i dintorni della città. Nonostante il carattere semplice della vita condotta e la semplicità dell’assetto urbanistico, nelle parole di Tucidi- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 5 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 6 6 Percorsi tematici de, la comunità spartana era culturalmente vivace e aperta a influssi esterni, come leggiamo in Alcmane. n n n n n n n n n n Plutarco L’azione di un unico uomo Senofonte Un ideale di uguaglianza Senofonte L’educazione spartana Erodoto Eroismo spartano. Vincere o morire Tirteo Eroismo spartano. Giovani e vecchi Plutarco Le mense pubbliche Ateneo Un regime basato sul terrore. Un gruppo compatto e pericoloso Plutarco Un regime basato sul terrore. La missione notturna Tucidide L’immagine di Sparta Alcmane Poesie spartane Il popolo al potere: Atene [> Modulo 3] Il processo che portò alla formazione di un governo democratico ad Atene fu lento. Nel VII secolo a.C. anche Atene era retta da un governo aristocratico che, però, fu scosso da una forte crisi economica e sociale. Solone, un arconte di grande prestigio, introdusse una riforma che avrebbe dovuto portare la pace sociale. Ma i provvedimenti da lui presi – secondo Aristotele – crearono un ordinamento timocratico, cioè basato sul censo, che lasciò insoddisfatti sia i nobili, sia i poveri. Della difficile situazione approfittò Pisistrato, che, propostosi come difensore degli interessi del popolo, si impadronì del potere divenendo tiranno della città, come racconta Aristotele. Alla morte di Pisistrato raccolsero l’eredità politica paterna i figli Ippia e Ipparco. Armodio e Aristogìtone, gli uccisori di Ipparco, vengono ricordati da Ateneo come coloro che abbatterono la tirannide e ripristinarono la democrazia ad Atene. In realtà fu solo con le riforme di Clistene che si formò ad Ate- ne un governo democratico. Tucidide, uno storico greco del V secolo a.C., nella sua opera fa pronunciare a Pericle un elogio della democrazia. Indubbiamente un provvedimento come l’ostracismo, creato per salvaguardare gli ordinamenti democratici, si trasformò in un’arma politica per espellere dalla pòlis esponenti di fazioni avverse, come racconta Plutarco. n n n n Aristotele Autoritratto di Solone Aristotele Ambiguità di Pisistrato Ateneo Elogio dei tirannicidi Tucidide A favore della democrazia: un modello per tutta la Grecia n Plutarco L’ostracismo Gli esclusi dalla pòlis: gli schiavi [> Modulo 3] Nella nozione di cittadino proposta da Aristotele non figura una categoria di persone: gli schiavi. Gli schiavi, infatti, non erano cittadini, e non erano nemmeno “persone”. L’esclusione degli schiavi dalla pòlis era totale: essi erano considerati tali per natura, come esplicita Aristotele, e poche erano le voci che si levavano in loro favore, come quella del poeta tragico Euripide. Gli schiavi potevano essere venduti o comprati come se fossero cose o animali. Si diceva – come leggiamo in Platone e in Senofonte – che per ottenere da loro la massima efficienza fosse appunto necessario impiegare le stesse tecniche che si usavano con gli animali. Un esempio lampante di come fossero trattati gli schiavi si trova nelle Rane di Aristofane, un commediografo ateniese del V secolo a.C.: durante i processi, per avvalorare la propria tesi, si faceva ricorso alla testimonianza dello schiavo estorta sotto tortura, come se il supplizio fosse l’unica via per far emergere la verità da individui considerati inferiori. Nemmeno i meteci, DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 7 Percorsi tematici gli stranieri che abitavano nella pòlis, erano considerati cittadini. Ma essi erano rispettati perché erano individui liberi che davano un contributo fondamentale alla vita economica, come testimoniano le pagine di Senofonte e di Euripide. n Aristotele Visioni della schiavitù. Schiavi per natura n Euripide Visioni della schiavitù. Umanità schiavile (A) n Euripide Visioni della schiavitù. Umanità schiavile (B) n Platone Come trattare gli schiavi. Una proprietà difficile n Senofonte Come trattare gli schiavi. Cavalli, cuccioli e schiavi n Aristofane La tortura dello schiavo n Senofonte La condizione di meteco. Gli stranieri e il benessere della città n Euripide La condizione di meteco. Lo straniero ideale Una città “senza donne”: la pòlis greca [> Modulo 3] In Grecia la donna libera era definita, nella sua funzione sociale, dal matrimonio, nel quale svolgeva un ruolo del tutto passivo: era data in moglie dal padre al marito in seguito a un accordo, che non richiedeva il suo consenso. La donna arrivava al matrimonio da bambina, in una condizione intellettuale e psicologica ancora infantile, poiché era cresciuta tra le pareti domestiche senza ricevere un’adeguata istruzione. Inevitabilmente il marito, generalmente molto più grande, assumeva il ruolo di maestro ed educatore, come leggiamo in Senofonte. Nella dimora del padre e poi in quella del marito, le fanciulle imparavano quello che era ritenuto indispensabile alla loro formazione: cucire, filare e cucinare. Il divorzio, pur consentito dalla legge, era biasimato dal costume, tanto che i mariti si opponevano con forza a tali richieste, come ci racconta Plutarco. L’uomo invece poteva sciogliere il matrimonio in qualsiasi momento semplicemente ripudiando la moglie. È quanto accade a Medea, nell’omonima tragedia di Euripide, che incarna più di ogni altra nella letteratura antica la condizione femminile: essa è tradita e ripudiata dal marito Giasone. Le etère erano le uniche donne che godevano di libertà e tra loro si trovavano anche donne brillanti e istruite, come leggiamo nella Lettera di Teano a Nicostrate. A Sparta la condizione della donna era diversa: educata dalla pòlis, il suo compito era quello di generare bambini sani, destinati a diventare guerrieri coraggiosi e forti. Il loro modo di vita libero ed estroverso faceva sì che le donne spartane apparissero fiere e poco disposte a farsi dominare dall’altro sesso, come racconta Plutarco. Ma, escludendo il caso limite della donna spartana, in una società come quella greca, fortemente politicizzata, la donna non trovava spazio: il suo ruolo nella pòlis si riduceva a strumento di trasmissione del diritto di cittadinanza attraverso la procreazione di cittadini. n Senofonte La moglie addomesticata n Plutarco Quando è la moglie a volere il divorzio n Euripide Meglio combattere che partorire n Teano Dominare la gelosia n Plutarco Le donne spartane I Greci, i barbari e la libertà [> Modulo 3] Erodoto, storico greco del V secolo a.C. che raccontò le guerre persiane, nell’esordio della sua opera fa seguire, DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 7 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 8 8 Percorsi tematici a una definizione generica e comprensiva di “uomini”, una ripartizione in due gruppi, Greci e barbari: «Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turi, perché le imprese degli uomini col tempo non cadano in oblio, né le gesta grandi e meravigliose delle quali hanno dato prova così i Greci come i barbari rimangano senza gloria, e inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro» (Erodoto, Storie, Esordio). I barbari cui Erodoto fa riferimento, con i quali i Greci si scontrarono, sono i Persiani. La ripartizione di Erodoto è indizio di una concezione del mondo e dell’uomo “ellenocentrica”: l’“identità greca” costituisce una discriminante che divide il genere umano in due gruppi. Tutto il racconto erodoteo si configura come un raffronto fra due popoli in lotta. Ma il punto fondamentale, la differenza più evidente sta proprio qui: i Greci sono un popolo, mentre l’impero persiano, secondo lo storico, è costituito da un’accozzaglia confusa di genti diverse. Nella descrizione delle battaglie lo stesso Erodoto contrappone sempre l’ordine greco al caos barbaro. Il carattere universale dell’impero persiano si riflette nelle parole del re Dario, riportate in un’iscrizione monumentale della reggia a Susa, capitale dell’impero. L’imponenza e l’ostentazione del lusso sono un altro aspetto che caratterizza i barbari d’Asia e li differenzia fortemente dai Greci, come sottolinea Agamennone, nell’omonima tragedia di Eschilo, alla moglie Clitennestra. Ma l’elemento più importante di distinzione tra Greci e barbari va individuato nella sfera politica: le pòleis greche erano comunità basate sull’autogoverno dei cittadini, che teoricamente detenevano tutti gli stessi diritti; i barbari, invece, si piegavano al volere dispotico di un unico uo- mo: non erano cittadini ma sudditi, come leggiamo nei Persiani di Eschilo. n Erodoto Ordine e caos n Dario I di Persia Il palazzo di Dario n Eschilo «Drappi non stendere sul mio cammino...» n Eschilo I Greci, i barbari e la libertà Il mestiere di spia [> Modulo 3] In quello che potrebbe definirsi l’“ambito dello spionaggio” molti sono gli esempi riconducibili alla sfera dell’inganno, del tranello, dello stratagemma in Grecia. Già in Omero un intero libro dell’Iliade, la cosiddetta “Dolonia”, è dedicato a una storia di spionaggio: le spie del campo greco, Diomede e Odisseo, incontrano accidentalmente una spia del campo troiano, Dolone, che sarà costretto a rivelare informazioni preziose sui Troiani. I racconti riferiti allo spionaggio che Erodoto raccoglie sono in gran parte riconducibili alle vicende dell’impero persiano, e in particolare alla necessità dei suoi sovrani di esercitare un controllo capillare sui vasti territori imperiali. Ad esempio, il re Deioce pur vivendo asserragliato nel suo palazzo a Ectabana dispone di “occhi e orecchi” che gli consentono di esercitare un efficace controllo sull’intera regione da lui governata. Inoltre in più luoghi della sua opera Erodoto indugia sulla descrizione di metodi per comunicare segretamente. Anche Senofonte, storico greco vissuto a cavallo tra V e IV secolo a.C., e Diodoro Siculo, che visse nel I secolo a.C., si soffermano sulle qualità delle comunicazioni dell’impero persiano, indispensabili per ricevere il prima possibile informazioni utili. n Omero Lo scontro delle spie DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 9 Percorsi tematici n Erodoto Gli occhi e gli orecchi del re n Erodoto Messaggi segreti. Una lepre parlante n Erodoto Messaggi segreti. Tatuaggi n Erodoto Messaggi segreti. Sotto la cera n Senofonte Più veloci delle gru n Diodoro Siculo Messaggi acustici La cerchia di Pericle [> Modulo 3] Dall’epitaffio che Tucidide fa pronunciare a Pericle in memoria dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso si evince la consapevolezza dello statista ateniese di aver reso Atene la città più colta e civile dell’intera Grecia: «Affermo che siamo il luogo di educazione dell’Ellade» (II, 41, 1). Plutarco racconta che la politica culturale di Pericle prevedeva anche un programma di opere pubbliche, che avrebbero procurato alla città una fama perenne; la direzione dei lavori fu affidata a Fidia il quale, con lo storico Erodoto, il tragediografo Sofocle e l’etèra Aspasia, costituiva una cerchia di ingegni vicini allo statista ateniese. Il rapporto disinvolto con Aspasia e la politica estera spregiudicata gli alienarono le simpatie di alcuni concittadini, che lo criticarono duramente come leggiamo in Tucidide, Eupoli e Platone. In particolar modo veniva imputata a Pericle la responsabilità dello scoppio della guerra contro Sparta: i malumori dei contadini gravemente danneggiati dalla guerra sono ben descritti in una commedia di Aristofane. Nelle rappresentazioni teatrali, infatti, si aprivano spazi importanti al dissenso e alla satira. Durante il trentennio in cui Pericle guidò la città attica, il teatro conobbe un grande sviluppo e giunse a es- sere un fenomeno di massa, poiché fu introdotto il theorikòn, un contributo che permetteva anche ai più poveri di assistere agli spettacoli. Il teatro divenne così un elemento importante della vita politica ateniese: gli spettacoli infatti esprimevano i valori fondamentali della pòlis. n Plutarco L’Atene di Pericle e Fidia. Una giovinezza perenne n Plutarco L’Atene di Pericle e Fidia. L’artista infamato n Plutarco Aspasia l’etèra n Tucidide Giudizi su Pericle. Una guida autorevole e incorruttibile n Eupoli Giudizi su Pericle. Il potere della parola n Platone Giudizi su Pericle. Un politico corrotto n Aristofane Proteste in teatro Perché le guerre? [> Modulo 3] Nelle società antiche, e quindi anche nel mondo greco, la guerra era un’attività quasi costante. Ad esempio, Atene nel secolo e mezzo che va dalle guerre contro i Persiani (490 a.C. e 480-479 a.C.) alla battaglia di Cheronea (338 a.C.) fu in guerra per più di due anni su tre. La guerra era considerata una condizione normale dell’esistenza, paragonabile a un fenomeno naturale. In misura maggiore o minore, tutte le società antiche erano società “guerriere”. Per una comunità, la guerra era spesso l’unica occasione di arricchimento. Si combatteva per rapinare e per difendersi oppure, più semplicemente, perché l’arte della guerra era un ideale, un codice morale. Gli storici antichi parlano quasi sempre di eventi bellici e si soffermano spesso a considerare le cause dei conflitti. DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 9 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 10 10 Percorsi tematici Erodoto, per spiegare l’origine profonda dello scontro tra Greci e Persiani, risale, ad esempio, a un passato più o meno leggendario o mitico. Tucidide, storico greco contemporaneo di Erodoto, fu l’unico tra gli storici a riflettere in maniera più approfondita sulle cause degli scontri, introducendo una distinzione di tipo nuovo tra cause immediate e cause profonde del conflitto che oppose Sparta e Atene per circa 30 anni. Lo stesso Tucidide individua nella politica imperialistica degli Ateniesi la causa del massacro compiuto a danno dei Melii. n Erodoto Di chi è la colpa? n Tucidide Dinamismo e immobilismo n Tucidide Le cause di una grande guerra n Tucidide La neutralità impossibile Il re scelto dal destino: Alessandro [> Modulo 3] La nascita di Alessandro, come quella di altri personaggi storici che hanno lasciato una forte impronta nella memoria dell’umanità, si diceva fosse stata accompagnata da segni inconsueti, come ci narra Plutarco. Si tratta ovviamente di racconti elaborati successivamente, che contribuirono a rendere leggendaria la sua figura. Sicuramente l’aspetto fisico, la forte personalità, il carattere e il coraggio del Macedone favorirono la creazione di questi racconti, che leggiamo in Diodoro Siculo. Ma fu l’impresa compiuta in Asia, la spedizione militare contro i Persiani, che consacrò Alessandro tra gli immortali. La sequenza ininterrotta delle vittorie dell’armata macedone da lui guidata convin- se Alessandro della sua natura semi-divina, tanto da farsi proclamare figlio di Zeus dall’oracolo di Zeus Ammone nell’Egitto appena conquistato, come racconta Curzio Rufo. Lo stesso autore narra di come, poi, questa natura divina avrebbe trovato conferma in un fenomeno inspiegabile che accadde alla morte di Alessandro. In Alessandro l’idea di una investitura divina si associava a quella di impero universale. Alessandro infatti assunse il titolo di Gran Re e i contrassegni esteriori tipici dei sovrani persiani, atteggiandosi a loro legittimo successore. La sua idea di monarchia universale e divina divenne un fattore di coesione tra le diverse realtà politiche e sociali dell’impero, contribuendo a suo modo al superamento delle differenze locali. La politica matrimoniale fu indubbiamente una delle strategie messe in campo da Alessandro per favorire la fusione fra vincitori e vinti, come racconta Arriano. n Plutarco La giovinezza di Alessandro. I segni del destino n Diodoro Siculo Il primato del coraggio n Curzio Rufo Alessandro dio. Figlio di Zeus n Curzio Rufo Alessandro dio. Un fatto miracoloso n Arriano Nozze esemplari La scienza e le macchine [> Modulo 3] In età ellenistica si verificarono notevoli progressi scientifici. Alcune dinastie, come quella dei Tolomei, promossero fortemente la medicina, come racconta Celso. Furono anche costruite nuove macchine, che stupirono i contemporanei e non smettono di meravigliare i posteri. Si DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 11 Percorsi tematici tratta di gigantesche macchine belliche, adoperate soprattutto nell’arte degli assedi, come racconta Plutarco, oppure di giocattoli straordinari, che miravano a sorprendere gli spettatori e ad accrescere il prestigio dei loro ricchi possessori, come leggiamo in Ateneo e Polibio. Gli scienziati, tuttavia, ritenevano di doversi occupare soprattutto di indagini teoriche e che l’applicazione tecnica delle loro scoperte non li riguardasse, come nel caso di Archimede narrato da Plutarco. Era diffusa, in altre parole, la convinzione che la ricerca del progresso tecnico fosse indegna di uno scienziato. Ciò che distingue la scienza moderna da quella antica è l’uso del cosiddetto “metodo sperimentale”. Tuttavia, alcuni passi di Vitruvio ed Erodoto mostrano con chiarezza che la cultura greca non era del tutto priva dell’idea di esperimento. n Celso La medicina ellenistica n Plutarco Il gigante «prendicittà» n Ateneo Macchine meravigliose. Una statua automatica n Polibio Macchine meravigliose. Un’automobile? n Plutarco Archimede e il disprezzo per la tecnica n Vitruvio Gli antichi e l’esperimento. Per smascherare un imbroglio n Erodoto Gli antichi e l’esperimento. Un laboratorio linguistico Storie di Romolo [> Modulo 4] La leggenda delle origini di Roma fu ripetuta infinite volte dagli storici antichi, in un grande numero di varianti. La storia di Romolo e Remo è anzitutto una grande avventura, piena di colpi di scena: l’abbandono dei neonati in una cesta affidata alla corrente del fiume, la lupa che li allatta, il pastore che li alleva, la vendetta, la fondazione della città destinata a dominare il mondo... Ma è anche una vicenda tragica, che culmina nella rivalità tra i gemelli e nel fratricidio. Fin dall’antichità, il racconto più famoso è sempre stato quello di Tito Livio. Plutarco, inoltre, presenta Romolo come un personaggio quasi divino, il quale, compiuta la sua opera, sarebbe scomparso nel nulla per entrare in una dimensione celeste. I Romani insistevano sul carattere “aperto” della loro città, fin dalle sue origini, e garantivano accoglienza agli stranieri senza preclusioni etniche né sociali. L’importante era che essi partecipassero con entusiasmo e con valore alla nascita della nuova città, come racconta ancora Plutarco. n Livio Romolo e Remo n Plutarco Romolo ascende al cielo n Plutarco Una città aperta L’ordinamento sociale nella Roma arcaica [> Modulo 4] Durante il periodo monarchico e nel primo secolo della repubblica lo strato superiore della società romana era costituito dai patrizi. Questi detenevano il potere economico e dominavano totalmente la vita politica. L’altro ordine della società romana arcaica era la plebe, esclusa da qualsiasi partecipazione alla vita politica. I rapporti tra patrizi e plebei erano regolati dall’istituto della clientela, come leggiamo in Livio. Il cliente contraeva un rapporto di fedeltà, fides, con un patrizio e ciò lo obbligava a fornire prestazioni di lavoro e a sostenere devotamente il suo protettore: è quanto apprendiamo da un DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 11 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 12 12 Percorsi tematici articolo di legge; a sua volta, il patrizio offriva al cliente la sua protezione. Lo sviluppo economico, militare e sociale della Roma arcaica fu la causa del conflitto esploso all’inizio del V secolo a.C. tra patrizi e plebei. I plebei rivendicavano una maggiore partecipazione alla vita politica e il miglioramento della condizione economica attraverso la cancellazione dei debiti. Lo strumento attraverso cui la plebe raggiunse i suoi obiettivi fu la “secessione”. Il primo grande successo dei plebei fu la creazione di istituzioni proprie come il tribunato della plebe, come racconta Livio; il secondo fu la redazione delle prime leggi scritte, le Dodici Tavole. Solo nel 367 a.C., con le leggi Licinie-Sestie, ai plebei fu riconosciuto il diritto di accedere al consolato. Ma questa parificazione non pose fine agli squilibri sociali. Si formò infatti una nuova oligarchia, composta dai patrizi e dai plebei più ricchi e potenti. La società romana ebbe ora dei nuovi protagonisti: i nobili. I nobili sono tali perché possono vantare antenati illustri, che hanno ricoperto magistrature importanti. Per questo, nelle loro dimore, hanno grande risalto i ritratti (imagines) degli antenati, che testimoniano l’importanza di una famiglia nobile nella storia della città, come racconta Polibio. n Livio Patroni e clienti. Claudio e il suo seguito n Anonimo di Fontes Iuris Romani Antejustiniani Patroni e clienti. Un rapporto basato sulla fides n Livio La prima secessione e il tribunato della plebe n Anonimo di Dodici Tavole Le Dodici Tavole n Polibio Quando muore un nobile Le donne a Roma [> Modulo 4] La condizione della donna romana era per molti aspetti simile a quella della donna greca. Prima di esaminare i documenti relativi alle donne romane è necessario precisare, tuttavia, che le fonti antiche ci presentano molto spesso un quadro idealizzato della condizione femminile. Gli storici, in particolare, amavano celebrare l’esempio di donne eccezionali, proposte come modello di virtù. Spesso attorno a questi personaggi femminili ruotavano avvenimenti fondamentali della storia di Roma. L’episodio di Lucrezia è uno dei più emblematici: la nobile matrona romana infatti, dopo essere stata oltraggiata dal figlio di Tarquinio il Superbo, si libera dal disonore uccidendosi. L’episodio viene presentato da Livio come la causa principale della caduta della monarchia. Come testimoniano le numerose iscrizioni funebri giunte sino a noi, la donna ideale doveva possedere virtù quali la castità, la laboriosità, l’amore per la casa, il coraggio nel mettere al mondo i figli, la capacità di allevare i figli, la devozione verso il marito. L’amore tra i coniugi era a Roma una circostanza fuori dal comune, quasi un evento eccezionale, come racconta Valerio Massimo; Porcia, figlia di Catone l’Uticense, mostra invece un esempio di assoluta dedizione nei confronti del marito, uccidendosi dopo aver appreso la notizia della morte del suo compagno di vita, Bruto, come narra ancora Valerio Massimo. Era comunque ritenuto sconveniente manifestare fuori dalle pareti domestiche le affettuosità coniugali, come racconta Plutarco. Esemplare del coraggio virile rischiesto alle donne è la cosiddetta Laudatio Turiae, un’iscrizione scritta dal marito in onore della moglie morta: Turia, oltre a DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 13 Percorsi tematici possedere tutte le virtù canoniche della matrona romana, aveva anche salvato coraggiosamente la vita del marito. L’immagine ideale della madre romana – che chiude il nostro percorso nelle parole di Plutarco – è quella di Cornelia (II secolo a.C.): come tale ella è stata celebrata dalla tradizione e la sua fama ha attraversato i secoli. n Livio Lucrezia n Anonimo di Corpus Inscriptionum Latinarum Ritratti femminili n Valerio Massimo Uniti per sempre. Il sepolcro dei due innamorati n Valerio Massimo Uniti per sempre. Una donna virile n Plutarco Un po’ di contegno! Pubbliche smancerie n Plutarco Un po’ di contegno! Amore domestico n Anonimo di Inscriptiones Latinae Selectae Una moglie eroica n Plutarco Cornelia, madre dei Gracchi (A) n Plutarco Cornelia, madre dei Gracchi (B) L’imperialismo romano [> Modulo 4] Il percorso ha come tema centrale l’imperialismo romano, cioè il processo di conquista che portò i Romani a sottomettere altri popoli al fine di costruire un impero. Lo storico Polibio (II secolo a.C.) ha individuato il momento iniziale di questo processo nell’occupazione della Sicilia e nelle conseguenti guerre puniche. Secondo il poeta latino Virgilio, invece, l’odio fra Romani e Punici ha inizio con la vicenda d’amore tra Enea e Didone. Abbandonata dall’eroe troiano, fondatore della stirpe romana, Didone muore suicida. Il racconto delle guerre puniche ci è pervenuto esclusivamente da fonti romane, le quali volutamente hanno evidenziato, da un lato, i pregiudizi etnici nei confronti degli avversari, dall’altro, le virtù proprie dei generali romani, anche quando sono responsabili di sconfitte. Ad esempio, il ritratto di Annibale tramandatoci dallo storico Livio rispecchia a pieno i preconcetti che i Romani nutrivano nei confronti dei Cartaginesi: crudeltà, falsità e spregiudicatezza sono gli attributi con cui è caratterizzato il generale punico. Per contro, al console romano Terenzio Varrone, responsabile della sconfitta subìta dai Romani presso Canne, nelle parole dello stesso Livio vengono tributati onori e acclamazioni di popolo per aver comunque combattuto coraggiosamente in difesa della repubblica. Secondo Polibio, invece, che per primo ha analizzato il fenomeno dell’imperialismo romano, il successo di Roma era da attribuire alla perfetta organizzazione dell’esercito, oltre che alla sua forma di governo, la “costituzione mista”. n Polibio I Romani alla conquista del mondo n Virgilio Un odio eterno n Livio Ritratto individuale e pregiudizi etnici n Livio Onori a un generale sconfitto n Polibio Castighi e ricompense. Punizioni individuali e decimazioni n Polibio Castighi e ricompense. L’importanza dell’emulazione I Romani visti dagli altri [> Modulo 4] Nel processo di formazione dell’identità culturale romana l’incontro-scontro con la civiltà greca ebbe grande importanza. I Greci, fortemente impressionati dai successi di Roma nel Mediterraneo, avanzarono diverse ipotesi per spiegare DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 13 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 14 14 Percorsi tematici il fenomeno. Il filosofo Carneade, in ambasceria a Roma, interpretò l’espansionismo romano come una pratica di rapina, come racconta Lattanzio. Lo stesso Filippo V, il re di Macedonia sconfitto dai Romani, dei vincitori ammirava la mentalità aperta, che li aveva portati al successo. Anche lo storico Dionigi di Alicarnasso aveva individuato il motivo del successo romano nella politica della cittadinanza più aperta di quella greca. Gli ebrei, dal canto loro, videro nei Romani, in un primo momento, una comunità di uomini giusti, vittoriosi sui nemici e generosi con gli amici, come leggiamo nel libro biblico dei Maccabei. Dal contatto con la raffinata e colta cultura greca la civiltà romana, più orientata verso la semplicità dei costumi, trasse grande vantaggio. Non mancarono tuttavia episodi di ostilità nei confronti della cultura greca, specie da parte degli ambienti più tradizionalisti che facevano capo a Catone, i quali temevano che il contatto con la civiltà ellenica corrompesse gli antichi costumi romani, come racconta Plutarco. n Lattanzio Tornare alle capanne? n Filippo V di Macedonia Fate come i Romani! n Dionigi di Alicarnasso Confronto tra i Greci e i Romani n Anonimo di Libro dei Maccabei I Romani visti dagli ebrei n Plutarco Chi ci salverà dai Greci? La crisi sociale e le riforme [> Modulo 5] All’inizio del II secolo a.C. Roma era ormai diventata un impero. L’afflusso di ingenti ricchezze dai territori conquistati determinò profondi cambiamenti sul piano economico e sociale. Per prima cosa, la formazione di vasti latifondi portò all’impoverimento di contadini, come racconta Appiano, i quali andarono a ingrossare le file del proletariato urbano. I contadini, inoltre, furono fortemente danneggiati anche dall’incremento della manodopera schiavile, frutto delle recenti conquiste, come racconta Varrone. Queste trasformazioni sociali, verificatesi in un lasso di tempo relativamente breve – circa un secolo – determinarono l’insorgere di tensioni e conflitti sociali. Alcuni uomini politici di tendenze progressiste tentarono di risolvere tali conflitti avanzando alcune proposte di riforma. Tra tutti spicca Tiberio Gracco, tribuno della plebe nell’anno 133 a.C., il quale propose una legge agraria che prevedeva la redistribuzione delle terre dello Stato ai contadini sottraendole ai latifondisti. Dieci anni dopo Gaio Gracco, fratello di Tiberio, anch’egli tribuno della plebe, cercò di attuare un programma di riforme che prevedeva, tra le diverse proposte, l’estensione della cittadinanza agli Italici. Anche a ciò la reazione della maggioranza dei senatori culminò in una strage, come racconta Plutarco. n Appiano La crisi delle campagne italiche n Varrone Gli «strumenti parlanti» n Plutarco Morte di Gaio Gracco Le rivolte in Italia [> Modulo 5] Nel II e nel I secolo a.C. alcune rivolte si verificarono in Italia e in Sicilia (pur essendo una provincia, la Sicilia era considerata, per la sua vicinanza, quasi una parte dell’Italia). Furono avvenimenti gravi, che scossero fortemente l’opinione pubblica romana: era infatti dai tempi della Seconda guerra punica che nel- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 15 Percorsi tematici la penisola non si verificavano episodi del genere. Queste rivolte furono di due tipi. Ci furono anzitutto le «guerre servili», chiamate così perché ne furono protagoniste grandi masse di schiavi. La prima rivolta scoppiò in Sicilia tra il 139 e il 132 a.C. Lo storico Diodoro Siculo individua le cause della sommossa nel crudele trattamento inflitto dai padroni agli schiavi che coltivavano le loro terre. Di tutt’altro genere fu la terribile «guerra sociale», scoppiata nel 90 a.C. Questa volta il fronte dei rivoltosi non era costituito da bande di schiavi, ma da intere comunità italiche, composte da individui di condizione libera che in molti casi avevano già militato nell’esercito romano in qualità di alleati, come racconta Velleio Patercolo. I ribelli ricorsero all’uso della forza perché erano andati falliti tutti i tentativi (a cominciare da quello di Gaio Gracco) di trovare una soluzione politica al problema della cittadinanza romana, dalla quale gli Italici erano ingiustamente esclusi. Sconfitti sul piano militare, gli Italici, tuttavia, ottennero rapidamente la parificazione politica. n Diodoro Siculo Anatomia di una rivolta n Velleio Patercolo Le ragioni degli Italici La guerra tra le fazioni [> Modulo 5] La vita politica romana fu animata nel I secolo a.C. dagli scontri tra le fazioni dei populares e degli optimates, come racconta Cicerone. In questi scontri il contenuto sociale era relegato in secondo piano, mentre rivestiva una importanza preponderante la questione del potere politico e, in particolare, quello dei capi delle fazioni. Il primo di una lunga serie di scontri si ebbe tra Mario, capo dei populares, e Silla, capo degli optimates. In qualità di comandanti militari, entrambi poterono contare sull’appoggio delle loro truppe. La vittoria di Silla su Mario fu accompagnata da una spietata reazione dei sillani nei confronti degli avversari, come racconta Appiano. A questi disordini si aggiunse la rivolta guidata nel 73 a.C. da un gladiatore di origine tracica, Spartaco. Le forze ribelli riuscirono addirittura a sconfiggere le legioni in alcune battaglie campali, ma non potevano competere con l’organizzazione e con la potenza dell’esercito romano. Anche se a fatica, l’ordine fu ripristinato e i ribelli furono giustiziati, come racconta Appiano. Nel 63 a.C. Catilina, uno degli esecutori delle stragi sillane, fu protagonista di un progetto eversivo scongiurato dal console in carica Marco Tullio Cicerone. Grazie anche alle orazioni pronunciate in senato per denunciare Catilina, Cicerone riuscì a far giustiziare i congiurati. La guerra civile scoppiata qualche decennio dopo tra Pompeo e Cesare riproponeva ancora una volta la solita contrapposizione: Pompeo era schierato dalla parte degli optimates, Cesare dalla parte dei populares. L’enorme potere acquisito da Cesare al termine della guerra era un chiaro segno del tramonto delle istituzioni repubblicane. Nemmeno l’assassinio di Cesare ridiede vigore alla legalità repubblicana. Il ricorso alle liste di proscrizione per eliminare i nemici, come racconta Plutarco, da parte di Marco Antonio e Ottaviano, gli eredi di Cesare, e lo scontro tra i due per chi dovesse ufficialmente raccogliere l’eredità del dittatore, che leggiamo nei versi di Orazio, segnarono la fine della repubblica. DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 15 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 16 16 Percorsi tematici n Cicerone Il primato degli «uomini buoni» n Appiano Le stragi sillane n Appiano La rivolta di Spartaco n Cicerone «Fino a quando, Catilina?» n Plutarco La morte di Cicerone n Orazio La strage fraterna Cesare storico [> Modulo 5] La fama di Giulio Cesare è legata al fatto di essere stato, al tempo stesso, uomo d’azione e uomo di cultura, condottiero e storico. Gran parte di quello che sappiamo sulle imprese di Cesare lo dobbiamo a Cesare stesso, che fu quindi il creatore del proprio mito. La sua opera principale è il cosiddetto De bello Gallico (La guerra gallica), che narra, in sette libri, l’intero svolgimento della conquista della Gallia, dal suo inizio, nel 58 a.C., alla sua conclusione, nel 52. Già gli antichi discutevano sul valore artistico di quest’opera, che ebbe, fin dalla pubblicazione, i suoi ammiratori e i suoi detrattori, nel nostro percorso Cicerone e Asinio Pollione. Oggi, il giudizio su Cesare storico è, tranne qualche rara eccezione, decisamente positivo. Con una prosa asciutta, rapida, apparentemente fredda e distaccata, Cesare racconta le battaglie, i colpi di scena, la forza e la debolezza dei nemici, il coraggio e la determinazione dei Romani, analizza le situazioni politiche, espone le ragioni delle proprie decisioni. Le sue azioni non appaiono mai impulsive, ma sempre dettate dalla riflessione. Prima di aggredire i nemici, Cesare cerca di comprendere la loro cultura, i loro costumi. Si devono a Cesare anche le prime descrizioni del modo di vita di popolazio- ni quali i Germani e i Galli, sulle quali la cultura greca e romana aveva fino a quel momento notizie piuttosto vaghe. Solitamente si riteneva anzi che Germani e Galli fossero due denominazioni diverse della stessa gente. Cesare spiega invece che si trattava di due culture diverse, e dimostra che i Galli erano un popolo molto più civilizzato dei Germani. Nel De bello Gallico non troviamo soltanto acute descrizioni delle popolazioni con cui Cesare entrò in contatto. Vi troviamo anche alcuni straordinari ritratti individuali, primo fra tutti, quello del grande Vercingetorige, il capo degli Arverni che fu sul punto di sconfiggere il generale romano. n Cicerone Giudizi su Cesare storico. Una pura e luminosa brevità n Asinio Pollione Giudizi su Cesare storico. Una stesura provvisoria e imprecisa n Cesare Cesare e la società dei Galli n Cesare Cesare e la società dei Germani n Cesare Vercingetorige. Un avversario degno di questo nome n Cesare Vercingetorige. La sconfitta Gli storici e gli imperatori [> Modulo 5] La storiografia relativa agli imperatori romani è, in gran parte, espressione dell’ideologia senatoria. I senatori, come Tacito, rimpiangevano l’età repubblicana (durante la quale il senato era stato l’organismo politico più potente) e condannavano il regime imperiale perché con esso sarebbe scomparsa la libertà. I più cauti affermavano che il regime imperiale era un male necessario per scongiurare il ripetersi di nuove guerre civili. DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 17 Percorsi tematici La stessa figura di Augusto, a cui tutti riconoscevano il merito di aver donato la pace al mondo romano, non era esente da critiche, come ci racconta lo stesso Tacito. I sovrani della dinastia giulio-claudia, invece, sono tutti caratterizzati negativamente. I racconti sul loro conto sembrano ricalcare uno schema costante, che fa nascere nel lettore dei sospetti: dopo un iniziale periodo di buon governo, improvvisamente il carattere e i comportamenti del principe si corrompono. Tiberio, ad esempio, è rappresentato da Svetonio come un crudele dissimulatore; Caligola, sempre da Svetonio, come l’emblema della crudeltà; Claudio è descritto da Tacito come succubo delle mogli e, soprattutto, dei liberti: l’astio nei confronti di Claudio è dovuto in parte al fatto che egli aprì il senato ai provinciali; Nerone è rappresentato da Tacito come l’incarnazione della follia e della crudeltà. Ma la stessa realtà può essere giudicata anche da altri punti di vista. Sappiamo, per esempio, che sia Tiberio sia Claudio furono buoni amministratori e che sotto di loro l’impero visse un periodo florido, i traffici con le province si intensificarono e l’urbanizzazione raggiunse punte molto alte; le stranezze di Caligola e di Nerone testimoniano, anche, la volontà di trasformare il principato in una monarchia di stampo orientale e, nel caso di Nerone, con le parole di Svetonio, di avvicinarsi ai sentimenti della plebe. Altri imperatori hanno invece lasciato un ricordo positivo nella tradizione. Tito, ad esempio, viene definito da Svetonio «amore e delizia del genere umano». L’apice negli elogi si raggiunge tuttavia con Traiano, il cui comportamento viene disegnato da Cassio Dione come improntato alla razionalità, al coraggio e alla lealtà, virtù tipiche del cittadino romano. Si può affermare, in generale, che nei confronti degli imperatori che si mostrarono disponibili e aperti verso il senato la storiografia espresse giudizi favorevoli; mentre verso quelli che accentuarono nel loro governo tratti dispotici furono espressi giudizi negativi. n Tacito La storiografia della libertà perduta n Tacito Opinioni divergenti sulla figura di Augusto. A favore n Tacito Opinioni divergenti sulla figura di Augusto. Contro n Svetonio Ritratti a fosche tinte. Un ipocrita ambizioso n Svetonio Ritratti a fosche tinte. Il volto demoniaco del potere n Tacito Governare vuol dire assimilare n Tacito Nerone auriga e citaredo n Svetonio Fiori sulla tomba di Nerone n Svetonio Amore e delizia del genere umano n Cassio Dione Traiano e Decebalo Gli spettacoli e il consenso [> Modulo 5] L’imperatore Augusto aveva ben compreso l’importanza della cultura e degli intellettuali ai fini della propaganda politica. A tale scopo si servì del circolo di poeti e scrittori costituito da Mecenate. I letterati divennero, quindi, parte integrante di una vasta operazione di organizzazione del consenso. Essi infatti celebrarono nelle proprie opere la grandezza di Roma e del principe e la pax Augusta. Orazio, ad esempio, cantò nelle Odi i meriti di Augusto e dei generali romani per le vittorie da loro conseguite. Virgilio, più di ogni altro, sembrò rispecchiare i valori e i princìpi augustei. Nelle sue DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 17 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 18 18 Percorsi tematici Georgiche la civiltà italica e la tradizione agricola sono esaltate in pieno accordo con la politica augustea, che mirava a sostenere la classe dei piccoli proprietari terrieri e a riconfermare i valori morali e religiosi legati all’antica civiltà agricola; nell’Eneide il poeta imposta il racconto nella prospettiva della missione universale di Roma, mentre l’impero di Augusto diventa il centro e il fine della storia. Una funzione importante nella diffusione del consenso era svolta anche dagli spettacoli, organizzati per il divertimento della plebe: per gli spettatori erano un’occasione di manifestare i propri stati d’animo, per l’imperatore di stabilire un legame con il popolo. Le corse dei cavalli e dei carri, che si svolgevano nel circo, davano agli aurighi vincitori fama e posizione invidiabili, come leggiamo nei versi di Sidonio Apollinare, di Marziale e in un’iscrizione. Fra gli spettacoli più amati dalla plebe erano certamente i combattimenti dei gladiatori e le “cacce”: un’eco delle meraviglie esibite negli anfiteatri si ascolta nei versi di Calpurnio Siculo. Non tutti gli spettatori, però, apprezzavano le feroci esibizioni nell’arena: il filosofo Seneca, ad esempio, riteneva che esse inducessero la folla a cattivi comportamenti. n n n n n n n n Orazio Al principe di tutte le genti Virgilio Lode dell’Italia Virgilio L’uomo del destino Sidonio Apollinare Emozioni e personaggi del Circo. Via col vento Marziale Emozioni e personaggi del Circo. La meta della morte Anonimo di Inscriptiones Latinae Selectae Emozioni e personaggi del Circo. Un’orgogliosa contabilità Calpurnio Siculo La natura selvaggia nel cuore di Roma Seneca Uno spettatore disgustato Roma caput mundi [> Modulo 5] Le rovine delle città romane ci trasmettono spesso un’immagine di ordine e di solennità. Ma la realtà era molto diversa. Roma era la città più popolosa dell’antichità, abitata da una gran massa di disoccupati, come leggiamo in Svetonio. Il sovraffollamento rendeva particolarmente urgente il problema dell’insufficienza degli alloggi. I prezzi degli affitti erano alle stelle e si pubblicizzava l’offerta di appartamenti tramite annunci (come quello di Giulia Felice), mentre la loro abitabilità era piuttosto precaria: lo sviluppo in altezza delle abitazioni continuò e le insulae, gli «isolati» formati dai palazzoni costruiti perlopiù in legno, erano facile preda degli incendi. Le strade, di giorno, erano veri e propri alveari umani, affollate e rumorose, tanto da apparire, a chi non riusciva ad attraversarle in lettiga, dei gironi infernali. Attraversare le strade di notte significa correre il rischio di essere colpiti da oggetti di varia natura provenienti dai tetti e dalle finestre, oppure essere rapinati. Tutte queste situazioni di disagio rivivono nei versi di Giovenale e Marziale. Affollate al pari delle strade erano le terme, le quali oltre alla funzione igienica svolgevano anche una rilevante funzione sociale: erano luogo di incontro, di svago, di scambio di idee. La vivacità delle terme rappresentava un vero e proprio problema per chi aveva la sfortuna di abitarvi vicino, come il filosofo Seneca. n Svetonio Evitare la disoccupazione n Anonimo di Inscriptiones Latinae Selectae Casa dolce casa. Affittasi n Giovenale Casa dolce casa. L’inferno degli appartamenti n Giovenale L’inferno di giorno, la paura di notte. Roma vuol dire rumore (A) DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 19 Percorsi tematici n Marziale L’inferno di giorno, la paura di notte. Roma vuol dire rumore (B) n Giovenale L’inferno di giorno, la paura di notte. Attenti al buio n Seneca Le terme Una nuova religiosità [> Modulo 6] La religione romana aveva un carattere prevalentemente sociale e politico: il cittadino doveva uniformare il proprio comportamento ai valori della pietas e della fides, che implicavano il rispetto e la fedeltà verso gli dèi, l’osservazione dei riti, la devozione nei confronti dei genitori, la fedeltà verso lo Stato. Ogni elemento del rito, dai gesti alle formule, concorreva a predisporre favorevolmente gli dèi. Verso la fine dell’età repubblicana, le conquiste e i contatti con le altre culture, unitamente ai cambiamenti verificatisi nella società, avevano determinato una crisi degli antichi culti. Nel suo progetto di rinnovamento delle tradizioni romane, Augusto tentò di restaurare lo spirito religioso del passato e di dare nuovo vigore alle tradizioni antiche, e in parte ci riuscì. Ma molti Romani, ormai, si affidavano sempre più spesso a culti orientali presenti a Roma da tempo, come quelli di Cibele, Osiride, Iside e Mitra. Questi rispondevano a esigenze spirituali che la religione tradizionale romana non era in grado di offrire: il rapporto personale tra il fedele e la divinità mediante la meditazione e la preghiera, e, soprattutto, la speranza di una vita ultraterrena dopo la morte, ossia la salvezza, come leggiamo in Apuleio. Per l’ebraismo, religione diffusa in Palestina, la speranza di salvezza si concretizzava nell’attesa della nascita del Messia, come leggiamo nel Vangelo di Matteo. Nel contesto dell’ebraismo prese corpo una nuova religione, il cri- stianesimo, chiamata così dal nome del suo predicatore, Gesù Cristo il Messia. Il messaggio di Gesù conteneva una forte carica rivoluzionaria, oltre a presentare, a differenza dell’ebraismo, un carattere universalistico: predicava infatti l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio, riconsiderando anche il ruolo della donna, secondo le parole di san Paolo. Dell’ebraismo il cristianesimo accentuò il carattere spirituale, e criticò l’eccessivo formalismo rituale. Il cristianesimo prese le distanze dall’ebraismo anche nella celebrazione del culto (Giustino) e nell’organizzazione delle comunità (Ignazio di Antiochia). n Apuleio La rivelazione di Iside n Matteo Evangelista Razza di vipere! n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la donna. Nuovi princìpi n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la donna. L’uomo al di sopra della donna (A) n Paolo di Tarso Il cristianesimo e la donna. L’uomo al di sopra della donna (B) n Giustino La domenica n Ignazio di Antiochia Onorate Dio e il vescovo Storie di convivenza [> Modulo 6] La diffusione del cristianesimo nell’impero pose il problema della convivenza dei cristiani con i pagani e con l’autorità costituita. Inizialmente i cristiani venivano confusi con gli ebrei, sui costumi dei quali circolavano informazioni intrise di pregiudizi. A differenza degli ebrei, i cristiani riconoscevano validità alle leggi dello Stato romano: poiché ogni autorità terrena deriva dall’autorità divina, il fedele non aveva ragione di opporsi al volere dei governanti, come spiega san Pao- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 19 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 20 20 Percorsi tematici lo. Un limite all’integrazione, tuttavia, veniva dal rifiuto sia delle osservanze rituali romane, sia delle attività lavorative connesse alle celebrazioni del culto pagano o contrarie alla morale cristiana, come leggiamo in Ippolito, fra le quali il servizio militare, come leggiamo in Tertulliano. Nel momento in cui il cristianesimo prese piede fra tutte le classi sociali, i pagani divulgarono sul conto dei cristiani una serie di calunnie suscitate dalle loro abitudini e dal loro vivere la religione, da cui i cristiani si difendevano: ce ne parlano Minucio Felice e Tertulliano. Inizialmente le autorità romane si limitarono a contrastare il cristianesimo attraverso una serie di provvedimenti, quali, ad esempio, l’imposizione del sacrificio agli dèi pagani e al genio dell’imperatore, come riportato nel testo di Aurelio Diogene. Nel tempo le misure contro il cristianesimo si inasprirono a tal punto da sfociare in una vera e propria politica persecutoria. Le persecuzioni, tuttavia, rivelarono ben presto la loro inutilità: le vittime cristiane, infatti, preferivano affrontare la condanna piuttosto che rinnegare la propria fede, come leggiamo negli Atti dei martiri. n Paolo di Tarso Ogni potere viene da Dio n Ippolito I mestieri proibiti ai cristiani n Tertulliano I cristiani e il servizio militare n Minucio Felice Accuse pagane: i cristiani, una setta di cannibali n Tertulliano Difese cristiane: «viviamo nel mondo insieme con voi» n Aurelio Diogene Il certificato di sacrificio n Anonimo di Atti dei martiri Eroi cristiani. Vittime ostinate n Anonimo di Atti dei martiri Eroi cristiani. Come un uomo Storie di banditi [> Modulo 6] Data la vastità dell’impero romano, vi erano numerosi luoghi remoti – montagne, altipiani, foreste, paludi, deserti, campagne – in cui la legge romana aveva difficoltà ad affermarsi o era del tutto assente. In questi spazi, dove la natura offriva ripari e facili nascondigli, dilagavano i banditi o, come li chiamavano i Romani, i latrones, “ladroni”. L’assenza di forze di polizia regolari e di un moderno sistema di comunicazioni, unitamente alla scarsa illuminazione notturna, rendevano insicure anche le campagne situate nei pressi delle città. Viaggiare di notte era infatti considerata una grave imprudenza: al calare delle tenebre, città e villaggi sprangavano le loro porte, impedendo a chiunque di accedervi. La stessa cosa accadeva nelle residenze di campagna dei ricchi, i quali spesso disponevano di guardie private, come racconta Apuleio. Non pochi erano i casi di persone scomparse per essere state catturate o addirittura uccise dai banditi, come leggiamo in Plinio il Giovane e in alcune iscrizioni. “Bandito” è un termine molto generico, che abbraccia una vasta gamma di tipologie, e che pertanto richiede alcune precisazioni. Esisteva il cosiddetto bandito “sradicato”, che poteva agire da solo o con un piccolo gruppo di complici, come racconta Galeno. Questo genere di bandito non era certo il più pericoloso. La vera minaccia, infatti, era rappresentata dai banditi “radicati”, quelli che trovavano aiuti e sostegno presso le popolazioni locali. Questo fenomeno è detto “banditismo sociale” ed è stato riscontrato dagli studiosi moderni in svariati contesti storici, dall’età antica a quella contemporanea. Mentre le autorità pubbliche bollavano DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 21 Percorsi tematici questi individui con l’epiteto di “criminali”, le popolazioni contadine, oppresse dai signori e dalle tasse, li consideravano dei veri eroi, come racconta Apuleio. Per il bandito il sostegno delle popolazioni locali era di fondamentale importanza: senza il loro aiuto egli era soltanto un vagabondo, destinato a cadere presto nelle mani delle autorità pubbliche, come leggiamo in Erodiano. Le autorità romane erano consapevoli della gravità del fenomeno (che ebbe una grande diffusione in concomitanza con la crisi del III secolo) ed emanarono provvedimenti per colpire non solo i latrones, ma anche coloro che li proteggevano, come leggiamo nel Digesto: senza aiuti, si diceva chiaramente, «i banditi non possono restare nascosti a lungo». Le pene previste dalla legge per reprimere il banditismo erano severissime. I banditi catturati erano spesso giustiziati sul posto; quando venivano processati regolarmente, le pene erano terribili: venivano bruciati vivi, crocefissi, oppure condannati a essere sbranati dalle belve nel circo. Ma questa severità non bastò a estirpare un fenomeno che attraversa tutta la storia romana e che gli storici moderni possono riscontrare in tutte le regioni dell’impero. I motivi per i quali lo Stato romano non riuscì mai a debellare il banditismo “sociale” sono evidenti: esso non era una manifestazione di criminalità banale, ma l’espressione della resistenza al governo romano delle masse impoverite. n Apuleio Mai di notte n Plinio il Giovane Scomparsi n Anonimo di Corpus Inscriptionum Latinarum Uccisi dai banditi n Galeno Il bandito sradicato n Apuleio Curriculum di un bandito n Erodiano Il bandito Materno n Anonimo di Digesto Morte a chi li protegge Giuliano l’Apostata e la fine del paganesimo [> Modulo 6] Per tutta la durata del suo regno l’imperatore Giuliano coltivò un sogno: restaurare il paganesimo e dare nuovo vigore alle antiche tradizioni culturali di Roma. Tuttavia la sua politica di restaurazione del paganesimo era destinata al fallimento: alla sua morte, essa fu accantonata dai suoi successori, i quali rimossero alcuni dei simboli del paganesimo, come ad esempio l’altare della Vittoria, e privarono delle sovvenzioni statali il culto tradizionale romano. A nulla valsero le proteste degli aristocratici romani, come Simmaco, che si appellavano ai princìpi della tolleranza religiosa e alla tradizione: a quest’ultima il vescovo di Milano Ambrogio contrapponeva i valori del progresso rappresentato dal cristianesimo. Il tramonto definitivo del paganesimo si ebbe per effetto delle leggi emanate da Teodosio, che proibivano la pratica dei culti pagani sia pubblici sia privati. Da questo momento il paganesimo fu perseguitato in tutte le sue espressioni: i templi furono distrutti, come racconta Rufino, le scuole filosofiche furono chiuse. Ipazia, filosofa di grande levatura morale oltre che culturale, fu addirittura assassinata da alcuni monaci fanatici, come narra Socrate Scolastico. Contestualmente l’evangelizzazione delle campagne si andò configurando, in alcune regioni, come una vera e propria guerra santa, come leggiamo in Sulpicio Severo. n Giuliano l’Apostata Giuliano l’Apostata e il tempio abbandonato n Simmaco La controversia per l’altare della Vittoria. Molte sono le strade per arrivare a Dio DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 21 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 22 22 Percorsi tematici n Ambrogio La controversia per l’altare della Vittoria. Nessuna concessione! n Ambrogio La controversia per l’altare della Vittoria. La tradizione e il progresso n Teodosio I La proibizione del culto pagano. Contro i culti pubblici n Teodosio I La proibizione del culto pagano. Contro i culti privati n Rufino Assalto al paganesimo: la distruzione del Serapeo n Rufino Tabula rasa n Socrate Scolastico L’assassinio di Ipazia n Sulpicio Severo Martino, un santo guerriero. Incantamenti n Sulpicio Severo Martino, un santo guerriero. Il fuoco addomesticato n Sulpicio Severo Martino, un santo guerriero. Guerra santa La società tardoantica [> Modulo 6] Il clima di crisi in cui versava l’impero romano del III secolo d.C. fu pienamente avvertito da alcuni osservatori contemporanei. In uno scritto indirizzato a un pagano, il vescovo cristiano Cipriano ben esprime questo senso di precarietà e di sfacelo imminente. La crisi politica, che in un cinquantennio aveva visto succedersi al governo ben venti imperatori, era aggravata dalla crisi economica. In seguito alla campagna militare partica (162-165), infatti, sulle regioni dell’impero si abbatté un’epidemia di peste che determinò un brusco calo della popolazione e una diminuzione delle rese agricole, per cui i prezzi delle derrate alimentari crebbero vertiginosamente. La conseguenza più rilevante della crisi economica fu l’accentuazione delle disu- guaglianze tra i vari strati sociali: mentre le famiglie aristocratiche accrescevano sempre più le loro ricchezze, come racconta Olimpiodoro, i poveri si immiserivano sempre più. Le grandi casate detenevano oltre al potere economico anche il potere politico, rafforzato da vaste clientele, come leggiamo in Ammiano Marcellino. Alla base della piramide sociale tardoantica c’erano i coloni, i quali, vessati dagli esattori delle imposte, si legavano sempre più ai loro padroni, cercandone la protezione. Tutto questo contribuiva a un ulteriore rafforzamento dei poteri locali, a danno del sempre più debole potere centrale, come spiega Libanio. La condizione dei coloni, inoltre, era aggravata da un provvedimento emanato dall’imperatore Costantino, che li vincolava a vita alla terra che coltivavano, limitando così la loro libertà personale. Non dissimile da quello dei coloni era lo stato sociale degli schiavi, i quali, in conseguenza dell’intervento umanitario della Chiesa, migliorarono entro certi limiti la loro condizione, come spiega san Paolo. In una situazione di privilegio si trovava invece la plebe urbana, descritta con disprezzo dallo storico Ammiano Marcellino: la plebe godeva di distribuzioni gratuite di generi alimentari. Nei periodi di crisi, la mancata distribuzione di viveri alla plebe affamata sfociava in episodi di violenza, a danno dei ricchi. n Cipriano Un mondo invecchiato n Olimpiodoro La ricchezza degli aristocratici romani n Ammiano Marcellino Ritratto di un uomo potente. Come un pesce fuor d’acqua n Libanio Il patronato n Costantino Servi della terra n Paolo di Tarso Cristianesimo e schiavitù DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 04/10/10 19.30 Pagina 23 Percorsi tematici n Ammiano Marcellino Vita da Romani n Ammiano Marcellino Le rivolte della plebe. Un pericolo scampato n Ammiano Marcellino Le rivolte della plebe. Il vino e il fuoco Aspettando i barbari [> Modulo 6] La penetrazione dei barbari entro i confini dell’impero romano non fu un evento improvviso. Essa infatti si era pesantemente manifestata già nel III secolo d.C. A partire da quest’epoca si diffuse tra i cittadini romani un clima di inquietudine e preoccupazione, dettato dal pericolo dei “barbari”. Definendoli così, i Romani dimostravano scarsa considerazione verso quei popoli che in realtà erano portatori di una civiltà e di valori diversi. I racconti degli storici romani, infatti, abbondano di pregiudizi sui barbari, descritti come esseri crudeli, infidi e ambigui, come leggiamo in Ammiano Marcellino. Il re degli Unni Attila era definito addirittura “flagello di Dio” per la ferocia con cui conduceva le battaglie; di tutt’altra natura l’opinione che del condottiero aveva il suo popolo, come scrive Giordane. Il Sacco di Roma del 410 d.C. rappresentò per i contemporanei un vero e proprio shock, come si evince dal racconto di san Girolamo. Questo stesso evento è interpretato in maniera diversa da Orosio, anch’egli cristiano, per il quale l’invasione dei Visigoti è vista come una punizione divina nei confronti di una città peccatrice; in questo racconto i barbari appaiono addirittura più vicini al messaggio cristiano degli stessi Romani. Prisco, diplomatico romano, racconta il suo incontro con un cittadino romano che aveva scelto di vivere tra i bar- bari, rivelando l’angoscia dilagante tra gli abitanti delle province e la diffusa sensazione di una rovina imminente. Questo clima di decadenza era avvertito anche a Roma, dove il degrado si rifletteva persino sugli edifici pubblici, sottoposti a continue spoliazioni, come si evince dal provvedimento emesso dall’imperatore Maioriano. Entrando a contatto con i Romani, i barbari assimilarono molti aspetti della loro cultura. Ma anche la cultura dei barbari influenzò quella romana, come testimoniano alcune usanze che la legge romana cercò invano di proibire nel Codice Teodosiano emanato da Onorio. n Ammiano Marcellino Gli Unni, un popolo di cavalieri n Giordane Attila visto dai nemici. Il flagello di Dio n Giordane Attila visto dai suoi. Il più grande degli Unni n Girolamo Se Roma perisce... n Orosio Il castigo di Dio n Prisco Il romano divenuto barbaro. Meglio vivere tra gli Unni che tra i Romani n Prisco Il romano divenuto barbaro. La civiltà dei Romani n Maioriano Il degrado di Roma n Onorio Contro i costumi dei barbari Bisanzio e il sogno della riconquista [> Modulo 7] Gli storici adoperano comunemente l’espressione “impero bizantino” per designare l’impero romano d’Oriente. La scelta del nome, derivato dalla città di Bisanzio, sulle cui rovine Costantino aveva fondato Costantinopoli, sottolinea il carattere greco-orientale dell’impero. All’imperatore Giustiniano si deve, per DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 23 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 24 24 Percorsi tematici esempio, l’introduzione del rituale orientale della proscìnesi, come scrive uno storico suo contemporaneo, Procopio. L’imperatore era oggetto di una venerazione quasi divina, tanto che il palazzo reale era considerato una copia del palazzo celeste, come leggiamo nel racconto del monaco Cosma. Inoltre, ai consueti poteri assoluti degli imperatori romani, l’imperatore bizantino associava l’autorità anche in campo religioso. L’unione dei poteri religiosi e politici è denominata cesaropapismo, ed è una delle cause del distacco tra il cristianesimo greco e quello latino, come leggiamo nelle parole di papa Gelasio I. A Giustiniano si deve anche il sogno di ricostruire l’unità politico-territoriale dell’impero romano, riconquistando i territori occidentali in mano ai Germani. Prima tappa della riconquista furono i territori nordafricani occupati dai Vandali: in un anno il generale bizantino Belisario sconfisse gli avversari, che non avevano voluto integrarsi con la popolazione sottomessa, come scrive il vescovo Vittore di Vita. Dall’Africa, l’esercito bizantino passò in Italia: la guerra con i Goti fu lunga ed estenuante, scrive Procopio, e alto fu il prezzo pagato dalla popolazione della penisola in termini di saccheggi, distruzioni, carestie e morti; essa fu vinta soprattutto grazie all’intelligenza e alle doti morali di Belisario. n Procopio La proscìnesi n Cosma Il palazzo terreno e il palazzo celeste n Gelasio I La teoria dei due poteri n Vittore di Vita I Vandali in Africa n Procopio Il prezzo della «liberazione» dell’Italia n Procopio Il trionfatore morale I Longobardi in Italia [> Modulo 7] L’invasione dei Longobardi, preceduta dalla devastante guerra greco-gotica e da una terribile pestilenza, come leggiamo in Paolo Diacono, che avevano spopolato città e campagne, rappresentò per l’Italia una vera e propria cesura: questi avvenimenti, infatti, segnarono il crollo definitivo del sistema economico, sociale e politico di tradizione romana e portarono la penisola a una condizione di decadenza economica e demografica. Il popolo dei Longobardi, il cui nome presumibilmente derivava dall’usanza di portare capelli e barbe lunghe, come leggiamo nell’Origine del popolo longobardo, proveniva dalle regioni dell’Europa settentrionale e probabilmente era migrato a causa di pressioni di altre tribù germaniche o a causa della mancanza di terre fertili, come scrive Paolo Diacono. I Longobardi, guidati dal loro re Alboino, penetrarono in Italia praticando razzie e saccheggi, come scrive papa Gregorio Magno. Alla morte di Alboino seguì un lungo periodo di anarchia, di cui profittarono i duchi per consolidare il loro potere. Si deve al re Autari l’opera di rafforzamento della monarchia e il ridimensionamento dell’autorità dei duchi. Il consolidamento del regno longobardo è testimoniato anche dalla promulgazione, nel 643, per volontà di re Rotari di un codice di leggi, la prima codificazione scritta (in latino) delle leggi e delle usanze tradizionali dei Longobardi. n Paolo Diacono Una terribile epidemia n Anonimo di Origine del popolo longobardo Le origini dei Longobardi n Paolo Diacono La migrazione dei Longobardi n Gregorio Magno I Longobardi in Italia DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 25 Percorsi tematici Cristiani e musulmani: una convivenza possibile [> Modulo 7] Per il mondo occidentale il confronto con la civiltà islamica divenne inevitabile quando i guerrieri musulmani, dopo aver conquistato i territori degli imperi bizantino e persiano, rivolsero le proprie mire espansionistiche all’Europa, arrivando fino in Francia. I giudizi dei cristiani sugli Arabi risentivano dei pregiudizi che i popoli sedentari nutrivano nei confronti dei popoli nomadi, tanto da arrivare a considerare i musulmani infidi e crudeli e la loro religione simbolo di tale inciviltà. Il rifiuto della religione islamica trovò sostegno in operazioni di mistificazione dei fondamenti della fede musulmana e anche della figura del profeta Maometto, come leggiamo in una cronaca del IX secolo. L’opposizione alla fede musulmana riportò addirittura in vita il modello dei martiri cristiani, che preferivano morire piuttosto che convertirsi, come leggiamo nella Passione di san Michele il Sabaita. Eppure per alcuni cristiani una convivenza tra i fedeli delle due religioni sarebbe stata possibile: l’imperatore di Bisanzio, Eraclio, vedeva nella conquista araba una tappa del disegno divino che avrebbe portato alla conoscenza di Dio, come leggiamo nella Cronaca di Séert; un frate domenicano, Guglielmo da Tripoli, descriveva i conquistatori arabi non come crudeli e violenti ma come rispettosi dei luoghi e degli uomini; la conversione in massa di cristiani, inoltre, non sarebbe stata provocata da pressioni violente da parte dei soldati musulmani, che anzi si rivelarono tolleranti nei confronti dei fedeli delle religioni monoteiste, ma sarebbe stata dettata da calcoli economici: la loro avarizia li avrebbe portati a cam- biare fede solo per non pagare il tributo loro chiesto, come scrive il patriarca Isoyabb III. La prova di una coesistenza possibile, pacifica e produttiva, è data dalla descrizione, databile al X secolo, della città “araba” di Palermo redatta da Ibn Hawqal. n Anonimo di Cronaca I cristiani contro Maometto. La mistificazione del profeta n Anonimo di Passione di san Michele il Sabaita I cristiani contro Maometto. I nuovi martiri n Anonimo di Cronaca di Séert I cristiani e gli Arabi: un incontro possibile. «Questo popolo è come la sera» n Guglielmo da Tripoli I cristiani e gli Arabi: un incontro possibile. Una conquista senza traumi n Isoyabb III I cristiani e gli Arabi: un incontro possibile. Tolleranza islamica e avarizia cristiana n Ibn Hawqal Palermo, città araba I guerrieri di Allah [> Modulo 7] Alla base della prodigiosa espansione dell’Islam sta l’antico spirito guerriero delle tribù nomadi arabe. Un passo delle Storie di Ammiano Marcellino, uno storico vissuto nel IV secolo d.C., costituisce la prima descrizione di queste genti a noi pervenuta: un popolo nomade dedito a scorrerie e saccheggi, privo dell’ordine tipico della civiltà romana. Evidente appare l’incomprensione di un rappresentante del mondo dei sedentari per quello dei nomadi divisi in tribù, la cui identità storica era affidata ai canti di poeti come ‘Antara. A questo temperamento combattivo il messaggio predicato da Maometto e depositato nel Corano aggiunse alcuni requisiti che si rivelarono decisivi: la co- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 25 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 26 26 Percorsi tematici scienza dell’unità araba, propiziata dall’accettazione di un credo monoteistico, e la potente motivazione ideale rappresentata dal dovere di diffondere la nuova fede, come leggiamo in un’orazione al re di Persia tramandataci dallo storico persiano Tabari. Una delle ragioni per cui Maometto riuscì velocemente a propagare l’islamismo sia tra i Beduini sia tra gli Arabi sedentari fu sicuramente la sua capacità di fondere l’intransigenza monoteistica di un Dio creatore di ogni cosa con una precettistica misurata, costituita da poche e semplici regole confluite nel Corano, che ben si adattavano alla mentalità del suo popolo. Uno dei precetti da seguire era quello rappresentato dal jihad. La prima “guerra santa” (così viene impropriamente tradotto il termine jihad) fu quella combattuta dal profeta e dai suoi seguaci contro le tribù arabe non musulmane per portarle nel seno della nuova fede e per liberare la Mecca, facendone il centro dell’Islam. Con l’espansione islamica oltre i confini della penisola araba, la “guerra santa” si rivolse contro tutto quel mondo infedele che si opponeva all’affermazione e alla supremazia della religione di Allah: ne leggiamo un’esempio nella Cronaca della battaglia di Qadisiyya. Ma il concetto di jihad, se pure contiene in sé l’idea che il credente debba dispiegare le proprie energie per affermare l’unica vera fede, non intende che questo avvenga necessariamente attraverso la violenza e la sopraffazione, vale a dire con una “guerra” concreta. Esso afferma piuttosto un dovere morale del credente, che non è estraneo, del resto, anche al cristianesimo: quello di diffondere la parola di Dio. La diffusione deve avvenire certo contrastando ogni resistenza, con ogni mezzo, ma senza superare i limiti imposti dalla giustizia e dal- la misericordia di Dio, come leggiamo nel Corano e nelle parole del filosofo alFarabi. n Ammiano Marcellino Un popolo di sparvieri n ‘Antara La guerra e l’amore n Tabari Un popolo giovane n Anonimo di Cronaca della battaglia di Qadisiyya La notte degli ululati n Maometto Nel nome dell’Islam n al-Farabi Il santo guerriero Carlo Magno padre dell’Europa [> Modulo 8] Un poeta anonimo, in un componimento scritto per ricordare l’incontro avvenuto tra Carlo Magno e il papa Leone III nel 799 a Paterborn, in Sassonia, definisce Carlo rex pater Europae, il ‘re padre dell’Europa’. L’espressione ha diviso negli anni gli storici, ma è ormai opinione comune che Carlo contribuì a creare l’Europa intesa come spazio politico e culturale autonomo, fondando un impero che si sviluppava sull’Europa continentale, e non più, come in età romana, su tre continenti con il Mediterraneo come baricentro. La dimensione europea dell’impero carolingio era data anche dalla religione professata, poiché il suo territorio coincideva con la cristianità. L’impero “europeo” fondato da Carlo era il risultato delle continue e vittoriose campagne militari, che confermavano le tradizioni guerriere del popolo franco, come leggiamo in Eginardo, e che gli valsero l’appellativo di Magno. La richiesta di aiuto lanciata dal papa Adriano I contro l’espansionismo longobardo rappresentò un’ottima occasione per Carlo che, disceso in Italia con un’armata imponente, sbaragliò l’esercito nemi- DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 27 Percorsi tematici co e conquistò Pavia, come leggiamo nelle Gesta Karoli Magni redatte da Notker I, un monaco di San Gallo. Dopo alcune battaglie dall’esito negativo, tra cui quella di Roncisvalle di cui parla sia Eginardo sia la Chanson de Roland, Carlo riuscì a sottrarre al controllo islamico la Spagna settentrionale. Vittoriose furono anche le campagne militari contro la popolazione degli Àvari, ai quali i Franchi sottrassero un bottino immenso, come racconta Eginardo. Carlo assunse nei confronti della Chiesa di Roma una condotta in linea con quella dei suoi predecessori carolingi: fedele servitore di Roma, il re si pose sempre come paladino della fede, senza mai confondere potere spirituale e potere temporale. L’episodio dell’incoronazione del Natale dell’800, tuttavia, conferma un intreccio tra religione e politica che costituisce uno dei tratti originali dell’età medievale. All’insaputa di Carlo, papa Leone III lo incoronò imperatore dei Romani, dando vita al Sacro romano impero, come leggiamo nel Liber pontificalis. Con questo unico e astuto gesto il papa rafforzava la propria posizione a Roma, disconosceva il potere degli imperatori bizantini, affermava che il potere imperiale, discendendo da Dio, era soggetto al papa. Uno dei principali problemi di governo che Carlo dovette affrontare fu quello di dare omogeneità politica e culturale a un impero che si presentava vasto ed eterogeneo. Diviso il territorio imperiale in marche e contee affidate a funzionari pubblici, se ne assicurò il controllo diretto attraverso l’istituzione dei missi dominici, come leggiamo in Teodulfo di Orléans. n Eginardo Ritratto di Carlo Magno n Notker I di San Gallo L’imperatore di ferro n Eginardo Realtà e leggenda di Roncisvalle. Un evento di secondo piano n Anonimo di Chanson de Roland Realtà e leggenda di Roncisvalle. La Chanson de Roland n Eginardo Tesori di guerra n Anonimo di Liber pontificalis L’incoronazione di Carlo Magno n Teodulfo di Orléans I sudditi e il potere Il castello: simbolo di una nuova società [> Modulo 8] In età carolingia si diffuse quella particolare forma di organizzazione politicosociale che caratterizzerà la società europea dei secoli IX-XII: il feudalesimo. Con questo termine si intendono sia i rapporti giuridico-politici basati sul vassallaggio, sia una particolare forma di organizzazione economica, il sistema curtense. Carlo Magno, nel tentativo di legare a sé l’irrequieta nobiltà franca, diede nuovo impulso all’antica tradizione del vassallaggio, estendendola poi a tutte le terre dell’impero. Si trattava di un vincolo di natura morale, sancito da un giuramento, come quello rivolto a Carlo il Calvo, che legava i potenti del regno al re: in cambio di un beneficio, generalmente un possedimento terriero, revocabile dall’imperatore, i vassalli assicuravano al signore fedeltà e sostegno militare, come scrive Fulberto, vescovo di Chartres. I vassalli di Carlo a loro volta ebbero altri vassalli, sino alla creazione di una fitta rete di relazioni. Nel tempo, specie dopo la morte di Carlo Magno, i feudatari accentuarono la tendenza a sottrarsi agli obblighi nei confronti del potere centrale. Nell’877, infatti, Carlo il Calvo fu costretto a emanare il capitolare di Quierzy, con il quale si riconosceva l’ereditarietà dei feudi DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 27 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 28 28 Percorsi tematici maggiori, ossia di quei feudi ottenuti direttamente dal sovrano. Successivamente questo privilegio fu esteso con la Constitutio de feudis, emanata da Corrado II, a tutti i feudi, detti minori, perché non concessi direttamente dall’imperatore, bensì da un feudatario ai suoi vassalli sovrano. La graduale tendenza a ritagliarsi spazi autonomi rispetto all’autorità centrale ebbe il suo simbolo nel castello. Nati come fortezze per la difesa contro i nuovi invasori – Saraceni, Ungari e Vichinghi –, i castelli proliferarono anche quando le invasioni cessarono e divennero emblema del potere coercitivo, il banno, che il signore esercitava sul suo territorio. Al nuovo ordinamento feudale corrispondeva un nuovo sistema economico, fondato sulla curtis, la villa. Generalmente la villa comprendeva due parti: la pars dominica, costituita dalle terre gestite direttamente dal proprietario; la pars massaricia, costituita da un numero variabile di poderi, affidati a singole famiglie di contadini o di servi, che dovevano al proprietario una parte del raccolto e servizi consistenti in giornate di lavoro. Ne leggiamo una descrizione nel celebre inventario redatto dall’abate Irminone. n Carlo II il Calvo Il giuramento n Fulberto di Chartres La fedeltà del vassallo n Carlo II il Calvo L’ereditarietà dei feudi n Corrado II La Constitutio de feudis n Irminone La struttura di una curtis carolingia L’immaginario dell’uomo medievale [> Modulo 8] L’uomo medievale – cavaliere, ecclesiastico o contadino che fosse – viveva all’interno di spazi e tempi dai confini imprecisati, in cui le distanze o le epoche erano avvertite in modo confuso. Nella geografia medievale accanto alle terre popolate figuravano anche il paradiso terrestre e l’inferno. In tale prospettiva, il contatto tra la realtà terrena e quella celeste era garantito dalle reliquie, i resti terreni della vita dei santi e di Gesù. Il possesso di una reliquia era per una comunità o una chiesa un requisito quasi indispensabile, dal momento che il prestigio della reliquia si rifletteva sul luogo che la ospitava, come narra Guiberto di Nogent. Il culto dei santi era a tal punto radicato tra gli strati popolari da sfiorare forme di idolatria pagana. In Francia, ad esempio, un cane ucciso dal suo padrone, dopo aver salvato il figlio di questi, era venerato dai contadini del luogo come un martire: ne scrive l’inquisitore Etienne de Bourbon. L’immaginario popolare medievale si nutriva soprattutto dei prodigi e delle meraviglie operate dai miracoli: chiunque si rifiutasse di credere alla resurrezione di un animale a opera di santa Fede veniva considerato empio ed eretico, nonché cieco di fronte all’evidenza, come leggiamo nella raccolta dei Miracoli di santa Fede. Era credenza comune che il tempo appartenesse a Dio e gli uomini che se ne appropriavano commettevano un sacrilegio: per esempio, gli usurai che chiedevano gli interessi sul danaro prestato non solo approfittavano delle disgrazie altrui, ma speculavano sul tempo; ciò li rendeva oggetto di condanne morali da DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 01_Dal_Mediterraneo_Materiali_on_line_xp8_Guida 15/07/10 11.30 Pagina 29 Percorsi tematici parte della Chiesa, che leggiamo in Guillaume d’Auxerre. Anche i fenomeni della natura venivano interpretati dagli uomini del tempo come messaggi inviati da Dio. Ad esempio, il passaggio della Cometa di Halley, nel 989, venne percepito come foriero di eventi straordinari e terribili raccontati da Rodolfo il Glabro. Questa visione timorosa e superstiziosa della realtà naturale conferma il sentimento precario dell’esistenza e il pessimismo generale presente nella cultura dell’epoca: la fine del mondo, infatti, era sentita come vicina, come leggiamo in un componimento poetico del XII secolo. La stessa concezione della realtà sociale si ispirava alla Trinità divina: il vescovo Adalberone di Laon, all’inizio dell’XI secolo, descrisse la società dell’epoca divisa in tre ordini: gli oratores, i bellatores, i laboratores. n Guiberto di Nogent Il potere delle reliquie n Etienne de Bourbon Il santo levriero n Anonimo di Miracoli di santa Fede Miracolo! n Guillaume d’Auxerre Il tempo è di Dio, non degli uomini n Rodolfo il Glabro La cometa n Anonimo di La vita è misera La vita è misera n Adalberone di Laon Pregare, combattere, lavorare DE CORRADI-GIARDINA-GREGORI • © 2010, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 29