I primi studi sul bullismo furono condotti agli inizi degli anni ’70 ad opera di Heinemann e di Olweus in Svezia, dove il verificarsi di alcuni gravi episodi mobilitò l’opinione pubblica. L’interesse per il bullismo si intensificò negli altri paesi europei e in quelli extraeuropei tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90: in Italia, così come in Spagna, Regno Unito, Olanda, Irlanda, Canada, Stati Uniti, Australia e Giappone sono state condotte numerose ricerche volte a cogliere la natura e la frequenza del fenomeno e a predisporre efficaci strategie operative per combatterlo. Definizione Il termine bullismo deriva dalla parola inglese “bullying” (mentre nelle lingue scandinave il termine utilizzato è “mobbing”, anch’esso entrato ormai a far parte del nostro linguaggio comune per definire le prevaricazioni tra adulti in ambito lavorativo). Il bullismo viene definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona o da un gruppo di persone più potenti nei confronti di un’altra persona percepita come più debole. Secondo Olweus “uno studente è oggetto di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”. Più specificamente “un comportamento ‘bullo’ è un tipo di azione che mira deliberatamente a far del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi, persino anni, ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. (Heinemann, 1972; Olweus, 1973; Farrington, 1993). Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare”. Le caratteristiche distintive del bullismo sono: L’intenzionalità: gli atti bullistici sono intenzionali; il bullo agisce con l’intenzione e lo scopo preciso di dominare sull’altra persona, di offenderla e di causarle danni o disagi. La persistenza nel tempo: i comportamenti bullistici sono persistenti nel tempo; sebbene anche un singolo fatto grave possa essere considerato una forma di bullismo, per essere definiti tali gli episodi sono ripetuti nel tempo e si verificano con una frequenza piuttosto elevata. L’asimmetria della relazione: la relazione tra bullo e vittima è di tipo asimmetrico, ciò significa che c’è una disuguaglianza di forza e di potere, per cui uno dei due sempre prevarica e l’altro sempre subisce, senza riuscire a difendersi. La differenza di potere tra il bullo e la vittima deriva essenzialmente dalla forza fisica: il bullo è più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare, mentre la vittima è più debole della media dei coetanei e del bullo in particolare.Altri fattori che intervengono sono la differenza di età (i bulli sono generalmente bambini più grandi) o il genere sessuale (il ruolo di bullo è generalmente agito da maschi mentre le vittime possono essere indifferentemente maschi o femmine). Spesso gli episodi di bullismo vedono coinvolto un singolo soggetto contro un altro; è però altrettanto frequente il caso in cui a mettere in atto le prepotenze sia un gruppetto di 2 o 3 persone ai danni di una sola vittima. Il bullismo può assumere forme differenti: - fisiche: colpire con pugni o calci, appropriarsi, o rovinare, gli effetti personali di qualcuno; - verbali: deridere, insultare, offendere, minacciare, prendere in giro ripetutamente, fare affermazioni discriminanti; - indirette: diffondere pettegolezzi e calunnie, diffamare, escludere qualcuno dal gruppo di aggregazione. A differenza di quanto comunemente si ritiene, il bullismo è un fenomeno che riguarda sia i maschi che le femmine; è differente nei due casi. I maschi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali. Tali comportamenti sono agiti nei confronti sia dei maschi che delle femmine. Le femmine, invece, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione e le rivolgono prevalentemente verso altre femmine. Poiché le forme di bullismo indiretto sono più sottili e più difficili da riconoscere, il bullismo “al femminile” è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da cogliere anche per gli insegnanti. Oltre ad agire maggiormente in modo diretto, i maschi subiscono soprattutto azioni di tipo diretto; le femmine invece subiscono in genere azioni di tipo indiretto. Anche in termini di percezione del fenomeno bullismo e di atteggiamento verso di esso emergono delle differenze tra maschi e femmine. Le femmine manifestano, in generale, una maggiore capacità di empatia, cioè una capacità di mettersi nei panni degli altri e in particolare della vittima, comprendendo il suo stato d’animo e cogliendo la sua tristezza e il suo disagio. I maschi, al contrario, hanno più difficoltà ad immedesimarsi nella vittima e raramente si dimostrano dispiaciuti e in colpa dopo aver compiuto atti di prepotenza. I soggetti implicati nel fenomeno del bullismo sono bambini e adolescenti in una fascia di età compresa tra i 7-8 e i 14-16 anni. Gli individui maggiormente coinvolti sono comunque i bambini delle scuole elementari e dei primi anni delle scuole medie, dove il fenomeno sembra essere diffuso e pervasivo. Con il passare del tempo il numero e la frequenza degli episodi di bullismo sembrano diminuire con la crescita del bambino. In modo particolare gli episodi diminuiscono nel passaggio tra le scuole primarie e le scuole secondarie di primo grado e, ancor più significativamente, con il passaggio dal primo al secondo grado di scuola secondaria. L’aspetto che muta maggiormente è relativo al bullismo diretto fisico: con la crescita del bambino, infatti, diminuiscono soprattutto le manifestazioni di bullismo che fanno ricorso alla forza fisica. Se da una parte un minor numero di ragazzi è coinvolto nel fenomeno, dall’altra, però, i ruoli di bullo e di vittima tendono a radicalizzarsi e a diventare più rigidi. Le prevaricazioni vengono indirizzate a un numero più ristretto di ragazzi, sempre gli stessi, che si identificano sempre più nel ruolo di ‘vittima’. Sebbene si assista, con il trascorrere del tempo, ad una diminuzione della frequenza degli atti bullistici, spesso la gravità degli atti aumenta: nel corso dell’adolescenza, infatti, cresce il livello di pericolosità e di intensità delle azioni messe in atto contro l’altro, fino a sfociare, nei casi più estremi, in comportamenti devianti. Va sottolineato che tali comportamenti non rientrano più nella categoria “bullismo”, ma nella gamma dei comportamenti antisociali e illegali. I contesti in cui gli episodi di bullismo avvengono con maggior frequenza sono gli ambienti scolastici: le aule, i corridoi, il cortile, i bagni e in genere i luoghi isolati o poco sorvegliati, come per esempio gli spogliatoi della palestra o i laboratori. Generalmente i bulli e le vittime fanno parte della stessa classe, per cui accade frequentemente che questa diventi il luogo privilegiato in cui si manifestano le prevaricazioni. Azioni bullistiche, però, possono essere perpetrate anche durante il tragitto casa-scuola e viceversa Il bullismo è quindi un fenomeno di gruppo ed è utile per comprenderlo fare riferimento ai meccanismi che caratterizzano coloro i quali prendono parte all’azione aggressiva Proprio perché il bullismo coinvolge due o più individui, per comprenderlo è necessario cogliere la sua natura relazionale: è dunque fondamentale focalizzarsi non solo sui problemi di comportamento o di temperamento del singolo, ma anche e soprattutto sulla tipologia di rapporto che si è venuta a creare tra bullo e vittima. In questo senso, più che focalizzare l’attenzione su “cosa fa il bullo” o sulle sue caratteristiche, è importante cogliere le dinamiche relazionali esistenti tra bullo e vittima. Inoltre, quando gli atti di bullismo avvengono all’interno della scuola, è necessario estendere la nostra attenzione a tutto il gruppo classe che contribuisce (più o meno attivamente) a “costruire” i ruoli di bullo e di vittima e a mantenerli rigidi e invariati nel corso del tempo. (Sharp e Smith, 1995; Olweus, 1993). I coetanei hanno un ruolo importante nello sviluppo, mantenimento o modificazione del comportamento aggressivo nel gruppo. Il bullo non agisce da solo: alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene, altri ancora si disinteressano a quello che accade, non manca poi chi tenta di opporsi alle prepotenze per proteggere la vittima, in questo ruolo di difesa si trovano spesso le bambine Gli “attori” che prendono parte agli episodi di bullismo possono rientrare in tre grandi categorie: i bulli, che mettono in atto le prevaricazioni le vittime, che subiscono le prepotenze gli spettatori, che non prendono parte attivamente alle prepotenze, ma vi assistono. All’interno di tali raggruppamenti è possibile individuare alcune sottocategorie. Per quanto riguarda il bullo, è possibile parlare di “bullo dominante” o di “bullo gregario”, mentre la vittima è definibile come “vittima passiva/sottomessa” o “vittima provocatrice”. Tra gli “spettatori”, poi, vi sono i sostenitori del bullo, i difensori della vittima e la cosiddetta “maggioranza silenziosa”. Quali sono le caratteristiche di personalità e gli stili comportamentali che contraddistinguono le diverse tipologie? Il bullo dominante Di questo gruppo fanno parte quei ragazzi comunemente identificati come i “classici” bulli. Il bullo dominante: è un soggetto più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare; ha un forte bisogno di potere, di dominio e di autoaffermazione: prova soddisfazione nel sottomettere, nel controllare e nell’umiliare gli altri; è impulsivo e irascibile: ha difficoltà nel controllo delle pulsioni e una bassa tolleranza alle frustrazioni; ha difficoltà nel rispettare le regole; assume comportamenti aggressivi non solo verso i coetanei, ma anche verso gli adulti (genitori e insegnanti), nei confronti dei quali si mostra oppositivo e insolente; approva la violenza come mezzo per ottenere vantaggi e acquisire prestigio; mostra scarsa empatia (cioè capacità di mettersi nei panni dell’altro) e quindi non riesce a comprendere gli stati d’animo della vittima e la sua sofferenza; manca di comportamenti prosociali (altruistici); ha scarsa consapevolezza delle conseguenze delle prepotenze commesse, non mostra sensi di colpa ed è sempre pronto a giustificare i propri comportamenti, rifiutando di assumersene le responsabilità (pensa che la vittima “si merita di essere trattata così”); ha un’autostima elevata (nella media o al di sopra) e un’immagine positiva di sé, che ostacola la motivazione al cambiamento; non soffre di ansia o insicurezza; il suo rendimento scolastico, variabile durante la scuola elementare, tende a peggiorare progressivamente, fino a portare talvolta all’abbandono scolastico; è spesso abile nello sport e nelle attività di gioco; la sua popolarità presso i coetanei è nella media, o addirittura al di sopra di essa soprattutto tra i più piccoli, che subiscono il fascino della sua maggiore forza fisica. Sebbene con il passare del tempo la sua popolarità diminuisca, il bullo non raggiunge mai i livelli di impopolarità della vittima. Attraverso una ricerca focalizzata sulla capacità dei soggetti coinvolti in episodi di bullismo (bulli e vittime) di riconoscere le emozioni altrui, si è constatato che la condizione di entrambi appare legata a difficoltà nel riconoscimento delle emozioni. Per i bulli, si riscontra una generale immaturità nel riconoscere le emozioni, soprattutto la felicità. Entrambi gli attori risultano “sgrammaticati” in una competenza fondamentale che è quella che permette di cogliere i segnali emotivi che provengono dagli altri Il bullo gregario I bulli gregari, definiti anche bulli passivi, costituiscono il gruppetto di due o tre persone che assumono il ruolo di “sobillatori” e “seguaci” del bullo dominante. Pur non prendendo iniziative, i bulli gregari intervengono rinforzando il comportamento del bullo dominante ed eseguendo i suoi “ordini”. Tale gruppo presenta caratteristiche più eterogenee rispetto al primo. Il bullo gregario: aiuta e sostiene il bullo dominante; spesso agisce in piccolo gruppo; non prende l’iniziativa di dare il via alle prepotenze; spesso è un soggetto ansioso e insicuro; ha un rendimento scolastico basso; gode di scarsa popolarità all’interno del gruppo dei coetanei; crede che la partecipazione alle azioni bullistiche gli dia la possibilità di affermarsi e di accedere al gruppo dei “forti”; è possibile che provi senso di colpa per le prepotenze commesse e una certa empatia nei confronti della vittima. La vittima passiva/sottomessa E’ la “classica” vittima a cui si pensa solitamente: è un soggetto più debole della media dei coetanei e del bullo in particolare; è ansioso e insicuro; è sensibile, prudente, tranquillo, fragile, timoroso; è incapace di comportamenti assertivi; ha una bassa autostima, un’opinione negativa di se stesso e delle proprie competenze, che viene ulteriormente svalutata dalle continue prevaricazioni subite; a scuola spesso è solo, escluso dl gruppo dei coetanei e difficilmente riesce a crearsi delle amicizie; ha bisogno di protezione: a scuola cerca la vicinanza degli adulti; se attaccato, è incapace di difendersi: spesso reagisce alle prepotenze piangendo e chiudendosi in se stesso; è contrario ad ogni tipo di violenza; il suo rendimento scolastico, vario nella scuola elementare, tende a peggiorare nel corso della scuola media; ha una scarsa coordinazione corporea ed è poco abile nelle attività sportive e di gioco; talvolta ha paure relative al proprio corpo (per es. ha paura di farsi male); nega l’esistenza del problema e la propria sofferenza e finisce per accettare passivamente quanto accade; spesso si autocolpevolizza; non parla con nessuno delle prepotenze subite perché si vergogna, per timore di “fare la spia” e per paura che le prepotenze diventino ancora più gravi. Sembra che le vittime “segnalino” agli altri la propria vulnerabilità: ciò le renderebbe bersagli ancora più facili da individuare per i bulli. Alcune categorie di bambini e ragazzi sembrerebbero maggiormente a rischio di vittimizzazione in quanto più vulnerabili: tra di essi i bambini appartenenti ad una diversa cultura, o coloro che presentano disabilità. La vittima provocatrice La vittima provocatrice è un soggetto che, con il suo comportamento, provoca gli attacchi degli altri. Contrariamente alla vittima passiva (che subisce senza reagire), spesso la vittima provocatrice contrattacca le azioni aggressive dell’altro, ricorrendo talvolta alla forza (anche se in modo poco efficace). Proprio perché sia agisce, sia subisce le prepotenze, questo soggetto viene definito anche “bullovittima”. Il bambino/ragazzo vittima provocatrice: è generalmente un maschio; è irrequieto, iperattivo, impulsivo; talvolta è goffo e immaturo; ha problemi di concentrazione; assume comportamenti e abitudini che causano tensione e irritazione nei compagni (non solo nei bulli, ma nell’intera classe) e perfino negli adulti, provocando reazioni negative a proprio danno; è ansioso e insicuro; ha una bassa autostima; è preoccupato per la propria incolumità fisica. Gli “spettatori” Di solito quando si parla di bullismo si pensa esclusivamente al coinvolgimento dei bulli e delle vittime. Accanto a loro, però, vi è una grande maggioranza di bambini e ragazzi che assiste alle prevaricazioni o ne è a conoscenza: circa l’85% degli episodi di bullismo avviene infatti in presenza del gruppo dei pari. Questi soggetti, definiti “spettatori”, possono con il loro comportamento favorire o frenare il dilagare del fenomeno. Poiché nella maggior parte dei casi le prepotenze non vengono denunciate e il gruppo non interviene per fermarle, viene utilizzato il termine “maggioranza silenziosa”. Il bullismo è quindi un fenomeno di gruppo che coinvolge la totalità dei soggetti, i quali possono assumere diversi ruoli sostenendo il bullo, difendendo la vittima o mantenendosi neutrali. Il sostenitore del bullo agisce in modo da rinforzare il comportamento del bullo (per es. incitandolo, ridendo o anche solo rimanendo a guardare). Il difensore della vittima (soprattutto femmine) prende le parti della vittima difendendola, consolandola o cercando di interrompere le prepotenze. La maggioranza silenziosa: esterno, indifferente, outsider, davanti alle prepotenze non fa nulla e cerca di rimanere al di fuori della situazione. Le cause Nel tempo si sono susseguite varie ipotesi esplicative del bullismo, relative al sistema familiare, a fattori personologici e al contesto culturale, si può dire che siano tutte valide e che il fenomeno sia multi- causale: Il bullismo, presenta caratteristiche quali l’intenzionalità, cioè comportamenti rivolti volontariamente a causare un danno; la sistematicità, per cui comportamenti perseveranti e ripetuti nel tempo; l’asimmetria di potere data dalla forza fisica o da altre risorse. Si potrebbe dire che quella dei bulli è una “cognizione fredda”. Essi riconoscono le emozioni di base e gli stati mentali altrui, ma non condividono le emozioni degli altri, anzi, utilizzano la loro capacità di riconoscimento per manipolare la situazione a loro vantaggio al fine di dominare gli altri ignorando la sofferenza provocata e mantenere la reputazione di supremazia acquisita nel gruppo. Il bullo ha incompetenza sociale. All’interno del gruppo dei pari il bambino ricava direttamente le informazioni circa gli effetti del proprio comportamento. In riferimento alla condotta aggressiva la relazione maggiormente osservata è quella del rifiuto da parte del gruppo. I bambini rifiutati tendono a sviluppare problemi di adattamento sociale e comportamento aggressivo. Ma i bambini aggressivi sono causa o conseguenza di questo rifiuto? Certamente il comportamento aggressivo accentua l’esclusione dal gruppo, ma questo fa sì che le relazioni tra pari diventino sempre più difficili dando come conseguenza una deprivazione di esperienze sociali positive e esperienze sociali negative che daranno rispettivamente isolamento sociale (meno studiato) e rifiuto sociale, causa di comportamento aggressivo. Occorre poi tener presente un altro aspetto: in contesti di aggressività accettata e condivisa dal gruppo, la condotta aggressiva è indice di alto livello di accettazione da parte dei compagni. Succede che i bambini rifiutati si aggreghino ad altri bambini rifiutati e l’influenza dei pari sarà dovuta all’azione di rinforzo più o meno diretta che il gruppo fornisce al comportamento in questione. Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi integrati con gli altri fattori, vediamo modalità socioaffettive come la fiducia, la valorizzazione e l’empatia che si pongono come regolatori e mediatori della condotta aggressiva. La fiducia di base è un prerequisito fondamentale per adeguate modalità di interazione con gli altri. I primi rapporti del neonato con colui che si prende cura di lui e la qualità della relazione d’attaccamento risultano fondamentali per il rapporto “desiderio di ricevere – capacità di dare”. Se le prime relazioni non risultano soddisfacenti per mancanza di adeguatezza dell’adulto nel soddisfacimento delle richieste del bambino, in quest’ultimo si genera un senso di diffidenza e sfiducia che comprometterà in seguito ogni relazione. Legato al sentimento di fiducia vi è quello di sicurezza che permette al bambino di non vivere ogni evento, relazione, incontro come pericolosi, ma come arricchenti, perché può permettersi di confidare in una base d’appoggio sicura. Il bambino insicuro ha un’unica modalità per difendere se stesso e difendere la propria identità: l’aggressività. La valorizzazione è un processo che consente di riconoscere e apprezzare le qualità positive possedute in sé attraverso il rapporto con gli altri, non a discapito di una autovalutazione critica. Ammettere i propri limiti e difetti non si traduce in inferiorità o debolezza, ma è indice di un buon senso di realtà che caratterizza la personalità stabile. Attraverso le relazioni il bambino scopre gli altri e le caratteristiche di ognuno riconoscendo le proprie e imparando che essere diversi è fonte di arricchimento e non di discriminazione. L’empatia è la capacità di condividere lo stato d’animo di un’altra persona che facilita lo scambio, la comunicazione, l’incontro e riduce la distanza psichica, il conflitto e la spinta aggressiva. Allo sviluppo di una competenza sociale positiva concorrono anche abilità socio-cognitive. La capacità di attribuire significato emotivo alle espressioni facciali si trova nel bambino a partire già dai 6 mesi di vita e dopo il primo anno esiste in lui la capacità di decodificare e comprendere le espressioni emotive altrui, di rispondere in modo selettivo e di regolare il proprio comportamento. Dal secondo anno il bambino riconosce le situazioni che producono certi stati d’animo e sa quali sono le azioni che aumentano o diminuiscono l’emozione in causa. I bambini aggressivi hanno minori capacità di riconoscimento delle emozioni e mostrano difficoltà ad attribuire cause a determinati eventi, non interpretano correttamente le intenzioni altrui e soprattutto non prevedono le possibili conseguenze di un proprio comportamento negli effetti sul prossimo. La capacità di mettersi “nei panni degli altri” spostando il proprio punto di vista è una capacità scarsamente presente nel bambino aggressivo che non individua le ragioni che stanno alla base dell’agire dell’altro. Ciò lo rende poco tollerante verso le posizioni altrui e mette in atto difese verso un comportamento considerato erroneamente ostile. Anche la comunicazione referenziale, un processo di decentramento cognitivo associato alla capacità di provare empatia, è considerato antagonista della condotta aggressiva. La risposta aggressiva dal punto di vista filogenetico è senz’altro la più primitiva e spontanea, ma l’acquisizione della capacità di simbolizzare e rappresentare favorisce lo sviluppo di strategie di risposta adeguate. Questo decentramento comporta una ristrutturazione cognitiva che se scarsamente acquisita porta a condotte sociali di tipo aggressivo. A scuola e nel gruppo dei pari il gioco competitivo è un contesto ricorrente. È per sua natura frustrante e comporta la ridefinizione dell’immagine di sé e della propria autostima. Nello stesso tempo l’agire contro l’altro è legato l’agire con l’altro, nelle regole del gioco, per far sì che la relazione si mantenga. L’adesione alla competizione non comporta necessariamente la messa in atto di condotte aggressive; al contrario specifiche strategie competitive si possono associare a condotte sociali positive e alla capacità di stabilire buone relazioni con l’altro. Anche la capacità di cooperare per il raggiungimento di un obiettivo comune è un’abilità sociale fondamentale affinché la relazione si strutturi in termini non aggressivi. In situazioni di forte attività emotiva l’individuo trova molta difficoltà a far ricorso agli strumenti cognitivi. Se questo è vero a tutte le età lo è particolarmente nell’infanzia qundo ancora i bambini non hanno sviluppato le capacità sociocognitive ed emotive necessarie per controllare il proprio comportamento. Ciò spiega perché i bambini in età prescolare sono soggetti a momenti di rabbia incontrollabile. Spesso l’adulto vive questa manifestazione come un rifiuto, una disconferma del proprio ruolo o una sfida ed è difficile insegnare al bambino che la rabbia è un sentimento di manifestazione spontanea, una forza che può diventare positiva verso il cambiamento e l’azione. I bambini devono essere aiutati a non negare la loro rabbia, ma a riconoscerla dai primi sintomi e gestirla per compiere scelte sul piano comportamentale, devono essere aiutati a trovare le parole per dirla per darle una concretezza e anche per comunicare come si sentono. Imparando a gestire la propria rabbia imparano a gestire la rabbia degli altri, a confrontarsi con gli altri e ad affermare il proprio modo di vedere le situazioni. Molti programmi di intervento, finalizzati a prevenire e a ridurre il bullismo nella scuola, sono incentrati sulla stimolazione e sull’incremento delle capacità empatiche, favorendo i processi di identificazione reciproca tra i ragazzi. Vi è un altro fattore che interviene in tale contesto di gruppo, cioè la diminuzione del senso di responsabilità individuale. La diffusione di responsabilità all’interno del gruppo è un meccanismo che rende più facile l’azione aggressiva, poiché il senso di responsabilità personale nei confronti dell’azione negativa è minore se si partecipa in tanti. Prendiamo ora in considerazione i meccanismi di disimpegno morale elaborati da Bandura, cioè le strategie cognitive con cui i ragazzi giustificano le loro aggressioni. E’ quel processo per cui si può giustificare un’azione violenta sostenendo che la si fa a fin di bene, o che contravvenire a una norma «non è poi così grave (ad esempio, evadere le tasse) perché lo fanno tutti». Spesso i ragazzi che vittimizzano i propri compagni non sembrano assumersi pienamente la responsabilità di ciò che fanno e tendono sovente a sminuire le conseguenze della loro azione («sono solo scherzi»), a deresponsabilizzarsi («è tutta la classe che li prende in giro») o tendono a giustificare il loro comportamento svalutando la persona bersaglio delle loro angherie («in fondo se lo meritano»). Non va dimenticato infine il ruolo di meccanismi di gruppo che sclerotizzano la persona all’interno di un ruolo per cui risulta molto difficile per un ragazzo, che è stato etichettato come vittima o come prepotente, modificare il proprio status all’interno di un gruppo che continua a interpretare i suoi comportamenti alla luce del ruolo che gli è stato assegnato. Interventi antibullismo La rappresentazione dell’infanzia si è profondamente modificata negli ultimi anni. I nostri figli sembrano sempre più arrabbiati, annoiati, precocemente autonomi, spesso aggressivi; ma anche emozionalmente fragili, bisognosi di protezione, troppo a lungo dipendenti. Prepotenti o vittime, insomma. I genitori vivono frequenti dilemmi educativi che si ripropongono con particolare evidenza in rapporto al fenomeno del "bullismo". Ecco una testimonianza: «Inizialmente abbiamo spiegato ai nostri ragazzi che dietro a un bambino che picchia c’è spesso una famiglia maltrattante o poco attenta, ma ormai sono aggrediti anche da bambini di famiglie apparentemente non problematiche. Riteniamo che la violenza, figlia dell’ignoranza, sia alimentata dall’assenza e dalla distrazione degli adulti che evidentemente ignorano che è indispensabile educare i ragazzi anche nella gestione responsabile del proprio comportamento, individuando strategie di autocontrollo e, se non bastano, di controllo. Ma dicono i ragazzi: come è possibile che gli adulti non notino ciò che invece è sotto gli occhi di tutti i bambini ? Come è possibile che non intervengano, legittimando di fatto tali comportamenti?... Dobbiamo anche noi incoraggiare l’uso della forza fisica e trasformare ogni incontro in un campo di battaglia? Si combatte il "nonnismo" nelle caserme, ma come vogliamo chiamare l’usanza di picchiare, beffeggiare, umiliare i ragazzi della prima media da parte di ragazzi appena più grandi?». La serietà degli effetti provocati dal bullismo rende doverosa una riflessione da parte degli adulti impegnati sia in ambito educativo che in quello della salute mentale, e rende necessaria la ricerca di efficaci interventi di prevenzione. Tutti gli adulti di riferimento di bambini e ragazzi hanno la responsabilità di attivarsi, ognuno nel proprio ruolo e compito educativo. Spesso, infatti, gli adulti possono sottovalutare o ignorare l’esistenza e le conseguenze del bullismo, non attivando di conseguenza azioni di sostegno e accompagnamento ai ragazzi in difficoltà. Il rischio principale è quello di sottovalutare il fenomeno, non dando la dovuta attenzione a questi episodi: il bullismo è spesso la punta di un iceberg che nasconde un mondo sommerso fatto di umiliazioni, derisioni, esclusioni, ricatti o prevaricazioni dal punto di vista fisico. A questo si aggiunge la difficoltà, da parte di chi è coinvolto direttamente, di parlarne con adulti di riferimento, proprio per il vissuto fortemente doloroso che nasconde. I genitori possono essere sorpresi nello scoprire che il proprio figlio attua comportamenti aggressivi nei confronti di altri bambini, o non sanno come gestire il problema nel caso in cui il figlio sia vittima di prepotenze. Gli insegnanti, a loro volta, non sempre riescono a cogliere i segnali di disagio o a riconoscere gli episodi di bullismo che per altro avvengono per lo più in assenza di adulti. Ne consegue che la vittima non trova aiuto e il bullo agisce indisturbato. Il mancato intervento di un adulto può essere visto come una forma di approvazione per il suo comportamento. Spesso, infatti, gli adulti possono sottovalutare o ignorare l’esistenza e le conseguenze del bullismo, non attivando di conseguenza azioni di sostegno e accompagnamento ai ragazzi in difficoltà. Il rischio principale è quello di sottovalutare il fenomeno, non dando la dovuta attenzione a questi episodi: il bullismo è spesso la punta di un iceberg che nasconde un mondo sommerso fatto di umiliazioni, derisioni, esclusioni, ricatti o prevaricazioni dal punto di vista fisico. A questo si aggiunge la difficoltà, da parte di chi è coinvolto direttamente, di parlarne con adulti di riferimento, proprio per il vissuto fortemente doloroso che nasconde. I genitori possono essere sorpresi nello scoprire che il proprio figlio attua comportamenti aggressivi nei confronti di altri bambini, o non sanno come gestire il problema nel caso in cui il figlio sia vittima di prepotenze. Gli insegnanti, a loro volta, non sempre riescono a cogliere i segnali di disagio o a riconoscere gli episodi di bullismo che per altro avvengono per lo più in assenza di adulti. Ne consegue che la vittima non trova aiuto e il bullo agisce indisturbato. Il mancato intervento di un adulto può essere visto come una forma di approvazione per il suo comportamento. Concludo con una riflessione di Alessandro Costantini, pedagogista, psicologo psicoterapeuta, il quale mette in evidenza che “gli educatori del 2000 devono fare i conti con eventi che stanno modificando il mondo e che influiranno il futuro dei giovani. Aiutare e guidare le giovani generazioni a costruire il futuro di una umanità più attenta a questi equilibri e meno violenta è un imperativo categorico del quale tutte le culture devono farsi carico. Le azioni educative capaci di produrre tali cambiamenti dovranno necessariamente avere paradigmi comuni: il valore della pace, la negoziazione dei conflitti, il rispetto dell’uomo sia esso inteso da un punto di vista laico che religioso, l’attenzione alle radici e alle tradizioni etniche e culturali, l’integrazione tra i popoli e tra le religioni.” Il fenomeno della globalizzazione, dell’immigrazione, Internet, l’utilizzo quotidiano della tv che ha una notevole influenza sui giovani, i computer e la telefonia mobile sono tutti eventi che cambiano e condizionano gli scenari sociali e il comportamento di ciascun individuo. “E’ decisivo riuscire a confrontarsi con questi cambiamenti” afferma Costantini, “è decisivo riuscire a trovare le modalità per adattarvisi, è decisivo impostare in maniera nuova l’azione educativa nei confronti dei giovani. Rinunciarvi significa non essere al passo con i tempi, scollegarsi dal mondo giovanile, non adempiere ad una funzione sociale vitale per la società.” Riferimenti bibliografici - IL BULLISMO IN ITALIA, a cura di Ada Fonzi, Giunti, Firenze, 1997 - TRA REGOLE E CAREZZE – COMUNICARE CON GLI ADOLESCENTI DI OGGI, di Alessandro Costantini, Carocci Editore, 2002 - IL BULLISMO, a cura di M.L. Genta, Carocci Editore, Roma, 2002 - IL GIOCO CRUDELE, a cura di Ada Fonzi, Giunti, Firenze, 1999 - IL BULLISMO NELLE SCUOLE, di Franco Marini e Cinza Mameli, Carocci Editore, Roma, 1999 - BULLI E PREPOTENTI NELLA SCUOLA. PREVENZIONE E TECNICHE EDUCATIVE, di Sharp S., e Smith P.K., Centro Studi Erickson, Trento, 1996 - BULLISMO A SCUOLA. RAGAZZI OPPRESSI, RAGAZZI CHE OPPRIMONO, di Olweus D. Giunti, Firenze, 1996 - L’AGGRESSIVITA’ NELLA SCUOLA, di Olweus D., Bulzoni, Roma, 1983