Platone fra etica e politica a cura di Enzo Galbiati [email protected] filosofiacapriate.Enzogalbiati http://www.miknet.it/ Per iniziare Ringraziamenti (in particolare l’Amministrazione comunale e il Gruppo Amici e amiche della Filosofia) e presentazione Premessa: Lasciare a casa i problemi e le ansie e i dolori … Ascoltare, domandare e leggere. Per tutti? Per alcuni? Aperto a tutti e comprensibile a tutti a patto che: • Pazienza, molta pazienza, molta molta pazienza; • Capacità di ascoltare, di porre e di porsi le domande; • Voglia di apprendere, curiosità per la conoscenza (scienze umane – filologiche e scienze naturali – esatte). Il metodo: ascolto, dialogo continuo, studio, lettura... Libri di testo (vedi bibliografia) e gli affreschi della Stanza della Segnatura di Raffaello Sanzio. Platone: le opere Di Platone ci è giunto tutto. A parte una trentina di epigrammi e il frammento di un carme in esametri, quasi certamente spuri, il corpus platonico consta di 36 scritti a carattere filosofico che ci sono giunti distribuiti in nove tetralogie (gruppi di quattro), secondo una schema tradizionalmente attribuito all'erudito Trasillo di Alessandria (I secolo d.C.) che le aveva suddivise seguendo un'affinità di argomento. Delle 36 opere, 34 sono dialoghi; una, l‘ "Apologia di Socrate", riporta in forma immaginaria l'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai giudici, mentre l'ultima consiste in una raccolta di tredici lettere . Ecco l'elenco completo delle 9 tetralogie (in grassetto corsivo gli scritti ritenuti autentici): 1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone 2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico 3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro 4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti 5. Teage, Carmide, Lachete, Liside 6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone 7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno 8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia 9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere. Moltissimi dubbi ed ipotesi interpretative sulla cronologia e l’autenticità dei dialoghi. Un excursus sulla vita di Platone può forse chiarire alcuni aspetti. Platone: la vita (1) Platone nasce ad Atene nel 428 o nel 427 avanti Cristo del «settimo giorno del mese di Targelione [corrispondente alla fine maggio o all’inizio di giugno del nostro calendario] nel mese in cui i Delii dicono sia nato Apollo» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III 1). Il padre Aristone sembra discendesse da Codro (antico re di Atene). La madre Perictione è figlia di Glaucone il vecchio, fratello di Crizia (esponente di spicco dei Trenta Tiranni) nonché parente di Solone. Da Aristone e Perictione nascono, oltre a Platone, Adimanto, (entrambi sono interlocutori nel dialogo Repubblica), Potone madre di Speusippo il quale succederà a Platone nella dell’Accademia). Rimasta vedova, Perictione sposa ambasciatore ateniese in Persia ed intimo amico di Pericle. Glaucone (che sarà direzione Pirilampo, Questo l’ambiente in cui è cresciuto Platone, il cui vero nome sembra sia stato Aristocle come quello del nonno: Platone è un soprannome, datogli più tardi scherzosamente dal maestro di ginnastica alludendo forse alla sua «ampia» (dal greco πλατύς = platùs) costituzione fisica: «sostengono altri che egli prese il nome di Platone per l’ampiezza del suo stile; o perché vasta era la sua fronte» (Vite dei filosofi, III 4). [segue] Platone: la vita (2) La sua è l’educazione data agli altri nobili giovani del V-IV secolo di Atene: ginnastica e musica, e poi i ginnasi (dal greco γυμνάσιον = gymnasiun nel senso di «fare esercizi ginnici»: nell’antica Grecia, originariamente luogo dove i giovani si esercitavano, nudi, nei giochi atletici, e in seguito anche centro di educazione spirituale e di ritrovo, in cui si tenevano banchetti, feste, rappresentazioni teatrali, lezioni, conferenze) e i simposi in cui si discuteva di cultura in generale. Diogene ci racconta che: «sembra abbia partecipato a gare di lotta e che abbia studiato pittura e scritto poesie, prima ditirambi [nella letteratura classica greca, genere di poesia lirica corale, che celebrava originariamente Dioniso e il culto dionisiaco; i ditirambi, scritti in metri varî, erano cantati da un coro che danzava in cerchio, accompagnato dalla musica], poi anche canti lirici e tragedie […]: ma dopo aver ascoltato Socrate, mentre si accingeva a partecipare con una tragedia all’agone, dinanzi al teatro di Dioniso, bruciò l’opera» (Vite dei filosofi, III 5). Sempre Diogene ci riporta che, in merito alla sua formazione filosofica, sembra che Platone abbia dapprima meditato sulla filosofia eraclitea e che, dopo il decisivo incontro con Socrate, abbia da un lato risentito dell’insegnamento di Cratilo eracliteo e dall’altro lato di Ermogene Parmenideo (Vite dei filosofi, III 5-6). [segue] Platone: la vita (3) Questo aspetto spiegherebbe anche perché Platone non faccia cominciare la filosofia con Talete, Anassimandro ed Anassimene, bensì con Parmenide ed Eraclito: da problemi cioè relativi alla questione del «dire», ovvero scaturenti dalla domanda socratica relativa alla «definizione». 409 - 407: sono gli anni della sua efebìa [dal gr. ἐϕηβία, der. di ἔϕηβος «efebo» – istituzione dell’antica Atene in base alla quale i giovani liberi, all’età di 18 anni, venivano iscritti nelle liste di leva, e, dopo aver ricevuto sotto la sorveglianza di speciali magistrati elettivi un’educazione militare, letteraria e musicale, prestavano servizio nella difesa delle frontiere per un anno o due, dopo di che l’efebia era terminata e gli efebi prendevano posto tra gli altri cittadini]: sembra partecipi alle tre campagne militari ateniesi di Tanagra, Corinto e Delio. 408: anche se fin da bambino Platone deve avere sentito parlare di Socrate in casa di Callicle, da Crizia e da tutti i suoi parenti, sembra che egli sia entrato in contatto con Socrate nel 408 circa (Vite dei filosofi, III 6). Socrate e la sua vita, la sua problematica e il suo insegnamento volto a far «pensare», a essere «se stessi», sono la via segnata di Platone: di qui anche gli accostamenti a Eraclito – Protagora e a Parmenide – Zenone -Gorgia. [segue] Platone: la vita (4) 404 – 399: la disfatta di Atene alla conclusione della guerra del Peloponneso nel 404 e l’ingiusta morte di Socrate nel 399 – mal visto dai Trenta Tiranni e poi ucciso dalla democrazia - sono il problema primo e l’impulso a tutto il filosofare platonico (VII Lettera, 324 b -326 b). Durante il processo di Socrate, Platone, con altri amici, mette a disposizione la sua persona e i propri averi, nel caso in cui Socrate, condannato dal tribunale al pagamento di una multa, non possa pagare (Apologia, 38 b). Platone, presente al processo di Socrate (Apologia, 34 a e 38 b), è assente, perché malato, il giorno della morte del maestro (Fedone, 59 b). 399: dopo la morte di Socrate, si reca a Megara, con altri amici del comune maestro, presso il socratico e parmenideo Euclide di Megara (Vite dei filosofi, III 6). Dopo qualche tempo si muove per un lungo viaggio che lo porta a contatto con gli ambienti della cultura contemporanea. E’ allora probabilmente che conosce il matematico Teodoro di Cirene e il pitagorico Archita di Taranto, visita Creta, l’Egitto e altri paesi (Vite dei filosofi, III 6). 388 – 387: all’età di 40 anni (VII Lettera, 326 b-c), Platone nel 388 è sicuramente a Siracusa (polis importantissima per ricchezza ed influsso politico) presso il tiranno Dionisio il Vecchio e visita, oltre alla Sicilia, anche l’Italia (entra forse in rapporto di amicizia con Archita di Taranto). [segue] Platone: la vita (5) A Siracusa si lega in amicizia con Dione (cognato di Dionisio) che rimane affascinato dall’ideale filosofico-politico di Platone (VII Lettera, 326 d- 327 b). Sembra che Dionisio il Vecchio e la corrotta corte siracusana siano rimasti infastiditi dalle libere e spassionate critiche di Platone tanto che questi cerca di ritornare ad Atene. Si dice che la possibilità gli sia data da Dione, che lo fa imbarcare su di una nave trireme che reca un’ambasciata spartana in Grecia. Ma il comandante della trireme, per ordine di Dionisio, sbarca Platone all’isola di Egina, allora in guerra con Atene; si narra che su quel mercato Platone sia venduto come schiavo. Fortuna vuole che ad Egina si trovi di passaggio Anniceride di Cirene che lo riscatta e lo rimette in libertà (Vite dei filosofi, III 18-21). 387 – 367: tornato ad Atene nel 387 vi fonda una «scuola», un centro di studi, di discussioni, di lezioni sì da «far proprio insieme» un modo di pensare e di vivere (e in questo senso diciamo «scuola» dal latino «schŏla», che deriva dal greco σχολή [=scholè] nel senso di «fare proprio», liberandosi dall’essere presi, dall’essere dominati, dagli affari quotidiani, dal «negotium», per vivere invece secondo un proprio modo, in «otium»). Acquistato un parco dedicato all’eroe Academo, a quasi un chilometro di distanza da Atene, vi pone la nuova scuola che prende il nome di Accademia, consacrata alle Muse e ad Apollo. [segue] Platone: la vita (6) Festeggiando il giorno leggendario della nascita di Apollo, si festeggia, ad un tempo, anche il compleanno di Platone. L’Accademia viene probabilmente istituita da Platone come contraltare della scuola di eloquenza che Isocrate (oratore ateniese vissuto fra il 436-338, seguace del sofista Gorgia, che nelle sue orazioni perorò l'unità panellenica in funzione antipersiana) aveva fondato ad Atene nel 391. Platone intendeva così contrapporre alla retorica iscocratea e al rapporto umano e politico costruito su di essa, la dialettica e la scienza come condizioni prime di una condotta umana e politica basata su criteri dialettico – scientifici. Il corso di studi e i relativi dibattiti che si svolgevano nell’Accademia rispecchiavamo certamente il «curriculum» delineato nella Repubblica (matematica, geometria, astronomia, musica / armonia e dialettica). Coordinato da Platone, l’insegnamento doveva avvenire mediante discussioni e conferenze, intimi dibattiti, volta a volta retti anche dai discepoli più anziani (Speusippo, Senocrate, Filippo di Opunte) o da illustri personalità di passaggio da Atene (Eudosso di Cnido, Teeteto, Teodoro). A prima della fondazione dell’Accademia risalgono i dialoghi in cui Platone mette a fuoco la figura di Socrate e la funzione culturale avuta dai Sofisti, in una ricostruzione della storia della «cultura» filosofico-politica tra l’inizio della guerra del Peloponneso e la morte di Socrate, [segue] Platone: la vita (7) vedendone tutte le conseguenze nella storia di Atene dal 395 in poi. Tra il 395 e il 388 egli avrebbe dovuto scrivere i cosiddetti dialoghi «socratici» (Apologia di Socrate, Critone, Ione, Eutifrone, Carmide, Lachete, Liside) e i cosiddetti dialoghi «sofistici» (Alcibiade I e II, Ippia maggiore, Ippia minore, I libro della Repubblica o Trasimaco, Menesseno, Protagora, Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo). Dal 387 al 367, invece, in seno all’Accademia e in funzione delle discussioni e dei dibattiti aperti, Platone avrebbe dovuto scrivere quei dialoghi in cui, da un lato, si chiariscono le condizioni che permettono il giudizio e la scienza, dall’altro lato come, «sapendo ragionare» e come è bene che ciascuna scienza trovi le sue fondamenta, è possibile di contro ad un «vivere privato», un «vivere pubblico e civile»: da qui i cosiddetti dialoghi della «maturità» (Fedone, Simposio, Fedro, i libri II – X della Repubblica). 367: muore a Siracusa Dionisio il Vecchio; a lui succede al trono il figlio Dionisio il Giovane. Dione allora, che non ha interrotto i rapporti con Platone, fidando della vantata liberalità del nuovo Dionisio, invita Platone a recarsi a Siracusa, nella speranza di potere attuare ora quella riforma che nel 388 non rimase che un sogno. Platone si mette in viaggio per Siracusa. Senza dubbio Dionisio il Giovane, molto più del padre, comprende il significato del platonismo. Ma anche questa volta grave è la delusione. Tra Dione e Dionisio sorgono contrasti e litigi. [segue] Platone: la vita (8) Anzi Dionisio, sospettando in Dione un ribelle, riesce ad allontanarlo e a mandarlo in esilio, pur trattenendo presso di sé Platone di cui si proclama amico e di cui sfrutta i consigli politici. Platone, giovandosi di questa amicizia, cerca di riconciliare Dione e Dionisio sempre nella speranza di potere attuare in Siracusa una vera e propria «res-publica» (VII Lettera, 327 b – 330 e). 365 - 361: scoppia in Sicilia una guerra per cui Platone è costretto a tornare ad Atene. Ha la promessa di Dionisio che alla fine della guerra lo farebbe tornare a Siracusa insieme a Dione. Tornato ad Atene Platone riprende la sua attività in Accademia. Fra il 365 e il 361 porta a termine il Parmenide e il Teeteto (i primi due dialoghi «dialettici»). 361: Platone è nuovamente a Siracusa ma senza Dione: alla fine della guerra Dionisio, che probabilmente voleva valersi dei consiglio di Platone, lo persuade al nuovo viaggio, assicurandogli che solo la sua presenza a Siracusa lo avrebbe indotto a richiamare in patria Dione, anche se in un secondo tempo. L’amicizia per Dione e la speranza di attuare il sogno politico lo convincono ad accettare. Altra delusione: Dionisio si mostra sempre più nemico di Dione e contro di lui prende sempre più gravi provvedimenti. [segue] Platone: la vita (9) Platone apertamente difende Dione, tanto che pessimi divengono i suoi rapporti con Dionisio. Si arriva al punto che Dionigi tiene prigioniero Platone mettendone a rischio la vita. Lo salva l’intervento di Archita di Taranto, amico di Dionisio il Vecchio e di Platone ed in buoni rapporti con Dionisio il Giovane, che riesce a farlo partire da Siracusa nel 360 (VII Lettera, 337 e – 350 b). 360: passa per Olimpia dove incontra Dione. Lo dissuade dal volere muovere guerra a Dionisio. Nello stesso 360 rientra ad Atene, da dove non si muove più. Dal 360 in poi scrive il Sofista, il Politico, il Filebo, il Timeo, il Crizia e Le Leggi, quest’ultime rimaste non rifinite e che saranno ordinate in 12 libri e pubblicate dall’allievo academico Filippo di Opunte. 353: se, come molti oramai ritengono, la VII Lettera è opera di Platone, essa dovrebbe essere scritta ai Siracusani dopo la morte di Dione (avvenuta nel 353) il quale, dopo essersi impadronito di Siracusa nel 357, viene assassinato durante una congiura da Callippo, un ateniese sedicente discepolo di Platone. Ogni sogno politico è ormai svanito: la VII Lettera è una testimonianza a posteriori che Platone da di se stesso, della sua formazione, della sua problematica filosofica e del suo impegno filosofico e civile. 348 – 347: Platone muore ad Atene ad ottant’anni circa. Il metodo di Platone (1) Il metodo dialogico, adottato dal suo maestro Socrate, rappresenta la forma di comunicazione privilegiata da Platone. Dei 36 scritti a lui attribuiti, infatti, più di trenta sono in forma di dialogo. La predilezione platonica per questo metodo, oltre ad essere un chiaro segno di continuità e di stima nei confronti di Socrate e della sua arte maieutica, nasconde anche un profondo significato filosofico. La forma dialogica, che nelle opere si riflette in un continuo alternarsi di domande e risposte, nella costante interlocuzione dei vari personaggi che animano i dialoghi, rispecchia per Platone il modo corretto che l’essere umano ha a disposizione per avvicinarsi alla verità; un modo basato su un procedimento di tipo argomentativo-persuasivo, in cui ogni opinione possa e debba essere argomentata o, al contrario, confutata, e in cui lo stesso lettore sia stimolato a farsi un’idea propria dell’argomento in questione. L’orientamento etico-politico, che permea l’intera opera platonica, risulta qui evidente: solamente chi si convince spontaneamente di una certa idea, sarà anche stimolato ad agire di conseguenza, in accordo con essa. [segue] Il metodo di Platone (2) Se Platone ha ereditato dai sofisti e da Socrate la credenza nell’illusorietà di poter cogliere il vero tramite asserzioni semplici, costruendo sistemi filosofici rigidi e dogmatici, la tensione verso la verità rappresenta, comunque, un aspetto centrale del pensiero platonico. La verità è per il filosofo greco qualcosa che va perseguita con serietà e dedizione, ma che è frutto di una ricerca, con tutta probabilità, infinita. La connaturata limitatezza dell’essere umano, per lo meno nella sua condizione fisica e temporale e la miriade di ostacoli che l’uomo incontra nel suo cammino verso la verità rendono possibile soltanto una conoscenza del vero che è parziale, approssimativa, mai definitiva ma incrementabile all’infinito. L’accesso al mondo delle idee, sede del vero essere, può avvenire, nell’ottica platonica, solo in modo indiretto, interpellando l’anima che un tempo le ha conosciute prima di incarnarsi, e delle quali reca con sé soltanto un ricordo vago e sbiadito. Il metodo dialogico-dialettico, privilegiato dal filosofo greco, non è che la logica derivazione di questo concetto di verità. La funzione del mito (1) Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di conoscenza tradizionale e popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la nascita della filosofia greca. Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione. Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didattico-espositivo, retorico in senso proprio, di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti. [segue] La funzione del mito (2) Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti. Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò poco più d'un secolo dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa , ovvero il mondo dell'opinione mutevole e transitoria. I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà. I miti più importanti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono approssimativamente i seguenti: [segue] La funzione del mito (3) Mito della reminiscenza (Menone, 80 d – 81 e) Mito dell'insoddisfazione del dissoluto (Gorgia, 493 a – 494 a) Mito del giudizio delle anime (Gorgia, 523 a – 527 e) Mito dell'immortalità dell'anima (Fedone, 107 c – 115 a) Mito di Aristofane o dell'androgino (Simposio, 189 c – 193 e) Mito della nascita di Eros (Simposio, 203 b – 206 a) Mito di Gige (Repubblica, 359 d – 360 d) Mito della caverna (Repubblica, 514 a – 519 a) Mito di Er (Repubblica, 614 a – 621 d) Mito del carro e dell'auriga (Fedro, 246 a – 249 b) Mito di Theuth o dell’invenzione della scrittura (Fedro, 274 c – 277 a) Mito dei cicli cosmici (Politico, 268 e – 274 e) Mito di Atlantide (Crizia, 108 e – 113 b) Mito del Demiurgo (Timeo, 29 e – 31 b) Mito dell'anima del mondo (Timeo, 34 c – 37 c) Mito delle specie mortali (Timeo, 40 d – 42 e) Mito del ciclo delle incarnazioni (Timeo, 89 e – 92 c) Mito della provvidenza divina (Leggi, X 903 b – 905 d) La filosofia di Platone (1) Più che un corpo sistematico di dottrine, la filosofia di Platone è un complesso di problemi soggetti a una continua evoluzione ed elaborazione dialettica. Nei dialoghi giovanili (detti anche «socratici»), Platone appare totalmente impegnato ad approfondire le tipiche problematiche socratiche: le tesi sull'identità di virtù e scienza, sulla determinazione di tale scienza come «scienza del bene e del male in generale», sull'insegnabilità della virtù, sul potere di attrazione, rispetto alla volontà, del bene, che si rivela quindi anche come ciò che è sommamente piacevole ed utile (eudemonismo), sull'involontarietà del male, ecc. >>> Si rivedano gli appunti su Socrate. Tuttavia, proprio dalla riflessione su queste tesi socratiche cominciano a sorgere problemi nuovi. Innanzitutto Platone avverte come quei valori, di cui era andato in cerca Socrate (bene, giustizia, virtù, coraggio, ecc.), non possono pretendere di avere quella stabilità e universalità che è loro richiesta se non sono concepiti come «realtà» che, al contrario di ciò che cade sotto i sensi, non muta e non perisce. Di qui la «crisi» del socratismo che si manifesta nel Menone e nel Gorgia, il primo dei quali esprime l'esigenza di un nuovo concetto di scienza, come conoscenza di verità eterne acquisita prima della nascita e riacquistabile in vita con l’anamnesi, mentre il secondo fonda un rigoroso dualismo tra bene e piacere, tra mondo eterno dei valori e mondo mutevole delle passioni e dei desideri, tra anima e corpo. [segue] La filosofia di Platone (2) Momento fondamentale per questi sviluppi è l'elaborazione platonica della dottrina delle forme eterne del reale, nota nella tradizione come «dottrina delle idee». Strettamente connessa alla ricerca socratica della definizione delle essenze e dei valori universali, tale dottrina ne rappresenta un'originale e più vasta articolazione. Che cos'è la dottrina delle idee, alla quale Platone giunge con la «seconda navigazione» (Fedone, 99 c-101 e)? La parola ἰδέα (=idea), innanzitutto, deriva dalla radice greca «id» che è a sua volta riconducibile al verbo «orao» (=vedere): è quindi qualcosa che si può vedere non con gli occhi, bensì con l'intelletto; la percezione degli oggetti sensibili risveglia il ricordo delle idee dell'iperuranio (= è quella zona – in senso metaforico e non fisico - al di là del cielo dove risiederebbero le idee), le quali permettono di misurare l'inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse. Il termine «idea» viene tradotto anche con «forma», «aspetto», «esemplare», «sostanza» e difatti Platone utilizza indifferente-mente i termini greci di ἰδέα, εἶδος ed οὐσία, ad indicare la forma comune di tutti i concetti, gli oggetti e i pensieri. Così qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l'idea della bellezza nella sua perfezione ed immutabilità. L'idea di bellezza è il modello in base al quale possiamo denominare belli determinati oggetti: infatti è perché già possediamo l'idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti. [segue] La filosofia di Platone (3) I valori / essenze universali sono certamente necessari per i giudizi morali, come aveva del resto già precisato Socrate: senza la definizione di bene e di giusto, infatti, non sarebbe possibile distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto; ma essi sono indispensabili per la stessa conoscenza della natura: come in tutte le azioni virtuose si riconosce la presenza di ciò che si chiama virtù, così in una molteplicità di manifestazioni sensibili riconducibili a un'unità dovrà essere colto ciò che costituisce l'essenza universale, stabile e immutabile comune a tutte quelle manifestazioni. È questa essenza che permette di dire di ciascuna cosa che cosa essa sia e che cosa la distingue da un'altra. Per esempio: che cosa sia un uomo nella sua essenza e che cosa distingua un uomo da un cavallo. Modelli o criteri oggettivi e puramente intellettivi in base a cui poter pensare, nominare e distinguere le singole realtà che si manifestano nella conoscenza sensibile, o, anche, termini di paragone a cui confrontare queste ultime per poterne giudicare con verità, i concetti universali sono per Platone delle forme od essenze dotate di una propria sussistenza ontologica: sono enti reali che costituiscono la ragione delle cose. Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l'indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni, ossia di risposte corrette alla domanda: [segue] La filosofia di Platone (4) «Che cos'è x?» (dove x sta per bello, giusto...). Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l'idea in questione (per esempio l'idea di bellezza, di giustizia...). L'idea è dunque un «universale»: ciò significa che i molteplici oggetti sensibili, dei quali l'idea si predica, dicendoli per esempio belli o giusti, sono casi o esempi particolari rispetto all'idea: una bella ragazza o una bella casa sono casi particolari di bellezza, non sono la bellezza. Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento, soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse; proprio questa differenza di livelli ontologici, ossia di consistenza di essere, qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti. L'attività di un artigiano, per esempio di un costruttore di letti, è descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell'idea del letto, alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero. L'idea è quindi dotata di esistenza autonoma, né dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata (non è cioè un ente di pensiero); essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano. La partecipazione all'idea, per esempio, di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello. [segue] La filosofia di Platone (5) È nell'introduzione di questa dimensione ontologica che consiste essenzialmente il passaggio dall’eterno interrogare di Socrate all’«idea» platonica. Il tipo di esistenza che spetta alle idee è tuttavia diverso da quello delle cose comuni: queste, in quanto soggette al divenire, sono particolari, contingenti e mutevoli, mentre le idee, in quanto modelli e criteri delle cose sensibili, sono universali, necessarie ed eterne e godono pertanto di un'esistenza intelligibile in un mondo ideale. Eternamente costante nelle sue determinazioni, il mondo ideale «invisibile» è un mondo eleatico che si oppone a quello eracliteo del divenire «visibile»; esso è il mondo dell'essere: le idee sono infatti «le cose che realmente sono». Il pensiero platonico, centrato com’è sulla teoria delle idee, appare connotato da un dualismo ontologico di fondo, in base al quale esistono due mondi: uno materiale, sensibile e soggetto alla legge del mutamento e della corruzione, l’altro immateriale ed eterno, necessariamente migliore, dal punto di vista qualitativo, del primo. Fra i due mondi esiste un rapporto di μίμησις («mimesis» = imitazione), di μέθεξις («metessis» = partecipazione) o di παρουσία («parusia» =presenza delle idee nelle realtà sensibili): gli oggetti sensibili non sono che imitazioni, copie imperfette delle idee corrispondenti, che rappresentano invece la perfezione della qualità che indicano. [segue] La filosofia di Platone (6) Risolto così in una prospettiva ontologica il problema socratico della definizione, Platone indicava nella contemplazione intellettuale delle idee la vera scienza, in quanto contrapposta al regno dell‘ «opinione» dell'esperienza sensibile. In particolare, autentica scienza è la conoscenza delle idee e dei rapporti reciproci che le collegano in un sistema ordinato. Non soltanto, infatti, le idee si caratterizzano per l'universalità che consente a ciascuna di riferirsi a una molteplicità di cose singole; esiste anche un ordine tra le idee stesse, a seconda del maggiore o minore grado di universalità che spetta a ciascuna di esse: l'idea di cavallo è compresa in quella di quadrupede, che abbraccia molti altri individui del mondo animale; quest'ultima è cioè più estesa della precedente, e più estese ancora sono le idee di animale e di vivente. Si dà così una gerarchia di idee che da quella più universale discende via via verso quelle dotate di sempre minore universalità e, perciò, di sempre maggiori determinazioni. Ma, soprattutto, attraverso la gerarchia delle idee Platone dava una nuovo significato alla dialettica (dal greco διάλέγειν = dià - légein = «parlare attraverso»): opponendosi alle degenerazioni sofistiche che avevano ridotto la dialettica a eristica (arte del vincere in ogni discussione indipendentemente dalla ricerca della verità), Platone intende la dialettica come lo strumento supremo della conoscenza, quello [segue] La filosofia di Platone (7) in virtù del quale, messi da parte l'opinione e ogni riferimento sensibile, si ripercorrono i rapporti e i nessi oggettivi tra le idee, pervenendo alla contemplazione di quella gerarchia delle idee che costituisce la struttura più autentica della realtà. Ma affinché l'uomo possa, attraverso il procedimento puramente intellettivo della dialettica, orientarsi nella gerarchia e nei rapporti delle idee, è necessario che egli conosca, o abbia la facoltà di conoscere, ciascuna di queste idee. Dal momento che esse non sono conoscibili mediante i sensi e che, nondimeno, la pura attività intellettiva è in grado di intuirle pur attraverso la molteplicità e la particolarità sensibile, Platone ne conclude che l'anima abbia conosciuto le idee in un precedente periodo della sua esistenza, allorché, non ancora congiunta col corpo e vivendo nel mondo immortale dell'Iperuranio ha potuto contemplare le idee nella loro sede, per poi dimenticare tale visione nella sua successiva vita terrena. Ma a poco a poco, riflettendo sulle somiglianze e sulle dissomiglianze delle cose, l'anima è ricondotta al pensiero dei supremi esemplari verso cui tali somiglianze si orientano, e si ricorda di ciò che vide. È questa, a grandi linee, la dottrina platonica della ἀνάμνησις («anamnesi», «reminiscenza»), quale fonte di ogni conoscenza terrena delle idee, dottrina che implica da un lato che le idee siano innate nell'anima, dall'altro che l'anima sia immortale. [segue] La filosofia di Platone (8) Ma essa presuppone inoltre che l'anima possa vivere indipendentemente dal corpo e che in tale esistenza separata abbia conosciuto verità superiori a quelle che derivano dai sensi; ed è così un elemento importante di quella dimostrazione dell'immortalità dell'anima, che nel Fedone è poi data soprattutto in base all'affinità di natura che l'anima deve avere con le forme eterne perché possa conoscerle. Ma poiché l'anima è immortale e la sua vita corporea non è che un provvisorio e doloroso stato di «prigionia», essa, riacquistata memoria della sua origine e del suo destino, non desidera che di tornare alla sua sede eterna, sottraendosi all'esilio terreno. Da questa concezione deriva una morale caratterizzata da un netto orientamento verso l'aldilà, che la distacca dalla pratica e terrena saggezza di Socrate e l'avvicina piuttosto alla religione degli orfici e alla filosofia dei pitagorici da cui Platone riprende l'idea della «metempsicosi» (trasmigrazione dell'anima) attraverso varie esistenze corporee, non soltanto umane, ma anche animali. Ogni esistenza è determinata dal comportamento morale dell'anima nell'esistenza precedente: più essa si lega al corpo, cedendo ai suoi desideri e lasciandosene dominare, più basso, nella gerarchia naturale, è l'organismo corporeo in cui deve trasmigrare. [segue] La filosofia di Platone (9) Quando invece l'anima giunge a liberarsi dagli interessi corporei, acquista la capacità di vivere sola e di tornare all'originaria sede sopra celeste, dove contemplò le idee. Nel suo significato ultimo la filosofia diviene così per Platone una «preparazione per la morte», volta a liberare l'anima dal corpo. Ciò si ottiene esercitando sempre più, nella vita, quelle facoltà dell'anima che meglio corrispondono alla sua natura divina e meno implicano il suo legame col corpo. Di qui l'importanza, sul piano etico, della stessa filosofia, concepita come l'attività puramente intellettiva attraverso cui l'anima si distacca da ogni elemento corporeo. La filosofia, infatti, in quanto è "amore di sapere", esprime una tendenza irresistibile a tornare a quello stato contemplativo del mondo ideale sperimentato dall'anima nella sua vita nel mondo sopra celeste, tendenza che insorge nell'anima quando in essa si ridesta il ricordo, attraverso l'ausilio della dialettica, della realtà ideale che costituisce il modello eterno di quella sensibile. In questa prospettiva rientra anche la definizione platonica, nei termini di una tensione dell'anima verso il mondo delle forme ideali, della concezione socratica dell'attrattiva che la conoscenza dei valori esercita sulla volontà: l'idea suprema, della cui essenza partecipano tutte le altre, è infatti quella del Bene. [segue] La filosofia di Platone (10) L’idea del Bene esercita un'attrattiva irresistibile sull'anima, spingendola a elevarsi sempre di più nel dominio dell'universale. In questa tensione all'ideale e all'eterno, delineata nel Simposio attraverso la figura del demone Eros, consiste il cosiddetto «amore platonico», forza che spinge l'anima alla contemplazione della bellezza ideale e, perciò, data l'inscindibilità di bello e bene, del vero bene. Se la vita pratica, il mondo dei sentimenti e dei desideri terreni vengono così confinati dall'etica platonica nella sfera corporea, d'altra parte la morale di Platone non implica una totale svalutazione dei desideri e degli impulsi che caratterizzano la vita corporea: si tratta piuttosto di riconoscere la presenza nella stessa anima di questi elementi, secondo la dottrina psicologica esposta nella Repubblica, e di mantenerli in uno stato di subordinazione e di equilibrio, in modo che non ostacolino l'anima nella realizzazione del suo compito morale più elevato. Nel Fedro Socrate cerca infatti di confutare il paradosso dell’oratore Lisia secondo il quale bisogna cedere a colui che non è innamorato. L’amore in quanto passione irrazionale sembra indurre alla rovina, ma le diverse forme di mania (profezia, divinazione, ispirazione poetica e delirio erotico) sono doni divini e producono beni. L’anima, naturalmente alata, perde le ali allontanandosi da ciò che è bello e buono, dalla perfezione dell’iperuranio; l’amore può farle rinascere. Diversamente dalla retorica di Lisia, che ha di mira la verosimiglianza e l’opinione della moltitudine, la dialettica è ricerca della verità; la stessa scrittura, con le sue tecniche retoriche, è un ostacolo e non un ausilio per chi pratica la filosofia. [segue] La filosofia di Platone (11) Come detto, per descrivere la divinità e l’immortalità dell’anima nel Fedro (246 a – 249 c) Socrate ricorre al mito dell’auriga che deve condurre un carro alato trainato da due cavalli: l'auriga rappresenta la parte razionale e intellettiva, quella che conosce la verità e il bene, mentre i due cavalli ne rappresentano rispettivamente la parte coraggiosa o irascibile, da cui derivano gli impulsi nobili, e la parte concupiscibile o desiderante, sede degli impulsi legati alla sfera corporea. In particolare il cavallo bianco raffigura la parte dell'anima dotata di sentimenti di carattere spirituale e si dirige verso l'Iperuranio; quello nero raffigura invece la parte dell'anima concupiscibile e si dirige verso il mondo sensibile. Il carro alato è diretto verso l‘iperuranio, un luogo metafisico a forma di anfiteatro dove risiedono le idee. Lo scopo dell'anima, infatti, è contemplare il più possibile l'Iperuranio e assorbirne la sapienza delle idee. L'auriga quindi deve riuscire a guidare i cavalli nella stessa direzione, verso l'alto, tenendo a bada quello nero e spronando quello bianco, in modo da evitare o ritardare il più possibile il "precipitare" nella reincarnazione. Chi è precipitato subito rinascerà come una persona ignorante o comunque lontana dalla saggezza filosofica, mentre coloro che sono riusciti a contemplare l'Iperuranio per un tempo più lungo rinasceranno come saggi e come filosofi. Questo mito spiega la reminiscenza ed è riconducibile all'immortalità dell'anima. [segue] La filosofia di Platone (12) La concezione psicologica espressa dal Fedro, oltre che una dottrina morale, implica anche una dottrina politica. È proprio su questa psicologia, infatti, che, nella Repubblica, Platone basa la dottrina dello stato ideale diviso nelle tre classi dei filosofi, che contemplando le idee lo dirigono razionalmente; dei soldati, o «guardiani», che lo difendono; e degli artigiani / produttori, che ne assicurano l'esistenza dal punto di vista economico. Eguali di conseguenza sono le virtù che presiedono a ciascuna delle tre parti dell'anima e delle tre classi dello stato: rispettivamente la sapienza per i filosofi-re, il coraggio per i guardiani, la temperanza per gli artigiani, sulle quali domina poi la giustizia che, facendo operare nel proprio campo ciascuna parte o classe e impedendole di oltrepassare i limiti delle sue funzioni, assicura il miglior ordine tanto nella sfera morale quanto in quella politica. La perfezione dell'anima è così, da questo punto di vista, non tanto nella negazione ascetica delle passioni, e in genere di ogni attività non contemplativa, quanto nella subordinazione armonica delle facoltà inferiori alle superiori. Analogamente, nello stato non c'è salute se le classi non partecipi della sapienza non obbediscono a coloro che, più vicini alla verità, meglio degli altri possono intuire ciò che per lo stato è bene e legiferare e governare in conformità a tale conoscenza. [segue] La filosofia di Platone (13) quindi un'assoluta aristocrazia del sapere, da Si ha cui deriva un'estensione dei poteri statali fin sulla proprietà e la famiglia, risolte nell'unica famiglia e proprietà dello stato. Questo dualismo di politica e ascesi, di interesse fattivo per il mondo e di orientamento verso l'aldilà, che Platone propriamente non concilia (nonostante una certa prevalenza del motivo ascetico, dal momento che la stessa Repubblica culmina in una rappresentazione mistica del destino oltremondano dell'anima del tutto analoga a quella che chiude il Fedone), si rispecchia infine, nella forma più tipica, nella negazione del valore dell'arte, che per Platone non è conoscenza e manifestazione di verità, ma costruzione fantastica, che dalla verità sempre più si allontana. E se la singola individualità esistente è imitazione dell'idea, l'artista che raffigurando o descrivendo la imita produce una realtà che nella gerarchia degli enti occupa il terzo e infimo grado. Non solo: ma le rappresentazioni della poesia e dell'arte, agitando nel modo più vivo le forze passionali dell'uomo, rendono più difficili il loro dominio o la loro eliminazione, e così contrastano il compito supremo della filosofia. Riferendosi alla divinità la umanizzano, e le attribuiscono qualità indegne della sua eterna natura. La riflessione sul tema dell'eleatismo parmenideo sta alla base del profondo riesame che Platone compie di tutta la sua filosofia negli ultimi dialoghi (i cosiddetti «dialoghi dialettici», in particolare: Parmenide, Teeteto e Sofista). La filosofia di Platone (14) Nel Parmenide si descrive il dialogo fra il vecchio Parmenide, Zenone e il giovanissimo Socrate, avente come oggetto il problematico rapporto fra uno e molteplice, donde origina l’aporeticità conseguente sia alla negazione sia all’assunzione positiva del molteplice. Commentando le tesi esposte da Zenone, Socrate osserva che al problema del molteplice si connette anche quello del simile e del dissimile, ossia il fatto che cose molteplici dello stesso genere (per es., uomini) pur essendo in sé unitarie, sarebbero al tempo stesso simili e dissimili (127 d - 128 e). Ne deriva che non sia assurdo dimostrare che «tutto è uno perché partecipa del genere dell’uno e che lo stesso tutto è molteplice perché partecipa del genere della molteplicità» (129 b-c). Con il superamento di tale contraddizione che comporta la stasi in cui si risolvono le critiche eleatiche, Socrate enuncia una soluzione fondata sulla dottrina dell’ ‘idea’, la quale, pur essendo unitaria, sussume in sé la molteplicità del reale, rendendo possibile concepire la partecipazione del molteplice all’uno (129 a - 130 a). Contro la dottrina delle idee, Parmenide propone una serie di difficoltà: non possono esservi idee che corrispondano a ciascuna cosa sensibile (130 a - e), bisogna stabilire se la cosa partecipi di tutta l’idea o di una parte di essa; bisogna risolvere il cosiddetto argomento del terzo uomo (132 a), ossia il necessario darsi di un grado intermedio fra la cosa reale [segue] La filosofia di Platone (15) e l’idea di cui quella partecipa solo in modo incompleto; le idee non possono essere pensieri; le idee e le cose sono su due piani paralleli non comunicanti (132 d - 135 a). Parmenide enuncia la propria concezione dell’uno come estraneo alla molteplicità (135 a - 166 c). Mediante il metodo dialettico Socrate dimostra, a superamento delle aporie che Parmenide ritiene insolubili, che il molteplice può essere compreso, in quanto alterità, ossia nel suo essere altro, come ‘ente’ dell’uno stesso. L’essere può cioè essere pensato non come l’uno in sé, ma come l’‘uno che è’, ossia che esistendo è ‘altro’ dall’uno. In caso contrario la pura molteplicità sarebbe altrettanto contradditoria, poiché non potrebbe render conto dell’unità dei singoli esistenti. La conclusione ‘aporetica’ (= dal greco ἀπορία nel significato di «difficoltà, incertezza»; in filosofia, indica la difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua ricerca, sia che di tale difficoltà si ritenga raggiungibile la soluzione sia che essa appaia intrinseca alla natura stessa della cosa e quindi ineliminabile) del Parmenide, che verrà sviluppata negli scritti successivi e in particolare nel Teeteto e nel Sofista è che: «sia che l’uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, rispetto a sé stessi e reciprocamente fra loro, sono tutto, secondo ogni modo di essere e non lo sono, appaiono esser tutto, secondo ogni modo di essere e non appaiono così» (166 c). [segue] La filosofia di Platone (16) Nel Teeteto Platone affronta la quesitone relativa alla definizione del concetto di scienza. Alla questione vengono date nel corso del dialogo tre diverse risposte tutte respinte da Socrate (la scienza è sensazione; la scienza è opinione vera; la scienza è opinione vera accompagnata da ragionamento), intervallate da due intermezzi, il primo riguardante l’arte maieutica di Socrate (148 e - 151 d), il secondo relativo alla figura del filosofo, la sua libertà di spirito, il suo ideale di assimilazione alla divinità (172 c - 177 c). Quel che più conta però è che nel Teeteto Platone risponda a tutte le critiche contro la dottrina delle idee che egli immagina gli siano rivolte da Parmenide e da Zenone (177 c - 186 e). Superata l'obiezione zenoniana, la tesi di una molteplicità di idee e della loro realtà non poteva ancora essere garantita di fronte alla rinascente obiezione parmenidea, per cui ogni realtà particolare (cioè parte di un molteplice, come lo è anche ciascuna idea) si presenta come tale che «è» sé stessa e «non è» tutte le altre, mescolanza, quindi, di «essere» e di «non essere» e pertanto apparenza, ma non vera realtà. E così Platone nel Sofista si decide a compiere il «parricidio», a confutare cioè la tesi centrale del «venerando e terribile» Parmenide e a dimostrare che anche il «non essere» in qualche modo «è». Il punto fondamentale di questa dimostrazione sta nella risoluzione del «non essere» nella «alterità»: quando noi diciamo che una cosa «è» sé stessa e «non è» le altre [segue] La filosofia di Platone (17) non facciamo altro che mettere in evidenza ciò che in essa vi è di «identico» con sé stessa e ciò che vi è di «diverso» dalle altre, e quindi che essa «è» identica con sé stessa ed «è» diversa dalle altre. Il discorso così si muove sempre nel piano dell‘ «essere» e viene meno la contraddizione parmenidea. L’analisi nel Sofista è avviata dall’esigenza di differenziare la scienza del sofista da quella del politico e del filosofo (216 a - 217 b). Il sofista pratica una «caccia» pacifica mediante la persuasione e commercia cognizioni per ottenerne guadagno (224 b). La sua abilità nel confutare mediante l’antilogia (= la contrapposizione di discorso a discorso) genera però una scienza solo apparente e nel praticarla si diviene piuttosto «incantatore» e «imitatore» (234 b - 235 a) che sapiente. Oggetto delle dispute sofistiche sono infatti «parvenze» prive di reale consistenza ontologica, ossia forme di non-essere (235 b - 236 d). In tal senso si pone il problema di come si possa parlare di ciò che, essendo solo «parvenza» o «immagine», propriamente non è, senza incorrere nelle obiezioni di Parmenide (236 d - 237 b). Dire il falso comporta infatti che il non-essere si possa in qualche modo ‘dire’ e ‘pensare’, e alla luce di tale difficoltà bisogna protrarre l’indagine e commettere quasi un «parricidio», sul piano teorico, nei confronti di Parmenide (241 d). [segue] La filosofia di Platone (18) Si tratta di ripensare il rapporto fra essere e non-essere, superando le aporie fra unità e molteplicità, e fra moto e quiete, quali risultano dalle diverse ipotesi dei «materialisti» (per i quali è reale solo ciò che è corporeo) e degli «amici delle forme» (che ammettono molteplici forme intelligibili: 245 e - 246 d), e dalla ulteriore contrapposizione fra «monisti» e «pluralisti» (242 b - 243 c). Per comprendere il modo in cui l’essere si predichi dei termini da cui sorgono tali opposizioni, è necessaria la «dialettica», scienza filosofica per eccellenza (contrapposta alla mera abilità del confutare, tipica del sofista: 252 e - 254 b). Essa consiste nel saper dividere (διαίρεσις) e distinguere fra i diversi «generi» delle cose, ma anche nel saper vedere se e come i diversi generi entrino in comunicazione ovvero si mescolino fra loro (253 e); in tal modo il problema logico dei generi della predicazione viene a coincidere con quello ontologico dei generi dell’essere. Applicando la dialettica alle distinzioni dell’essere, nel Sofista si enucleano cinque generi sommi: oltre all’essere, la quiete, il movimento, l’identico, il diverso (254 c - 257 c). Il non-essere non ha valore assoluto e consiste nell’‘essere diverso’ rispetto a ciò che si predica, al modo in cui, per esempio, «ciò che non è grande» ha comunque una certa grandezza e non è mero nonessere (258 c). L’analisi dei modi in cui nomi e verbi si uniscono nel discorso, derivata dall’analisi dei generi dell’‘essere’, consente di spiegare il dire [segue] La filosofia di Platone (19) falso come discorso non circa ciò che non è, ma circa ciò che è in altro modo rispetto a ciò che è realmente (262 d - 263 d). Così il non-essere, sia ontologicamente sia logicamente, si riduce all’‘essere altro’, ossia all’alterità (263 d - 264 b). Poiché il pensiero può riferirsi all’‘essere altro’ è possibile l’errore, ma il sofista, diversamente dal filosofo, se ne avvale nel produrre ‘immagini’ che si fondano sull’opinione invece che sulla scienza. Su questa base Platone può, da un lato, elaborare una nuova e compiuta descrizione del metodo dialettico come divisione dei generi e delle specie e in essi di ciò che vi è di identico e di ciò che vi è di diverso e, dall'altro lato, dare un'adeguata risposta alle aporie sofistiche, ciniche e megariche nella predicazione: la «comunanza» dei generi e delle specie (cioè l‘«identico») e la loro differenza (cioè il «diverso») creano tutta una trama di rapporti ontologici che il pensiero e il linguaggio devono rispecchiare quando connettono soggetto e predicato. In questo modo può trovare finalmente una soluzione anche il problema dell'errore, inspiegabile e inconcepibile finché interpretato come un dire e un pensare «ciò che non è», ma perfettamente chiarito se inteso come un dire e un pensare il «diverso». I risultati così conseguiti e la fecondità della nuova dialettica del Sofista sono messi alla prova da Platone anche nell'analisi dei problemi etici e politici, nei dialoghi Filebo e Politico. [segue] La filosofia di Platone (20) Nel Filebo infatti egli tenta, correggendo anche il precedente rigido dualismo tra bene e piacere, d'inserire positivamente il piacere (o almeno il piacere "puro") nella scala dei valori morali, anche se al di sotto del bene e della scienza; nel Politico poi, pur ribadendo l'opportunità che il potere tocchi solo a coloro che sono sapienti nella scienza politica (o "arte regia"), manifesta un'attenzione più comprensiva della realtà concreta che mitiga l'utopia della Repubblica e prepara il vasto affresco giuridico-costituzionale delle Leggi. Questa attenzione più comprensiva della realtà concreta che è caratteristica, per tanti aspetti, dell'ultimo Platone sta altresì alla base della cosmologia (la disciplina che studia la struttura materiale e le leggi che regolano l'universo) del Timeo e dell'estremo tentativo di mediare il rigido dualismo tra mondo delle idee e mondo sensibile, che è del resto visibile anche in quella dottrina delle «ideenumeri», come intermediari tra le idee e le cose, che ci è nota non dagli scritti di Platone, bensì dalla testimonianza di Aristotele. Nel Timeo possono essere individuati: un prologo (17 a - 27 c), in cui si presentano i personaggi, si pone una certa continuità con il discorso del giorno precedente sulla città ideale di cui alla prima parte della Repubblica (Socrate chiede che si presenti la città ideale «effettivamente in azione»: 19 b - 20 c), e si prepara un piano sui discorsi che restano ancora da svolgere; un preludio al discorso cosmologico di Timeo da Locri (27 c - 29 d), in cui si illustrano i principi metafisici che ne sono alla base; e tre parti principali. [segue] La filosofia di Platone (21) La prima (29 d - 47 e) è dedicata al tema dell’intelligenza cosmica e delle sue operazioni e si diffonde sulle ragioni della bellezza dell’Universo e della sua unità, individuando nella bontà del Demiurgo la causa dell’origine del mondo, la generazione e l’attività dell’anima cosmica, i suoi movimenti armonici, la creazione del tempo, dei corpi celesti, delle singole anime, degli animali, dell’uomo. La seconda parte (47 e - 69 a) si concentra sul principio materiale del cosmo inteso come «necessità», «ricettacolo», «spazialità», «movimento caotico»; narra inoltre l’origine dei quattro elementi mediante i solidi geometrici regolari e i rapporti numerici, mostrando le forme che essi assumono e le impressioni e sensazioni che suscitano, discute inoltre delle cause di queste. La terza parte (69 a - 92 c) è dedicata alla natura dell’uomo, alla sua fisiologia e anatomia, infine all’anima razionale, posta nell’uomo da Dio come «demone tutelare»; si richiama infine il tema della metempsicosi e le implicazioni escatologiche connesse. Sullo sfondo del trattato sta l’idea centrale della matematica, dei numeri, dei rapporti numerici e delle figure geometriche come strumento fondamentale di cui l’anima cosmica si serve per compiere le sue attività. Il racconto del Timeo prende avvio dalla ribadita distinzione tra «ciò che è sempre e non ha nascita» e «ciò che nasce sempre e mai è»: [segue] La filosofia di Platone (22) il cielo, o piuttosto tutto il «cosmo», in quanto corporeo e visibile, non è stato sempre, ma è nato, cominciando da un principio e per opera del divino artefice, il Demiurgo, che ha plasmato il mondo a immagine del modello eterno: plasmato e non creato, perché Platone, oltre che del modello e della copia, parla anche di un «ricettacolo universale», che è il luogo (χώρα = chora) in cui si svolge il divenire e che in sé comprende le determinazioni della materia e dello spazio. Poiché nulla è più bello del «vivente», il mondo, opera bellissima del Demiurgo, è anch'esso un vivente, fornito di un'anima (l’ Anima del mondo) che il Demiurgo ha formato con l'essenza dell'indivisibile (eterno) e con quella del divisibile (divenire), unendo ad esse un'essenza mista, che partecipa dell'identico e del diverso. Una rigida proporzione matematica, la stessa che presiede all'armonia musicale, regola la composizione del cosmo, strutturato in due cerchi intrecciati, di cui quello esterno è quello dell'identico e l'altro è quello del diverso, distinto a sua volta in sette circoli ruotanti e costituenti le orbite planetarie, mentre il tempo, «immagine mobile dell'eterno», scandisce la regolarità dei loro movimenti. L'azione del Demiurgo e degli altri dèi inferiori, la loro opera di mediazione rispetto al modello eterno è possibile solo in quanto esistono, come intermediari, gli enti matematici: i veri elementi delle cose [segue] La filosofia di Platone (23) infatti non sono i quattro elementi della tradizione naturalistica (la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco), ma le figure geometriche, che determinano secondo regole precise la superficie, e quindi la corporeità, di tutte le cose: terra, acqua, aria e fuoco anzi traggono le loro proprietà dal fatto che sono conformati secondo specie determinate di poliedri regolari, nell’ordine: tetraedro o piramide a base triangolare (formato da quattro triangoli equilateri), esaedro o cubo (formato da sei quadrati), ottaedro (formato da otto triangoli equilateri), dodecaedro (formato da dodici pentagoni), icosaedro (formato da venti triangoli equilateri). I poliedri di cui parla Platone nel Timeo hanno le seguenti caratteristiche: → sono gli unici solidi le cui facce sono equilatere e uguali tra loro, ovvero congruenti, e i cui spigoli e i cui vertici sono equivalenti; → sono le uniche figure solide che, inscrivendosi in una sfera, presentano tutti i loro vertici giacenti sulla superficie della stessa. La filosofia di Platone (24) Platone associa quindi il tetraedro al fuoco, l’ottaedro all’aria, l’icosaedro all’acqua, il cubo alla terra, mente al dodecaedro spetta il ruolo di racchiudere ed inglobare in sé l’intero l’universo. È da queste premesse che Platone svolge nel Timeo le complesse ipotesi e dottrine che vanno dalla cosmologia all'astronomia, dalla teologia astrale alla matematica, dalla fisica all'antropologia, dalla biologia alla medicina: questo stesso carattere enciclopedico e sistematico spiega l'enorme fortuna che quest'opera ha avuto nel corso dei secoli. Per molti secoli la fortuna di Platone è stata legata in modo particolare al Timeo. Già nella scuola platonica si registrano accesi dibattiti sulle tesi timaiche, anche in ragione delle critiche aristoteliche al dialogo, che Aristotele cita più di qualunque altro scritto platonico, probabilmente attribuendogli un ruolo centrale nella produzione di Platone. Proclo, il massimo rappresentante del neoplatonismo greco, ha dedicato al dialogo un monumentale commentario; Cicerone ne approntò una traduzione latina, mentre già Filone di Alessandria lo utilizzava per una interpretazione filosofica del libro biblico della Genesi. Ma furono soprattutto la traduzione latina e il commento di Calcidio nel IV secolo e la loro valorizzazione nel XII secolo da parte della scuola di Chartres a determinare l’enorme influenza del Timeo, che fu l’unico dialogo platonico ad essere letto nel Medioevo. [segue] La filosofia di Platone (25) La fortuna nel Rinascimento fu assicurata dalla nuova traduzione e commento di Marsilio Ficino ed è dimostrata dal fatto che nella celebre Scuola di Atene di Raffaello il libro raffigurato tra le mani del «divino» Platone sia proprio il Timeo. Il dialogo Crizia costituisce una prosecuzione dell'incontro del Timeo con gli stessi personaggi protagonisti. E’ un’opera incompiuta. Crizia esordisce dicendo che gli argomenti che sta per trattare sono più complessi rispetto a quelli trattati da Timeo, che aveva parlato del Demiurgo: è infatti più facile parlare di divinità agli uomini (come ha fatto Timeo) che non di uomini agli uomini (come sta per fare Crizia): gli dei non sono mai stati visti così non è possibile capire se uno sta dicendo il vero o il falso mentre parla di loro . Crizia introduce quindi il suo argomento: egli parlerà di due grandi città che entrarono in conflitto tra loro: Atene e Atlantide, città che per via di cataclismi si inabissò e sparì dalla faccia della Terra e diede il nome al Mar Atlantico. L'Atene descritta da Crizia è un'Atene fuori dal tempo, quasi mitologica. Gli dei patroni di Atene erano Efesto, il fabbro degli dei, e Atena, la dea della sapienza che diede il nome alla città. Gli dei, pur abitando sulle vette del monte Olimpo, si spartivano le terre tra di loro con un sorteggio effettuato da Dike (la divinità greca della Giustizia). [segue] La filosofia di Platone (26) Nelle terre che venivano loro assegnate svolgevano sugli uomini le stesse mansioni che i pastori svolgono sulle greggi. Fatto sta che ad Atena e ad Efesto, forse perché erano fratelli, forse perché nutrivano interessi affini (il sapere, l'arte) toccò la stessa terra. In Atene vi erano diverse classi di cittadini, ciascuna delle quali svolgeva determinate funzioni. Vi erano i guerrieri, i produttori, i governatori. La proprietà privata non esisteva. Crizia si sofferma sull'assetto urbanistico della città di Atene ed in particolare sull’acropoli, diverso da quello dei suoi tempi, per poi passare alla descrizione di Atlantide. Quest'isola con il sorteggio toccò a Poseidone, il dio del mare. Era un'isola molto ricca: basti pensare che dal mare fino al centro dell'isola era tutta una pianura fertilissima. Vi era poi nel mezzo un monte non altissimo, sulle cui vette abitava un uomo, di nome Euenore, con la moglie Leucippe, dalla quale aveva avuto una figlia, Clito, che però rimase orfana proprio quando era in età da marito. Poseidone, preso da compassione, giacque con lei. Quindi scavò tutt'intorno all'altura sulla quale dimorava Clito formando come dei cerchi concentrici, alternativamente di terra e di mare, ora più larghi, ora più stretti. Così il monte risultava inaccessibile agli uomini e Clito poteva vivere tranquilla. Si era venuta a creare una vera e propria isola irraggiungibile (dal momento che allora non c'erano le navi e la tecnica della navigazione era sconosciuta). La filosofia di Platone (27) Poseidone rese prosperosa quella terra facendovi zampillare fonti e facendovi crescere frutti di ogni qualità. Poi allevò 5 coppie di gemelli e suddivise l'isola di Atlantide in 10 parti, ciascuna delle quali venne affidata ad uno dei 10 figli. Il vero capo era però il più anziano dei fratelli, a cui Poseidone mise il nome dell'isola e lo chiamò Atlante. Il secondo lo chiamò Gadiro. La progenie di Atlante fu numerosa e gloriosa ed i successivi sovrani accumularono tantissime ricchezze; l'isola di Atlantide era del tutto autosufficiente, ma tuttavia non rinunciava alle importazioni. Abbondava di metalli ed in particolare di oricalco (= metallo leggendario utilizzato per la prima volta proprio qui da Platone; il termine in seguito è stato usato per indicare una lega di rame e zinco). Poi costruirono dei ponti che mettevano in contatto l'isola con l'isolotto costruito da Poseidone, che era divenuto sede dei sovrani. I dieci sovrani gareggiavano tra di loro in magnificenza e sontuosità. Come ogni città degna di rispetto c'era anche l'acropoli, al centro del quale era situato il tempio sacro a Poseidone e a Clito, recintato da un muro in oro. L'isola abbondava pure di fonti d’acqua, sia fredde sia calde, pronte all'uso: gli abitanti vi disposero attorno edifici, giardini e vi riempirono grandi e magnifiche vasche. L'acqua defluiva poi verso il bosco sacro a Poseidone, che faceva crescere piante rigogliose ed una natura lussureggiante. [segue] La filosofia di Platone (28) L'isola di Atlantide aveva anche un suo esercito, formato dalle genti di tutta l'isola. Dei dieci re ciascuno disponeva a suo piacimento delle genti su cui regnava; tra i vari sovrani c'era un patto di alleanza regolato dallo statuto di Poseidone. Proprio nel tempio di Poseidone, sull'acropoli, si radunavano i 10 sovrani ogni 5 6 mesi per prendere decisioni di interesse comune e per processare coloro che si erano mal comportati. I processi venivano svolti dopo la celebrazione di un rito in cui fondamentale era la presenza del toro. Tra le varie leggi senz'altro la più importante era quella che proibiva assolutamente ai sovrani di farsi guerra tra di loro: vi doveva essere massima armonia e concordia e dovevano essere alleati e combattere insieme contro il nemico comune. Sembrava un vero e proprio paradiso terrestre, ma improvvisamente vi fu una degenerazione. Il che non piacque a Zeus, il padre degli dei, che volle punire l'isola. Le Leggi sono il titolo dell'ultima e più lunga opera di Platone. Rimasta incompiuta, fu pubblicata postuma dal discepolo Filippo di Opunte, che la divise in dodici libri e ne aggiunse uno finale, l'Epinomide. In quest’ultimo dialogo, in cui non compare più il personaggio di Socrate, Platone allarga la propria prospettiva dalla singola città all'ordine divino presente nel cosmo, del quale l'ordine politico è solo una parte più piccola e subordinata. La filosofia di Platone (29) Inoltre, viene generalmente riconosciuto alle Leggi il tentativo di proporre un modello politico più aderente alla realtà. Secondo il filosofo, è di fondamentale importanza evitare il conflitto tra le classi sociali, e proprio a questo fine hanno un ruolo fondamentale le leggi di uno Stato. Esse hanno una duplice funzione: • costrittiva, cioè prescrivono quale debba essere la condotta migliore per un buon cittadino; • educativa, cioè educano i giovani che saranno i cittadini futuri. Platone sostiene che vadano istituite anche sanzioni, che devono essere viste come uno strumento atto a correggere gli errori commessi dall'individuo. Le leggi sono intese come esplicitazione dell'intelligenza, rendendo manifesta la continuità con quanto affermato nei dialoghi della vecchiaia (in particolare nel Parmenide, nel Teeteto e nel Sofista). D'altra parte, però, la preminenza della legge sull'attività del politico allontana le Leggi dalle tesi esposte nella Repubblica e nel Politico: mentre nella produzione precedente il politico era sopra la legge, nel suo ultimo dialogo Platone lo pone come custode delle norme e dell'ordinamento giudiziario. Le «dottrine non scritte» (1) Come abbiamo visto, il problema politico ritorna, nell’ultima parte della sua vita, a interessare Platone. Nel Politico e nelle Leggi il filosofo tenta di porre le condizioni pratiche per la realizzazione dello Stato ideale. In particolare viene delineata una forma di costituzione mista, in cui dovrebbero conciliarsi monarchia e democrazia. Platone avverte adesso, rispetto agli anni delle dottrine metafisiche della Repubblica, il bisogno di avvicinarsi concretamente alla realtà, di rendere realizzabile il suo ideale di Stato il cui funzionamento è controllato da una serie di rigorosi provvedimenti legislativi. Unica eccezione il decimo capitolo delle Leggi, nel quale Platone fornisce una sorta di dimostrazione dell’esistenza degli dei, il cui scopo, però, risulta anch’esso di carattere pratico: ovvero convincere gli uomini a comportarsi secondo virtù. Occorre infine accennare al cosiddetto «Platone orale». La maggior novità nel campo degli studi platonici della seconda metà del secolo XX è costituita dalla rinnovata discussione sulle cosiddette «dottrine non scritte» (ἄγραϕα δόγματα = àgrapha dόgmata) suscitata dall'interpretazione «esoterica» (le dottrine e gli insegnamenti segreti, che non devono essere divulgati perché destinati a pochi) della Scuola di Tubingen dovuta principalmente a H. J. Krämer, K. Gaiser e Th. A. Szlezák. [segue] Le «dottrine non scritte» (2) Tale interpretazione ha poi trovato consensi anche in Francia (P. Hadot) e in Italia (G. Reale). Che esistessero dottrine che Platone avrebbe esposte solo oralmente nell'Accademia era noto sia da ciò che dice Aristotele, sia da altre fonti: celebre sarebbe stata una lezione Sul bene, dove Platone avrebbe sostenuto che i numeri sono i principî di tutte le cose. La scuola di Tubinga, basandosi sulla tesi di Platone circa la superiorità del discorso orale rispetto a quello scritto e sulla sua esplicita affermazione, nella VII Lettera (341 a; 344 c), di non aver mai messo per iscritto la sua vera dottrina, ne ha concluso che queste dottrine orali costituiscono l'autentica filosofia di Platone, quella che starebbe sullo sfondo del Platone «essoterico» (quella parte dell’insegnamento, nelle antiche scuole filosofiche a cui era ammesso un pubblico più largo) dei dialoghi. Secondo l'interpretazione di Krämer, se il senso del pensiero platonico è da individuare soprattutto nelle dottrine orali e se queste sono costruite sulla teoria dei «principi», allora il pensiero di Platone appare meno connesso all'insegnamento di Socrate e più direttamente dipendente dall'orizzonte presocratico: a partire dal problema dei principî, e non dal concetto socratico, Platone sarebbe giunto infatti alla dottrina delle idee. Platone: La Repubblica (1) La Repubblica è una complessa e suggestiva opera di filosofia e teoria politica scritta da Platone approssimativamente tra il 390 e il 360 a.C., la quale ha avuto enorme influenza nel pensiero occidentale. Il titolo originale dell'opera è la parola greca Πολιτεία (= Politeίa) che tradizonalmente viene tradotto con La Repubblica, che è una traduzione un po' fuorviante, derivata dal latino res publica. Tale espressione indica l’organizzazione come bene comune di tutti i cittadini e, di conseguenza, la costituzione politica ottimale. Una traduzione più precisa potrebbe quindi essere: La Costituzione. Il dialogo ruota intorno al tema della giustizia, sebbene il testo contenga anche tutte le altre teorie platoniche, come la dottrina delle idee, la concezione della filosofia come dialettica, una versione della teoria dell'anima differente rispetto a quella già trattata nel Fedone e il progetto di una città ideale ed utopica (kαλλίττολις = kallipolis, la citta bella), governata in base a principi filosofici. La Repubblica coinvolge inoltre argomenti e discipline come l'ontologia, la gnoseologia, la filosofia politica, il collettivismo, il sessismo, l'economia, l'etica medica e l'etica in generale. La Repubblica si presenta pertanto come un'opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra universale e particolare. Platone: La Repubblica (2) L'opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista Socrate, ma un Socrate che è decisamente diverso da quello degli altri dialoghi, e che in più punti va modificandosi a poco a poco. Questo processo di purificazione porta Socrate ad abbracciare a poco a poco delle tesi che non sono sue, bensì appaiono di natura piuttosto platonica, e legate soprattutto al momento storico che Platone viveva dopo la guerra del Peloponneso con il governo dei Trenta Tiranni e la condanna a morte di Socrate. Vediamo quindi il vecchio filosofo esporre teorie che vanno dalla parità dei sessi, alla condivisione delle proprietà private, alla scomparsa della famiglia, e all'obbligo, per coloro che fossero destinati a essere i «guardiani», a non avere nessun guadagno dal loro lavoro ed essere mantenuti dai cittadini. La Repubblica risale al periodo cosiddetto della vecchiaia di Platone, e l'interpretazione tradizionale la considera come un nuovo tentativo di dare una risposta soddisfacente alle obiezioni avanzate in precedenza da Callicle nel Gorgia, secondo cui la virtù e le leggi della polis sono un trucco escogitato da una massa di deboli per irretire la brama di potere degli individui migliori, pochi di numero ma portati per natura a governare. Il dialogo si svolge tra Socrate, Polemarco e Cefalo (i padroni di casa), alcuni familiari di Platone (Glaucone e Adimanto sono i suoi fratelli maggiori) e Trasimaco (uomo politico sofista). Platone: La Repubblica (3) Libro I. Durante le feste Bendidie, Socrate si reca con Glaucone e altri a casa di Cefalo che inizia a discutere con Socrate sui presunti svantaggi e sui benefici della vecchiaia, dichiarando che le ricchezze aiutano l'uomo a sopportare l'età senile e a comportarsi in modo giusto. Il discorso quindi si incentra sull'essenza della giustizia. Polemarco sostiene che la giustizia consiste nel fare del bene agli amici e del male ai nemici; Socrate confuta questa tesi mostrandone i paradossi, e pone l'accento sulla necessità di distinguere i veri amici e i veri nemici da coloro che sembrano tali, ma non lo sono. Aggiunge che chi danneggia rende sempre peggiore il danneggiato, e questo non può essere l'obiettivo del giusto. Qui irrompe nel dialogo Trasimaco, che con un intervento aggressivo afferma che la giustizia consiste nell'interesse del più forte, cioè di chi detiene il potere. Prima obiezione di Socrate: i più forti possono anche sbagliare, cosicché obbedire loro potrebbe significare danneggiarli. Trasimaco replica che i governanti, quando esercitano la loro arte con competenza, non sbagliano mai. Seconda obiezione di Socrate: ogni arte non persegue il proprio utile, ma l'utile di ciò cui si rivolge. Trasimaco insiste: la giustizia è un bene altrui, mentre l'ingiustizia giova a se stessa; per questo è superiore alla giustizia e l'ingiusto gode di una vita più felice del giusto. [segue] Platone: La Repubblica (4) Socrate ribadisce che ogni arte è disinteressata; se chi pratica un'arte ne trae un guadagno, ciò è dovuto al fatto che egli pratica insieme anche l'arte mercenaria. Perciò il vero uomo politico non mira al proprio interesse, ma a quello dei sudditi, e non accetta di governare per ricevere un compenso. Dato che Trasimaco identifica l'ingiustizia con la virtù, Socrate lo porta ad ammettere che il giusto non cerca di prevalere sul giusto, ma solo sull'ingiusto, l'ingiusto invece cerca di prevalere su entrambi; non si può quindi attribuire all'ingiustizia la sapienza e la virtù, poiché in tutte le attività chi è competente (e quindi sapiente) cerca di prevalere solo su chi è incompetente. L'ingiustizia indebolisce l'azione degli uomini, rendendoli discordi tra loro e invisi agli dèi. Posto che ogni cosa ha una sua funzione e una sua virtù, grazie alla quale può fare ciò che è meglio, la funzione e la virtù propria dell'anima è la giustizia; quindi solo l'anima giusta è felice. Libro II. Intervento di Glaucone, che distingue tre categorie di beni: quelli che si desiderano solo per se stessi, quelli che si desiderano anche per i vantaggi che procurano, quelli che si desiderano solo per questi ultimi. La giustizia, secondo Socrate, rientra nella seconda categoria, ma l'opinione comune, di cui Glaucone si fa portavoce, la colloca nella terza. Glaucone con un discorso provocatorio finge di sostenere la tesi di Trasimaco: [segue] Platone: La Repubblica (5) il massimo desiderio dell'uomo è commettere ingiustizia restando impunito e la paura più grave è subire ingiustizia senza potersi vendicare; chi non commette ingiustizia lo fa solo per timore delle conseguenze. Adimanto intenzionalmente reca altri argomenti a favore di Trasimaco: gli uomini in realtà non lodano la giustizia, ma la reputazione di uomo giusto; la condizione migliore è dunque quella di un'ingiustizia mascherata da giustizia. Socrate allora propone di analizzare la giustizia nell'ambito più ampio dello Stato e delinea una città semplice e primitiva, costituita da contadini, artigiani e commercianti e basata su una precisa divisione dei compiti. Glaucone reclama uno Stato più ricco, il che però comporta un ampliamento della città; ciò implica l'esercizio della guerra, e di conseguenza la creazione della classe dei guardiani, dedita alla difesa della città. I guardiani devono essere miti e animosi a seconda delle circostanze, nonché amanti del sapere. Si pone quindi il problema della loro educazione, che sarà innanzi tutto musicale e ginnica. Quanto all'educazione musicale, bisogna eliminare dalla città tutte le opere poetiche che danno un'immagine distorta di dei ed eroi, presentandoli immersi nei vizi e nella malvagità. La divinità, essendo buona e perfetta, può compiere solo azioni buone e non subisce metamorfosi. Vedi il brano «L’uomo ha molti bisogni»: 368 e - 371 b. Platone: La Repubblica (6) Libro III. Poiché i guardiani vanno educati al coraggio e alla temperanza, bisogna rigettare le poesie e i miti che suscitano paura della morte e offrono rappresentazioni sconvenienti e mendaci di dei ed eroi; solo i governanti hanno il diritto di mentire ai sudditi a fin di bene. Socrate distingue tre forme di poesia: narrativa, imitativa e mista. I guardiani devono astenersi dall'imitazione, a meno che non concerna un uomo o un'azione virtuosa; ne consegue che il poeta imitatore non dev'essere accolto nella città ideale. Socrate poi passa in rassegna le armonie, gli strumenti musicali e i ritmi, indicando quali si addicono ai guardiani e quali no; la loro educazione musicale deve mirare a un ideale di bellezza attraverso il ritmo e l'armonia. Il successivo esame dell'educazione ginnica evidenzia i rapporti tra essa e la medicina e permette un confronto tra i medici e i giudici: i primi, curando il corpo con l'anima, devono avere esperienza delle malattie, mentre i secondi, curando l'anima con l'anima, devono avere l'anima incorrotta. Sia i medici sia i giudici non devono lasciar vivere il corpo o l'anima inguaribile; mantenere in vita corpi incapaci di svolgere la propria funzione è infatti esiziale per la città. L'educazione ginnica deve sviluppare più la forza morale che quella fisica e deve pertanto contemperarsi con l'educazione musicale. Per esporre i criteri di scelta dei guardiani, Socrate ricorre al mito della nascita degli uomini dalla terra e della loro distinzione in tre classi: aurea (governanti), argentea (guerrieri), bronzea (prestatori d'opera). Seguono alcune prescrizioni circa la vita dei guardiani, che sono esclusi dalla proprietà privata, hanno alloggio e vitto in comune e sono mantenuti a spese dello Stato. Vedi il brano «Il comunismo» : 416 d – 417 b. Platone: La Repubblica (7) Libro IV. Rispondendo a un'obiezione di Adimanto, secondo cui i guardiani non sono felici, Socrate precisa che la città ideale mira al benessere della collettività, non di una singola classe; perciò deve evitare l'eccesso sia della povertà sia della ricchezza, che crea divisioni interne, e avere una giusta estensione territoriale. A tale scopo i guardiani devono impedire modifiche nell'educazione ginnica e musicale; la legislazione dovrà basarsi su pochi precetti fondamentali, sanciti da Apollo delfico. La presenza nella città ideale della giustizia viene appurata tramite la ricerca delle tre virtù che si connettono ad essa: sapienza, coraggio, temperanza. La sapienza è la virtù di coloro che hanno compiti di governo, il coraggio la virtù dei guardiani dediti alla guerra e alla difesa; la temperanza invece deve risiedere in tutte e tre le classi dei cittadini. La giustizia consiste nell'assolvere il proprio compito all'interno della città, senza scambi tra le tre classi che alterino la compagine statale. Socrate dimostra che la giustizia nello Stato è la stessa che nell'individuo, in quanto la struttura dell'anima è analoga a quella della città, anzi dipende da essa. Vengono quindi distinte le tre facoltà dell'anima: facoltà razionale, concupiscibile, impulsiva. L'uomo è giusto quando la parte razionale dell'anima, sostenuta da quella impulsiva, comanda su quella concupiscibile; in caso contrario si ha l'ingiustizia. Vedi «Anima razionale, concupiscibile, irascibile»: 439 a–441 e Platone: La Repubblica (8) Libro V. Adimanto chiede spiegazioni circa la comunanza di donne e figli. Socrate affronta la «prima onda», ossia l'identità di compiti e di educazione tra uomini e donne, e spiega che la differenza di sesso non implica una differenza di attitudini, benché le donne siano più deboli. Viene quindi affrontata la «seconda onda»: la regolamentazione dei matrimoni e delle nascite. I matrimoni dovranno avvenire tra i cittadini migliori, per mantenere costante la qualità e il numero degli abitanti. I bimbi saranno condotti appena nati in nidi d'infanzia; bisogna inoltre stabilire un'età per la procreazione ed evitare matrimoni tra consanguinei. Solo questo principio, afferma Socrate, può garantire la concordia interna e la felicità dei cittadini. I giovani dovranno ricevere un'educazione guerriera ed assistere alle battaglie per imparare il loro futuro compito; la città dovrà riservare dei premi ai giovani più valorosi. Socrate aggiunge che essa non combatterà contro altri Greci, data la comunanza di stirpe, e deplora le discordie esistenti tra le città elleniche. Si arriva così al problema più arduo, la «terza onda»: una tale città implica che i filosofi governino o i governanti pratichino la filosofia. Dopo aver definito il filosofo come colui che ama la verità pura, Socrate traccia la differenza tra ignoranza, scienza e opinione: l'ignoranza è mancanza di conoscenza, la scienza è conoscenza dell'essere, l'opinione è uno stato intermedio. Vedi i brani: «Sulle donne in comune»: 451 c–452 e; 457 d-e; «Filosofi e filodossi»: 475 e–480 a Platone: La Repubblica (9) Libro VI. Il filosofo deve governare perché è il solo a conoscere l'essere e la verità; inoltre è sincero, temperante, disprezza i beni mondani, apprende con facilità e possiede l'armonia interiore. Adimanto però obietta che i filosofi sono persone strane e inutili allo Stato. Attraverso l'allegoria della nave Socrate spiega che ciò accade negli Stati esistenti, governati da demagoghi. Il filosofo non è malvagio, ma l'ambiente in cui vive può corromperlo, poiché anche le migliori nature sono corruttibili, se male educate; tale azione corruttrice è dovuta al volgo e ai sofisti, indegni seguaci della filosofia. Il filosofo si corrompe per compiacere il volgo, e pochi riescono a mantenersi coerenti isolandosi dalla massa. Nessuna delle costituzioni vigenti conviene alla filosofia: solo la città ideale consente ai filosofi di svolgere la propria opera e di convincere il popolo, quindi dev'essere governata da loro. L'educazione dei filosofi deve mirare alla disciplina più alta, avente come oggetto il bene. A questo punto si rende necessaria la definizione dell'idea del bene, di cui Socrate coglie l'analogia con il sole: come il sole, pur dando vita, colore e nutrimento agli oggetti sensibili, non si identifica con essi, così il bene permette la visione del mondo intellegibile e lo trascende. L'analisi prosegue con l'immagine della linea divisa in quattro segmenti, che rappresentano quattro tipi di oggetti del conoscere: immagini, oggetti sensibili, concetti scientifici e idee. [segue] Platone: La Repubblica (10) I primi due concernono il mondo sensibile, i secondi due il mondo intellegibile. Ad essi corrispondono quattro gradi di conoscenza: immaginazione, assenso, riflessione e intelletto. Vedi i brani «Un’utopia realizzabile»: 502 a – c; «L’idea di Bene»: 504 e - 508 e; «Quattro gradi della conoscenza»: 509 d – 511 e Libro VII. Il complesso discorso teoretico del libro precedente viene esplicitato attraverso il mito della caverna, allegoria del filosofo che si solleva dal sensibile alle idee e ritorna nel modo per governarlo; infatti il filosofo, la cui missione non si realizza nella pura contemplazione dell'intellegibile, dev'essere costretto a governare. Nella sua educazione, che ha il compito di convertire il suo sguardo verso l'idea del bene, la musica e la ginnastica devono essere affiancate da altre discipline: la matematica, la geometria, l'astronomia, la stereometria (geometria dei solidi), l'armonia e soprattutto la dialettica, che ha come scopo la conoscenza del bene. Vengono quindi esposti i criteri di scelta dei futuri filosofi dialettici, le loro qualità e la loro educazione graduale, a partire dall'infanzia: dopo un periodo propedeutico di educazione ginnica, essi dovranno studiare le varie discipline e solo a trent'anni incominceranno a essere avviati alla dialettica, per un tirocinio quinquennale che precederà la loro attività pratica all'interno della città. Infine, dopo i cinquant'anni, i filosofi governeranno lo Stato. Vedi i brani «Il mito della caverna»: 514 a – 517 a; «Il governo dello Stato»: 519 e – 521 b; «L’educazione»: 538 d – 541 b Platone: La Repubblica (11) Libro VIII. Socrate annuncia di voler ritornare all'argomento principale della sua indagine, ossia la felicità del giusto e l'infelicità dell'ingiusto; a tal proposito conduce un'analisi delle quattro forme di governo esistenti, cui corrispondono quattro tipi di uomo: timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide. La timocrazia, la costituzione più vicina allo Stato perfetto, cioè all'aristocrazia, nasce dalla corruzione di quest'ultimo: ciò accade perché i guardiani non determinano con esattezza il "numero nuziale", che regola il ciclo delle nascite. Socrate delinea il carattere del regime timocratico, dove regnano l'ambizione e un occulto amore per il denaro; di conseguenza l'uomo timocratico, la cui anima è guidata dall'elemento impulsivo, è ambizioso e avido. Quando l'amore per il denaro diventa palese nasce il regime oligarchico, basato sul censo e diviso al suo interno in Stato dei poveri e Stato dei ricchi. Anche nell'uomo oligarchico, parsimonioso e dedito agli affari, prevale l'elemento animoso. Dalla rivolta contro questo regime nasce la democrazia, caratterizzata da una libertà che degenera in anarchia, poiché sia lo Stato sia l'uomo democratico sono dominati dall'elemento concupiscibile; il popolo stesso fornisce al tiranno la possibilità di salire al potere. Una volta che ha preso in mano lo Stato, il tiranno opprime il popolo ed elimina i cittadini migliori. Platone: La Repubblica (12) Libro IX. Nel proseguire l'esame del carattere tirannico, Socrate pone l'accento sulla presenza in ogni individuo di desideri sfrenati e contrari alla legge, che si manifestano soprattutto nei sogni: il tiranno non si ferma di fronte a nulla pur di soddisfare tutti questi appetiti. Viene poi contrapposta la perfetta felicità dello Stato regio, cioè della città ideale, alla perfetta infelicità dello Stato tirannico, e si adducono le prove dell'infelicità del tiranno. La prima è di natura politica: l'uomo tirannico, come il regime che rappresenta, è schiavo, pieno di paura e di lamenti, perciò è sommamente infelice; al contrario la massima felicità spetta all'uomo regale, essendo il grado di felicità di ciascun regime proporzionato al suo grado di perfezione. La seconda prova concerne la divisione dei piaceri in tre specie, rispondenti alle tre parti dell'anima; il filosofo si dedica solo ai piaceri della parte razionale, che sono superiori agli altri. La terza prova, di carattere metafisico, viene dall'esame della natura dei piaceri. Socrate poi passa all'analisi degli effetti prodotti dalla giustizia e dall'ingiustizia. La tripartizione dell'anima implica una triplice composizione dell'uomo, che consta di un mostro policefalo, un leone e un uomo. Quando l'uomo, con l'aiuto del leone, tiene a freno il mostro prevale la giustizia, quando il mostro domina sulle altre due parti si ha l'ingiustizia. Socrate conclude questa trattazione osservando che il sapiente si realizza non nella sua patria, ma nella città ideale. Platone: La Repubblica (13) Libro X. La discussione torna sulla poesia e l'imitazione, e si opera la distinzione teoretica tra le idee, gli oggetti sensibili e gli oggetti dell'arte. Il poeta e il pittore imitano gli oggetti sensibili, ovvero ciò che è come appare: la loro arte, imitazione dell'apparenza, è perciò tre gradi lontana dalla verità. L'imitatore non ha né scienza né retta opinione di ciò che imita; l'arte genera illusione e si rivolge alle passioni e alle parti inferiori dell'anima, come dimostrano gli effetti negativi che la poesia tragica e comica produce sugli spettatori. Così Omero, e più in generale la poesia, vanno banditi dalla città ideale. Vedi il brano «La critica dell’arte»: 597 a – 598 d. L'accenno alle ricompense assegnate alla virtù dopo la morte offre a Socrate l'aggancio per dimostrare l'immortalità dell'anima. Innanzi tutto l'anima non perisce né per il male suo proprio, cioè l'ingiustizia, né per il male altrui, cioè del corpo. Il numero delle anime non è soggetto a variazioni. La composizione dell'anima è perfetta, ma la si può contemplare nella sua purezza solo dopo che si è staccata dal corpo. Si passano infine in rassegna i premi concessi alla virtù e alla giustizia dagli uomini nella vita terrena e dagli Dèi in quella ultraterrena. L'opera si conclude con il mito di Er, che in una grandiosa rappresentazione della struttura dell'universo, governato da una perfetta armonia, descrive il giudizio cui le anime vengono sottoposte nell'aldilà e la loro reincarnazione. [segue] Platone: La Repubblica (14) Nel mito Er, un soldato morto in battaglia che ha l'avventura di resuscitare, racconta che nell'al di là le anime vengono a caso sorteggiate per scegliere tra quali vite reincarnarsi. Chi è stato sorteggiato tra i primi è sì avvantaggiato, perché ha una scelta maggiore, ma anche chi sceglie per ultimo ha molte possibilità di libera scelta perché il numero dei paradigmi di vita possibili offerto è più grande di quello delle anime e poi non è detto che la possibilità di scelta sia determinante poiché ciò che importa è che si scelga bene. Quindi il caso non assicura una scelta felice mentre determinanti potranno essere i trascorsi dell'ultima reincarnazione. Scegliere, nella visione platonica, significa infatti essere coscienti criticamente del proprio passato per non commettere più errori e avere una vita migliore. Le Moire (corrispondenti alle Parche latine, erano Cloto, Lachesi ed Atropo ed erano le divinità che presiedevano al destino dell'uomo: la prima filava il filo della vita, la seconda dispensava i destini, assegnandone uno a ogni individuo stabilendone anche la durata, e la terza, l'inesorabile, tagliava il filo della vita al momento stabilito; le loro decisioni erano immutabili, neppure gli Dèi potevano cambiarle) renderanno poi la scelta della nuova vita immodificabile: nessuna anima, una volta operata la scelta, potrà cambiarla e la sua vita terrena sarà segnata dalla necessità. Le anime si disseteranno con le acque del fiume Lete ma quelle che lo hanno fatto in maniera smodata dimenticheranno la vita precedente, mentre i filosofi, che guidati dalla ragione non hanno bevuto, manterranno il ricordo, solo un po' attenuato, del mondo delle idee, alle quali, durante la nuova vita, potranno riferirsi per ampliare la loro conoscenza e vivere serenamente. Platone: La Repubblica (15) Letture moderne finire