La notizia che presto ci si sarebbe mossi ebbe il sopravvento: dopo mesi di inazione e incertezza, finalmente si sarebbe
cominciata l'avventura.
L'eccitazione per la partenza imminente contagiò tutto il campo crociato. Quella notte, come ricorda il Clari, «non
vi fu persona per povera che fosse che non partecipò all'illuminazione, portando in cima alle lance torce e candele, così
che sembrava che tutta l'armata fosse in fiamme».
Le navi della flotta furono assegnate a ciascun barone per caricare uomini ed equipaggiamenti, mentre sugli uscieri
venivano fatti montare i cavalli. Il giorno della partenza, il 1° ottobre 1202, il mare si popolò di un esercito di navi e
velieri sui quali erano esposti gli scudi dei cavalieri imbarcati, formando una teoria di f orme e colori che correva lungo
i bordi e i castelli delle imbarcazioni. La nave del doge era tutta color vermiglio, come la tenda che vi campeggiava. In
alto, garrivano le bandiere, in un tripudio di suoni che riempiva l'aria: alle trombe facevano da sot tofondo i tamburi,
mentre tutto il clero intonava il Veni, creator Spiritus: «Vieni, o Spirito creatore, e visita le nostre menti, riempi della
tua grazia i cuori che hai creato».
L'aria salmastra del mare riempiva i polmoni dei crociati, mentre l'emozione e la gioia per la partenza ricolmavano
i loro cuori. Roberto di Clari avrebbe avuto per sempre la scena negli occhi: «A guardarlo, era lo spettacolo più bello
mai visto dall'inizio del mondo».
Gli scomunicati
Ecco, il vostro oro si è mutato in scoria, l'argento è quasi del tutto arrugginito, perché vi siete
allontanati dalla purezza del vostro proposito.
Innocenzo III
La voce del papa
Se i crociati avevano cominciato a muoversi, il papa doveva fare presto. Il legato Pietro Capuano aveva raggiunto
Roma, informando il suo superiore della decisione veneto-crociata di attaccare Zara; inoltre, a Venezia si erano
ripresentati gli emissari svevi e del giovane principe Alessio, per un primo ab boccamento con i crociati. Anche quella
era materia da sottoporre al pontefice. Pochi giorni dopo giunse a Roma anche Bonifacio di Monferrato con un nutrito
seguito, dal momento che le questioni aperte erano gravi e decisive.
Ma su entrambe Innocenzo stese il proprio veto. La crociata non doveva in alcun modo versare sangue cristiano, né
zaratino, né greco. Quanto alla seconda vicenda, Innocenzo sottolineò che un giudizio così delicato non spettava certo
ai crociati, e che del resto le pretese del principe erano molto dubbie, se non illecite. A Roma erano infatti prese nti
anche i messi di suo zio Alessio III, imperatore a Costantinopoli, i quali non avevano mancato di sot tolineare come il
trono fosse di diritto ereditario solo per i figli «porfirogeniti», cioè «nati nella porpora», ovvero nati quando il padre
era già imperatore. Ma il giovane Alessio era nato prima che suo padre Isacco prendesse il potere, e dunque il ragazzo
non poteva rivendicare legalmente il trono per sé. Innocenzo respinse dunque una volta di più l'ipotesi di una
«diversione», anche solo temporanea, della crociata in Grecia.
A riprova delle sue intenzioni, scrisse una lettera allo stesso Alessio III, informandolo della situazione e confermando
la linea politica da parte del papato. Egli colse però anche l'occasione per rammentare all'imperatore biz antino le sue
ripetute promesse, disattese, fatte a Roma. Va anche detto che questa scelta politica non era stata priva di contestazione
da parte di alcuni collaboratori del papa: vi era infatti chi vedeva di buon occhio le pretese del giovane principe, in
vista di una possibile riunione delle Chiese. Se aveva prevalso l'altra linea, però, era anche perché in quel momento
Alessio III e Innocenzo si ritrovavano entrambi nemici di Filippo di Svevia, concorrente di Ottone di Brunswick per il
trono imperiale d'occidente. Con quella missiva, Alessio III era avvisato, e forse mezzo salvato.
Per quanto riguardava Zara, la lettera innocenziana, spedita in tutta fretta, giunse a destinazione in tempo.
L'armata a Zara
Dopo una serie di scali tecnici e uno più lungo a Pola, alla vigilia della festa di san Martino i crociati erano giunti
davanti a Zara. Il porto era stato forzato, rompendone la catena, e l'armata era sbarcata lasciando il molo tra sé e la
città. L'll novembre 1202 Zara veniva cinta d'assedio in una giornata limpida e chiara.
Il giorno successivo, un'ambasceria da parte degli assediati si presentò al campo crociato, e venne raccolta una nutrita
assemblea per affrontare la questione. Il doge chiese il rispetto degli impegni presi, cosa che i grandi eran o pronti a
fare, ma un abate cistercense, Guido di Vaux-de-Cernay, si oppose, mostrando la lettera di Innocenzo che vietava
esplicitamente di recare qualunque danno alla città, sotto pena di scomunica e revoca dei benefi ci crociati. La reazione
dei veneziani fu rabbiosa, volarono parole grosse, qualcuno cercò di mettere le mani addosso all'abate. Ma una figura
imponente si staccò dai presenti, frapponendosi tra i veneziani e Guido. Era Simone di Montfort, uno dei primissimi
crociati di Écry, un uomo prima di mettersi contro il quale era meglio pensare due volte. Davanti a tutti, Montfort
disse: «Non sono venuto per distruggere dei cristiani. E qualunque cosa fac ciano gli altri, io e i miei non vi
toccheremo». Con lui si schierarono subito altri baroni, tra cui i fratelli Inguerrando e Roberto di Boves, ma un muro
di silenzio accolse il loro gesto. Di fronte a questa reazione, Montfort, l'abate Guido e gli altri uscirono dal padiglione
e raggiunsero le loro tende, poste significativamente a una certa dista nza da quelle degli altri crociati.
La frattura che si consumò davanti a Zara fu l'ennesima, anche se fino a quel momento la più eclatante, di quelle che
avevano scosso la compattezza dell'armata. Questa però assumeva una tin ta forte, anzi fortissima, perché avveniva nel
bel mezzo delle operazioni e faccia a faccia. Montfort e gli altri si fecero rappresentanti dei voleri del papa, del resto
non fraintendibili, per via dello scritto che era stato spiattellato sotto gli occhi di tutti. In un cer to senso, avevano
svolto il ruolo del legato, il quale aveva preferito non comparire di persona. Questi uomini duri e puri sapevano di
assumersi rischi seri, tra cui l'isolamento e l'allontanamento dal resto dell'esercito. Ma la loro nettezza di giudizio - un
giudizio quanto mai giusto - coincideva probabilmente anche con il colmo di una misura che avevano visto riempirsi a
poco a poco: degli italiani avevano sottratto la direzione dell'impresa ai crocia ti iniziali, e i comandanti supremi di
questi ultimi non erano stati capaci di opporsi in maniera adeguata. Se la presa di posizione di Montfort e soci avesse
avuto un maggior seguito, le cose avrebbero anche potuto cambiare.
Ma non cambiarono. I Montfort - con Simone c'era anche suo fratello Guido - e i Boves erano senz'altro nobili stimati
e dotati di un certo potere, così com'era per l'abate Guido di Vaux -de-Cernay. Ma essi potevano parlare solo per sé e i
«loro», ovvero al massimo per qualche centinaio di persone. Senza altre adesioni il loro tentativo fu nobile ma, nell'immediato,
infruttuoso.
Il commento del doge all'accaduto fu che «non avrebbe rinunciato per nulla al mondo alla sua vendetta contro Zara, nemmeno per il papa». I comandanti della spedizione, dal canto loro, si erano già impegnati con i veneziani, e interpretavano la presa
di posizione di Montfort e compagni come l'intestardirsi su un punto che avrebbe bloccato completamente la crociata. Ed essa
doveva andare avanti.
Cominciò dunque l'assedio vero e proprio, che durò fin verso i124 di novembre, quando una torre cominciò a crollare per il
lavoro dei guastatori. Allora gli zaratini si arresero dietro condizione di avere salva la vita. La cosa fu accordata, ma la città venne
saccheggiata per tre giorni - come era diritto degli eserciti vincitori - e suddivisa a metà tra i veneziani e i crociati che avevano
preso parte all'attacco.
Secondo l'anonimo autore della Devastatio Constantinopolitana, opera di un testimone oculare, essi «spogliarono la città
senza misericordia». In effetti, gli uomini che arraffavano il bottino di Zara portavano una croce sulla spalla, ma essa si era
infangata per via delle loro azioni. Erano ormai degli scomunicati.
Se il papa si arrabbia
I capi crociati - come i veneziani - sapevano di averla fatta grossa. Essi placarono gli animi della massa dei crociati con una assoluzione concessa dai vescovi presenti nell'armata, ma si trattava di una procedura priva di valore giuridico, perché una scomunica
papale può essere levata solo dal pontefice, o da una persona espressamente indicata da lui per questo scopo.
Si doveva dunque abbassare un poco la testa e chiedere perdono al pontefice per quanto fatto. Nel dicembre del 1202, dunque, un'ambasciata lasciò Zara per dirigersi alla volta di Roma. Era composta da due cavalieri e due ecclesiastici. A tutti fu chie
sto di giurare che, dopo aver svolto il loro compito, sarebbero tornati presso l'armata'.
Quando giunsero a Roma, furono ricevuti dalla furia di Innocenzo. L'armata aveva disobbedito chiaramente alle sue
direttive: era stata attaccata una città cristiana, città per giunta in possesso di un crociato, il re d'Ungheria, e in difesa della quale
era espressamente intervenuto il papa con una lettera. I crociati e i veneziani erano senz'altro scomunicati, e la spedizione
correva un grave pericolo.
Ma come avrebbero reagito i crociati e i veneziani alla conferma della scomunica pontificia? L'armata si sarebbe potuta
sciogliere o, comunque, essa doveva essere sciolta? C'era la possibilità di recuperare la situazione? Queste domande dovettero
affollarsi nella mente di Innocenzo e dei suoi collaboratori, chiamati non solo a trovare una soluzione per l'episodio di Zara, ma a
decidere del futuro di tutta la crociata. Inoltre, i messi dei crociati riuscirono a mostrare che l'armata era pronta al pentimento, e
che solo cause di forza maggiore l'avevano indotta ad attaccare Zara.
Si trattava dunque di far convivere esigenze diverse. Punire i colpevoli, ma anche perdonare i penitenti. E soprattutto
«tenere unita l'armata». Innocenzo dovette ripetere più volte questo concetto, a se stesso e ai suoi coadiutori, ma anche davanti a
chi avrebbe saputo far tesoro di questo desiderio svelato da parte del papa.
Fu così che Innocenzo, dopo qualche tentennamento, cercò di aprire una nuova via alla crociata, senza per questo snervare
del tutto il valore della scomunica. Le lettere già pronte, contenenti quest'ultima, vennero pertanto riscritte all'inizio del
febbraio 1203 con un ritocco decisivo: la scomunica sarebbe stata revocata dal legato o da un suo nunzio, a patto che i capi
crociati si impegnassero per iscritto, per sé e per i loro eredi, a restituire quan
` Secondo Villehardouin, a Roma si recarono Nivelone vescovo di Soissons e il magister Giovanni di Noyon, il quale pare fosse
poi capace di ben relazionarsi con il pontefice, oltre ai cavalieri Roberto di Boves e Giovanni di Friaize. L'ambasciata dovette
però essere più numerosa, dal momento che vi prese parte anche l'abate Martino di Pairis.
to avevano avuto del bottino zaratino; e soprattutto a non attaccare mai più terre di altri cristiani, a meno che costoro non avessero
impedito il cammino della spedizione, ovvero «per un'altra causa giusta o necessaria», sulla quale avrebbero dovuto ricorrere al
giudizio della sede apostolica. Infine, avrebbero dovuto chiedere il perdono del re d'Ungheria. La rabbia e lo sdegno non avevano
dunque sopraffatto la politica, che tentava una nuova strada dopo che quelle precedenti erano fallite.
Ma se ai crociati veniva in tal modo offerta una possibilità di continuare la loro peregrinatio, diverso era l'atteggiamento
preso dal papa verso i veneziani. Ai suoi occhi, non solo essi erano stati gli istigatori del crimine (Innocenzo li chiama «ladri»), ma
non avevano neppure chiesto il perdono apostolico. Essi erano pertanto scomunicati e privati dell'indulgenza crociata.
Ne derivava tuttavia un impasse di non piccolo momento: dal punto di vista del diritto canonico, ai cristiani non è consentito
«comunicare» con gli scomunicati. In altre parole, i crociati non avrebbero potuto viaggiare sulle navi veneziane, perché ciò
avrebbe significato essere in stretto contatto con persone fuori dalla comunione della Chiesa. Come fare? La soluzione del
problema venne offerta dal diritto stesso, che prevedeva si potesse frequentare degli scomunicati se costretti dalla necessità o
temporaneamente. Ad esempio, se un capofamiglia fosse stato scomunicato, la sua famiglia sarebbe stata scusata se lo avesse
frequentato. La cosa fu dunque concessa ai crociati, perché il doge, «signore delle navi», era, in certo modo, il loro
«capofamiglia». Con tutta evidenza, Innocenzo cercava di tenere insieme ciò che si era sfasciato, ma il rappezzo non avrebbe
necessariamente rimediato la falla.
E che la situazione fosse tutt'altro che sistemata lo conferma una nuova defezione: uno degli ambasciatori dei crociati che si
erano recati a Roma, Roberto di Boves, probabilmente angosciato
per la situazione che si era creata, non fece ritorno presso l'armata, ma raggiunse la Terrasanta per altre vie. Ma del resto non fu
l'unico, perché anche altre persone della missione romana fecero altrettanto.
Divisioni, volere e potere
Mentre queste decisioni maturavano a Roma, l'esercito crociato svernava a Zara.
Dopo soli tre giorni dall'insediamento in città, scoppiò una mischia violenta tra veneziani e crociati, senza che ne fosse
chiara l'origine. Gli uni e gli altri corsero ad armarsi, e il sangue cominciò a scorrere sulle loro spade e lance. I comandanti dei
vari contingenti si precipitarono, armati anch'essi, frapponendosi tra i contendenti, nel tentativo di dividerli. Ma non appena
riuscivano a sedare gli animi in un canto, la lotta si riaccendeva da un'altra parte della città. Si andò avanti così fino a notte
inoltrata, quando la zuffa si arrestò definitivamente, lasciando sul terreno non pochi morti - forse un centinaio - e feriti.
Questo grave incidente avrebbe potuto distruggere completamente l'armata. Il rancore per le violenze inferte e subite
sarebbe stato capace di avvelenare i rapporti franco-veneziani, ma il doge e i grandi baroni, consci del pericolo, spesero un'intera
settimana per sanare le ferite morali, appianare tutti i contrasti e ristabilire la pace. Nonostante le difficoltà dell'impresa, ci
riuscirono, e talmente bene che nessun'altra contesa si sarebbe accesa tra crociati e veneziani.
Poco dopo, l'armata fu raggiunta dal suo comandante in capo, Bonifacio di Monferrato, accompagnato da Matteo di
Montmorency, Pietro di Bracieux e altri nobili. E mentre l'esercito svernava a Zara, durante il periodo natalizio si ripresentarono
gli inviati di Filippo di Svevia e del giovane principe Alessio. Essi furono ricevuti nel palazzo dove alloggiava il doge, insieme ai
capi crociati.
Come abbiamo già accennato, dopo il doppio rifiuto opposto dal papa, Filippo e Alessio non erano rimasti inattivi, anzi: tra
costoro e i comandanti della crociata vi erano già stati degli abboccamenti tra Verona e Venezia, nell'estate precedente. Alle ipotesi avanzate dallo svevo e dal suo giovane cognato era stato risposto che si dovevano precisare i contenuti di un'eventuale tappa
bizantina. Fu così che i messi tedeschi, in quelle festività natalizie del 1202-1203, avanzarono profferte davvero interessanti. Eccole.
Filippo avrebbe inviato presso i capi crociati il cognato, affidandolo «a Dio e a loro». Se essi lo avessero «ristabilito
sopra i suoi beni», Alessio avrebbe messo tutto l'Impero sotto l'obbedienza di Roma. Li avrebbe inoltre ricompensati
con 200.000 marchi d'argento e viveri per tutta l'armata, piccoli e grandi che fossero, come si specificava. Il nuovo
imperatore avrebbe poi accompagnato i crociati «nella terra di Babilonia» (cioè in Egitto) con 10.000 uomini a sue
spese, e per un anno intero. Inoltre, per tutta la durata della sua vita, avrebbe mantenuto 500 cavalieri per la difesa
della Terrasanta.
L'offerta era magnifica, straordinaria, impressionante. In un solo colpo si sarebbero risolti i problemi economici e
finanziari dei crociati, che anzi avrebbero recuperato tutte le spese sostenute fino a quel momento, e avrebbero perfino
cominciato a guadagnarci qualcosa. Inoltre si sarebbe potuto compiere più agevolmente il fine vero e proprio della
crociata, cioè l'aiuto alla Terrasanta. Infine, forse il papa non si sarebbe opposto pi ù di tanto, considerato il vantaggio
derivante dalla riunione delle Chiese e lo sforzo congiunto per la realizzazione della crociata. Certo qualche rischio
andava messo in conto, ma, tutto sommato, era un'offerta da cogliere, anche per i veneziani, che in fatti non eccepirono
in alcun modo. Ma se pure si era raggiunta l'unanimità tra i comandanti franco -veneziani, non si poteva fingere di
ignorare gli altri pellegrini. Per questo fu indetta un'altra assemblea, in quell'inizio di gennaio del 1203.
Le opinioni furono contrastanti, finché prese la parola il solito Guido di Vaux -de-Cernay, obiettando che la cosa
non poteva farsi perché avrebbe significato marciare contro dei cristiani, e che il «partito» da lui rappresentato voleva
recarsi in Siria. Gli risposero apertamente quelli della fazione avversa: «Cari signori, in Siria voi non potete fare
niente, perché la terra d'Oltremare può essere recuperata - se mai lo sarà - solo attraverso l'Egitto o la Grecia. E se noi
rifiutiamo questo accordo, saremo biasimati per sempre».
Un'ardente discussione animò quindi l'assemblea. I laici erano ln disaccordo, e così pure gli ecclesiastici. A Guido
si opponeva infatti Simone, abate di Loos, che sosteneva si dovesse mantenere unita l'armata a qualunque costo.
Poiché le cose andavano per le lunghe, il marchese del Monferrato, i conti di Fiandra, di Blois e di Saint-Pol cioè i supremi comandanti dell'esercito - si compattarono e dichiararono che avrebbero accettato l'accordo,
giurandolo e sottoscrivendo le carte necessarie. Cosa che fecero subito dopo, lasciando l'assemblea insieme ad altre
otto persone, tra le quali molto verosimilmente Villehardouin. In tal modo, avevano imposto il loro punto di vista a
tutta l'armata. E se questa non si fosse ribellata, la crociata sarebbe stata loro.
La piega che avevano preso gli avvenimenti non poté non avere conseguenze sulla massa dei crociati. Chissà
quanti dovettero sentirsi angosciati per la scomunica in cui erano incorsi, e per la prospettiva di perseverare lungo
quella strada. Si erano caricati della piccola croce di stoffa per redimersi dai peccati, e si ritrovavano le mani lorde di
sangue. Fu così che molti della «piccola gente» fuggirono a bordo delle navi dei mercanti che vi sitavano l'esercito.
Almeno una di queste navi, forse sovraccarica per gli oltre 500 pellegrini che vi si erano accalcati, affondò, ed essi
perirono tutti nelle fredde acque dalmate. Altri tentarono la via di terra, ma furono attaccati e sconfitti dalle
popolazioni del luogo; solo alcuni riuscirono a tornare all'accampamento crociato.
Pure un nobile tedesco, Guarniero di Borlande, approfittò di una nave mercantile per lasciare l'armata, sopportando
il biasimo dei suoi parigrado. Anche Rinaldo di Montmirail, insieme ad altri cavalieri, cercò il modo pe r lasciare
l'armata. Dopo molte suppliche, ottennero dal loro signore Luigi di Blois di andare in Siria con una nave della flotta
per comunicare quanto deciso dai comandanti, sotto giuramento di ritornare entro quindici giorni dal loro arrivo in
Terrasanta. Ma una volta giunti laggiù, non tornarono indietro.
Una buona notizia per i comandanti, e in particolare per Baldovino di Fiandra, fu l'arrivo di messaggeri da parte della
flotta fiamminga che svernava a Marsiglia. D'accordo con gli altri baro ni e il doge, Baldovino diede disposizione che i
suoi uomini raggiungessero l'armata nel porto di Modone in Romània, ovvero~ l'Impero d'oriente. Ma questo non si
sarebbe mai verificato.
Nel frattempo, giunsero le lettere da Roma. I crociati venivano assolti dalla scomunica, anche se il prezzo che
dovettero pagare i loro comandanti non fu irrisorio, dal momento che dovettero impegnarsi, loro e i loro eredi, a
rendere «soddisfazione» per quanto occorso a Zara. Però i termini di questo loro impegno ri masero vaghi, né
Innocenzo avrebbe più avuto occasione di farli rispettare. Ai veneziani, invece, Innocenzo aveva confermato la
scomunica, come sappiamo. Ma quando Bonifacio vide la lettera contenente quella decisione nelle mani del nunzio
pontificio, se la fece consegnare e l'affidò all'abate di Loos, senza renderla pubblica. Il papa, la cui voce era già di per
sé roca, era stato imbavagliato e la crociata - ma quanto «sua»? - poteva continuare.
A1 sopraggiungere della bella stagione, in aprile, dopo la Pasqua di quel 1203, l'esercito iniziò i preparativi per la
partenza. La città fu abbandonata e, come sicurezza supplementare, abbattuta. Poco dopo, le navi cominciarono a
muoversi, non prima però che un'altra importante defezione colpisse l'esercito.
Il «partito» di Simone di Montfort e dell'abate di Vaux-deCernay, infatti, aveva deciso di tirare tutte le
conseguenze implicite nella sua presa di posizione dei mesi precedenti. Se ne andarono così i Montfort, Simone di
Neauphle, Roberto Malvicino e molti altri, poco dopo imitati da Inguerrando di Boves e dalla sua gente. Secondo
Villehardouin, si coprirono di vergogna, ma se guardiamo le cose dal punto di vista di quegli uomini, la realtà ap pare
molto diversa: essi avevano fatto un voto crociato che li impegnava a portare aiuto alla Terrasanta; avevano accettato
di raggiungerla passando attraverso l'Egitto, ma si erano ritrovati in Dalmazia a combattere - cosa che si erano rifiutati
di fare - contro dei cristiani; i loro compagni di avventura erano stati scomunicati, e 1'assoluzione che avevano
ricevuto sembrava più un'estorsione che un vero perdono; infine, la prospettiva immediata era quella di compiere altre
azioni indegne della loro condizione (li crociati, o almeno così ritenevano. Si può aggiungere che essi non avevano
debiti con nessuno, avendo pagato il prezzo del loro trasporto - anzi, semmai erano a credito con i veneziani, anche se
certo non si sarebbero sognati di pretendere alcunché da uomini che ritenevano «astuti e perversi» - e forse erano stufi
di subire decisioni prese da altri.
A1 contrario, rischiando le loro vite per l'attraversamento della Dalmazia e il rientro in Italia, si sarebbero
riappropriati appieno di quell'indipendenza e autostima di cui non difettavano. E tutto ciò al prezzo di ris chi personali
e altre, ingenti spese economiche, soprattutto per un nuovo passaggio in Oltremare. Se non altro, avevano avuto la
prudenza - e così forse si spiega il ritardo della loro partenza - di prendere accordi con il re d'Ungheria, sulle cui terre
sarebbero dovuti passare. Andandosene, Montfort e compagni potevano tenere alti i loro vessilli, anche se non tutti
avrebbero condiviso la loro scelta o, comunque, non avrebbero avuto il coraggio e il potere per testimoniare la loro
adesione almeno ideale. Con essi, la crociata si risollevava in parte dal fango in cui era caduta.
E nel quale l'altra parte dei crociati continuava a rotolarsi, dirigendo le prue a Corfù.
LE SANZIONI CANONICHE NEL MEDIOEVO – I
Le sanzioni che la Chiesa medievale poteva comminare alla gerarchia e ai semplici fedeli erano varie: da una
penitenza a una multa, sino a un anatema, ovvero una scomunica grave e solenne.
Lo scomunicato (excommunicatus) è il fedele cristiano posto, a causa di un suo peccato grave, «fuori dalla
comunione» con i fratelli, cioè dalla Chiesa. Si concretizza in un pronunciamento ufficiale che ha come
conseguenza l'esclusione del peccatore dai sacramenti cristiani, in particolar modo dall'eucaristia.
La scomunica può essere inflitta da un potere ecclesiastico legittimo (solitamente, un vescovo) ed è una
sanzione di natura temporanea e medicinale. Essa infatti mira alla resipiscenza del peccatore, il quale può
essere riammesso alla comunione fraterna dopo adeguata penitenza. Nessuno può avvicinare uno scomunicato, e se qualcuno lo fa deve sottoporsi anch'esso a penitenza. La scomunica, che in origine poteva essere
tolta dal potere che l'aveva emessa, divenne sempre più una questione di stretta pertinenza pontificia, tanto
che solo il pontefice poteva levarla, direttamente o tramite suoi incaricati.
La simbiosi, tipica del medioevo europeo, tra vita della società cristiana e vita della società tout court portò a
conseguenze di rilievo anche dal punto di vista sociale e politico: lo scomunicato divenne anche un reo, e la
scomunica uno strumento giuridico di punizione. Fra le conseguenze di questo stato di cose va ricordato il fatto
che i vassalli di un dominus feudale scomunicato erano sciolti - temporaneamente anche in questo caso - dal
loro giuramento di fedeltà. Un addolcimento della condizione dello scomunicato si ebbe tuttavia, dall'XI secolo,
con il permesso concesso alla familia (cioè i familiari, i fedeli e i servitori) di frequentarlo.