la firma della costituzione della repubblica italiana

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LA FIRMA DELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Sommario: Considerazione introduttive. – Capitolo I. Le “rivoluzioni” istituzionali del 18° e 19° secolo in
Europa ed in Italia. L’assetto istituzionale pre-fascista e fascista durante il vigore dello Statuto Albertino. –
Capitolo II. La transizione verso la Repubblica dopo il 25 luglio 1943 – Capitolo III. I dibattiti sviluppatisi in
seno alla Commissione dei 75 (con le Sottocommissioni), al Comitato di Redazione (c.d. “Comitato dei
Diciotto”) ed al Plenum costituente sugli argomenti più qualificanti del nuovo assetto costituzionale.
CONSIDERAZIONE INTRODUTTIVE
La data del 27 dicembre 1947, in cui venne firmata la Costituzione della Repubblica italiana (entrata in
vigore il 1° gennaio successivo), rappresenta l’epilogo di un periodo molto difficile e travagliato della storia
politica e sociale dell’Italia e, dunque, un evento temporale da valutare in tutta la complessità delle sue cause e dei
suoi effetti che sono non solo di ordine remoto (riferibili al decorso ventennio del fascismo), ma anche di ordine
contingente (riferibili alla guerra e all’immediato dopoguerra, in cui l’intero Paese era crollato nel caos e nella
disperazione).
Considerando attentamente dette cause e detti effetti, si può infatti meglio comprendere il perché la
prevalente volontà politica dell’epoca sia pervenuta ad una sintesi costituzionale sostanzialmente compromissoria
la quale - a parte la grande rivoluzione istituzionale costituita dall’eliminazione del regime monarchico - risulta per
molti altri aspetti normativi mediatrice e conciliatrice della molteplicità degli interessi politici, sociali e religiosi in
gioco, facenti capo ai principali partiti “antifascisti” dell’epoca (di sinistra e di destra, di ispirazione cattolica e
laica).
Come ben noto, alla caduta del Governo fascista il 25 luglio 1943, in un contesto bellico ancora molto
vitale in Europa ed anche in Italia, il regime monarchico di Vittorio Emanuele III venne sottoposto ad una
rigorosa resa dei conti che né i Governi “conservatori” affidati a Pietro Badoglio, né l’eccezionale formula
giuridica della “luogotenenza” (peraltro gestita per un brevissimo tempo dal principe Umberto) furono in grado
di dominare e, poi, di volgere a favore del mantenimento dello “status quo” (e, quindi, a favore della permanenza
delle ormai centenarie norme dello Statuto Albertino, in ipotesi da sottoporre a parziale revisione e correzione,
senza peraltro apportare stravolgimenti per ciò che concerne la forma di Stato e di Governo).
L’esito “repubblicano” del referendum (rectius plebiscito) del 2 giugno 1946 fugò ogni dubbio in
proposito, dando così l’avvio ad una riforma istituzionale certamente epocale per lo Stato italiano che, da oltre
cento anni, era caratterizzato dalla presenza di una monarchia di tipo costituzionale, avente un assetto giuridicostatutario di derivazione prevalentemente regia e non popolare.
A parte il pacifico recepimento normativo di detto mutamento istituzionale in quanto voluto dal popolo
italiano (ed, in origine, curiosamente rappresentato da tre Presidenti di non esplicita fede repubblicana: De
Gasperi, De Nicola ed Einaudi), il testo della nuova Costituzione deriva da un lungo lavoro preparatorio,
condotto con spirito di mediazione e di compromesso e soprattutto gestito in modo apprezzabile dai
rappresentanti delle principali forze politiche che operarono nell’ambito della “Commissione dei 75” e delle
relative Sottocommissioni, nonché nell’ambito del “Comitato di redazione dei 18”; il tutto, mediante
approfondite discussioni e vivaci dibattiti proseguiti anche in sede di Plenum costituente, a partire dal 31 gennaio
1947, quando il testo definitivo da approvare venne presentato in aula con la relazione del Presidente della
predetta Commissione Meuccio Ruini.
La vasta mole degli argomenti trattati e la complessità degli stessi non consentono in questa sede
approfondimenti né analisi particolareggiate; sicché, il presente studio deve necessariamente ritenersi siccome
sintetico e non esaustivo.
Esso, tuttavia, intende richiamare l’attenzione del lettore su talune questioni maggiormente dibattute, sia
in sede preparatoria che in aula, ed ancora oggi pienamente attuali ed oggetto di ampia attenzione e risonanza;
ciò, per dimostrare che ogni innovazione giuridica di tipo costituzionale è sempre il frutto di un lungo lavoro di
preparazione e di concertazione tra le forze del potere politico costituito in un determinato contesto storico;
lavoro che nell’immediato si conclude spesso con numerose ed ampie enunciazioni di principio, le quali, poi,
richiedono tempi lunghi di recepimento e di attuazione per funzionare a pieno regime.
Proprio in considerazione di siffatta proiezione attuativa di medio e lungo periodo, è altresì evidente
quale sia l’importanza e la centralità del ruolo affidato agli artefici operativi della materia (legislatore ordinario e
giudice). Ciascuno di loro, infatti, nell’ambito delle rispettive competenze, è chiamato ad attuare ed interpretare in
concreto lo spirito delle singole norme costituzionali, per poi farlo recepire dalla coscienza (maggioritaria) del
1
popolo, come se fosse un imperativo categorico e morale di quest’ultimo, da accettare e rispettare senza riserve
(s’intende rebus sic stantibus a condizione che sussistano gli stessi presupposti politici che, all’epoca, ne avevano
giustificato la codificazione).
Difatti, qualsiasi assetto costituzionale anche di tipo rigido, non può mai fermare l’evoluzione storicopolitica di un Paese e, dunque, le nuove esigenze e le nuove aspirazioni di quest’ultimo, specie quando
intervengono eventi straordinari di vasta portata nazionale e/o internazionale.
In proposito, appare estremamente significativo evocare talune considerazioni critiche espresse da
Calamandrei e da Jemolo sul testo finale della Costituzione della Repubblica italiana approvato nel 1947.
Nel 1955 Calamandrei - riferendosi a detto testo allora entrato in vigore da 7 anni - criticava in modo
veemente il c.d. “inadempimento costituzionale”. Al riguardo, ebbe a dire che la Costituzione del 1° gennaio
1948 ha avuto, “in tutte le sue parti, non solo in quella ordinativa, ma anche in quella organizzativa un peccato d’origine, (e cioè)
lo spirito del rinvio”, nel senso che essa ha “colpevolmente” lasciato al legislatore ordinario ed al giudice il compito
di completare o di fare la restante parte del lavoro in sede attuativa.
Il rischio che deriva da tale “spirito del rinvio” è, però, che esso “rende malfidi ed incerti i contratti a
esecuzione differita, nei quali può sempre accadere che uno dei contraenti, se son cambiate nel frattempo le
condizioni del mercato, s’accorga a un certo momento che l’affare non è più conveniente per lui e s’ingegni come
meglio può per sottrarsi all’adempimento”.
Ancora, a proposito del valore e dell’attualità di una repubblica presidenziale, in un articolo pubblicato il
19 settembre 1946 su “L’Italia libera”, lo stesso Calamandrei (esprimendosi a favore di un tipo di repubblica
presidenziale, connotato altresì dai caratteri propri della repubblica parlamentare) così precisava: “non
dimentichiamo che le Costituzioni non si trovano sul mercato già fabbricate in serie; ma bisogna costruirsele caso per caso, su misura,
secondo le esigenze concrete della situazione politica. E non dimentichiamo neanche che la riuscita di una Costituzione deriva
dall’equilibrio di due virtù: la saggezza che cerca i modelli nelle esperienze del passato e la fantasia che trova i nuovi meccanismi
giuridici per aprire le strade all’avvenire”.
Jemolo, a sua volta, nel 1965 – svolgendo riflessioni critiche anche sulle singole norme – confessava di
“non amare la vigente costituzione”, “pur con completa adesione al regime che ha instaurato ed alle sue grandi direttive”. Non la
amava perché essa, al contrario dello Statuto Albertino, conteneva disposizioni enfatiche, espressioni dal
significato vago, nonché enunciazioni di buoni propositi “che nulla hanno di giuridico”.
Ancora, nel 1978 (in occasione delle celebrazioni per il trentennale) – ribadendo le predette opinioni
negative – egli soggiungeva che la nostra Carta costituzionale è “troppo enfatica e troppo ottimistica”, con “troppe
promesse vaghe ed alcune non mantenibili” e con troppi rinvii alle leggi ordinarie proprio sui punti scabrosi.
È da rilevare peraltro che, pur formulando dette critiche, l’illustre giurista non attribuiva alla stessa
Costituzione la colpa dei guai all’epoca presenti; ciò perché, a suo giudizio, le “Carte costituzionali contano assai meno
delle passioni e delle capacità degli uomini”; anzi, pur in presenza di una Costituzione perfetta, “gli uomini politici ed i
giuristi sono sempre pronti ad appellarsi ad uno spirito delle leggi, per far dire loro l’opposto di ciò che le norme esprimono”.
***
Certamente conviene meditare su dette considerazioni, soprattutto oggi che, nell’ambito dell’Unione
europea, è stata già varata una “Costituzione per l’Europa” (contenente molte enunciazioni di principio e molte
norme di diretta applicazione, queste ultime dichiaratamente suscettibili di revisione, in via ordinaria ovvero
semplificata) e che, in Italia, è tuttora in discussione una riforma costituzionale che modifica in modo rilevante
tutto l’ordinamento della Repubblica (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Consiglio Superiore
della Magistratura, ordinamento regionale ed autonomie locali, Corte Costituzionale: Parte II - Titolo I, Titolo II,
Titolo III, Titolo IV, Titolo V, Titolo VI).
CAPITOLO I – LE “RIVOLUZIONI” ISTITUZIONALI DEL 18° E 19° SECOLO IN EUROPA ED
IN ITALIA. L’ASSETTO ISTITUZIONAL E PRE-FASCISTA E FASCISTA DURANTE IL VIGORE
DELLO STATUTO ALBERTINO
1. L’elaborazione e l’approvazione di un testo normativo denominato “costituzione” rappresenta sempre
“un’attività eccezionale e rivoluzionaria” che, come tale, crea (almeno nelle intenzioni dei relativi fautori) una
“rottura” totale con il passato, sia sotto il profilo giuridico, sia (soprattutto) sotto il profilo politico.
2
In passato, si parlava di “Carte”, di “Carte costituzionali” o di “Leggi fondamentali”, per indicare le leggi
“regolatrici” dell’ordinamento politico dello Stato - anche non contenute in un testo scritto - “largite” dai sovrani o
dai Governi o deliberate dalle Assemblee legislative 1.
L’esigenza storica di una costituzione scritta nacque con i primi movimenti rivoluzionari del XVIII
secolo.
Di un testo scritto sentirono necessariamente l’esigenza Cromwell che, nel 1653, emanò un Instrument of
Government, ed i coloni americani ribelli con le prime costituzioni dei singoli Stati nel 1776 e nel 17772 e l’Articles of
Confederation del 9 luglio 17783, per arrivare alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America del 15 settembre
1787.
Per quanto riguarda il continente europeo, la prima e poco nota costituzione fu quella polacca del 1791,
una costituzione che modificava gli antichissimi ordinamenti del Regno di Polonia e che ebbe una durata
effimera.
Più note sono, invece, le costituzioni emanate in Francia durante il periodo della rivoluzione e cioè:
quella c.d. “girondina” del 17914, quella c.d. “giacobina” del 17935, quella del 17956 e quella del 17997.
Tali esperienze costituzionali avevano evidentemente come base autorevole la “Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino” del 17898.
Sulle origini storiche e sui vari significati giuridici di “Carta”, “Carta costituzionale” e “Legge fondamentale dello Stato”,
cfr. F. Pierantoni Contuzzi, Trattato di diritto costituzionale, Unione Tipografico -Editrice, Torino, 1895, pp. 9 ss..
2 Il 29 giugno 1776 ed il 2 luglio successivo furono, rispettivamente, emanate la Costituzione della Virginia (preceduta dalla
Dichiarazione dei Diritti del 12 giugno 1776) e quella del New Jersey. In seguito, dopo la Dichiarazione d’Indipendenza del
4 luglio 1776, furono emanate le Costituzioni del Delaware (21 settembre 1776), della Pennsylvania (28 settembre 1776), del
Maryland (11 novembre 1776), del North Carolina (18 dicembre 1776), della Georgia (5 febbraio 1777), dello Stato di New
York (20 aprile 1777), del Vermont (8 luglio 1777) e del South Carolina (19 marzo 1778). Lo Stato del Vermont emanò, poi,
un’altra Costituzione il 4 luglio 1786.
3 L’Articles of Confederation and perpetual Union (“between the states of New Hampshire, Massachusetts-bay Rhode Island and Providence
Plantations, Connecticut, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware, Maryland, Virginia, North Carolina, South Carolina and
Georgia”) era stato approvato dal Congresso degli Stati Uniti d’America il 15 novembre 1777 ed entrò in vigore, con la
ratifica dello Stato del Maryland, il 1° marzo 1781.
4 La costituzione del 1791- di cui la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 costituisce il preambolo - è il
primo esempio di costituzione di stampo monarchico. Il dibattito su tale costituzione terminò il 3 settembre e fu sancita dal
re il 13 settembre 1791. Essa prevede, tra l’altro che: “la sovranità è una, indivisibile e imprescrittibile. Essa appartiene alla Nazione;
nessuna sezione del popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio” (art. 1 del Titolo III “Dei poteri pubblici”); la “Costituzione
francese è rappresentativa: i rappresentanti sono il Corpo legislativo e il Re” (art. 2 del Titolo III “Dei poteri pubblici”); “il Potere
legislativo è delegato ad un’ Assemblea nazionale composta di rappresentanti a tempo determinato…” (art. 3 del Titolo III “Dei poteri
pubblici”) e che “il Governo è monarchico” e che “il Potere esecutivo è delegato dal Re, per essere esercitato, sotto la sua autorità, da ministri e
altri agenti responsabili, …” (art. 4 del Titolo III “Dei poteri pubblici”); la “Corona è indivisibile, e delegata per eredità alla stirpe
regnante di maschio in maschio, …” e che “la persona del Re è inviolabile e sacra; il suo titolo è “Re dei Francesi” (artt. 1 e 2 della Sezione
Prima “Della Corona e del Re” del Capitolo II “Della Corona, della Reggenza e del Re”).
5 La costituzione del 1793, c.d. “Costituzione dell’Anno I”, fu approvata il 24 giugno e fu sottoposta a plebiscito popolare da
un decreto del successivo 27 giugno. Il 3 aprile 1795 (14 Germinale Anno III) fu nominata una commissione di sette
membri allo scopo di sottoporla a revisione; a tale nomina seguì la nomina di una nuova commissione di undici membri il
successivo 23 aprile (4 Floreale Anno III).
6 La costituzione del 1795 fu adottata il 22 agosto 1795 (5 Fruttidoro Anno III) e fu sottoposta ad approvazione mediante
referendum popolare, consultazione che ebbe inizio il successivo 13 settembre (20 Fruttidoro Anno III). La costituzione fu
proclamata il 23 settembre 1795 (1 Vendemmiaio Anno IV).
7 La costituzione del 1799, c.d. “costituzione dell’Anno VIII”, fu promulgata il 22 dicembre 1799 (24 Glaciale Anno VIII).
Per una disamina del processo storico e del quadro giuridico dell’ordinamento costituzionale francese, cfr. amplius S.
Gambino, Sistema delle fonti e controllo della costituzionalità – Il caso francese, G. Giappichelli Editore, Torino, 1988, pp. 13 e ss..
1
La “Dichiarazione dei diritti” fu votata dall’Assemblea Nazionale il 26 agosto 1789. Nel preambolo
così recita: “I rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza,
l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e dalla corruzione dei governi, hanno
stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinchè questa
dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i
loro doveri; affinchè maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo da poter essere in
ogni istanza paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinchè i reclami dei cittadini, fondati da ora innanzi su
dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di
tutti”. Per una disamina del processo storico e del quadro giuridico dell’ordinamento costituzionale francese, cfr. amplius S.
8
Gambino, Sistema delle fonti e controllo della costituzionalità – Il caso francese, G. Giappichelli Editore, Torino, 1988, pp. 13 ss.. In
particolare, il Gambino definisce la “Dichiarazione” del 1789 quale “documento fondamentale del costituzionalismo francese moderno”
3
Tale Dichiarazione, parzialmente ispirata alla Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787, costituiva
già di fatto un primo embrione di carta costituzionale, in quanto stabiliva principi che evidentemente erano
ritenuti immutabili, non modificabili perché fondati sul diritto naturale. Uno di questi principi, contenuto nell’art.
16, stabiliva che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha
costituzione”. Simile affermazione - tipica del concetto storico-politico di costituzione legato all’accettazione dei
“principi liberali” – ha influenzato tutto il XIX secolo.
Da tali prime esperienze di carte costituzionali derivano le numerose costituzioni rivoluzionarie e postrivoluzionarie dei Paesi che entrarono sotto l’influenza francese.
Sempre in Francia, dopo la fine del periodo napoleonico e la restaurazione borbonica, il 4 giugno 1814
fu emanata la carta costituzionale (Charte royale) di Luigi XVIII che confermò alcuni dei diritti acquisiti dal popolo
francese nel corso dell’esperienza rivoluzionaria ma ne sancì al tempo stesso la natura di concessione (octroyée),
ponendo un forte accento sul rapporto diretto tra sovrano e sudditi e sulla preminenza del primo sui secondi9.
Nonostante l’impronta più marcatamente segnata in senso liberale, tale carattere fu confermato anche
nella successiva Charte revisée del re Luigi Filippo, duca d’Orléans, del 1830, conseguente alla rivoluzione di luglio
(le c.d. tre “gloriose giornate” dal 27 al 29 luglio 1830)10.
Per quanto concerne l’Italia, la prima costituzione “giacobina” fu quella della Repubblica di Bologna del
179611, seguita poi da quella della Repubblica Cispadana del 179712 e da quelle della Repubblica Cisalpina del
1797 e del 1798.
Meritevoli di attenzione sono, infine, le due brevissime esperienze costituzionali della Repubblica
Napoletana del 1799 e della Repubblica Romana, proclamata il 9 febbraio 1849, entrambe propugnate e realizzate
dalle forze “borghesi” laiche e liberali.
In presenza di due Governi assolutamente conservatori e fortemente radicati nel territorio italiano (e cioè
quello borbonico del Regno delle Due Sicilie e quello papale dello Stato Pontificio), le predette due costituzioni,
coraggiosamente conquistate da “rivoluzionari borghesi”, non potevano che essere effimere, sia perché non
recepite dal popolo, sia perchè osteggiate e fronteggiate da potenze straniere.
La prima, pienamente ispirata dai principi della Rivoluzione francese e favorita dall’apporto determinante
dell’esercito rivoluzionario francese entrato a Napoli al comando del generale Championnet venne, poi, repressa
nel sangue dai borboni con l’aiuto degli inglesi; l’altra, sorta dalla forza delle idee repubblicane di Giuseppe
Mazzini, Carlo Armellini ed Aurelio Saffi (il c.d. “triumvirato”), venne poi smantellata dalle truppe francesi che, il
(cfr. op. cit., p. 16). Cfr. anche W. Giusti, La Democrazia, in Biblioteca dello Stato moderno, Volume VIII, Gentile Editore,
Milano, 1945, pp. 12 ss., laddove l’Autore definisce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino come “la grande carta
della democrazia moderna”.
9 Per un’attenta analisi delle vicende costituzionali francesi del periodo rivoluzionario e napoleonico fino al 1814, cfr. amplius
B. Constant, Riflessioni sulle costituzioni e le garanzie, trad. in lingua italiana di L. Cirasuolo, Ideazione Editrice, a cura di Tarcisio
Amato, Ideazione editrice – Roma, 1999; A. Zanfarino (a cura di), Antologia degli scritti politici di Benjamin Constant, Il Mulino,
Bologna, 1962.
10 Tale carta costituzionale del 14 agosto 1830 modificò la precedente costituzione concessa da Luigi XIII e derivò da un
patto tra le due camere che avevano votato le modifiche ed il nuovo re Luigi Filippo che le accettò. In proposito, per una
ricostruzione storico -costituzionale di tale periodo, cfr. amplius L. Lacche’, La libertà che guida il popolo, Il Mulino Editore,
2002.
11 La Costituzione della Repubblica di Bologna fu approvata dagli elettori il 4 dicembre 1796 con 454 voti favorevoli e 30
contrari. Tale testo constava di 273 articoli ed aveva un preambolo contenente la “Dichiarazione dei diritti e dei doveri
dell’uomo e del cittadino” (rispettivamente, ventidue dichiarazioni relative ai “diritti” e nove ai “doveri”). Per una
ricostruzione delle vicende storico -costituzionali di quel periodo, cfr. amplius L. Marchetti, Le Assemblee e le Costituzioni italiane
durante il triennio rivoluzionario 1796-1799, in Studi storici per la Costituente, Sansoni Editore, Firenze, 1946.
12 Cfr.
amplius G. De Vergottini, La Costituzione Cispadana, in Testi e documenti costituzionali, n. 1, Sansoni Editore, Firenze, 1946; L. Marchetti,
op. ult. cit.. L’elaborazione del testo costituzionale cispadano avviene in seno al III Congresso Cispadano, convocato in Modena per il 21
gennaio 1797. Dopo una vivace discussione, alla seduta del 22 gennaio è possibile esaminare il rapporto del Comitato di Costituzione.
L’esame procede disordinato, fra continue interruzioni e rinvii, fino al 1° febbraio quando il Congresso comincia la discussione sul
progetto conclusivo. L’atto definitivo consta di una Dichiarazione dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino, strutturata in 14 articoli e
della costituzione espressa, in 404 articoli suddivisi in 16 titoli, seguita dalle disposizioni provvisorie. Il 22 febbraio Napoleone, giunto a
Bologna, invita i congressisti riuniti a Modena ad accelerare i lavori, tanto che il successivo 1° marzo il Congresso annuncia alle genti
cispadane che l’opera commessagli da un popolo sovrano è stata condotta a termine, dichiarando il proprio scioglimento. I comizi
elettorali vengono indetti per il 19 marzo e la costituzione ottiene 76.382 voti favorevoli contro 14.259 contrari. Gli stessi comizi primari
eleggono altresì i decurioni che, il successivo 9 aprile, provvedono, ai sensi di quanto disposto in Costituzione, alla nomina del Corpo
legislativo, ripartito in due distinti Consigli. L’attivazione della Costituzione cispadana si perfeziona il 26 aprile, quando si inaugurano le
assemblee ed il Direttorio. Tali organi costituzionali hanno però vita breve: il 19 maggio, per ordine di Napoleone, vengono sospese le
sedute delle Assemblee, mentre il Direttorio è sostituito da un Comitato centrale, con l’incarico di attuare la fusione della Repubblica
Cispadana alla Lombardia, dando così vita alla Repubblica Cisalpina.
4
4 luglio 1848, occuparono il Campidoglio e con la forza posero fine ai lavori dell’Assemblea costituente che
aveva emanato la Carta costituzionale della Repubblica Romana.
184813.
2. Ben diversa fu la sorte e la durata del c.d. “Statuto Albertino” emanato da Carlo Alberto il 4 marzo
Infatti, a seguito della legge n. 4671 del 1861 con la quale Vittorio Emanuele II assunse il titolo di re
d’Italia (per sé e i suoi successori), lo Statuto Albertino acquisì il rango giuridico di “costituzione”, prima dello
Stato piemontese e poi del nuovo Stato unitario italiano e rimase in vigore fino all’esito del referendum popolare
istituzionale del 2 giugno 1946.
Pur appartenendo alla categoria delle c.d. “costituzioni ottriate” 14, lo Statuto comportò una
trasformazione fondamentale della monarchia assoluta dei Savoia nel senso che divenne una “monarchia
costituzionale” c.d. “pura”, nella quale il potere legislativo venne attribuito in gestione collettiva al re ed alle due
Camere, mentre il potere esecutivo venne conservato al re che lo esercitava attraverso i ministri, da lui nominati e
revocabili ad nutum e solo di fronte a lui responsabili (cfr. artt. 65 e 67 dello Statuto).
L’unica “deminutio” del potere regio era costituita dalla necessità della controfirma ministeriale per
l’entrata in vigore delle leggi e degli atti del Governo (art. 67, comma 2)15.
L’art. 3 dello Statuto prevedeva, in particolare, che “il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal
Re e da due Camere: il Senato e quella dei Deputati”; il successivo art. 5 statuiva che “Al Re solo appartiene il
potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra:
fa i trattati di pace, l’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la
sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un
onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle
Camere”.
Il Senato era di nomina regia ed era “composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non
limitato, aventi l’età, di quarant’anni compiuti, e scelti nelle categorie seguenti:…”16; la Camera dei Deputati era,
invece, elettiva ed era “composta di Deputati scelti dai collegi elettorali conformemente alla legge” (cfr. art. 39).
Il regime di “monarchia costituzionale pura” introdotto dallo Statuto fu, poi, progressivamente
trasformato in via di fatto in una sorta di regime parlamentare, sia perché il sovrano fu costretto a scegliere i
propri ministri in seno alla maggioranza parlamentare, sia perché gli stessi ministri divennero responsabili, oltre
che dinanzi al re, anche di fronte alle Camere, con il conseguente obbligo di dimissioni in caso di voto di
sfiducia17. Successivamente, in quanto non previsti dallo Statuto, sempre nella prassi vennero creati gli istituti del
Consiglio dei Ministri e del relativo Presidente, entrambi dotati di specifici poteri che trovavano la propria fonte
giuridica direttamente nella consuetudine costituzionale.
Pur in presenza di siffatte innovazioni sostanziali avallate dalla consuetudine, l’assetto istituzionale
delineato dallo Statuto Albertino rimase formalmente inalterato fino all’epoca fascista, durante la quale subì
alcune modifiche di rilievo. Infatti – sanzionando legislativamente quanto già avvenuto in via di fatto – con
talune innovazioni legislative venne determinata un’inversione nei rapporti istituzionali tra il Sovrano ed il Capo
del Governo, nonché tra i poteri spettanti a quest’ultimo e quelli spettanti al Parlamento.
In particolare, con la legge 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle “attribuzioni e prerogative del Capo del
Governo, primo ministro e segretario di Stato”18 e con la successiva legge 31 gennaio 1926 n. 100, recante
Il 7 febbraio 1848, il Consiglio di Conferenza (e cioè il Consiglio dei Ministri dello Stato sabaudo) approvò i principi
fondamentali della carta costituzionale. Il successivo 8 febbraio, Carlo Alberto emanò un proclama col quale comunicò al
popolo di avere deliberato, su parere dei suoi ministri (tra i quali spicca il primo segretario di Stato conte Borelli) e dei
principali consiglieri della corona, di adottare tali principi a base di uno “Statuto fondamentale (inteso) come un mezzo il più sicuro di
raddoppiare quei vincoli di indissolubile affetto che stringono all’Italia Nostra Corona un popolo che tante prove Ci ha dato di fede, d’obbedienza e
d’amore”. In seguito, i ministri portarono rapidamente a termine il lavoro di stesura definitiva dello Statuto, in cinque sedute
(10, 17 e 24 febbraio e 2 e 4 marzo); alla fine dei lavori, lo stesso 4 marzo il re “sancì e promulgò” lo Statuto del Regno. Lo
Statuto, oltre alla firma del re, recava le firme dei suoi ministri Borelli, Avet, Di Revel, Des Ambrois, Di San Marzano,
Broglia ed Alfieri.
14 La formula dell’ultimo comma del Preambolo è esplicita in tal senso: “Perciò di Nostra certa scienza, regia autorità, avuto il parere
del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo, in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto
segue:...”. In proposito, cfr. Pierantoni Contuzzi, op. cit., pp. 20-21.
15 L’art. 67, comma 2, così esattamente recitava: “Le Leggi e gli Atti del Governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un
Ministro”.
16 Cfr. art. 33 dello Statuto Albertino che elenca le categorie di persone nel cui ambito venivano scelti i membri del Senato
regio.
17 Cfr., tra gli altri, G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1970, p. 141.
18 In particolare, l’art. 1 di tale legge statuiva che “il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo”.
13
5
“facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche”, prese avvio la trasformazione costituzionale del
precedente Stato liberale sabaudo in Stato autoritario fascista, caratterizzato dall’accentramento nel Capo
dell’Esecutivo del potere di determinazione dell’“indirizzo generale politico del governo”, dall’assunzione della
responsabilità “politica” dello stesso Capo del Governo solamente verso il Sovrano e soprattutto dal progressivo
esautoramento del Parlamento19.
Sempre in tale ottica di radicale cambiamento della situazione preesistente, occorre anche segnalare la
legge 9 dicembre 1928 n. 2693, istitutiva del Gran Consiglio del fascismo, avente importanti funzioni sia
consultive che deliberative; ed ancora la legge 19 gennaio 1939 n. 129 che soppresse la Camera dei Dep utati ed
istituì la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, formata dai componenti del Consiglio Nazionale del Partito
Nazionale Fascista e dai componenti del Consiglio Nazionale delle Corporazioni.
È, altresì, importante segnalare che - in aggiunta alla disciplina in materia di decretazione d’urgenza, già
prevista dalla precedente L. n. 100 del 1926 - l’art. 18 della stessa L. n. 129 del 1939 statuì che - senza osservare
l’iter ordinario di approvazione previsto dal precedente art. 16 - si potesse far ricorso ad un “decreto Reale… quando
si versi in istato di necessità per causa di guerra o per urgenti misure di carattere finanziario o tributario. La stessa procedura può
essere seguita quando le Commissioni (legislative della Camera dei Fasci e delle Corporazioni) non abbaino adempiuto, nel termine
prescritto, alla loro funzione”.
Tale situazione durò fino al 25 luglio 1943, quando (in piena guerra mondiale e con la presenza delle
truppe alleate in Sicilia) per effetto dell’ordine del giorno approvato nell’ultima riunione del Gran Consiglio del
Fascismo, il re trovò l’occasione di “licenziare” Mussolini e di nominare a Capo del Governo Pietro Badoglio.
Da tale data prese avvio il progressivo smantellamento degli organi e degli istituti fondamentali del
regime fascista e la radicale riforma istituzionale e costituzionale dello Stato italiano, culminata nella firma della
nuova Costituzione repubblicana, in vigore dal 1° gennaio 1948.
CAPITOLO II – LA TRANSIZIONE VERSO LA REPUBBLICA DOPO IL 25 LUGLIO 1943
Per comprendere al meglio la portata e le cause che hanno determinato detta “rivoluzione”
costituzionale, appare utile ripercorrere, in estrema sintesi, le principali e ben note vicende storiche intercorse
nella fase di transizione che va dalla caduta del Governo Mussolini fino all’insediamento dell’Assemblea
Costituente nel giugno 1946.
A) LA CADUTA DEL GOVERNO MUSSOLINI, IL GOVERNO “REAZIONARIO” DI BADOGLIO E LA PRESA DI
FATTO DEL POTERE DA PARTE DEI PARTITI ANTIFASCISTI RIUNITI NEL COMITATO DI LIBERAZIONE
NAZIONALE (C.L.N.) PRESIEDUTO DA IVANOE BONOMI
1. Le tumultuose vicende accadute negli ultimi giorni del governo fascista hanno avuto il loro epilogo
nella predetta riunione del Gran Consiglio del Fascismo che si tenne nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943,
dopo circa quindici giorni di distanza dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia 20 e dopo il primo tragico
bombardamento di Roma21.
La convocazione del Gran Consiglio - che non si riuniva più dal 7 dicembre 1939 - fu richiesta a gran
voce ed ottenuta da un gruppo di ex-fedelissimi il 16 luglio 194322.
Nei giorni precedenti a quello previsto per la riunione già circolava, in via informale, una bozza
dell’ordine del giorno che Dino Grandi – allora Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni - aveva
predisposto e che intendeva presentare per l’approvazione.
Mussolini, che ne aveva già ricevuto copia, non gli attribuì molta importanza, limitandosi a definirlo “vile
ed inaccettabile”23.
Cfr. amplius R. De Felice, Mussolini il fascista, L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Einaudi, 1995, pp. 162 ss..
Nell’ambito della c.d. “Operazione Husky”, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, le truppe alleate (americani, inglesi e
canadesi) sbarcarono sulle spiagge della Sicilia (nell’arco di terra tra Licata e Siracusa), ancora controllata dalle forze
dell’Asse,. Il 22 luglio le truppe corazzate americane, guidate dal Generale Patton, fecero ingresso a Palermo.
21 Il 19 luglio 1943 la città di Roma fu sottoposta per la prima volta ad un intenso bombardamento, in particolare, nella zona
dello scalo ferroviario di San Lorenzo. Cfr., tra gli altri, E. Santarelli, Storia del fascismo, volume III, Editori Riuniti, Roma,
1973, p. 262.
22 Cfr. Santarelli, op. cit., p. 263, laddove l’Autore riferisce che il 16 luglio 1943 “si giunge ad una riunione presieduta da Scorza: un
primo incontro ha luogo al mattino, con De Vecchi, De Bono, Farinacci e Teruzzi. Un secondo incontro, nel pomeriggio, si allarga a Bastianini,
Acerbo, Cianetti, Biggini, Albini, De Cicco. La riunione è preceduta, però, da tutta una serie di contatti personali diretti, e si concluderà, più
tardi, con una visita ufficiale a Mussolini”.
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In concreto, l’ordine del giorno Grandi - dopo aver constatato la grave situazione in cui versava l’Italia e
dopo aver affermato “la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in questa ora grave e decisiva per i destini
della Nazione” – invitava “il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la
Nazione, affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di
mare, dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui
attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di
Savoia”24.
Con l’approvazione di tale documento, i loro fautori volevano in sostanza “benevolmente” costringere il
duce a restituire “costituzionalmente” i poteri militari al re, inducendolo, poi, implicitamente a rassegnare le
proprie dimissioni da Capo del Governo.
La seduta ebbe inizio alle ore 17,15 del 24 luglio con 28 partecipanti e si concluse quasi alle 3 del mattino
del 25 luglio, con l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi (19 voti favorevoli, 7 contrari ed 1 astenuto)25. È
da notare che anche Farinacci e Scorza avevano presentato propri ordini del giorno: quello di Farinacci ricevette
solo il voto del suo relatore, mentre Scorza ritirò il proprio, esprimendo voto contrario a quello presentato da
Grandi26. L’allora Ministro per le Corporazioni Cianetti, infine, aderì all’ordine del giorno di Grandi ma, nel corso
della notte, si pentì, ritirò il suo voto ed inviò subito una lettera in tal senso a Mussolini 27.
Non appena si sciolse la seduta, Mussolini infuriato abbandonò l’aula di Palazzo Venezia.
Grandi si incontrò subito, all’alba, con il duca Pietro Acquarone, Ministro della Casa Reale e consigliere
di Vittorio Emanuele III, per informarlo dei fatti e consegnargli l’ordine del giorno, corredato delle diciannove
firme, da trasmettere al sovrano.
Grandi presentò ad Acquarone anche una dichiarazione per il re, la cui parte conclusiva così recitava:
“Occorre nominare un nuovo governo. Quale presidente della Camera suggerisco, come primo ministro, il
maresciallo Caviglia, semplicemente perché egli è stato l’unico tra i marescialli della prima guerra mondiale non
compromesso con il regime fascista. Indico, quale ministro degli esteri, la persona di Alberto Pirelli il quale gode
di unanimi simpatie in Inghilterra e in America, e che potrà meglio di ogni altro stabilire con gli alleati contatti
indispensabili per creare una nuova situazione militare e politica”28.
Cfr. A. Spinosa, Mussolini. Il fascino di un dittatore, Arnoldo Mondatori Editore, 1989, p. 329.
Considerata l’importanza storica di questo documento, se ne riporta di seguito l’intero testo: “Il Gran Consiglio del Fascismo
riunendosi in queste ore di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni arma che, fianco a fianco con la gente
di Sicilia in cui più risplende l'univoca fede del popolo italiano, rinnovando le nobili tradizioni di strenuo valore e d'indomito spirito di sacrificio
delle nostre gloriose Forze Armate, esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra proclama il
dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di
quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli
italiani in questa ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni
statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle
nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la
Nazione, affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare,
dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono
sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
25 I voti favorevoli all’ordine del giorno “Grandi” furono: Grandi (Presidente della Camera), Federzoni (Presidente
dell’Accademia), De Bono (quadrumviro), De Vecchi (quadrumviro), Ciano (membro a titolo personale), De Marsico
(Ministro della Giustizia), Acerbo (Ministro delle Finanze), Pareschi (Ministro dell’Agricoltura), Cianetti (Ministro per le
Corporazioni), Balella (Confederazione dei datori di lavoro dell’Industria), Gottardi (Confederazione dei lavoratori
dell’Industria), Bignardi (Confederazione degli agricoltori), De Stefani, Alfieri, Rossoni, Bottai (tutti membri a titolo
personale), Marinelli (già segretario amministrativo del Partito fascista), Albini (Sottosegretario agli Interni) e Bastianini
(Sottosegretario
agli
Esteri).
Espressero voto contrario, non firmando il documento: Scorza (Segretario del Partito fascista), Biggini (Ministro
dell’Educazione), Polverelli (Ministro della Cultura Popolare), Tringali-Casanova (Presidente del Tribunale Speciale), Frattari
(Confederazione dei datori di lavoro dell’agricoltura), Buffarini (membro a titolo personale), Galbiati (Comandante della
Milizia). Il Presidente del Senato Giacomo Suardo fu l’unico ad astenersi, assentandosi dalla riunione. Per un resoconto della
riunione del 24-25 luglio 1943 e dei successivi avvenimenti storici, cfr. amplius R. De Felice, Mussolini l’alleato, I. L’Italia in
guerra (1940-1943) 2. Crisi e agonia del regime (1943-1945), Einaudi, 1990, pp. 1369 ss.; Santarelli, op. cit., pp. 275 ss.; P. Monelli,
Mussolini piccolo borghese, Aldo Garzanti Editore, 1968, pp. 243 ss.; L. Salvatorelli, Un cinquantennio di rivolgimenti mondiali, 19141971, Le Monnier, Firenze, 1972; Spinosa, op. cit ., pp. 329 ss.; B. Vespa, Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Mondadori,
2004, pp. 3 ss..
26 Cfr. il testo integrale dei tre ordini del giorno Grandi, Farinacci e Scorza, riportato in Appendice al volume di De Felice,
op. cit., pp. 1541-1542.
27 Cfr. Santarelli, op. cit., pp. 283 ss..
28 Cfr. Santarelli, op. cit., p. 288.
23
24
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Vittorio Emanuele III, non appena informato degli accadimenti, avvertì il generale Vittorio Ambrosio,
Capo di Stato Maggiore, di tenersi pronto per controllare qualsiasi movimento del duce.
Infatti, per le ore 17,00 del 25 luglio, il re aveva già fissato una riunione con Mussolini a Villa Savoia,
considerandola ufficialmente quale ordinaria udienza settimanale ma, in realtà, di natura assolutamente
eccezionale, poiché da tale udienza doveva scaturire la totale debacle del duce; infatti, sembra che il re con un
“colpo di Stato” avesse già firmato il decreto di nomina di Badoglio come Capo del Governo29.
Mussolini raggiunse Villa Savoia in auto, accompagnato dal segretario Nicolò De Cesare. Il colloquio
durò circa venti minuti: “è nel corso di questi venti minuti che il dittatore sessantenne perde ogni speranza”30. All’uscita dalla
villa, il capitano Vigneri comunicò a Mussolini che aveva l’ordine di scortarlo. Mussolini, pensando si trattasse di
una cortesia, dapprima si rifiutò; Vigneri insistette ancora, invitandolo a salire in un’autoambulanza: al secondo
rifiuto del duce, Vigneri precisò che si trattava di “un ordine”31.
Poco prima della mezzanotte del 25 luglio, i microfoni dell’E.I.A.R. (Ente radiofonico di Stato)
annunciarono la caduta del fascismo32, a seguito delle dimissioni del “cavalier Benito Mussolini” e della nomina
del maresciallo Pietro Badoglio a Capo del Governo con la formula “la guerra continua”33.
Mussolini venne dapprima portato a Ponza (28 luglio 1943), dove curiosamente si trovava, al confino, il
suo conterraneo ed ex-amico Pietro Nenni 34; dopo circa 10 giorni, venne trasferito sull’isola della Maddalena (6
agosto 1943), ove fu trattenuto per circa tre settimane 35.
Il duce fu, poi, trasferito in un albergo di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dal quale - nel pomeriggio
del 12 settembre - fu liberato con una “cicogna” (aliante) dalle SS, su incarico personale di Hitler36.
Infine, dall’aeroporto militare di Pratica di Mare, vicino Roma, fu portato a Vienna e, da lì, al quartier
generale di Rastenburg, nella Prussia orientale, dove lo attendeva la sua famiglia ed Hitler.
Il successivo 23 settembre, Mussolini fece ritorno in Italia e, più precisamente, nella località natia di
Predappio, scegliendo come residenza la Rocca delle Caminate, dove - il 27 ed il 28 settembre - si tenne la prima
seduta del nuovo Consiglio dei Ministri della neo-istituita Repubblica Sociale Italiana (la c.d. “Repubblica di Salò”
dal nome della cittadina sul lago di Garda, dove venne stabilita la sede del nuovo governo dal 10 ottobre 1943)37.
2. A Roma, dal 26 luglio 1943, governava formalmente il maresciallo Badoglio.
All’epoca, egli aveva 72 anni e già da tempo si era ritirato dalla vita pubblica dopo l’insuccesso della
guerra greco -albanese e la conseguente destituzione dalla carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano.
Cfr. P. Barile, Istituzioni di Diritto Pubblico, CEDAM, Padova, 1987, p. 88. Cfr. anche La Costituzione della Repubblica nei lavori
preparatori dell’Assemblea Costituente, Camera dei Deputati - Segretariato Generale, Volume IV, 1970, p. 2790, laddove si evince
che, in occasione della seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente dell’11 settembre 1947, l’onorevole Clerici intervenendo sulla questione sollevata dall’onorevole Preti circa la necessità della controfirma da parte del Primo Ministro
(“sia di quello che si congeda che di quello che entra in carica”) dell’atto di nomina del Presidente del Consiglio da parte del Capo
dello Stato - ricordò che “appunto in forza di questo principio potè costituzionalmente Vittorio Emanuele III operare il passaggio da
Mussolini a Badoglio; fu lo stesso Mussolini ad offrire, anzi, l’artificio per il quale, con la firma del Badoglio, egli potè prendere in quel bellissimo
gioco Mussolini stesso: prima la firma del decreto di nomina del nuovo Primo Ministro era quella del Ministro uscente; Mussolini volle che fosse
del subentrante e così fu giocato”.
30 Così testualmente Santarelli, op. cit., p. 292.
31 Cfr. De Felice, op. cit., pp. 1400-1401; Spinosa, op. cit., p. 335. Cfr. anche il racconto dell’arresto di Mussolini nella
relazione “Arresto-Detenzione-liberazione di Mussolini”, redatta dal generale dei Carabinieri Filippo Caruso dopo la
liberazione di Roma, riportata in Appendice allo stesso volume di De Felice, op. cit., pp. 1543 ss..
32 Cfr. amplius P. Cavallo, Italiani in guerra, Il Mulino, Bologna, 1997.
33 Cfr. Barile, op. cit., p. 88; Spinosa, op. cit., p. 335; Vespa, op. cit., p. 4; M. Staglieno, Arnaldo e Benito, Mondadori, 2003, pp.
386-387.
34 Cfr. G. Tamburrano (a cura di), Nenni, Intervista sul socialismo italiano, Saggi tascabili Laterza, Roma-Bari, 1977, p. 59.
35 Cfr. Spinosa, op. cit., p. 336; Staglieno, op. cit., p. 388.
36 Cfr. amplius De Felice, Mussolini l’alleato, La guerra civile, Einaudi, 1997, pp. 16 ss.. Cfr. anche Monelli, op. cit., p. 248;
Spinosa, op. cit., p. 340; Vespa, op. cit., p. 26; Staglieno, op. cit., p. 390.
37 Per un resoconto storico di quei convulsi avvenimenti, cfr. amplius De Felice, op. ult. cit., pp. 343 ss. e F. W. Deakin, Storia
della Repubblica di Salò, traduzione di R. De Felice, F. Golzio, O. Francisci, Einaudi, Torino, 1962. Cfr. anche Spinosa, op. cit.,
pp. 344 e ss.; Santarelli, op. cit., pp. 326 ss.; Monelli, op. cit ., pp. 251 ss.. Per una disamina giuridica delle varie questioni sorte
in seguito alla costituzione della Repubblica di Salò, cfr., tra gli altri, Balladore Pallieri, op. cit., pp. 144 ss., laddove l’Autore
sottolinea che, nei confronti della Repubblica Sociale Italiana, non sussisteva alcuno dei requisiti da cui essa potesse derivare
legittimamente i propri poteri: né dalla legge, “poiché giuridicamente coloro che il governo componevano erano solo privati individui, alcuni
dei quali erano stati un tempo ministri, ma poi legalmente avevano perduto la carica”; né da una situazione di fatto, “poiché mancò
totalmente nell’Italia del Nord un movimento insurrezionale di tale entità contro il governo di Roma e a favore del rinnovato governo fascista, da
fare apparire quest’ultimo come il governo che, appoggiato da una insurrezione popolare, ormai in fatto detenesse la autorità in quei territori”. Sul
punto cfr. anche Mortati, op. cit., pp. 162 ss..
29
8
È da rilevare che già nei primi mesi la sua condotta di Governo non era considerata affatto lineare; anzi,
era ritenuta ampiamente contraddittoria, tant’è che fu elevata a grave sospetto dalle forze politiche e militari
dell’epoca.
Infatti, dopo aver proclamato che la guerra continuava a fianco dei tedeschi e dopo aver segretamente
sollecitato ed ottenuto la firma dell’armistizio con le forze anglo-americane l’8 settembre 1943, il maresciallo
Badoglio si era associato alla rocambolesca fuga del re e della sua famiglia, trasferendo il Governo da Roma a
Pescara e, poi, a Brindisi (una delle poche aree libere dall’occupazione tedesca); inoltre, pur ribadendo con la
predetta dichiarazione l’alleanza dell’Italia con la Germania, con la successiva e contraria dichiarazione formale di
guerra del 13 ottobre nei confronti di quest’ultima, provocava l’acquisizione da parte dell’Italia dello status di
“cobelligerante” contro la Germania stessa; il tutto, con evidenti disorientamenti di fedeltà politica ed operativa
da parte di coloro che (soprattutto a livello militare) dovevano eseguire i suoi ordini38.
Per di più, tale dichiarazione di guerra contro la Germania determinò una gravissima frattura politicomilitare del territorio italiano che venne a scindersi geograficamente, politicamente e, soprattutto, anche
militarmente in due parti: centro-nord, laddove risultava insediata la Repubblica Sociale Italiana; centro-sud,
laddove, immediatamente dopo l’armistizio (9 settembre 1943), risultavano insediati il Governo “brindisino” e
filo-monarchico di Badoglio, nonché i partiti antifascisti che a Roma avevano costituito il Comitato di Liberazione
Nazionale (C.L.N.), il quale clandestinamente operava anche nel Nord39.
Il C.L.N. - sotto la presidenza “neutrale” di Ivanoe Bonomi (in passato fautore di un socialismo
moderato e riformista ma all’epoca non aderente ad alcun partito) – era composto dal partito comunista italiano
di Concetto Marchesi e Giorgio Amendola, dal partito liberale italiano di Tommaso Gallarati Scotti, dal partito
della democrazia cristiana di Alcide De Gasperi (derivato dal partito popolare fondato da Don Luigi Sturzo nel
1919), dal partito democratico del lavoro di Meuccio Ruini, dal partito d’azione di Ugo La Malfa e dal partito
socialista italiano d’unità proletaria di Pietro Nenni, Bruno Buozzi ed Oreste Lizzadri. In aggiunta a tali partiti –
che costituivano la c.d. “esarchia” 40 – all’epoca esisteva anche il partito repubblicano italiano che – pur non
avendo aderito al C.L.N. - conduceva un’azione politica concorde con gli altri sei 41.
Il giorno stesso della propria costituzione, il C.L.N. adottò e diramò la seguente deliberazione: “Nel
momento in cui il nazismo tenta di restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si
costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta ed alla resistenza e per
riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” 42.
Il programma d’azione dei partiti del C.L.N. era, in sintesi, quello di ottenere dall’ormai fragile regime
monarchico: a) l’impegno solenne – da consacrarsi con legge – per addivenire, dopo la liberazione del territorio
nazionale, ad una libera scelta popolare sulla forma istituzionale dello Stato (monarchia o repubblica); b) il
conferimento al nuovo Governo di ampi poteri che consentissero, nella vacanza del Parlamento, anche quello di
Per una descrizione di quegli avvenimenti dalla viva voce di un contemporaneo, cfr. Tamburrano (a cura di), op. cit., p. 62,
laddove il protagonista Nenni precisa: “E si giunse così al crollo dell’8 settembre: l’annuncio dalla radio britannica dell’armistizio, la fuga
a Pescara del re, del principe ereditario, di Badoglio e del governo; il vuoto di potere mentre incalzavano le divisioni naziste, mentre i reparti
dell’esercito in grado di battersi rimanevano senza ordini e senza comando, mentre non trovava risposta il grido della piazza: “armi”, e mentre
sorgevano attorno alla capitale e in città le prime formazioni partigiane. In mezzo a tanta confusione un’idea chiara e un segno di volontà: il 9
settembre il Comitato antifascista si trasformava in Comitato di liberazione nazionale attorno al motto: “battersi””. Sulla “tragedia
dell’armistizio” cfr. anche Vespa, op. cit., pp. 11 ss.. Per la definizione giuridica di “cobelligerante”, cfr., tra gli altri, F.
Pergolesi, Diritto costituzionale, CEDAM, Padova, 1972, p. 61; A. Pizzorusso, Lezioni di diritto costituzionale, Ed. Foro Italiano,
Roma, 1981, p. 75.
39 Cfr. amplius C. Lavagna, in Enciclopedia del Diritto, Volume VII, Milano, voce Comitati di liberazione, pp. 779 ss., laddove
l’Autore riferisce che “la formazione dei C.L.N. si ricollega storicamente all’opposizione al fascismo, microscopicamente esplosa durante la
seconda guerra mondiale, ma che aveva avuto anche in precedenza varie manifestazioni”. In particolare, in Francia, fra il 1926 ed il 1928,
era sorta la prima “concentrazione antifascista” che raggruppava correnti politiche diverse e che si sciolse nel 1933. Sempre
in Francia, non ancora interamente occupata dall’esercito nazista, all’epoca del Governo filo nazista del maresciallo Petain
insediato a Vichy, gli esuli antifascisti costituirono il primo “Comitato d’azione per l’unione del popolo italiano” che, dopo
aver lanciato un appello pacifista ed antifascista, si sciolse subito dopo. L’antifascismo esule ebbe, poi, un attivismo in
Inghilterra, in America, e, clandestinamente, anche in Svizzera. In Italia, nell’autunno del 1942, a Torino si era costituito il
primo “Comitato di fronte nazionale”, composto da comunisti, socialisti, azionisti e democristiani.
40 Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 63; C. Mortati, Istituzioni di Diritto Pubblico, CEDAM, Padova, 1962, p. 157. Cfr. pure Vespa, op. cit.,
pp. 74 ss., laddove l’Autore annota (anche con talune testimonianze di Andreotti) la nascita e la morte del partito popolare
fondato da Don Sturzo ed ampiamente avversato dal Vaticano al punto da costringere all’esilio il sacerdote fondatore e da
tenerlo fuori dell’Italia fino all’esito del referendum istituzionale.
41 Così Barile, op. cit., p. 89.
42 Cfr. Pergolesi, op. cit. p. 67; Spinosa, op. cit., p. 342; Vespa, op. cit., pp. 15 ss..
38
9
emanare atti aventi forza di legge; c) una nuova formula di giuramento vincolante i ministri al solo impegno di
non pregiudicare col loro contegno la soluzione della questione istituzionale rimessa alla decisione popolare43.
Nel centro-sud dell’Italia, la forza operativa dei partiti costituenti il C.L.N. era tale che travolgeva il
Governo ufficiale 44, anche perché la sovranità del re e del Governo Badoglio risultava alquanto minata dalla
presenza della Commissione Alleata di Controllo (ACC)45, presieduta dall’inglese Harold MacMillan e
dall’AMGOT - Allied Military Government of Occupied Territory (Governo Militare Alleato dei Territori Occupati)46.
È da ricordare poi che, per assecondare il predetto programma politico del C.L.N., il primo Governo
Badoglio aveva avviato una progressiva opera di c.d. “defascistizzazione” dello Stato, emanando una prima serie
di atti normativi che miravano a sopprimere i principali organismi creati durante il regime fascista; ciò, al fine
evidente di dissociare le responsabilità del crollato regime fascista da quelle proprie della monarchia.
In ordine di tempo, con il R.d.lg. 29 luglio 1943 n. 668, venne disposta la soppressione dell’attività
giurisdizionale del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, devolvendo, durante lo stato di guerra, la
cognizione dei reati ad esso spettante ai Tribunali militari, secondo la rispettiva competenza territoriale (art. 1) 47.
Il successivo 2 agosto, con tre Regi Decreti-Legge nn. 704, 705 e 706 venne, poi, disposta la
soppressione del Partito Nazionale Fascista (n. 704), del Gran Consiglio del fascismo (n. 706), nonché lo
scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni (n. 705)48.
B) TOGLIATTI E LA “SVOLTA DI SALERNO”. IL SECONDO GOVERNO BADOGLIO. I GOVERNI
“RIVOLUZIONARI ” DI BONOMI E DI PARRI . I TENTATIVI DI RESTAURAZIONE DELL’ ASSETTO
ISTITUZIONALE MEDIANTE LA FORMULA DELLA “LUOGOTENENZA ” E LA SUCCESSIVA ABDICAZIONE DI
VITTORIO EMANUELE III
1. Pur in presenza dei cennati decreti mirati alla “defascistizzazione” dell’ordinamento giuridico vigente
durante il Governo di Mussolini, tra il primo Governo Badoglio ed i Partiti del C.L.N. permaneva una diffidenza
reciproca, da riferire al fatto che il maresciallo perseguiva sostanzialmente una politica conservatrice e filomonarchica, mentre nell’ambito del C.L.N. esisteva un notevolissimo fermento di riforma istituzionale in chiave
repubblicana.
Per discutere sui principali nodi politici che erano alla base di tale diffidenza, i partiti del C.L.N. avevano
proposto l’organizzazione di un congresso straordinario da svolgersi a Napoli nell’autunno del 1943.
In realtà, il congresso si svolse poi a Bari, alla fine del mese di gennaio 194449, prima che arrivasse in
Italia Palmiro Togliatti (sbarcato a Napoli il 27 gennaio 1944 dopo un lungo periodo di esilio in Russia) 50.
L’importanza politica di quest’ultimo evento è assolutamente notevole perchè Togliatti, quasi come un
deus ex machina, intervenne subito nella diatriba politico-istituzionale predicando, da un lato, un’azione di massa a
Cfr. Pergolesi, op. cit., pp. 67-68.
Cfr. in proposito Lavagna, op. cit., p. 778, laddove l’Autore definisce tali Comitati come “una varietà dei governi di fatto,
contraddistinguendosi soprattutto: a) per l’autoattribuzione di potestà governativa originaria, anche se in concorso con altre autorità ed a carattere
provvisorio; b) per l’esercizio effettivo di detta potestà, anche se in forma limitata ed occasionale; c) per l’inserimento in una lotta (guerra,
rivoluzione) volta all’organizzazione definitiva del potere, nell’ambito di una comunità statale preesistente o in fieri, secondo principi democratici”.
43
44
La Commissione Alleata di Controllo - costituita sin dal 1943 e presieduta dall’ammiraglio americano
Stone – aveva lo scopo di subentrare all’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory Governo Militare Alleato dei Territori Occupati) nel delicato compito di garantire il graduale passaggio del
45
territorio al nuovo governo italiano. La Commissione aveva giurisdizione in tutti quei territori restituiti all’Italia dal Governo
Alleato e doveva controllare la condotta del Governo italiano, al quale poteva impartire anche specifiche istruzioni. Cfr.
Novacco, op. cit., pp. 17-18.
46 I quattro obiettivi generali del Governo Militare alleato, contenuti in un memorandum amministrrativo predisposto il 1°
maggio 1943, erano: 1) fornire le truppe da combattimento per garantire la sicurezza delle forze occupanti e delle loro linee
di comunicazione; 2) ristabilire la legge e l’ordine e le normali condizioni d vita per la popolazione civile; 3) fornire
l’assistenza per rendere disponibile, alle forze occupanti, le risorse economiche del territorio occupato; 4) promuovere gli
obiettivi politici e militari delle Forze Alleate attrverso un efficiente governo del terriotrio, in connessione con le future
operazioni.
47 Il Tribunale speciale era stato istituito con la legge n. 2008 del 25 novembre 1926, recante “Provvedimenti per la Difesa dello
Stato”.
48 E’ curioso, altresì, ricordare che, con il RDL 2 agosto 1943 n. 707, venne pure disposta l’abrogazione delle norme
“fasciste”, contenenti limitazioni giuridiche correlate allo stato di celibe.
49 Cfr. Novacco , op. cit., pp. 21 ss.; Pizzorusso, op. cit., pp. 75-76.
50 Cfr. G. Bocca, Palmiro Togliatti, pp. 361 ss..
10
sostegno di una pace separata con gli Alleati e, dall’altro, una politica di non immediata belligeranza nei confronti
del re e della casta dei suoi militari, ispirata da obiettivi di medio e lungo periodo (c.d. “svolta politica di Salerno”).
I compagni di partito non compresero subito le mire politiche del loro leader ed insistevano per
affrontare subito la questione istituzionale, allo scopo di defenestrare al più presto il regime monarchico senza
alcun referendum popolare.
Per contro, il leader comunista rimase fermo nella sua posizione, insistendo nell’idea che soltanto il
popolo italiano (attraverso l’invio di propri rappresentanti ad un’assemblea costituente da riunirsi dopo la
liberazione di tutto il Paese dall’occupazione tedesca) potesse risolvere la questione istituzionale senza traumi
giuridici e, soprattutto, senza ulteriore spargimento di sangue.
In buona sostanza, l’idea di Togliatti era quella di ottenere nell’immediato l’unità e la stretta
collaborazione di tutte le forze democratiche e popolari, al fine di formare un governo che – al momento – potesse
consentire l’inserimento del partito comunista nell’area della legalità e del potere governativo e, d’altra parte,
potesse evitare lo scontro istituzionale soprattutto in considerazione del fatto che le potenze alleate e,
soprattutto, Churchill non era affatto favorevole alla defenestrazione della monarchia italiana.
Acutamente, dunque, Togliatti, con la sua svolta politica, fu l’ispiratore di una linea di conciliazione che,
in presenza del “caos bellico” del momento, mettesse d’accordo le fragili speranze del potere monarchico ancora
operante con le forti aspirazioni repubblicane delle masse popolari; linea che imponeva di accantonare
temporaneamente la questione istituzionale e, quindi, di correlare ed armonizzare le esigenze di un potere
(monarchico) ormai senza autorità e di un autorità popolare ancora senza potere51.
Trattavasi, in definitiva, di una politica compromissoria che, nella mente del lucido leader comunista,
avrebbe avuto risultati nel lungo periodo e che, nel breve periodo, non avrebbe comportato effetti sgraditi per le
forze reazionarie monarchiche e, particolarmente, per il Governo Badoglio, appunto perché, al momento, non
toccava lo “status quo”.
La stessa politica era, invece, sgradita ai socialisti ed agli azionisti, i quali volevano subito demolire l’idea
che potesse prevedersi ed ammettersi una qualsiasi continuità dello Stato monarchico.
Per questi motivi, nei primi giorni di aprile del 1944, Togliatti preparò con gli altri partiti un documento
programmatico per la formazione di un secondo Governo Badoglio. Tale programma, contrariamente a quello
predisposto dal maresciallo, sanciva espressamente il diritto del popolo italiano di eleggere un’Assemblea
costituente 52.
Il nuovo programma venne reso, poi, esplicito dal proclama del re del 12 aprile 1944 e nell’ordine del
giorno del 15 successivo della Giunta del C.L.N.. Badoglio prestò giuramento al re il 18 aprile 1944 a Ravello e,
poi, dette avvio al suo nuovo Gabinetto con la partecipazione dei rappresentanti dei sei partiti sulla base di un
programma elaborato il 27 aprile 194453.
La politica caldeggiata da Togliatti a difesa del “Governo Badoglio-bis” ebbe, tuttavia, vita breve. Infatti,
dopo la liberazione di Roma (avvenuta il 4 giugno 1944), i partiti della coalizione fecero pressione per costituire
un nuovo Governo e, soprattutto, per rendere concreto l’annuncio reso dal re (il 2 aprile 1944) di ritirarsi dalla
vita pubblica nominando come “luogotenente generale” il figlio Umberto, principe di Piemonte.
Il Governo Badoglio entrò così in crisi e gli subentrò (18 giugno 1944) una nuova compagine
governativa presieduta da Ivanoe Bonomi.
Quest’ultimo, in epoca pre-fascista, aveva già rivestito incarichi di Governo, quale Ministro dei Lavori
Pubblici durante il Governo Boselli (18 giugno 1916 – 30 ottobre 1917) e durante il Gabinetto Orlando (dal 1°
gennaio 1919 al 23 giugno 1919); Ministro della Guerra durante il secondo Governo Nitti (dal 14 marzo 1920 al
21 maggio 1920) e durante il quinto ed ultimo Gabinetto Giolitti (dal 15 giugno 1920 al 4 luglio 1921), nel cui
ambito rivestì, dal 2 aprile 1921, anche l’incarico di Ministro del Tesoro.
È da ricordare anche che, immediatamente dopo le dimissioni di tale ultimo Governo Giolitti, il re affidò
proprio a Bonomi l’incarico di formare un nuovo Governo che fu uno degli ultimi prima dell’avvento al potere di
Mussolini (4 luglio 1921 – 26 febbraio 1922). Durante il periodo fascista, in occasione delle elezioni del 1924,
venne candidato dall’opposizione ma, non risultando eletto, decise di ritirarsi a vita privata.
Cfr. G. Bocca, op. cit., p. 367.
Il testo programmatico di Badoglio prevedeva, invece, il diritto del popolo italiano di eleggere una “Camera dei Deputati”
che avrebbe dovuto operare nel rispetto della continuità dell’istituzione monarchica. Cfr. Bocca, op. cit., pp. 373-374.
53 Cfr. Novacco, op. cit., p. 27, laddove l’Autore riferisce che “i cinque ministri senza portafoglio, fiore all’occhiello del nuovo esecutivo,
erano Benedetto Croce e Carlo Sforza, nominati per il prestigio culturale e diplomatico, Palmiro Togliatti, artefice dell’intera operazione, Giulio
Rodinò per i cattolici e Pietro Mancini per i socialisti”. Lo stesso Autore afferma che “la singolarità del secondo governo Badoglio sta nel
fatto che con esso ritorna il sistema della coalizione di partiti, che si caratterizza per la presenza nell’esecutivo di partiti diversi uniti da una linea
politica concordata o da una maggioranza parlamentare di sostegno”.
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La grande novità di questo Governo Bonomi del giugno 1944 è da riferire al fatto che, subito dopo il suo
insediamento, prese avvio la svolta istituzionale e, dunque, ebbe inizio il crollo del regime monarchico che i
Governi Badoglio avevano tentato di salvare ad ogni costo.
Infatti, dopo circa due settimane dalla sua nomina, il Governo Bonomi emanò il D.l.lt. 25 giugno 1944 n.
151, firmato da Umberto di Savoia, con il quale si stabiliva che “dopo la liberazione del territorio nazionale, le
forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale, diretto e
segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato” (art. 1).
Lo stesso Decreto (definito anche come “la prima costituzione provvisoria” 54 o come “una specie di sommaria e
straordinaria costituzione transitoria”55) ebbe una ben evidente valenza di svolta istituzionale perché con esso venne
disposta l’abrogazione dell’articolo unico del precedente Rd.l. n. 705 del 1943 (che prevedeva lo scioglimento
della Camera dei fasci e delle corporazioni e l’elezione, entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, di
una “nuova Camera dei Deputati” e la convocazione e l’inizio di una nuova legislatura e, dunque, l’eliminazione
di un organo deliberativo primario della struttura costituzionale dello Statuto Albertino).
Il D.l.lt. n. 151 del 1944 prevedeva, inoltre, che “i Ministri ed i Sottosegretari di Stato giurano sul loro
onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo della Nazione e di non compiere, fino alla
convocazione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione
istituzionale” (la c.d. “tregua istituzionale”)56 (art. 3) e che “finché non sarà entrato in funzione il nuovo
Parlamento, i provvedimenti aventi forza di legge sono deliberati dal Consiglio dei Ministri. Tali decreti legislativi
preveduti nel comma precedente sono sanzionati e promulgati dal Luogotenente Generale del Regno con la
formula: “Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri; Sulla proposta di…; “Abbiamo sanzionato e
promulghiamo quanto segue…” (art. 4).
La rilevanza giuridica di tale Decreto Luogotenenziale è, altresì, da riferire al fatto che con la firma del
medesimo da pare di Umberto di Savoia divenne operativa una carica istituzionale del tutto inconsueta, conferita
con RD 5 giugno 1944 n. 140, con il quale il re aveva consacrato la nomina del figlio Umberto come “Luogotenente Generale del
Re” 57.
La formula della luogotenenza generale era inconsueta perché, in precedenza (tra il 1848 ed il 1915), era
stata scarsamente adottata. A tal proposito, merita ricordare quanto precisato da un autorevole studioso
(Pergolesi) circa gli elementi comuni e differenziali esistenti tra le passate luogotenenze generali e/o regionali e
circa le caratteristiche di quella attribuita ad Umberto nel 194458.
Cfr., tra gli altri, Novacco, op. cit., pp. 29 ss.; Pizzorusso, op. cit., p. 77; Barile, op. cit., p. 95.
Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 68.
56 Cfr., tra gli altri, Barile, op. cit., p. 94.
57 L’articolo unico del RD n. 140 del 1944, recante la “nomina di S.A.R. Umberto di Savoia, Principe di Piemonte a Luogotenente
Generale del Re”, così recitava: “Il Nostro amatissimo figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, è nominato Nostro Luogotenente
Generale. Sulla relazione dei Ministri responsabili, Egli provvederà in nome Nostro a tutti gli affari dell’amministrazione ed eserciterà tutte le
prerogative Regie, nessuna eccettuata, firmando i Reali decreti, i quali saranno controsegnati e vidimati nelle solite forme. Ordiniamo, a chiunque
spetti, di osservare il presente decreto e di farlo osservare come legge dello Stato. Dato a ravello, addì 5 giugno 1944”. Cfr. Pergolesi, op. cit., p.
73, laddove l’Autore precisa che, con il R.D. 5 giugno 1944 n. 140, Umberto di Savoia fu nominato “Luogotenente del Re”; fu il
successivo D.l.lt. 25 giugno 1944 n. 151 a modificare tale qualifica in quella di “Luogotenente Generale del Regno” (cfr. artt. 4 e 5
di tale Decreto-Legge). Lo stesso Autore sottolinea che l’art. 2, comma 5, del D.lg.lt. 16 marzo 1946 n. 98 stabiliva che
“qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime Luogotenenziale fino alla entrata
in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato”. Cfr. Pizzorusso, op. cit., p. 77, laddove si
precisa che la formula della “luogotenenza” venne “inventata” dal famoso avvocato napoletano Enrico De Nicola, il quale,
con tale marchingegno giuridico semi-inedito, evitava per il momento ’lidea dell’abdicazione del re e, nel contempo,
attribuiva al figlio poteri sovrani e primari e non come semplice sostituto temporaneo del padre. Cfr. anche Barile, op. cit., p.
91 e S. Romano, I confini della storia, Rizzoli, Milano, 2003, p. 334.
58 Cfr. Pergolesi, op. cit., pp. 70-71, laddove l’Autore individua gli elementi comuni, quelli differenziali e le anomalie della
luogotenenza generale conferita ad Umberto di Savoia nel 1944 rispetto a quelle precedenti. In particolare, vengono descritti
come elementi comuni: 1) la delegazione di poteri da parte del re, con regio decreto, sotto la responsabilità ministeriale; 2) la
scelta di un principe della famiglia reale secondo l’ordine di successione al trono; 3) la mancanza di giuramento da parte del
Luogotenente, in quanto delegato del re, il quale ha già prestato giuramento nell’assumere il trono; 4) la responsabilità
ministeriale anche per tutti gli atti del Luogotenente, la posizione costituzionale del Luogotenente, per le funzioni che
esercita, analoga a quelle del re, salvo la speciale tutela penale prevista per quest’ultimo, considerata la non estensibilità delle
norme penali per analogia. Gli elementi differenziali e le anomalie vengono individuate: 1) nel motivo determinante del
conferimento della Luogotenenza, consistente non in una circostanza di carattere temporaneo e materiale (come una guerra,
un’assenza del re dal regno, una malattia), ma in una specie di incompatibilità politico -morale del re; 2) nella delegazione
dell’esercizio di tutte le funzioni regie, senza eccezione o limitazione alcuna (le precedenti luogotenenze erano state limitate
allo svolgimento degli affari ordinari od urgenti) .
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55
12
Il predetto studioso precisa anche che la caratteristica politica del tutto straordinaria della carica
“luogotenenziale” prescelta nel contesto storico di riferimento fu quella di voler mantenere a tutti i costi la
continuità formale del regime monarchico, pur se contaminato e minato da evidenti germi “rivoluzionari” che
pretendevano trasformazioni politiche radicali; trasformazioni che però al momento non erano ancora esplose e
che, anzi, rimanevano celate nel contesto politico di transitorio consenso da parte dei maggiori partiti costituenti
il C.L.N. e da parte della coalizione governativa al mantenimento dello “status quo”.
La formula giuridica della “luogotenenza”, posta come paravento monarchico per fronteggiare gli eventi
dell’epoca non fu neppure contestata dalla sinistra ed, in particolare, dal leader socialista Nenni che, anzi, colse
l’occasione per gridare alla vittoria, convinto che tale formula non fosse altro che la totale smentita della “linea
togliattiana di Salerno”, in vista dell’imminente rivoluzione repubblicana.
Togliatti invece - fermo nel suo programma di breve e di lungo periodo – non dette peso alla formula
della luogotenenza perché, probabilmente, già pensava ad un Governo di alleanza popolare ed alla creazione di
un fronte comune tra il movimento popolare marxista e quello cattolico capeggiato da De Gasperi; il tutto, in
vista di una imminente consultazione referendaria che avrebbe consentito al popolo italiano di decidere la forma
istituzionale del nuovo Stato.
In effetti, la luogotenenza di Umberto ebbe vita dal giugno 1944 fino al 9 maggio 1946, quando
improvvisamente a Napoli il re decise di abdicare alla corona d’Italia in favore del figlio, al dichiarato fine di
offrire un contributo rilevante per l’avvio delle trattative di pace con le forze militari alleate che erano presenti in
Italia dal 1943 e che, dal 4 giugno 1944, erano entrate a Roma59.
2. Verso la fine del 1944 (e, precisamente, il 26 novembre di quell’anno), il Governo Bonomi entrò in
crisi a causa delle dimissioni di due Ministri presentate per protesta contro il modo in cui veniva condotto il
programma di “epurazione” degli esponenti dello Stato e di altri personaggi compromessi con il fascismo;
programma che era stato concretamente avviato fin dal primo Governo Badoglio con la nomina di Tito Zaniboni
ad Alto Commissario per l’epurazione nazionale dal fascismo (1944)60.
La crisi di Governo venne risolta quando, il 12 dicembre 1944, si costituì formalmente il terzo Gabinetto
Bonomi.
Durante tale Governo, nelle more delle elezioni politiche, venne istituita la Consulta Nazionale con D.lg.lt. 5
aprile 1945 n. 146 (in G.U. 28 aprile 1945 n. 51)61 , organismo a carattere rappresentativo indiretto, nominato dal
Governo: 1) su designazione dei maggiori partiti politici; 2) fra ex parlamentari antifascisti; 3) fra appartenenti a
categorie ed organizzazioni sindacali, culturali e di reduci (cfr. art. 5)62.
In primo luogo, la Consulta – la cui presidenza fu attribuita a Carlo Sforza – aveva una funzione
consultiva sui “problemi generali” e sui provvedimenti legislativi ad essa sottoposti dal Governo. La richiesta del
parere era di carattere obbligatorio (ma non vincolante) sui progetti di bilancio e sui rendiconti consuntivi dello
Stato, nonché in materia di imposte (salvo i casi d’urgenza) e sulle leggi elettorali (cfr. art. 1).
Inoltre, la Consulta svolgeva un’attività di controllo politico dell’attività ministeriale attraverso l’esercizio
di una funzione ispettiva ed anche mediante interrogazioni ed interpellanze.
Cfr. Barile, op. cit., p. 97, laddove l’Autore definisce l’abdicazione di Vittorio Emanuele III a favore del figlio come un
“nuovo colpo di Stato monarchico”.
60 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 36-37, laddove l’Autore riferisce che “il Governo Bonomi si misurava soprattutto sull’istituzione e sui
compiti dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, struttura creata nella seduta del Consiglio dei Ministri del 27 luglio. Il decreto
governativo stabiliva che l’Alto commissariato avrebbe dovuto allontanare dall’amministrazione pubblica i funzionari assunti esclusivamente
perché appartenenti al Partito fascista, i responsabili di fatti gravi connessi alla loro adesione al regime e chi avesse lucrato profitti illeciti. Carlo
sforza venne nominato Alto commissario e il suo vicario fu il comunista Mauro Scoccimarro, con delega specifica per il personale della pubblica
amministrazione”. Durante il secondo Governo Badoglio, con il Regio Decreto 2 giugno 1944, il “conte cav.” Carlo Sforza era
stato nominato Alto Commissario per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, a seguito della cessazione dalla
carica di Zaniboni. Inoltre, con D.P.C.M. del 2 giugno 1944, era stato nominato Alto Commissario aggiunto per la
punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo l’on. avv. Mario Berlinguer. Sulla questione dell’“epurazione”, cfr. Pergolesi, op.
cit., p. 65; Pizzorusso, op. cit ., p. 79. Per una disamina più completa dei complessi e variegati provvedimenti sanzionatori
adottati contro il fascismo, cfr. amplius S. Vinciguerra, in Enciclopedia del Diritto, Volume XVI, Milano, 1967, voce Fascismo
(sanzioni contro il), pp. 902 ss..
61 La Consulta, che aveva avviato nel Palazzo di Montecitorio i propri lavori il 25 settembre 1945 (quando già era in
funzione il Governo Parri), concluse la propria attività il 9 marzo 1946.
62 Per un resoconto delle vicende storiche che hanno portato all’approvazione del Decreto istitutivo della Consulta
Nazionale ed, in particolare, sui contrasti sorti sul metodo di cooptazione dei consultori, cfr. Novacco, op. cit., pp. 39-40 e
pp. 47 ss.. Cfr. anche Pizzorusso, op. cit., p. 78; Pergolesi, op. cit., pp. 66-67.
59
13
Il Governo poteva richiedere i pareri alla Consulta riunita in assemblea plenaria ovvero ad una delle dieci
Commissioni, di cui si componeva (cfr. art. 2)63.
Il terzo Gabinetto Bonomi entrò in crisi il 13 giugno 1945, a causa di divergenze sorte nell’ambito dei
partiti del C.L.N..
Lo schieramento dei partiti si spaccò in due: le sinistre caldeggiavano la formazione di un nuovo
Governo presieduto da Nenni, mentre i moderati e le destre appoggiavano la nomina di De Gasperi, qual titolare
di un Governo di coalizione.
Per risolvere l’impasse venne, però, caldeggiata ed accettata (con il dissenso di Togliatti e di Nenni) una
proposta med iana suggerita dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia che voleva come Capo del Governo Ferruccio
Parri (“azionista” che aveva guidato con Longo la resistenza nel nord Italia).
Nell’ambito delle contrapposte forze politiche, la candidatura compromissoria di Parri ebbe alla fine
buon esito, sia perché egli era un eminente leader partigiano, sia anche perché era il rappresentante del vento del
nord e, quindi, della borghesia progressista che aveva offerto una larga forza d’urto durante la guerra di
liberazione.
Parri venne a Roma il 14 giugno 1945 ed il 20 successivo formò il nuovo Governo, tenendo per sé anche
il Dicastero degli Interni. Togliatti venne nominato Ministro della Giustizia; Nenni Vice Presidente del Consiglio
e Ministro per la Costituente; De Gasperi Ministro degli Esteri; Grieco Alto Commissario per l’epurazione.
Il programma di Governo era dichiaratamente antifascista e rivoluzionario perché prevedeva: a)
l’eliminazione delle leggi fasciste; b) l’epurazione della burocrazia e dell’esercito; c) l’immissione dei partigiani
nella polizia; d) il cambiamento della moneta e la tassazione forte e rigorosa degli speculatori del regime; e)
l’imposizione di una straordinaria sul patrimonio; f) l’inserimento dei rappresentanti del C.L.N. nelle istituzioni.
Evidentemente trattatasi di un programma non facilmente gestibile ed attuabile dal nuovo Governo,
tenuto conto che esso doveva operare nel contesto di una realtà politica ancora impregnata dai forti retaggi del
regime fascista, nonché dalle idee certamente non “rivoluzionarie” delle forze politiche legate alla destra ed al
Vaticano.
Per questi motivi, il Governo Parri entrò presto in crisi a seguito della presentazione delle dimissioni da
parte dei Ministri liberali (il 21 novembre 1945)64. Poi, mentre erano in corso trattative frenetiche tra i partiti per
una ricomposizione della crisi, il successivo 24 novembre, in una pubblica riunione del C.L.N. ed alla presenza di
giornalisti italiani e stranieri, Parri denunciò le debolezze degli alleati politici e le congiure degli avversari e subito
dopo rassegnò le proprie dimissioni.
A questo punto nacque l’idea di un Governo De Gasperi, che era non sgradito a Togliatti e che
certamente era benvoluto dalle forze politiche di destra e dal Vaticano.
De Gasperi, già Ministro senza portafogli nel primo Gabinetto Bonomi e Ministro degli Esteri nel
secondo Governo Bonomi e nel Governo Parri, il 10 dicembre 1945 assunse l’incarico di Presidente del
Consiglio, nell’ambito di un governo formato dai sei partiti del C.L.N.. In seguito, nell’aprile del 1946, lasciò la
carica di segretario del partito della Democrazia Cristiana ad Attilio Piccioni, assumendo la presidenza del
Consiglio nazionale; il 2 giugno 1946 venne eletto deputato alla Costituente per il collegio di Trento ed il 13
luglio successivo formò il suo secondo governo, nel quale entrarono i democristiani, i comunisti, i socialisti ed i
repubblicani65.
Ai sensi dell’art. 2, le dieci Commissioni erano: affari esteri; affari politici e amministrativi; giustizia; istruzione e belle arti;
difesa nazionale; finanze e tesoro; agricoltura e alimentazione; industria e commercio; lavoro e previdenza sociale;
ricostruzione, lavori pubblici e comunicazioni. Al riguardo, è importante ricordare che - con il successivo D.lg.lt. 30 aprile
1945 n. 168 (in G.U. 7 maggio 1945 n. 55) - fu precisata la proporzione numerica delle singole rappresentanze ed il numero
totale dei consultori fu fissato in 304 (cfr. art. 1, comma 1). A tali consultori si sarebbero, successivamente, aggiunti, dopo la
cessazione dalla carica, i Ministri ed i Sottosegretari di Stato dei Governi costituiti dopo la liberazione di Roma, nonché gli
Alti Commissari che potevano essere chiamati a partecipare a sedute del Consiglio dei Ministri (art. 1, comma 2). La prima
composizione della Consulta Nazionale fu, poi, integrata con i D.lgs. Luogotenenziali 12 luglio 1945 n. 422, 31 agosto 1945
n. 527, 31 agosto 1945 n. 539, 22 dicembre 1945 n. 826 e 1° febbraio 1946 ed il numero totale dei consultori fu portato a
430.
64 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 52-53.
65 Cfr. amplius sulla figura di De Gasperi, A. Gambino (a cura di), Intervista su De Gasperi.
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C) I LAVORI DEL MINISTERO PER LA COSTITUENTE PRESIEDUTO DA NENNI.
Merita ricordare che, durante il Governo Parri, con il D.lt. 31 luglio 1945 n. 435 (in G.U. 11 agosto n.
96), venne disposta l’istituzione del Ministero per la Costituente 66.
Tale Ministero venne affidato all’autorevole guida di Pietro Nenni, il quale, nello stesso Esecutivo,
ricopriva anche la carica di Vice Presidente del Consiglio. Come Capo di Gabinetto di tale Ministero venne
nominato il professore Massimo Severo Giannini.
L’istituzione di questo Ministero costituiva uno dei punti più qualificanti del programma di Governo,
tant’è che lo stesso Presidente Parri nella sua dichiarazione programmatica precisò che, con tale istituzione, si
voleva “passare dall’affermazione del diritto del popolo a decidere del proprio destino alla preparazione tecnica della Costituente, che
(lo stesso Governo) assume(va) impegno solenne di convocare, a suffragio universale – maschile e femminile – diretto e segreto, al più
presto possibile” 67.
Infatti ad esso furono affidati i compiti di preparare la convocazione dell’Assemblea Costituente e di
predisporre gli elementi per lo studio della nuova Costituzione “che dovrà determinare l’assetto politico dello Stato e le
linee direttive della sua azione economica e sociale” (art. 2 del citato Decreto).
Inoltre, ai sensi dell’art. 5 dello stesso Decreto venne prevista l’istituzione – con Decreto del Ministro per
la Costituente, sentito il Consiglio dei Ministri – di una Commissione per l’elaborazione della legge elettorale
politica, nonché di apposite Commissioni di studio, incaricate di predisporre i predetti elementi preparatori per la
redazione della nuova Costituzione.
L’incarico di coordinare i lavori delle Commissioni venne affidato all’Ufficio Legislativo del Ministero
(artt. 3 e 4)68.
In particolare, il 31 agosto 1945, il Ministro Nenni emanò il Decreto istitutivo della Commissione per
l’elaborazione della legge elettorale politica. A farne parte, furono chiamati illustri docenti universitari, uomini politici
designati dai vari partiti del C.L.N., esperti di chiarissima fama (come il Prof. Arturo Carlo Jemolo), nonchè
funzionari statali particolarmente qualificati (quali il Prof. Giovanni Schepis ed il Dott. Paolo Strano)69.
La Commissione era presieduta dallo stesso Ministro Nenni, il quale peraltro partecipò solo alla seduta di
insediamento. In tale occasione venne eletto come Vice Presidente l’Avv. Giovanni Selvaggi, sotto la cui
direzione si svolsero, poi, tutte le riunioni successive 70.
La Commissione avviò i lavori immediatamente dopo la propria istituzione e elaborò un progetto di
legge composto di 74 articoli, nell’ambito dei quali erano enunciati i seguenti principi fondamentali che avrebbero
dovuto costituire la base per le elezioni dell’Assemblea Costituente: 1) “suffragio effettivamente universale; 2)
rappresentanza proporzionale, costituita con voto diretto, libero e segreto mediante scrutinio di liste di candidati liberamente
concorrenti, da chiunque presentate, con ordine di precedenza prestabilito, modificabile dagli elettorali per effetto dei voti di preferenza
che (fossero) espressione di volontà numericamente efficienti” 71.
Cfr. C. Giannuzzi, L’istituzione e l’attività del Ministero per la Costituente, in Il Ministero per la Costituente - L’elaborazione dei principi
della Carta Costituzionale, curato dalla Fondazione Pietro Nenni, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1995, p. 4, laddove
l’Autore sottolinea che, nella seduta del Consiglio dei Ministri del 12 luglio 1945, durante la quale fu discusso ed approvato il
Decreto n. 435 del 1945, “non mancarono, peraltro, di levarsi voci discordi sull’opportunità della sua istituzione: essendosi contestato da parte
di taluni Ministri che questa fosse contemplata nel programma governativo ed essendosi fatto rilevare che a marcare l’impegno politico del Governo
alla convocazione della Costituente sarebbe stata sufficiente la presenza di un Ministro con un semplice “incarico” ad hoc, sfornito del supporto di
una struttura ministeriale”. In particolare, una delle “voci discordi” fu quella di De Gasperi (cfr. Giannuzzi, op. cit., nt. 10, p. 61).
67 Cfr. C. Giannuzzi, op. cit., p. 3.
68 Lo stesso art. 3 costituì anche un Ufficio Affari Generali che, ai sensi dell’art. 4, aveva il compito di curare tutto ciò che
concerne il personale e lo svolgimento dei servizi del Ministero.
69 Per un resoconto dei lavori della Commissione per l’elaborazione delle legge elettorale politica, cfr. amplius Giannuzzi, op.
cit., pp. 7 ss..
70 Cfr. Giannuzzi, op. cit., nt. 26, p. 65, laddove l’Autore riporta l’elenco completo dei componenti della Commissione.
71 Cfr. Giannuzzi, op. cit., p. 8. Con riferimento alla stesura dell’importantissimo D.lg.lt 16 marzo 1946 n. 98, lo stesso Autore
(cfr. pp. 11-12 e relative note) sottolinea che - nonostante il mancato reperimento presso l’Archivio Centrale dello Stato di
una sia pur minima traccia documentale al riguardo – “il Ministero per la Costituente dovette, comunque, partecipare in una qualche
misura all’elaborazione del provvedimento, dal momento che il relativo schema, sottoposto alla Consulta per il parere, reca nell’intestazione
l’indicazione della sua proposta, oltre che da parte del Presidente del Consiglio, anche da parte del Ministro per la Costituente, che illustrò a nome
del Governo il suo contenuto nella discussione alla Consulta”. In ogni caso, a prescindere dalla rilevanza del contributo fornito dal
Ministero, lo stesso Autore evidenzia l’importanza dell’apporto personale di Nenni per l’approvazione di tale provvedimento
che “fu soprattutto frutto di una realistica valutazione di Nenni e del suo ostinato impegno a conseguire l’obiettivo dell’avvento della Costituente
anche attraverso ogni possibile soluzione di compromesso” (cfr., in particolare, le note 59 e 60, p. 68). In proposito, cfr. anche
Tamburrano (a cura di), Nenni, Intervista sul socialismo italiano cit., pp. 74-75.
66
15
Successivamente, nell’autunno del 1945, fu emanato il Decreto Ministeriale istitutivo delle due
Commissioni di studio previste dall’art. 5 del citato Decreto Luogotenenziale 31 luglio 1945 n. 435 e cioè la
Commissione di studio per le questioni economiche e la Commissione per studio per i problemi attinenti alla riorganizzazione dello
Stato. A tali Commissioni si affiancò, nel gennaio del 1946, una terza Commissione di studio per i problemi del
lavoro72.
La prima Commissione - presieduta dal Prof. Giovanni De Maria - era composta di cinquanta esperti e si
insediò il 29 ottobre 194573.
L’attività di tale Commissione era coordinata da una Segreteria Generale diretta dal Prof. Vittorio
Angiolini che, già nell’estate del 1945, aveva cominciato ad operare, prevedendo, tra l’altro, la suddivisione della
Commissione in cinque Sottocommissioni (Agricoltura, Industria, Credito ed Assicurazione, Problemi monetari e
Commercio Estero, Finanza) 74.
Alla chiusura dei propri lavori, tutte le relazioni elaborate dalle varie Sottocommissioni furono raccolte
nei vari volumi che compongono il Rapporto della Commissione economica per l’Assemblea costituente.
La Commissione di studio per i problemi attinenti alla riorganizzazione dello Stato - presieduta dal Prof.
Ugo Forti, ordinario di diritto amministrativo all’Università di Napoli – fu istituita con Decreto del 21 novembre
1945 e si insediò in pari data75.
Molti esperti chiamati a far parte di tale Commissione (circa 22) - e tra questi anche lo stesso presidente erano già componenti dell’analoga Commissione per la Riforma dell’Amministrazione, istituita presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri durante il secondo Governo Bonomi (Decreto 11 ottobre 1944).
In occasione della prima seduta, si svolse un acceso dibattito sui compiti ed il limiti dell’attività della
stessa Commissione. In particolare, alcuni membri ritenevano che rientrasse nei poteri della Commissione la
predisposizione di uno schema di Costituzione da sottoporre poi all’esame dell’Assemblea Costituente.
Il Ministro Nenni – chiamato in causa al riguardo - precisò che la Commissione aveva natura
essenzialmente tecnica e non politica e che era stata “istituita (esclusivamente) per la raccolta e lo studio degli elementi
attinenti al riassetto dello Stato”76.
Al pari della Commissione economica, anche la Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione
dello Stato fu suddivisa in cinque Sottocommissioni, riservando al plenum solo un’attività di coordinamento e di
indirizzo generale: 1) Problemi costituzionali (presieduta dal deputato On. Avv. G. Battista Boeri); 2)
Organizzazione dello Stato (presieduta da Emanuele Piga, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione); 3)
Autonomie locali (presieduta dal Prof. Carlo Arturo Jemolo); 4) Enti pubblici non territoriali (presieduta da
Leopoldo Piccardi, Consigliere di Stato); 5) Organizzazione sanitaria (presieduta da Nicola Perrotti, Alto
Commissario Aggiunto per l’Igiene e la Sanità).
In proposito, è significativo ricordare che la Commissione per la Riforma dell’Amministrazione elaborò
un progetto legislativo denominato “Schema di legge generale sulla pubblica amministrazione”, che costituì un primo
tentativo di disciplinare in modo organico ed unitario l’attività della Pubblica Amministrazione. Tale schema - in
parte rivisitato e denominato “Norme generali sull’azione amministrativa” (1955) - divenne oggetto di una proposta di
La Commissione per i problemi del lavoro, insediatasi il 21 gennaio 1946, fu suddivisa in quattro Sottocommissioni:
problemi economici; problemi sindacali; problemi della protezione sociale; giuridica e di coordinamento.
73 I cinquanta esperti erano stati designati dal Ministero per la Costituente, dagli altri Ministeri e dai sei partiti politici.
Nell’ambito di tali esperti spiccano i nominativi di alcuni illustri personaggi, quali l’economista Federico Caffè, Sergio Steve,
Giuseppe Ugo Papi, Paolo Baffi, Ezio Vanoni, Manlio Rossi Doria, ecc. Cfr. Giannuzzi, op. cit ., pp. 13 ss. e p. 69, laddove in
nt. 64 sono riportati i nominativi di tutti gli esperti che componevano la Commissione economica.
74 Cfr. Giannuzzi, op. cit., p. 14 e, per la co mposizione delle Sottocommissioni, cfr. p. 70 nt. 68.
75 Cfr. Giannuzzi, op. cit ., pp. 64 e 72 note 24 e 77, laddove l’Autore fa notare che tutti i Decreti istitutivi delle Commissioni
operanti presso il Ministero per la Costituente non risultano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. Cfr. pure L.
Giampaolino, La legge quadro sul pubblico impiego, Giuffrè, 1984, laddove (pp. 361 ss.), a proposito dell’istituzione del
Dipartimento della Funzione Pubblica, vengono segnalate la varie tappe della riforma della Pubblica Amministrazione a
partire proprio dai lavori della “Commissione Forti” e dai successivi lavori della “Commissione Lucifredi” (nel 1951
nominato Sottosegretario dal Vice Presidente del Consiglio dell’epoca Piccioni). Detti lavori non ebbero l’esito sperato tant’è
che ancora nel 1979, quando Giannini divenne Ministro della Funzione Pubblica, la questione della riforma della Pubblica
Amministrazione era ancora in alto mare. Al riguardo, merita un particolare ricordo l’azione politica dello stesso Giannini, il
quale - prima (nel 1979) con la presentazione alle Camere di un “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato” e
poi (all’inizio degli anni 1990) con l’adesione al movimento riformatore di Mario Segni – propugnò non solo l’esigenza di
una riforma elettorale che favorisse l’introduzione di un sistema politico -governativo bipolare, ma anche l’esigenza di una
riforma globale del sistema organizzativo della P.A. mirata, fra l’altro, ad una più attenta rivalutazione dei “rapporti tra Stato
e Mercato”. Al riguardo, cfr. amplius M. PERA, Massimo Severo Giannini: il genio dello studioso, la generosità del politico, Senato della
Repubblica, relazione tenuta il 24 gennaio 2002.
76 Cfr. Giannuzzi, op. cit., p. 20.
72
16
legge sottoposta all’esame di una Commissione ad hoc, costituita presso la Camera dei Deputati, che l’approvò in
sede deliberante con numerose modifiche. L’iter legislativo fu, poi, interrotto a causa dello scioglimento delle
Camere. Analoghe proposte di legge furono presentate nelle legislature successive, ma con scarso successo, fino a
quando non venne approvata la L. 7 agosto 1990, n. 241, che – come ben noto – reca “nuove norme in materia
di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Tale legge, peraltro, di
recente, ha subito rilevanti modifiche per effetto della L. n. 15 dell’11 febbraio 2005.
Il 30 maggio 1946, quasi a ridosso della data delle elezioni, si decise di far concludere i lavori delle
Sottocommissioni: tale circostanza di tempo non consentì di svolgere un lavoro unico di coordinamento dei vari
studi elaborati dalle singole Sottocommissioni e di sottoporlo in tale veste alle valutazioni del plenum della
Commissione. Sicché, la relazione finale di quest’ultima venne presentata all’Assemblea Costituente con una
suddivisione in tre volumi, i quali semplicemente raccolgono consecutivamente (e non in maniera coordinata) i
cinque lavori delle predette Sottocommissioni, unitamente a quelli delle Sottocommissioni per il “Problema della
Regione” e per “l’Amministrazione locale”, facenti parte della predetta Commissione per la Riforma
dell’Amministrazione.
Il 2 giugno 1946 – avendo svolto i compiti previsti dall’art. 2 del Decreto Luogotenenziale istitutivo n.
435 del 1945 - il Ministero per la Costituente cessò la propria attività.
Notevole fu l’impegno profuso e considerevole l’importanza di numerose considerazioni conclusive
contenute nei lavori delle predette Commissioni. Molte di tali considerazioni vennero, infatti, recepite
dall’Assemblea Costituente nell’elaborazione della Carta costituzionale. Così dicasi per il diritto d’eguaglianza; i
c.d. “diritti individuali” 77; la tutela dell’integrità fisica e morale della persona umana; i diritti della famiglia; la tutela
della maternità e dell’infanzia; il diritto all’istruzione; la Repubblica parlamentare; la promulgazione delle leggi da
parte del Capo dello Stato; la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri da parte del Capo dello Stato; la
potestà legislativa del Governo ed i propri limiti (decreti-legge e decreti legislativi); la responsabilità del Presidente
del Consiglio dei Ministri e dei Ministri; i principi generali sull’ordinamento giurisdizionale, con particolare
riferimento all’autonomia ed all’indipendenza della magistratura; l’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza; l’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso; i diritti e doveri dei
pubblici impiegati; la previsione di norme costituzionali per il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, quali organi
consultivi e di controllo; la tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della P.A.; i principi in materia di
autonomie locali, con la previsione di materie da riservare esclusivamente allo Stato centrale.
È da rilevare che, nonostante la mole degli studi e delle idee, i lavori del Ministero per la Costituente non
furono considerati come punto di partenza obbligatorio e vincolante per l’Assemblea Costituente e la
Commissione dei 75 in essa costituita.
In tal senso, l’onorevole Oliviero Zuccarini – durante la seduta della Commissione dei 75 di martedì 23
luglio 1946, intervenendo in merito alla proposta di suddividere la Commissione in tre Sottocommissioni affermò che “comunque i lavori delle Sottocommissioni che dovranno studiare i problemi particolari non possono prescindere da
questa discussione generale sulla impostazione di tutti i problemi; in mancanza di che le altre Sottocommissioni lavorerebbero senza
alcun risultato, come è avvenuto alla Commissione costituita dal Ministero per la Costituente, la quale, prescindendo dalla forma
dello Stato, ha messo in discussione una infinità di questioni particolari, dalle quali sarà difficile trarre lumi. Credo, anzi, che questa
Commissione debba fare un lavoro completamente nuovo e prescindere da quello, poiché è un grave errore mettersi su posizioni
prestabilite” 78.
Un vivissimo apprezzamento per i detti lavori fu, invece, espresso da Piero Calamandrei in occasione
della prima seduta plenaria di martedì 4 marzo 1947 (allorché fu dato inizio alla discussione in aula del progetto
di Costituzione della Repubblica italiana, presentato dalla Commissione dei 75). In quella occasione, Calamandrei
– dopo aver evidenziato l’importanza di apportare equilibrio, chiarezza ed armonia stilistica all’“ancora grezzo”
progetto di Costituzione, delle quali un esempio è dato dalla “bella, equilibrata, armoniosa relazione scritta dal nostro
Presidente Ruini” - sottolineò che “non bisogna(va) dimenticare anche, tra i precedenti di questo progetto, i vari volumi, e
specialmente il primo79, dei lavori della Commissione di studio costituita dal Ministero per la Costituente, che sono veramente un
esempio di chiarezza e di compitezza, il cui merito risale a quel grande giurista, a quel grande maestro di diritto pubblico, a cui
mando un saluto in questo momento, che è il professor Ugo Forti, Presidente di quella Commissione”80.
I diritti individuali furono suddivisi in diritti di libertà, diritti del cittadino nei confronti della P.A. e diritti soggettivi
politici.
78 La Costituzione della Repubblica cit., Volume VI, 1970, p. 7.
79 Il primo volume conteneva - oltre alla prefazione del Presidente Forti ed una introduzione del Segretario generale Prof.
Ambrosino – le relazioni della Sottocommissione per i problemi costituzionali e della Sottocommissione per
l’organizzazione dello Stato.
80 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. 155. Cfr. anche P. Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone, Scritti e
discorsi politici, Sansoni, Firenze, 2004, pp. 80 ss..
77
17
D) I GOVERNI DE GASPERI. IL REFERENDUM E LA PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
Durante il primo Governo De Gasperi (10 dicembre 1945 – 13 luglio 1946) e, precisamente, il 10 marzo
1946, gli italiani per la prima volta, dopo vent’anni, votarono per le elezioni amministrative, comunali e
provinciali, 81 ed ancora, per la prima volta, votarono per eleggere l’Assemblea Costituente e per decidere con un
apposito referendum popolare se mantenere la Monarchia o la Repubblica.
Le modalità giuridico-procedurali delle elezioni e del referendum – entrambi considerati come eventi di
importanza cruciale per le sorti del Paese – vennero, rispettivamente, fissate dal D.lg.lt. 10 marzo 1946 n. 74 (in
Supplemento alla G.U. 12 marzo 1946 n. 60), recante “norme per le elezioni dei deputati all’Assemblea Costituente”, e dal
successivo D.lg.lt. 16 marzo 1946 n. 98 (in G.U. 23 marzo 1946 n. 69), recante “integrazioni e modifiche al D.l.lt. 25 giugno
1944 n. 151, relativo all’Assemblea per la nuova costituzione dello Stato, al giuramento dei membri del Governo ed alla facoltà del
Governo di emanare norme giuridiche”.
In particolare, il primo Decreto n. 74 del 1946 statuì, tra l’altro, che: “l’Assemblea Costituente è eletta a
suffragio universale con voto diretto, libero e segreto, attribuito a liste di candidati concorrenti. La
rappresentanza è proporzionale. L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza
venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese in un momento decisivo della vita nazionale. L’elenco di
coloro che si astengono dal voto nelle elezioni per la Costituente, senza giustificato motivo, sarà esposto per la
durata di un mese nell’albo comunale. Per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” sarà iscritta nei
certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si sia astenuto dal voto senza giustificato motivo ” (art.
1); “ogni elettore dispone di un voto di lista” (art. 2, comma 1); “i deputati all’Assemblea Costituente sono 573
suddivisi in collegi” (art. 3, comma 1); “sono elettori tutti i cittadini italiani che abbiano raggiunto la maggiore età
entro il 31 dicembre 1945, eccettuati i casi d’indegnità previsti dai successivi articoli 5 e 6” (art. 4).
Il predetto Decreto n. 98 del 1946 (definito quale “seconda costituzione provvisoria”82) stabilì che
“contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente il popolo sarà chiamato a decidere mediante
referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia)” (art. 1).
Lo stesso Decreto - oltre a prevedere le modalità di nomina del Capo provvisorio dello Stato (nell’ipotesi
di un esito del referendum in favore della Repubblica) e la prosecuzione dell’allora vigente regime
luogotenenziale (in caso di pronuncia referendaria in favore della monarchia) (art. 2) - disciplinò lo svolgimento
della funzione legislativa ordinaria ed i rapporti fra l’Assemblea Costituente e Governo, stabilendo che “durante il
periodo della Costituente e fino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova costituzione il potere legislativo resta delegato,
salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le
quali saranno deliberate dall’Assemblea. Il Governo potrà sottoporre all’esame dell’Assemblea qualunque altro argomento per il
quale ritenga opportuna la deliberazione di essa. Il Governo è responsabile verso l’Assemblea Costituente. Il rigetto di una proposta
governativa da parte dell’Assemblea non porta come conseguenza le dimissioni del Governo. Queste sono obbligatorie soltanto in
seguito alla votazione di una apposita mozione di sfiducia, intervenuta non prima di due giorni dalla sua presentazione e adottata a
maggioranza assoluta dei Membri dell’Assemblea” (art. 3) 83. Nel successivo articolo 4 fu, inoltre, previsto che
“l’Assemblea Costituente terrà la sua prima riunione in Roma, nel Palazzo di Montecitorio, il ventiduesimo giorno successivo a
quello in cui saranno svolte le elezioni. L’Assemblea è sciolta di diritto il giorno dell’entrata in vigore della nuova Costituzione e
comunque non oltre l’ottavo mese dalla sua prima riunione. Essa può prorogare questo termine per non più di quattro mesi…”.
Infine, è curioso ricordare che l’art. 7 del Decreto n. 98 statuì che “entro il termine di trenta giorni dalla
data del Decreto Luogotenenziale che indice le elezioni della Assemblea Costituente i dipendenti civili e militari
dello Stato devono impegnarsi, sul loro onore, a rispettare e far rispettare nell’adempimento dei doveri del loro
stato il risultato del referendum istituzionale e le relative decisioni dell’Assemblea Costituente. Nessuno degli
impegni da essi precedentemente assunti, anche con giuramento, limita la libertà di opinione e di voto dei
dipendenti civili e militari dello Stato”.
Cfr. Novacco, op. cit., pp. 76 ss.; Bocca, op. cit., p. 447. Cfr. anche Pizzorusso, op. cit ., p. 80, il quale riferisce che, dall’esito
della consultazione elettorale amministrativa risultò che i tre grandi partiti di massa (Democrazia Cristiana, Partito Socialista
e Partito Comunista) raccolsero le preferenze di circa il 75% degli elettori, mentre tutti gli altri gruppi vennero destinati ad
esercitare il ruolo di “partiti minori”. Peraltro – come precisa lo stesso Autore – in occasione della consultazione elettorale
amministrativa del 1946 fu attuato per la prima volta in Italia il voto a suffragio universale maschile e femminile, a seguito
dell’estensione alle donne della capacità elettorale disposta con D.l.lt. 1° febbraio 1945 n. 23.
82 Cfr., tra gli altri, Novacco, op. cit., p. 31 e pp. 58 ss.; Pizzorusso, op. cit., p. 59. Cfr. anche V. Falzone e P. Grossi, in
Enciclopedia del Diritto, Volume III, Milano, 1958, voce Assemblea costituente, p. 373, laddove gli Autori precisano che, al
Decreto n. 98 del 1946, fu riconosciuto dalla stessa Assemblea Costituente valore di legge costituzionale, e “costituzionali”
furono le leggi che lo modificarono prima della promulgazione della Costituzione.
83 Sul ripristino da parte dell’art. 3 del Decreto n. 98 del 1946 dell’ “antico ma sempre efficiente istituto della “fiducia” al Governo,
cfr. Barile, op. cit., p. 97.
81
18
La convocazione dei comizi elettorali, sia per il referendum sulla forma istituzionale dello Stato che per
l’elezione dei Deputati all’Assemblea Costituente, fu disposta per il giorno 2 giugno 1946 con il D.lt. 16 marzo
1946 n. 99 (in G.U. 23 marzo 1946 n. 69), emanato, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art.
13, comma 1, del D.lg.lt. n. 74 del 194684.
Come già detto, alla vigilia dell’importante appuntamento elettorale, Vittorio Emanuele III aveva già
abdicato in favore del figlio Umberto che aveva così assunto il titolo di “Umberto II Re d’Italia”.
Siffatta evenienza merita di essere qui ricordata perché all’epoca venne intesa come violazione della
“tregua istituzionale” sancita dal D.l.lt. n. 151 del 1944, tant’è che essa suscitò vivaci polemiche e reazioni anche
da parte del Governo, sia per l’irritualità che per l’inopportunità del gesto compiuto in quel particolare momento
storico 85.
È significativo annotare, in proposito, che per ridimensionare l’unilaterale decisione della successione al
trono disposta in favore del nuovo re, intervenne una vivace puntualizzazione di Togliatti (all’epoca Ministro di
Grazia e Giustizia). Il leader comunista infatti tenne a precisare che, non solo sotto il profilo giuridico ma anche e
soprattutto in termini politici, “tutti gli atti regolatori della questione istituzionale, dalla rinuncia del 1944 alla legge per il
referendum del 1946, sono stati fatti non unilaterali, ma bilaterali, conclusi cioè con l’accordo del Paese, dei suoi Partiti, del C.L.N.,
della Consulta, del Governo ”86.
È da chiarire, peraltro, che, a seguito dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, Umberto II con una
lettera indirizzata al Presidente del Consiglio De Gasperi aveva dichiarato di aver assunto il titolo di re d’Italia
solo per diritto di successione, ex art. 2 dello Statuto Albertino e non per prevaricare gli accordi sulla c.d. tregua
istituzionale 87.
Sicché, la predetta puntualizzazione di Togliatti era in effetti ultronea, anche perché nella predetta lettera
inviata al Presidente del Consiglio, Umberto II dichiarava che la sua posizione giuridica non mutava in nulla i
poteri costituzionali esercitati in qualità di luogotenente generale né modificava in alcun modo l’impegno assunto
nei confronti del referendum e della Costituente; in particolare, Umberto auspicava, nell’interesse del Paese, la
collaborazione del Governo fino alla decisione della consultazione popolare.
Difatti, proprio a seguito di dette dichiarazioni del nuovo re, venne approvato il Regio D.lgs. 10 maggio
1946 n. 262 (in G.U. 10 maggio 1946 n. 108) che - pur riconoscendo ad Umberto II il titolo di “Re d’Italia”,
formalmente consacrato poi da un solenne giuramento rivolto al popolo italiano - significativamente, non
conteneva più il rituale preambolo dell’investitura “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”88.
Il 2 giugno vennero, poi, effettuate le elezioni per la nomina dei Deputati della Costituente e,
contemporaneamente, venne svolto il referendum istituzionale dal quale scaturì il seguente risultato: 12.717.923
“voti validi complessivi” espressi a favore della Repubblica e 10.719.284 a favore della Monarchia (con 1.498.136
voti nulli)89.
La convocazione dei comizi elettorali non riguardò i Collegi elettorali della Venezia Giulia e della provincia di Bolzano,
per i quali l’art. 1, comma 2, del decreto n. 99 del 1946 demandò la convocazione a provvedimenti successivi. Per quanto
riguarda, invece, il Collegio elettorale di Trento-Bolzano, la convocazione fu limitata alla sola provincia di Trento, chiamata
ad eleggere cinque deputati (art. 1, comma 3).
85 Cfr. Barile, op. cit., pp. 97-98, laddove l’Autore definisce l’abdicazione da parte di Vittorio Emanuele III come un colpo di
Stato. Cfr., altresì, Novacco, op. cit., p. 80; Pizzorusso, op. cit., pp. 80-81; Mortati, op. cit., p. 158; Pergolesi, op. cit., pp. 72 ss..
86 Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 73.
87 L’art. 2 dello Statuto Albertino prevedeva che “lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario
secondo la legge salica”.
88 Cfr. Pergolesi, op. cit., p. 74, laddove si precisa che Umberto II – non potendo (almeno momentaneamente) prestare il
giuramento secondo l’art. 22 dello Statuto Albertino (“il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di
osservare lealmente il presente Statuto”) – nel proclama rivolto al popolo italiano solennemente giurò “davanti a Dio e alla Nazione
di osservare lealmente le leggi fondamentali dello Stato che la volontà popolare dovrà rinnovare e perfezionare”, confermando ancora una
volta di “rispettare come ogni italiano le libere determinazioni dell’imminente suffragio”.
89 Cfr. Novacco, op. cit., p. 81, laddove l’Autore evidenzia che, nei giorni immediatamente successivi al 2 giugno e fino alla
partenza di Umberto di Savoia per l’esilio di Cascais (13 giugno), l’attenzione di tutti si concentrò soltanto sui risultati del
voto referendario e fu trascurato l’esito delle elezioni dei deputati all’Assemblea Costituente. Cfr. pure L. I. di Camerana,
L’Italia della Luogotenenza, Corbaccio, Milano, 1996, il quale, proprio con riferimento a detti risultati referendari fa notare (p.
317), che “la sconfitta della Monarchia nasconde due sconfitte ancora più gravi: quella della sinistra che tra Partito socialista e Partito comunista
raggranella appena alla Costituente qualche seggio in più rispetto alla Democrazia cristiana; quella del Partito comunista che arriva terzo dopo gli
altri due partiti di massa”. Inoltre l’Autore, riportando il pensiero di un giornalista americano accreditato presso la Santa Sede,
riferisce che quest’ultimo comunicò al presidente Truman che “i comunisti hanno avuto una netta sconfitta. La Democrazia cristiana
una netta vittoria. La penisola può diventare il baluardo mediterraneo, che separerà l’Occidente democratico da ciò che sta rapidamente diventando
l’Europa Orientale comunista”. Il 2 giugno è il preludio del 18 aprile che sanzionerà per quasi cinquant’anni l’egemonia nazionalcattolica”.
84
19
In previsione di eventuali contestazioni, proteste e reclami, il 10 giugno ci fu una prima proclamazione
provvisoria90.
Il successivo 18 giugno il primo Presidente della Corte di cassazione a sezioni riunite – disattendendo le
riserve e le contestazioni interpretative espresse dal Procuratore Generale sul concetto di “maggioranza degli
elettori votanti” - proclamò l’esito del voto referendario che in tal modo divenne ufficiale e definitivo a favore
della nuova forma di Stato repubblicano 91.
Infine, la Suprema Corte fece pervenire all’Assemblea Costituente i verbali delle due adunanze del 10 e
del 18 giugno e, durante la seduta del 26 giugno, il neo-eletto Presidente della stessa Assemblea, Giuseppe Saragat
prese atto di tale comunicazione “la quale solennemente consacra(va) la forma di governo repubblicano prescelta dal popolo
italiano con atto della sua volontà sovrana”.
È significativo ricordare che, qualche giorno prima del predetto 26 giugno, il primo Governo De
Gasperi, per compiere un gesto di pacificazione nazionale, aveva disposto l’amnistia non solo per i reati
commessi dai fascisti ma anche per quelli compiuti dai partigiani durante il periodo della Resistenza. Il relativo
decreto del 22 giugno recava la firma del Ministro di Grazia e Giustizia Togliatti92.
Per quanto riguarda, poi, le elezioni “politiche” concernenti la nomina dei deputati alla Costituente i
risultati ribadirono l’esito delle precedenti elezioni amministrative nel senso che premiarono i tre partiti maggiori
(Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano e Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria), i quali
complessivamente ebbero circa il 75% del totale dei voti con la nomina di 426 deputati (207 alla DC, 104 al PCI
e 115 al PSIUP)93.
L’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta il 25 giugno 1946 presso l’aula delle sedute pubbliche
del Palazzo di Montecitorio, così come previsto dall’art. 4 del citato D.lg.lt. n. 98 del 1946. In via provvisoria, la
presidenza venne assunta dal deputato decano e cioè dall’illustre giurista Vittorio Emanuele Orlando. Subito
dopo venne deliberata la nomina del nuovo presidente nella persona del socialista torinese Giuseppe Saragat.
Contestualmente, sempre con effetto dal 25 giugno, in ottemperanza all’art. 1 del D.lgs. Presidenziale 24
giugno 1946 n. 48 (in G.U. 20 agosto 1946 n. 186), venne disposta la cessazione delle funzioni del Senato regio 94.
In seguito, nella terza seduta del 28 giugno, in ottemperanza a quanto disposto dall’art. 2 del D.lgs.lt. n.
98 del 1946, l’Assemblea Costituente, a maggioranza assoluta dei votanti 95 (323 voti favorevoli su 501), deliberò
la nomina del Capo provvisorio dello Stato nella persona dell’insigne avvocato Enrico De Nicola, già presidente
della Camera regia durante il periodo della marcia su Roma e “poi entusiastico sostenitore del “listone” nazionale alle
elezioni del 6 aprile 1924”96.
Appena De Nicola assunse la carica di Capo provvisorio dello Stato, l’allora Presidente del Consiglio De
Gasperi ritenne doveroso rassegnare formalmente le proprie dimissioni.
Lo stesso De Nicola, peraltro nel giro di 24 ore, conferì allo stesso De Gasperi l’incarico di formare un
nuovo Esecutivo che entrò, poi, in carica dal 13 luglio 194697.
Le norme per lo svolgimento del “referendum” istituzionale e per la proclamazione dei relativi risultati erano contenute
nel D.lg.lt. 23 aprile 1946 n. 219. I presidenti dei seggi consegnavano materialmente due schede a ciascun elettore ed il
Ministero degli Interni diramò apposite disposizioni, affinché lo spoglio delle schede referendarie avesse la precedenza su
quelle elettorali della Costituente.
91 Secondo quanto riportato da Pizzorusso (op. cit., p. 81), Pergolesi, (op. cit., p. 79) e Mortati (op. cit., p. 161), Falzone e Grossi
(op. cit., p. 373), Barile (op. cit., p. 98) furono assegnati alla Repubblica 12.717.923 “voti validi complessivi” ed alla Monarchia
10.719.284 (con 1.498.136 voti nulli). Al contrario, G. Ambrosini, Lezioni di diritto costituzionale, Parte Seconda, La Costituzione
Italiana, Casa Editrice Carlo Colombo, Roma, 1955, p. 23, riporta i seguenti risultati: voti dati alla Repubblica, n. 12.628.767;
voti dati alla Monarchia, n. 10.688.905. Sull’esito finale del voto referendario e sulla vicenda dei presunti brogli elettorali
denunciati dai monarchici, cfr. anche Vespa, op. cit., pp. 35 ss. e Novacco, op. cit., pp. 81 ss.. Cfr. anche Romano, op. cit., p.
336, laddove riferisce che, preso atto dell’esito sfavorevole del voto referendario, Umberto II “non volle esser responsabile di un
conflitto civile e lasciò Roma per il Portogallo (Cascais) dall’aeroporto di Ciampino il 13 giugno”.
92 Cfr. Novacco, op. cit., p. 91.
93 Cfr. R. Martucci, Storia costituzionale italiana, Ed. Carocci, 2002, p. 260; Novacco, op. cit., pp. 85-86.
94 L’art. 2 prevedeva, inoltre, che “l’Assemblea costituente delibererà sulla situazione giuridica del personale degli attuali senatori”. Cfr.
Pizzorusso, op. cit., p. 81, che sottolinea che il Senato “teoricamente sarebbe stato ancora in grado di funzionare”.
95 L’art. 2, comma 2, del predetto Decreto prevedeva che “per l’elezione del Capo provvisorio dello Stato è richiesta la maggioranza dei
tre quinti dei membri dell’Assemblea. Se al terzo scrutinio non sarà raggiunta tale maggioranza, basterà la maggioranza assoluta”. E’ da
notare che, ai sensi dell’art. 2 del medesimo Decreto, dal 18 giugno (giorno della proclamazione dei risultati definitivi del
voto referendario) al 28 giugno i poteri del Capo dello Stato vennero esercitati dal Presidente del Consiglio De Gasperi. Sul
punto, cfr. Pergolesi, op. cit., p. 80; Pizzorusso, op. cit., p. 81; Martucci, op. cit., p. 261.
96 Così Martucci, op. cit., p. 261.
97 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 90 ss.. In proposito, lo stesso Autore sottolinea (p. 92) che, in apertura del dibattito sulla fiducia
al secondo Governo De Gasperi e prima ancora delle dichiarazioni programmatiche dello stesso Presidente del Consiglio,
Piero Calamandrei sollevò una delicata questione giuridica su quanto disposto dall’art. 3 del D.lg.lt. 16 marzo 1946 n. 98, in
90
20
CAPITOLO III - I DIBATTITI SVILUPPATISI IN SENO ALLA COMMISSIONE DEI 75 (CON LE
SOTTOCOMMISSIONI), AL COMITATO DI REDAZIONE (C.D. “COMITATO DEI DICIOTTO”)
ED AL PLENUM COSTITUENTE SU GLI ARGOMENTI PIÙ QUALIFICANTI DEL NUOVO
ASSETTO COSTITUZIONALE ( PREAMBOLO ; FORMA GIURIDICA DELLO STATO ; RAPPORTI
TRA LO STATO E LA CHIESA CATTOLICA; INSERIMENTO NELLA COSTITUZIONE DEI
PARTITI POLITICI; ORDINAMENTO DELLA REPUBBLIC A (PARLAMENTO ; GOVERNO ; CAPO
DELLO STATO ); REGIONI ED ALTRI ENTI TERRITORIALI LOCALI; PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE E ORD INAMENTO GIURISDIZIONALE ; CORTE COSTITUZIONALE)
Nella quarta seduta del 15 luglio 1946, dopo la nomina del Capo provvisorio dello Stato, l’Assemblea
Costituente nominò una Commissione di 75 deputati (in proporzione delle rispettive rappresentanze politiche98)
con il compito di elaborare e proporre il progetto di una nuova Costituzione.
Riunitasi il 20 luglio successivo, la Commissione dei 75 nominò come presidente Meuccio Ruini,
personalità di spicco del disciolto partito della Democrazia del Lavoro, dotato, fra l’altro, di esperienza di
Governo ed, altresì, esperto di studi storici e sociali99.
Prima dell’avvio dei lavori, Ruini in sede di Adunanza plenaria della Commissione indicò il suo pensiero
sui criteri di svolgimento degli stessi.
Pur a conoscenza del fatto che esistevano approfonditi documenti elaborati dai gruppi di lavoro
nominati nell’ambito del Ministero per la Costituente, egli fu favorevole all’idea che la Commissione dovesse
operare senza preconcetti e che, in particolare, non dovesse considerarsi a priori vincolata dall’esito dei lavori dei
predetti gruppi di studio.
Tuttavia, nella seduta di martedì 23 luglio 1946, per agevolare la trattazione dei vari argomenti, egli
propose una “distribuzione” della Commissione in tre Sottocommissioni, proposta subito recepita da uno specifico
regolamento (nove articoli) oggetto di un ordine del giorno presentato dall’onorevole Giuseppe Dossetti ed
approvato il 26 luglio successivo: A) la prima Sottocommissione (presieduta dall’onorevole Umberto Tupini),
dedicata ai diritti e doveri dei cittadini; B) la seconda (presieduta dall’onorevole Umberto Terracini), dedicata
all’architettura costituzionale dello Stato; C) la terza (presieduta dall’onorevole Gustavo Ghidini) per i diritti e
doveri economico-sociali100.
Per accelerare lo svolgimento dei lavori, vennero poi create, nell’ambito delle Sottocommissioni, specifiche
sezioni specializzate in talune materie101.
merito ai limiti della delega del potere legislativo al Governo riguardanti la materia costituzionale, nonché le leggi elettorali e
le leggi di approvazione dei trattati internazionali, “le quali saranno deliberate dall’Assemblea”. Al fine di estendere tali limiti,
Calamandrei precisò che l’Assemblea Costituente dovesse comunque operare come organo normale di controllo politico
sull’esercizio del potere legislativo da parte del Governo e che si dovesse procedere alla istituzione di commissioni speciali
per l’esame dei disegni di legge presentati dallo stesso Governo. Sulla problematica del potere legislativo delegato al
Governo, in virtù del citato Decreto n. 98 del 1946, cfr. anche Pergolesi, op. cit., pp. 308-309.
98 Furono indicati 26 nomi dell’area democristiana, 15 dei Socialisti, 12 dei Comunisti e 22 delle forze politiche minori.
99 Nel periodo pre-fascista, Meuccio Ruini era stato eletto Deputato nella lista radicale (1913 e 1922) ed aveva rivestito
giovanissimo la carica di Consigliere di Stato. Dal 19 gennaio 1919, durante il Governo Orlando, fu Sottosegretario di Stato
al Ministero dell’Industria, Commercio e lavoro (carica rivestita anche durante il primo Governo Nitti) e nel secondo
Ministero Nitti fu nominato Ministro delle Colonie (dal 21 maggio al 15 giugno 1920). Nel 1924, fondò insieme a Giovanni
Amendola il movimento politico antifascista Unione nazionale, nell’ambito del quale assunse la direzione del settore
dedicato ai problemi economici e finanziari”. Proprio a causa di tale attività, durante il periodo fascista fu emarginato dalla
vita politica, professionale e sociale e subì l’espulsione dal Consiglio di Stato, nonché il divieto dell’esercizio della
professione forense e dell’attività di docente. Sempre durante il periodo fascista, nel 1942 fondò con Ivanoe Bonomi il
Partito della Democrazia del Lavoro, in rappresentanza del quale entrò a far parte del C.L.N. dalla sua istituzione. Dopo il
crollo del fascismo, fu nominato Ministro senza Portafoglio del secondo Governo Bonomi e Ministro dei Lavori Pubblici
nel successivo ed ultimo Governo Bonomi. Nel 1945 fu, inoltre, nominato presidente del Comitato Interministeriale della
Ricostruzione e, durante il Ministero Parri, divenne anche titolare del neo-istituito Ministero della Ricostruzione (D.lgt. 21
giugno 1945 n. 378). Sempre nel dopoguerra, fu nominato Presidente del Consiglio di Stato, carica che rivestì fino al 1947.
Infine, durante la prima Legislatura repubblicana, fu nominato Presidente del Senato, dal 25 marzo 1953 al mese di giugno
dello stesso anno (il 25 giugno si aprì la seconda Legislatura).
100 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VI, pp. 5 ss..
101 In particolare, la prima Sottocommissione venne divisa in due Sezioni, rispettivamente dedicate alle disposizioni generali
e ai diritti e doveri dei cittadini; la seconda Sottocommissione venne divisa in quattro Sezioni: 1ª) Parlamento; 2ª) Capo dello
21
Un altro suggerimento espresso da Ruini sempre nella seduta del 23 luglio 1946, fu quello relativo alla
“lunghezza” della Costituzione. In proposito, il presidente Ruini fece presente che le Costituzioni moderne non
possono essere così brevi come nel passato, anzi devono essere lunghe come, ad esempio, la Costituzione di
Weimar che constava di 180 articoli, quella austriaca (150 articoli, suddivisi in lunghissimi paragrafi) e quella russa
(150 articoli, “scarni e sintetici”).
Un’ultima “raccomandazione” fu quella di fare una Costituzione “per quanto possibile” italiana: “si dovranno
tener presenti le Costituzioni emanate nelle varie Nazioni, specialmente dell’interguerra; ma non copiarle
meccanicamente. Se, ad esempio, la costituzione, nel primo articolo ripetesse la formula della Costituzione di
Roma del 1849 e cioè: “Il popolo romano è una Repubblica democratica. Ogni potere emana dal popolo”, essa
riallaccerebbe ad un precedente italiano, confermato poi dalle altre nazioni” 102.
Sempre nel corso della medesima riunione del 23 luglio, l’onorevole Zuccarini sollevò il tema della rigidità
o flessibilità della Costituzione, proponendo di elaborare due Costituzioni: una rigida “destinata a resistere in permanenza
attraverso il tempo” con una formulazione breve; un’altra “per i particolari, giacché bisognerà preparare delle disposizioni
modificabili e perfezionabili nel tempo, secondo i suggerimenti della esperienza, senza che abbiano cioè la stessa caratteristica di
stabilità”. Intervenendo in proposito, l’onorevole Vanoni fece notare che una siffatta proposta sarebbe stata,
comunque, discussa in sede di Plenum della Commissione e non nell’ambito delle Sottocommissioni.
Il successivo 25 ottobre 1946, sempre in sede di Adunanza Plenaria, vennero poi esaminate le direttive di
massima da seguire per la redazione del progetto di Costituzione.
A tal proposito, l’onorevole Perassi richiamò l’attenzione su due punti: il primo, riferito al fatto se poteva
essere conveniente includere nella nuova Carta costituzionale anche principi astratti e programmatici ovvero se
occorreva introdurre soltanto norme di portata concreta; l’altro, riferito al fatto se la Costituzione dovesse essere
elastica o rigida.
Nella stessa Adunanza, poi, l’onorevole Bozzi (anche a nome di altri colleghi103) propose l’approvazione
di un ordine del giorno contenente i seguenti tre punti: “1°) la Costituzione dovrà essere il più possibile semplice, chiara e
tale che tutto il popolo possa comprendere; 2°) il testo della Costituzione dovrà contenere nei suoi articoli disposizioni concrete, di
carattere normativo e costituzionale; 3°) la Costituzione dovrà limitarsi a norme essenziali di rilievo costituzionale e di supremazia
sopra tutte le altre norme, lasciando lo sviluppo delle disposizioni conseguenti a leggi che non richiedano, per la loro eventuale
modificazione, il ricorso al processo di revisione costituzionale” 104.
Per quanto riguarda i rilievi formulati dall’onorevole Perassi, l’orientamento della Commissione fu quello
di concepire una Costituzione contenente norme concrete, salvo poi inserire come premessa agli articoli alcuni
principi di ordine programmatico.
Per quanto riguarda l’ordine del giorno dell’onorevole Bozzi, esso venne approvato con un
emendamento aggiuntivo sul secondo punto, nel senso che le disposizioni normative dovevano essere concrete
“anche nel campo economico e sociale”.
Sempre allo scopo di stabilire le direttive di massima, nella successiva seduta di giovedì 28 novembre
1946, il presidente Ruini presentò uno schema sommario di Costituzione da utilizzare come guida per la discussione e
lo svolgimento dei lavori105.
Dopo aver fissato le direttive di massima, su proposta del repubblicano Giovanni Conti venne, poi,
creato un Comitato di redazione (il c.d. “Comitato dei Diciotto”). Tale Comitato, che aveva compiti di coordinamento
redazionale, presentò in definitiva il testo finale che venne sottoposto prima all’esame dell’Adunanza plenaria
della Commissione dei 75 e, poi, all’esame del Plenum costituente per la discussione pubblica e l’approvazione
finale 106.
Stato; 3ª) Governo e Capo del Governo; 4ª) Garanzie, Alta Corte, ecc.; ed, infine, la terza Sottocommissione fu suddivisa in
due Sezioni: 1ª) direttive di organizzazione economica; 2ª) direttive di organizzazione sociale del lavoro.
102 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VI, p. 6.
103 Gli altri commissari che, unitamente a Bozzi, elaborarono questo ordine del giorno erano gli onorevoli Lombardi,
Cevolotto, Fanfani, Perassi, Calamandrei e Dominedò.
104 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VI, p. 44.
105 Lo schema prevedeva un preambolo; una parte prima riferita alle disposizioni generali; una parte seconda relativa ai diritti
e doveri dei cittadini; una parte terza riguardante l’organizzazione costituzionale della Repubblica; una parte quarta
contenente le disposizioni finali e transitorie. Tale schema era sostanzialmente conforme a quello pure predisposto
dall’onorevole Calamandrei.
106 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 158 ss.. Cfr. anche Falzone e Grossi, op. cit., p. 374, laddove gli Autori riportano i nominativi dei
deputati che fecero parte inizialmente del “Comitato dei 18”: Ruini in qualità di presidente della Commissione dei 75;
Tupini, Terracini e Ghidini, quali presidenti delle Sottocommissioni; Perassi, segretario; Grassi, Marinaro, Ambrosini,
Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Rossetti, Fanfani, Fuschini, Grieco, Moro, Paolo Rossi e Togliatti. Successivamente,
alcuni si dimisero ed altri assunsero incarichi ministeriali, cedendo il posto ad altri colleghi. Tra coloro che subentrarono, si
22
È da notare che detto Comitato introdusse modifiche non solo formali ma anche sostanziali rispetto ai
testi elaborati dalle Sottocommissioni 107.
Il testo del Comitato passò all’esame della Commissione, la quale apportò solo lievi modifiche,
presentando poi il progetto definitivo all’esame dell’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1947.
È da notare ancora che il lavoro della Commissione dei 75 ed ancora quello del Comitato dei Diciotto
non fu agevole perché - volendo evitare di recepire passivamente l’esperienza di altri Paesi ed, in particolare,
quella della Francia 108 – la Commissione stessa fu costretta a redigere un progetto di Costituzione che risultasse il
più possibile aderente alle peculiari caratteristiche (storico, culturali, religiose e politiche) esigenze del popolo
italiano.
Al riguardo, una notevole difficoltà era costituita dal fatto che le idee culturali, politiche e religiose dei 75
membri non erano affatto omogenee; anzi, risultavano ampiamente difformi e discordi su diversi argomenti non
solo procedurali, ma anche sostanziali.
A fronte di siffatte difficoltà operative, una meritevole opera di conciliazione e di raccordo venne svolta
non solo dal presidente della Commissione Ruini, ma anche dal presidente dell’Assemblea Terracini. Né va, poi,
trascurata in tal senso l’opera di mediazione svolta da Palmiro Togliatti. Ciò spiega, ad esempio, come nel
contrasto tra i vari gruppi politici su taluni argomenti di fondo (Patti Lateranensi; controllo sociale sull’attività
economica; forma di governo; poteri del Presidente della Repubblica; regionalismo ed ambito delle autonomie
regionali; diritti della persona, ecc.) si pervenne a soluzioni conciliative che, poi, vennero in gran parte recepite
nel testo finale approvato dal Plenum.
1. I lavori della Commissione ebbero tra i primi argomenti di discussione quello relativo al c.d.
“preambolo”, eventualmente da inserire come prefazione o proemio per indicare i principi ispiratori del nuovo
sistema costituzionale 109.
La questione non era soltanto quella estetico-formale di una mera proclamazione di principi derivanti dal
diritto naturale ovvero dalla religione ovvero dai rapporti sociali, bensì quella di ordine prettamente giuridico
relativa alla valenza rigorosamente precettiva o meno da assegnare a detto “preambolo”; ciò, a fronte delle future
attività di approvazione delle leggi ordinarie (da parte del Parlamento) e di interpretazione delle stesse (da parte
del giudice); entrambi (Parlamento e giudice) da considerare in ipotesi vincolati al rispetto dei principi medesimi,
in quanto sempre ed in ogni caso intangibili, pur nel contesto di una costituzione dichiaratamente “rigida” ma
comunque suscettibile di revisione con speciali procedure, come quella che si andava ad approvare.
Il seguito di tale dibattito sul “preambolo” - che lo stesso Ruini ed altri numerosi componenti della
Commissione chiedevano che fosse risolto in senso affermativo110 - ebbe invece esito negativo, tant’è che lo
stesso Comitato di Redazione ritenne di non predisporre alcun “preambolo” e di presentare il progetto definitivo
senza alcuna prolusione introduttiva111.
segnalano: Mortati, Laconi, Vito Reale, Targetti, Lucifero, Condorelli, Giovanni Leone, Colitto, Fausto Gullo, Tosato, Conti
e Giolitti.
107 Cfr. amplius Falzone e Grossi, op. cit., pp. 380 ss..
108 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 97 ss., laddove l’Autore ricorda che, nel 1946, nello stesso periodo in cui la Commissione dei 75
aveva avviato i propri lavori e cercava modelli costituzionali di altri Paesi cui ispirarsi, si pensò anche al modello della Quarta
Repubblica francese. Lo stesso Autore fa notare che, proprio in tale periodo, anche in Francia si stava elaborando la nuova
Costituzione. In particolare, subito dopo l’elezione dell’Assemblea nazionale (5 novembre 1945), in Francia venne nominata
una commissione redigente che, lavorando per circa sei mesi, presentò un progetto di costituzione che fu, però, bocciato a
seguito di apposito referendum popolare. Successivamente, nella stessa data in cui si svolsero in Italia (2 giugno 1946), si
svolsero le nuove elezioni per eleggere la nuova Assemblea nazionale che co ncluse i propri lavori sempre entro il 1946, in
circa tre mesi.
109 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VI, p. 6, Commissione per la Costituzione, Adunanza Plenaria, Seduta di
Martedì 23 luglio 1946, durante la quale il presidente Ruini affermò che “si deve esaminare se la Costituzione dovrà avere un
preambolo. Alcuni argomenti che non si prestano ad essere formulati come norme giuridiche, potrebbero trovarvi posto”.
110 In proposito, merita ricordare che Calamandrei, in sede di Plenum costituente (4 marzo 1947) aveva proposto
l’approvazione del seguente ordine del giorno: “L’Assemblea Costituente, mentre ritiene opportuno che nella nuova Costituzione italiana
gli articoli che riconoscono veri e propri diritti o che disciplinano organi e poteri siano preceduti da un preambolo preliminare nel quale possano
essere riassunti in forma di propositi programmatici le direttive sociali e politiche alle quali dovrà ispirarsi la futura legislazione della Repubblica
italiana, rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti in una parte preliminare” (cfr. La
Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. 160).
111 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 121 ss..
23
2. Fin dalle prime sedute in cui vennero affrontate le questioni preliminari, e precisamente nella seduta
del 5 settembre 1946 della seconda Sottocommissione, venne in rilievo la discussione sulla forma giuridica dello
Stato.
A fronte delle tesi minoritarie della “democrazia diretta” (propugnata dall’onorevole Andrea Finocchiaro
Aprile112) e della “repubblica presidenziale” (caldeggiata da Calamandrei, a giudizio del quale la configurazione
giuridica di uno Stato autorevole avrebbe evitato gli inutili bizantinismi del sistema parlamentare e, quindi, le
inevitabili pastoie decisionali in sede operativa113), prevalse l’orientamento quasi unanime della Sottocommissione
di dar luogo ad una repubblica parlamentare. In base a tale orientamento, la soluzione finale fu quella di configurare il
Capo dello Stato come persona diversa dal Capo del Governo; il Presidente del Consiglio dei ministri e, su
proposta di questo, i ministri come Organi investiti con una nomina dal Capo dello Stato, ma in seno alla
maggioranza parlamentare e in condizioni di non poter restare al potere se venga meno la fiducia loro accordata
dal Parlamento (cfr. l’art. 86, comma 2, del progetto di costituzione approvato dalla Commissione dei 75 ed il
vigente art. 92, comma 2, Cost.); il Parlamento (composto dalla Camera dei Deputati e dal Senato della
Repubblica) inteso come espressione elettiva (a suffragio universale e diretto) della sovranità che appartiene al
popolo italiano e che la esercita in base al principio democratico 114.
L’unico risultato fu quello della votazione di un ordine del giorno presentato dall’onorevole Tommaso
Perassi, secondo cui “la seconda Sottocommissione, udite le relazioni Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del
governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si
pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a
tutelare le esigenze di stabilità dell’azione del governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”115.
3. Un altro argomento di dibattito, di interesse generale e particolarmente controverso nell’ambito delle
diverse ideologie dei partiti, fu quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica.
In proposito, bisogna ricordare che l’art. 1 dello Statuto Albertino prevedeva che la religione cattolica,
apostolica romana era la sola religione dello Stato, mentre gli altri culti esistenti erano soltanto tollerati
conformemente alle leggi.
A fronte di tale statuizione, i lavori della Commissione vennero concentrati su due relazioni di segno
opposto: quella dell’onorevole Cevolotto (che proponeva l’adozione del modello costituzionale statunitense e,
quindi, di un sistema in cui la religione non era affatto un affare di Stato, bensì una esigenza di carattere
meramente privato) e quella dell’onorevole Dossetti (che proponeva la conservazione della formula dello Statuto
Albertino).
Trattandosi di posizioni del tutto divergenti, per superare l’impasse fu necessaria la formulazione di una
proposta conciliativa che il presidente Tupini elaborò proponendo un nuovo testo composto di due parti. La
prima parte (condivisa anche dall’onorevole Togliatti) conteneva l’enunciazione secondo cui “lo Stato e la Chiesa
Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. La seconda parte (non condivisa dall’onorevole
Togliatti) conteneva l’enunciazione secondo cui i rapporti i rapporti tra Stato e Chiesa dovevano intendersi
regolati dai Patti Lateranensi del 1929.
Il dissenso dell’onorevole Togliatti sulla seconda parte era giustificato sulla base di un argomento
“psicologico” e di un argomento “dottrinario”: il primo basato sul fatto che la costituzionalizzazione dei Patti
Cfr. Balladore Pallieri, op. cit. p. 99, secondo cui con la locuzione “democrazia diretta” s’intende l’ipotesi in cui “il popolo
prenda concrete decisioni riguardo il governo dello Stato: che sia ad esempio nei poteri del popolo di emanare le leggi o di abrogarne quelle esistenti
(il quale è pur esso un modo di legiferare poiché abrogare una legge preesistente significa emanare una nuova legge che pone termine alla prima)”.
113 Siffatta argomentazione di Calamandrei non ebbe seguito a causa della prevalente e forte ostilità dei partiti nei confronti
dell’idea di una repubblica presidenziale. Per un’analisi dell’idea di “repubblica presidenziale” caldeggiata da Calamandrei,
cfr. l’articolo del 19 settembre 1946 “Valore e attualità della repubblica presidenziale”, oggi raccolto in Calamandrei, op. cit., pp. 7577.
114 Sul contenuto giuridico e sulla diversità dei significati attribuiti e/o ricavabili dal richiamo del principio democratico,
espressamente contenuto negli artt. 1, 10, 39, 49 e 52 della Costituzione, cfr. lo studio di V. Uccellatore, in Studi per il
centocinquantenario del Consiglio di Stato, Ed. Poligrafico dello Stato, 1981, Volume I, pp. 3 ss.. E’ da rilevare, in particolare, che
in tale studio, l’Autore richiama il pensiero critico di Rousseau sul concetto di democrazia e sui limiti “democratici” del
sistema rappresentativo parlamentare, nonché il pensiero critico di Lelio Basso (membro dell’Assemblea Costituente),
secondo cui (p. 18) “gli istituti rappresentativi operano un distacco fra eletti ed elettori che, quindi, dovrebbe venire superato da un ordinamento
democratico con una democrazia politica avente per presupposto un assetto sociale che consenta a tutti la partecipazione alla vita dello Stato ed
elimini i contrasti violenti fra le classi ordinando con norme giuridiche i fenomeni economici della produzione e distribuzione della ricchezza in
modo da soddisfare gli interessi della maggior parte del popolo; altri ha pure rilevato che in realtà il popolo è governante solo nel momento elettore
mentre per il resto è prevalentemente governato ”.
115 Cfr. Novacco, op. cit., p. 123.
112
24
Lateranensi avrebbe comportato il riconoscimento di un’opera del governo fascista; l’altro argomento basato sul
fatto che, nell’ideologia comunista, lo Stato non poteva avere una propria religione116.
È da rilevare, tuttavia, che l’opposizione dell’onorevole Togliatti non fu assolutamente rigida, tant’è che
egli propose in definitiva di far votare al Plenum un ordine del giorno solenne che dichiarasse di ammettere la
separata vigenza (non di rilievo costituzionale) del Concordato e del Trattato del Laterano.
L’esito di tale dibattito si concluse con la formulazione dell’art. 5 approvato nel testo definitivo della
Commissione 117 e, poi, nel Plenum, con il testo dell’art. 7 della vigente Costituzione, in cui i Patti Lateranensi
vennero costituzionalizzati con la precisazione che le modificazioni degli stessi, accettate dalle due parti, non
richiedono procedimento di revisione costituzionale 118.
Proprio in applicazione di quest’ultimo procedimento, con la L. 25 marzo 1985 n. 121 (pubblicata nel
Suppl. Ord. alla G.U. 10 aprile 1985, n. 85) venne ratificato e fu data esecuzione all’Accordo, firmato a Roma il
18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, con il quale furono apportate modifiche al
Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (senza alcun procedimento di revisione costituzionale) 119.
4. Nell’autunno del 1946, venne in discussione la questione dell’inserimento nella Costituzione dei partiti
politici, in quanto ritenuti elementi basilari della struttura dello Stato.
In senso contrario a tale inserimento, si schierarono gli onorevoli Mancini e Merlin i quali, pur
appartenendo ad opposte fazioni politiche (l’uno socialista e l’altro democristiano), convergevano nell’idea che i
partiti dovessero rimanere fuori dall’architettura costituzionale di uno Stato democratico.
Favorevoli erano, invece, l’onorevole Basso e Calamandrei.
La soluzione finale che la Commissione approvò fu quella di inserire il riferimento costituzionale ai
partiti nell’articolo 47 (poi divenuto l’art. 49 nella stesura definitiva) all’interno del titolo IV (“Rapporti politici”)
della Parte I (“Diritti e doveri dei cittadini”) e non nella Parte II concernente l’“Ordinamento della Repubblica”.
È da notare, poi, che in sede di Plenum il problema dei partiti venne ripreso sotto un altro profilo, e cioè
sotto quello della organizzazione democratica degli stessi.
Gli onorevoli Calamandrei, Bozzi, Orlando, Ruggiero, tra gli altri, sottolinearono tale aspetto,
evidenziando che “una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i
programmi e in cui si scelgono gli uomini che vengono esteriormente eletti con i sistemi democratici” 120.
Cfr. Bocca, op. cit., p. 449, laddove l’Autore riferisce che “il dono più prezioso e più discusso di Togliatti ai cattolici è l’articolo 7 della
Costituzione, che porta pari pari, nel nuovo Patto sociale, il Concordato stipulato sotto il fascismo fra Stato e Chiesa a netto vantaggio di
quest’ultima. Togliatti dirà di aver ceduto a un ricatto democristiano: “Quando si parlò (…) del voto che si stava per dare, ci fu una dichiarazione
di voto di De Gasperi (…) in cui egli fece chiaramente comprendere che se l’articolo col richiamo ai patti lateranensi fosse stato respinto sarebbe
stato chiesto e deciso un secondo referendum, e (…) la Repubblica sarebbe probabilmente stata battuta perché sarebbe cambiata la posizione della
democrazia cristiana”.
117 L’art. 5 così recitava “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati
dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale. Le altre
confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti
con lo Stato sono regolati per legge, sulla base di intese, ove siano richieste, con le rispettive rappresentanze”.
118 L’approvazione dell’art. 7 avvenne durante la seduta del 20 marzo 1947 con una maggioranza di 350 voti favorevoli (203
espressi dai democristiani, 95 dai comunisti, 25 dai Deputati del movimento qualunquista di Guglielmo Giannini, 11 dai
liberali ed i restanti 16 dai gruppi minori) e 149 voti contrari. E’ da notare, inoltre, che, sin dalla prima seduta dell’Assemblea
Costituente in data 4 marzo 1947, l’onorevole Calamandrei si era strenuamente opposto alla costituzionalizzazione dei Patti
Lateranensi. In particolare, per quanto concerne il comma 1 dell’art. 5, egli affermava che “si capisce che l’articolo 5 dica che lo
stato italiano – il soggetto della Costituzione – riconosce, se la vuol riconoscere, la sovranità della chiesa nel suo ordine. Ma non si capisce che la
chiesa riconosca la sovranità dello stato, la quale sovranità è il presupposto di questa Costituzione: se non ci fosse la sovranità, neanche potremmo
darci la Costituzione (…) questo è un articolo che potrebbe andare bene in un trattato internazionale, non in una Costituzione” e, per quanto
riguarda la formulazione del comma 2 dell’art. 5, che “attraverso questo richiamo (i.e. richiamo implicito), attraverso questo rinvio,
attraverso questo assorbimento di Patti Lateranensi nella Costituzione, che lo stesso presidente Ruini ha ammesso, si arriverà a questa
conseguenza: che per potere intendere quale sarà la vera portata della nostra Costituzione bisognerà che il lettore avvertito vi inserisca al punto
giusto, come se fossero scritte nella Costituzione stessa, molte disposizioni prese dal Trattato o dal Concordato. Non saranno scritte sulle righe, ma
fra le righe; e bisognerà leggerle, diciamo così, per trasparenza” (cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, pp. 160-161). Sullo
stesso argomento, cfr. anche l’estratto “contro l’inclusione dei Patti Lateranensi nella costituzione” del discorso pronunciato
all’Assemblea Costituente nella seduta del 20 marzo 1947, oggi contenuto in Calamandrei, op. cit., pp. 107 ss.. Per una
ricostruzione storico -politica della genesi storica del vigente art. 7 della Costituzione, cfr. amplius A. C. Jemolo, Chiesa e Stato
in Italia – Dalla unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, 1965, pp. 302 ss..
119 Sull’iter storico -politico che ha portato alla firma del Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, cfr. amplius A. C.
Jemolo, op. cit., pp. 232 ss..
120 Durante la seduta del 4 marzo 1947, Calamandrei propose di affidare ad una sezione della Corte Costituzionale “il potere di
giudicare se una associazione a fini politici abbia quei caratteri di metodo democratico alla cui osservanza sembra che la formula dell’art. 47 voglia
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25
In altri termini, si sostenne che l’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile
perché si abbia al di fuori di essi una vera democrazia.
In tal senso, durante la seduta del 21 maggio 1947, l’onorevole Ruggiero presentò un emendamento
modificativo121, sottolineando che la formulazione proposta considerava l’attività dei partiti come un fatto
esterno, ai fini della determinazione della politica del Paese: la finalità dell’emendamento era, invece, quella di
introdurre “il metodo democratico” anche nell’ambito della vita del partito, in modo tale da considerarlo “come un
principio imprescindibile anche per la struttura interna di un partito”.
Tale emendamento venne avversato, in particolar modo, da Togliatti e Marchesi, i quali non tolleravano
che l’organizzazione dei partiti politici potesse essere sottoposta a controlli esterni.
L’esito di tale dibattito non ebbe il risultato sperato, tant’è che il testo proposto dalla Commissione
rimase inalterato e venne approvato secondo la formulazione del vigente art. 49.
5. Un altro argomento di grande rilevanza - ancora oggi di scottante attualità (a seguito dell’approvazione
della L. Cost. 18 ottobre 2001 n. 3 che ha modificato il Titolo V della Parte seconda della Costituzione 122 e del
recentissimo varo, in data 23 marzo 2005, da parte del Senato del Disegno di L. Cost. che reca modifiche alla
Parte seconda della Costituzione) - è quello delle autonomie regionali e degli altri enti locali. Esso fu oggetto di accesi
dibattiti sia in sede di Commissione dei 75 che in Assemblea Costituente.
L’esito di tali dibattiti fu la costituzionalizzazione dell’ordinamento regionale che rappresenta una delle
più rilevanti novità introdotte nella nuova Carta fondamentale della Repubblica italiana 123.
In passato, i precedenti storici in materia erano costituiti dalla disciplina dettata dallo Statuto Albertino
del 1848 e da alcuni disegni di legge di riforma, presentati alla Camera dei Deputati nel 1861 dal Governo
Cavour. In particolare, lo Statuto Albertino prevedeva l’esistenza solo delle “istituzioni comunali e provinciali” e delle
relative circoscrizioni, demandandone la disciplina ad appositi atti legislativi (cfr. art. 74). Sopravanzando la
previsione di detta norma, i progetti legislativi del 1861 - formalmente a nome dell’allora Ministro dell’Interno
Marco Minghetti - delineavano un disegno di decentramento ad ampio respiro, caratterizzato dall’istituzione di
enti intermedi tra Stato e province (regioni), intesi come circoscrizioni amministrative dello Stato e diretti da un
Governatore (un Prefetto ante litteram) chiamato ad espletare localmente importanti funzioni di competenza del
Ministro dell’Interno e di altri Ministri. A tali enti era attribuita la qualifica di enti autarchici con propri compiti,
sia pure molto limitati, mentre allo Stato centrale rimanevano le competenze in materia di politica estera e sui
grandi servizi di utilità nazionale (ad esempio, difesa, ferrovie, porti, poste e telegrafi, ecc.). Per quanto riguarda i
comuni, era poi previsto che i sindaci fossero eletti dal Consiglio comunale (e, quindi, non più dal re).
Nel conteso storico di riferimento, (e cioè nell’ambito di uno stato appena “unificato”), tutti questi
progetti furono fortemente avversati dalle forze politiche e dalla stessa Commissione parlamentare che avrebbe
avuto il compito di elaborare la relazione per l’Assemblea parlamentare ed, in particolare, proprio dal relatore
onorevole Tecchio, tant’è che il Governo fu costretto a ritirarli ed a presentare alcune “disposizioni transitorie”
sull’ordinamento amministrativo dello Stato, nel cui ambito non era più rinvenibile alcun riferimento
all’istituzione delle regioni.
A distanza di quasi un secolo, in sede di Commissione dei 75 e di Assemblea Costituente, la questione
dell’istituzione delle autonomie regionali e dei relativi modelli costituzionali venne portata all’ordine del giorno
fin dalla seduta del 26 luglio 1946. Diversissime erano le impostazioni giuridiche: talune proposte erano
caratterizzate da un federalismo spinto (Finocchiaro Aprile), altre sostenevano un modello di centralismo ispirato
al sistema costituzionale francese e già adottato dopo l’unificazione d’Italia nel 1861124.
In particolare, nel più ampio contesto di opinioni favorevoli all’istituzione delle Regioni (da taluni intese
come enti di mero decentramento amministrativo, da altri come enti di decentramento politico sempre
nell’ambito dello Stato unitario, da altri ancora come enti federati nell’ambito di uno Stato federale), i modelli
condizionare il riconoscimento dei partiti”. In tal modo, “vi sarebbero garanzie molto più sicure per poter impedire ai partiti antidemocratici di
risorgere ed ai partiti democratici di essere soppressi e perseguitati da soprusi ed arbitri di polizia” (cfr. La Costituzione della Repubblica cit.,
Volume I, pp. 164-165).
121 Il testo dell’emendamento all’art. 47 (oggi art. 49) era il seguente: “Tutti i cittadini hanno il diritto di organizzarsi in partiti che si
formino e concorrano, attraverso il metodo democratico, alla determinazione della politica nazionale”.
122 Cfr. anche la L. 5 giugno 2003 n. 131, recante “disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3”.
123 Cfr. la relazione del Presidente della Commissione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, presentata alla
Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio 1947, in La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. LXXXV,
laddove Meuccio Ruini afferma che “l’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su
basi di autonomia; e può avere portata decisiva per la storia del Paese”.
124 Cfr. Novacco, op. cit., pp. 103 ss..
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esaminati dalla Commissione dei 75, per delineare l’autonomia regionale, prevedevano: a) il semplice
decentramento c.d. “burocratico”, con la formazione di circoscrizioni regionali che avrebbero curato gli interessi
regionali in coordinamento con organi del Governo centrale distaccati in loco ed all’uopo istituiti; b) il
“decentramento autarchico”, con l’attribuzione alle Regioni della personalità giuridica e del potere di curare
autonomamente (con proprie norme regolamentari) i propri interessi a mezzo di propri organi; c) l’autonomia di
carattere politico e costituzionale, con l’attribuzione alle Regioni di “diritti propri” e di una potestà legislativa in
senso formale; d) il modello federale, sul tipo di quello statunitense 125.
Per studiare e svolgere un’opera di mediazione tra le cennate proposte contenute nei vari ordini del
giorno presentati in materia, fu nominato un apposito Comitato tecnico composto da dieci membri in rappresentanza delle
varie forze politiche 126.
Alla fine dei lavori, la Commissione decise di escludere il modello federalista proposto da Finocchiaro
Aprile. In proposito, nella relazione all’Assemblea, il presidente Ruini precisò che “la Commissione è stata unanime
per l’istituzione della Regione. Questa non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge lo statuto di una Regione, lo
Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa; ma si arresta prima della soglia
federale e si attiene al tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini”127.
Prescelta invece la figura dell’Ente costituzionale dotato di autonomia politica e legislativa, la discussione
successiva si incentrò, poi, soprattutto sull’ampiezza della potestà legislativa da attribuire all’Ente medesimo.
Secondo una prima tesi, tale potestà avrebbe dovuto essere limitata alla sola integrazione ed attuazione dei
Cfr. Ambrosini, op. cit., p. 94.
Tre democristiani (Gaspare Ambrosini, Giuseppe Codacci Pisanelli e Giovanni Uberti); due socialisti (Giulio Bordon e
Edgardo Lami Starnuti); due della sinistra repubblicana ed azionista (Oliviero Zuccarini ed Emilio Lussu); due esponesti
della destra (Luigi Einaudi e Pietro Castiglia); ed, infine, un membro appartenente al partito comunista (Ruggero Grieco).
Cfr. NOVACCO, op. cit., p. 105.
127 Cfr. la relazione del Presidente della Commissione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, presentata alla
Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio 1947, in La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. LXXXVI. In
proposito, è da notare che il 23 marzo 2005, il Senato della Repubblica ha approvato in seconda deliberazione il Disegno di
Legge costituzionale n. 2544-B, d’iniziativa del Governo, recante “modifiche alla Parte II della Costituzione”. Al riguardo, nella
relazione illustrativa al predetto DDL, è stato evidenziato che lo scopo della riforma è quello di imprimere maggiore impulso
alle riforme costituzionali dell’ordinamento della Repubblica in senso federalista, già avviate con la legge costituzionale 18
ottobre 2001 n. 3, recante “modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” e con il successivo referendum dell’8
novembre 2001. In particolare, per quanto riguarda il Parlamento, è prevista l’istituzione del Senato federale della
Repubblica, eletto a suffragio universale e diretto su base regionale e composto da 252 senatori, eletti contestualmente
all’elezione del rispettivo Consiglio regionale o Assemblea regionale e, per la Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol, dei
Consigli delle Province autonome (cfr. artt. 1 e 3 del citato DDL costituzionale che modificano gli artt. 55 e 57 Cost.). In
coerenza con l’istituzione di tale nuovo Organo - come si evince dalla citata relazione illustrativa - è stato introdotto un
modello di bicameralismo c.d. “asimmetrico”, in base al quale la Camera dei Deputati o il Senato federale (a seconda delle
materie trattate) esaminano in via prioritaria i progetti di legge, con possibilità da parte dell’altro ramo del Parlamento di
proporre modifiche (entro trenta giorni dall’approvazione), sulle quali poi si delibera in via definitiva da parte della prima
Camera investita per competenza (cfr. art. 14 del DDL che modifica l’art. 70 Cost.). L’attuale sistema di bicameralismo c.d.
“perfetto o eguale” sarà, invece, conservato sia per alcune materie specificamente individuate sia, in via residuale, per alcune
tipologie di leggi non altrimenti indicate dall’articolo 117 Cost., quale “disposizione-parametro” per un primo riparto delle
suddette competenze tra le due Camere (cfr. relazione illustrativa). Sempre al fine di riformare in senso federalista la Carta
costituzionale vigente, l’art. 39 del DDL in esame prevede una serie modifiche ed integrazioni all’art. 117 Cost., il quale come noto – elenca tassativamente le materie in cui lo Stato conserva la potestà legislativa esclusiva e le materie che vengono
riservate alla potestà legislativa ripartita o concorrente delle Regioni. In particolare, il comma 10 del predetto art. 39
sostituisce integralmente il comma 4 dell’art. 117 Cost., attribuendo alle Regioni la potestà legislativa esclusiva in determinate
materie particolarmente rilevanti e delicate, quali: l’assistenza e l’organizzazione sanitaria; l’organizzazione scolastica, la
gestione degli istituti scolastici e di formazione, fatta salva l’autonomia delle stesse istituzioni; la definizione della parte dei
programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; la polizia amministrativa regionale e locale. Anche nella
nuova formulazione dell’art. 117, comma 4, è stata, comunque, mantenuta la clausola residuale che attribuisce alla potestà
legislativa regionale “ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (lettera e) del comma 4). Sempre
nell’ottica del nuovo impianto costituzionale, si inseriscono le modifiche all’articolo 118 Cost., concernenti, tra l’altro,
l’istituzione della Conferenza Stato-Regioni per realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi ed intese, nonché
la previsione con legge ordinaria dell’esercizio in forma associata delle funzioni dei piccoli comuni e di quelli situati nelle
zone montane, attribuendo a tali forme associative la medesima autonomia riconosciuta ai Comuni. Si segnala, poi,
l’inserimento dell’art. 127-bis, il quale prevede la proponibilità da parte dei Comuni, delle Province e delle Città
metropolitane di questioni di legittimità costituzionale delle leggi o degli atti aventi forza di legge dello Stato o delle Regioni
che ritengano lesivi delle proprie competenze costituzionali. Infine, merita ricordare l’ulteriore inserimento dell’art. 127-ter
che disciplina il coordinamento interistituzionale tra il Senato federale della Repubblica ed i Comuni, le Province, le Città
metropolitane e le Regioni.
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principi e delle norme poste dalle leggi statali, al fine di adattarle ai bisogni locali. Un’altra tesi - che alla fine
prevalse - propugnava, invece, il conferimento alle Regioni di una potestà legislativa più ampia, “in una scala che va
da una serie di materie di competenza diretta ed esclusiva delle leggi regionali, ad un’altra di competenza concorrente e suppletiva,
perché anche lo Stato vi può, quando crede, legiferare, ed infine alla sfera d’integrazione e di applicazione delle leggi statali”128.
Sempre in sede di Commissione, vennero, ancora, approvate le norme di procedura per le ipotesi di
contrasto delle leggi regionali “con i principi generali dell’ordinamento dello Stato, con gli obblighi internazionali, con gli
interessi della Nazione e delle altre Regioni” (art. 109 del progetto di Costituzione). La Commissione espresse, inoltre,
parere favorevole unanime sull’attribuzione, “per ragioni sostanziali e per impegni già presi, (di) condizioni particolari
d’autonomia alle due grandi isole ed alle zone mistilingue di frontiera” (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto
Adige129). Venne, infine, proposta l’istituzione delle Regioni ad autonomia ordinaria (Piemonte, Lombardia,
Veneto, Liguria, Emiliana Lunense, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzi, Molise,
Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria 130) (art. 123 del progetto di Costituzione), demandando la decisione
sulla definitiva individuazione di queste ultime al Plenum costituente.
In seno a quest’ultimo, i lavori sulla questione delle autonomie regionali furono avviati nel mese di
maggio del 1947 e, precisamente, il dibattito entrò nel vivo il 28 ed il 29 maggio con gli interventi degli onorevoli
Einaudi e Mannironi, entrambi ampiamente favorevoli a tali autonomie.
In particolare, l’onorevole Einaudi - con un sentito intervento che richiamava in più tratti anche la
propria positiva esperienza personale, maturata durante l’esilio volontario in Svizzera negli anni del fascismo fece, tra l’altro, notare che “Governo locale non vuol dire abdicazione dello Stato” e che “ai consigli comunali, ai consigli
provinciali o regionali … questi poteri dovranno essere tali che essi siano finiti in se stessi, e gli amministratori locali non possan
ripararsi dietro ad un’autorizzazione che viene da Roma, da parte di un impiegato rispettabile quanto volete, ma che non conosce le
condizioni locali. se qualche consiglio comunale o qualche consiglio regionale commetterà errori, se metterà troppe imposte, se dissiperà
il danaro dei contribuenti, saranno e dovranno essere soltanto i contribuenti cittadini i quali manderanno a spasso questi
amministratori e li sostituiranno con amministratori più capaci”. A conclusione di tale intervento e riprendendo una
profezia dell’economista Mirabeau, Einaudi enfaticamente aggiunse che “se in uno Stato tutta la vita dipende dalla
Corte – Corte sta a significare il governo centrale – se tutta la vita dipende dalla Corte, se nessuno può ottenere promozioni e benefici
se non elemosinando e facendo anticamera nei corridoi della Corte; se in un paese coloro che vogliono ottenere concessioni e benefici
devono ricorrere alla Corte, quel paese è perduto perché ha perduto la linfa vera sua vitale. Il nemico che sta alle sue frontiere non avrà
bisogno di fare gran fatica per abbattere quel governo: basterà una piccola spinta ed esso cadrà. Noi, se potremo creare con il Titolo V
qualche cosa che sia veramente vivo e vitale, noi avremo posto un impedimento – non sufficiente, ma un impedimento – al ritorno
della tirannia !”131.
Durante la stessa seduta del 29 maggio, l’onorevole Mannironi evidenziò, inoltre, che, già prima del
fascismo, lo Stato aveva cercato di attuare il decentramento tramite l’istituzione dei Comuni e delle Province,
riconoscendo a tali enti autarchici non soltanto la personalità giuridica e la capacità di soggetti di diritto pubblico,
ma anche quelle particolari attitudini ad esplicare funzioni politiche ed amministrative. Sicché non potendo questi
ultimi enti ricevere tutte le deleghe e gli incarichi che lo Stato può dare ad essi, “perché vi sono bisogni delle collettività
che io direi periferiche, i quali superano e sovrastano i limitati territori di questi enti”, l’opportunità di costituire le Regioni,
quali enti territoriali autarchici ed autonomi, doveva comunque correlarsi all’esigenza di “provvedere a bisogni più
vasti, più larghi e più complessi, è necessario stabilire, con una specie di gerarchia, che esso deve essere superiore agli altri due enti
(Comuni e Province) superiore perché più importante e più vasto, in quanto deve provvedere a quei bisogni più vasti, più importanti e
più complessi cui ho accennato”132.
Nonostante l’orientamento generale e le autorevoli tesi a favore dell’istituzione dell’ordinamento
regionale, nella successiva seduta del 12 giugno 1947 vennero, tuttavia, presentati vari ordini del giorno, alcuni
fermamente contrari all’istituzione delle Regioni ed a favore del centralismo (a firma di Nitti ed altri); altri
favorevoli ed a favore dell’ordinamento regionale (a firma di Bonomi, Bozzi e Togliatti, ecc.).
Cfr. la relazione cit., in La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. LXXXVI.
Nel progetto di Costituzione presentato al Plenum costituente, la Commissione dei 75 formulò un’espressa riserva in
merito alla decisione di istituire, in aggiunta alle quattro citate Regioni ad autonomia speciale, anche il Friuli Venezia Giulia.
130 In proposito, è curioso ricordare che, nella seduta della Seconda Sottocommissione antimeridiana del 17 dicembre 1946,
la stessa Sottocommissione fu chiamata a decidere sull’istituzione di due nuove Regioni, il Salento e la Daunia: l’istituzione
della prima fu recepita nel testo presentato all’Assemblea Costituente, mentre la proposta di creare la Regione Daunia fu
respinta. E’, altresì, curioso notare che l’art. 48 del citato DDL di riforma della Parte II della Costituzione prevede la
modifica della denominazione delle Regioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige che sarà sostituita, rispettivamente, con
“Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste” e “Trentino-Alto Adige/Sudtirol” (cfr. art. 131 Cost.).
131 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VIII, p. 2004.
132 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume VIII, p. 2034.
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Superato l’an della questione, nelle sedute successive di giugno e luglio, la discussione si concentrò
soprattutto sui diversi emendamenti presentati, relativi all’ampiezza dei poteri legislativi da attribuire all’Ente
regionale, nonché all’elenco delle materie ad esso riservate, nonché alla configurazione delle Province e dei
Comuni.
Le soluzioni accolte nel Plenum, sostanzialmente conformi a quelle contenute nel progetto della
Commissione, furono quella di dividere le Regioni ad autonomia comune ed a Statuto speciale ed, inoltre, quella
di attribuire alle stesse specifiche competenze legislative in determinate materie, tassativamente elencate e con
efficacia circoscritta al territorio regionale. In particolare, alle Regioni ad autonomia speciale vennero attribuite
competenze legislative più ampie (comprendenti il potere di legiferare in via primaria ed esclusiva, nonché in via
concorrente ed integrativa, sempre nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento dello Stato e nel rispetto
dell’interesse nazionale e di quello delle altre Regioni); alle Regioni ad autonomia ordinaria vennero attribuiti
poteri legislativi ripartiti o concorrenti, ovvero integrativi delle norme contenute nelle leggi dello Stato.
Limitatamente alle stesse materie oggetto della loro potestà legislativa, alle Regioni vennero
automaticamente attribuite le relative funzioni amministrative, salvo quelle di interesse esclusivamente locale
esercitabili dai Comuni e dalle Province sulla base di leggi dello Stato. Sempre in virtù di queste ultime, alle
Regioni possono essere anche delegate altre funzioni amministrative.
Da ultimo, recependo parzialmente la proposta contenuta nel progetto della Commissione, il Plenum
approvò la norma che riconosceva autonomia finanziaria alle Regioni, con l’ulteriore attribuzione di una
circoscritta potestà tributaria (con tributi propri e quote di tributi erariali).
Il testo proposto dalla Commissione stabiliva che l’autonomia finanziaria delle Regioni doveva essere
disciplinata da leggi costituzionali che la coordinavano con la finanza dello Stato e dei Comuni. In proposito,
nella relazione del presidente Ruini, veniva evidenziata la difficoltà di conformazione di detta autonomia
finanziaria, in considerazione fra l’altro della necessità di un riparto delle imposte statali tale da implicare un
contributo di solidarietà da offrire da parte “delle Regioni provviste di maggiori mezzi (in favore) di quelle che con le proprie
risorse non sarebbero in grado di adempiere i loro servizi essenziali”. Inoltre, veniva evidenziato il pericolo (da evitare) che,
“mentre si tende ad un alleggerimento della macchina amministrativa, il decentramento non dia origine ad una nuova moltiplicazione
di burocrazia nelle Regioni, senza toccare quella centrale”. Il testo finale approvato dal Plenum in materia di autonomia
finanziaria è quello dell’attuale art. 119 che ribadisce tale autonomia, attribuendo alle leggi ordinarie (e non a leggi
costituzionali) il compito di determinarne le forme ed i limiti, nonché il coordinamento con la finanza dello Stato,
delle Province e dei Comuni.
Da ultimo, per quanto riguarda i Comuni e le Province - mentre il testo proposto dalla Commissione dei
75 prevedeva (art. 107) la ripartizione della Repubblica in Regioni e Comuni, individuando le Province come
“circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale” – il testo approvato dal Plenum (art. 114) stabilisce che
la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni, con ciò intendendosi che le Province non sono da
considerare circoscrizioni amministrative ma enti locali territoriali al pari delle Regioni e dei Comuni133.
6. Sull’ordinamento della Repubblica, gli argomenti particolarmente discussi in Commissione ed in
Assemblea furono quelli della struttura monocamerale o bicamerale del Parlamento, della funzione legislativa del
Governo e dei poteri del Capo dello Stato.
In particolare, per quanto riguarda il Parlamento, la Commissione recepì il sistema bicamerale con
completa parità giuridico-funzionale tra la“Camera dei Deputati” e la “Camera dei Senatori”, la prima eletta a suffragio
universale e diretto (art. 53 del progetto) e l’altra eletta a base regionale con la previsione che un terzo dei senatori
fosse eletto dai membri del Consiglio regionale ed i restanti due terzi a suffragio universale e diretto (art. 55 del
progetto). Ciò, a differenza di quanto previsto dallo Statuto Albertino, laddove il Senato era di nomina regia ed a
vita, mentre la Camera dei Deputati era di nomina elettiva e di durata quinquennale (cfr. artt. 33, 39 e 42) e,
laddove, la Camera aveva una posizione poziore rispetto al Senato, in quanto ogni legge di imposizione di tributi,
o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato doveva essere sottoposta prima al suo esame.
A commento del progetto di tipo bicamerale prescelto dalla Commissione, merita ricordare la relazione
del presidente Ruini, laddove vengono evidenziate le varie proposte alternative di tipo monocamerale discusse e
scartate in quella sede, in considerazione del fatto che l’unicameralità non offriva “l’opportunità di doppie e più
meditate decisioni” e soprattutto non offriva il migliore contributo che può scaturire dal doppio esame di una
Sulle varie fasi dell’evoluzione normativa delle autonomie locali, a partire dall’unità d’Italia fino all’approvazione del
nuovo testo costituzionale, cfr. S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Ed. Scientifica Einaudi, 1991, pp. 15 ss., laddove
fra l’altro l’Autore sinteticamente precisa che la Costituzione “repubblicana” e “democratica” del 1948 ha prescelto il
modello del “pluralismo amministrativo”, a riprova della volontà dei costituenti di abbandonare il precedente modello di
Stato centralista ed autoritario.
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questione da parte di due Camere diversamente composte, sia sotto il profilo dell’elettorato attivo che
dell’elettorato passivo.
In sede di discussione nell’ambito dell’Assemblea Costituente, merita poi ricordare l’articolato intervento
del relatore Mortati, il quale, per difendere il sistema bicamerale (in contrasto, con la tesi sostenuta, fra gli altri,
dall’onorevole Gullo), svolse una critica serrata contro le ideologie preconcette di tipo illuministico, ponendo tra
l’altro in evidenza che la scelta del bicameralismo non è necessariamente correlabile ad una determinata forma di
Stato, bensì a situazioni storiche contingenti ed all’esigenza di assicurare fedelmente gli interessi della Nazione in
tutta la loro varietà e complessità 134.
In particolar modo, a giudizio di Mortati, la scelta del bicameralismo doveva intendersi come
completamento dell’assetto istituzionale dello Stato italiano, già caratterizzato da un regime parlamentare misto o
semidiretto (in presenza del previsto potere di scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato; del
previsto ampio potere di referendum popolare), nonché dalla riforma regionale, già recepita dal Plenum 135.
Per quanto riguarda il sistema elettorale per la formazione delle due Camere, il Plenum costituente ribadì
per la Camera dei Deputati la scelta dell’elezione a suffragio universale e diretto, mentre per il Senato della
Repubblica, pur confermando la base regionale, introdusse per l’elezione di tutti i senatori il sistema a suffragio
universale e diretto (degli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno d’età), demandando tutta la
disciplina elettorale delle due Camere ad interventi legislativi successivi 136.
Per quanto riguarda il Governo, la Commissione varò un testo mirato ad assicurarne sia la stabilità che
l’esercizio del potere legislativo: sotto il primo profilo, venne rafforzata la figura del Presidente del Consiglio
configurato come “Primo Ministro” e non come primus inter pares, con poteri di direzione e di coordinamento di
tutte le attività dei Ministri e con ulteriori poteri di controllo sulle mozioni di fiducia o sfiducia parlamentare;
Cfr. il verbale della seduta dell’Assemblea costituente del 18 settembre 1947 pomeridiana, in La Costituzione della Repubblica
cit., Volume IV, pp. 2917 ss.. Cfr., altresì, Novacco, op. cit., pp. 156 ss..
135 Per quanto riguarda il potere di scioglimento delle Camere, cfr. l’art. 84 del testo approvato dalla Commissione (oggi art.
88); per quanto riguarda, poi, il referendum popolare, cfr. gli artt. 72 e ss. del testo approvato dalla Commissione (oggi art.
75). A proposito di referendum popolare, merita anche ricordare che, in sede di Commissione dei 75 e di Plenum, era stata
anche esaminata l’opportunità di prevedere detto referendum nell’ambito delle autonomie locali. Siffatta idea non ebbe
seguito costituzionale ma fu, in seguito, recepita nelle L. n. 142 del 1990 e, poi, ancora nell’art. 8 dell’attuale T.U. sulle
autonomie locali (D.lgs. 18 agosto 2000 n. 207). In proposito, cfr. P. Rossi, Il referendum nel nuovo sistema di governo locale,
Giuffrè, 1999, pp. 32 ss.. Per quanto concerne, infine, la riforma regionale, cfr. artt. 106 e ss. del testo approvato dalla
Commissione (oggi artt. 114 e ss.).
136 Subito dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione repubblicana, al fine di consentire lo svolgimento delle elezioni
politiche previste per il mese di aprile 1948, l’Assemblea Costituente (all’uopo appositamente prorogata nell’esercizio delle
sue funzioni) approvò le prime norme concernenti il sistema elettorale. In particolare, per quanto concerne la Camera dei
Deputati, tutta la disciplina elettorale fu recepita nella legge 5 febbraio 1948 n. 26, il quale prevedeva il principio del collegio
plurinominale e della rappresentanza proporzionale tra le varie liste dei partiti politici. Successivamente, su iniziativa
dell’allora Presidente del Consiglio De Gasperi e, soprattutto, del Ministro dell’Interno Mario Scelba, la disciplina del 1948
fu profondamente modificata dalla L. 31 marzo 1953 n. 148, la quale introdusse l’istituto del c.d. “premio di maggioranza”,
da attribuire alla lista o alle liste fra loro coalizzate che avessero riportato almeno la metà più uno del totale dei voti validi
attribuiti a tutte le liste. Tale legge ebbe però vita breve perchè fu subito oggetto di numerosissime e vivacissime critiche,
soprattutto da parte dei partiti della sinistra e di coloro che sostenevano il principio della rappresentanza proporzionale,
tant’è che fu anche definita “legge truffa”; inoltre, nel primo appuntamento elettorale del 7 giugno 1953, tale sistema non
funzionò in concreto, in quanto nessuna coalizione riuscì a superare la soglia di maggioranza prescritta. Sicché la relativa
disciplina venne subito revocata e, poi, definitivamente abrogata e sostituita dalla successiva legge 16 maggio 1956 n. 493,
con la quale si tornò sostanzialmente al precedente sistema del 1948. Tutta la normativa concernente le elezioni della
Camera dei Deputati venne, poi, recepita nel T.U. approvato con D.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (di recente modificato in
materia di attribuzione di seggi con legge 4 aprile 2005 n. 47). Per quanto riguarda il Senato, la relativa disciplina elettorale
venne disposta con L. 6 febbraio 1948, n. 28 (poi integrata dalla L. 27 dicembre 1956 n. 64), la quale prevedeva il sistema del
collegio uninominale e quello delle liste concorrenti (cfr. art. 1, comma 2: “in ogni Regione sono costituiti tanti collegi quanti sono i
senatori ad essa assegnati”). La recente riforma elettorale per la formazione delle Camere ha avuto impulso dal referendum del
18 aprile 1993, che ha determinato l’abrogazione di alcune parti del sistema elettorale del Senato, optando così per un
sistema caratterizzato in senso fortemente maggioritario con la conservazione di una ridotta quota proporzionale. Da tale
risultato referendario, sono scaturite le due leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277 che hanno, rispettivamente, riformato le
elezioni del Senato e della Camera. In particolare, tali leggi hanno introdotto un sistema prevalentemente maggioritario, nel
senso che il 75% delle due Camere vengono elette in collegi uninominali ed il restante 25% con criteri proporzionali. Sempre
nel 1993, il Governo ha varato il T.U. delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica, adottato con il
D.lgs 20 dicembre 1993 n. 533, su specifica delega contenuta nell’art. 7 della legge n. 276 del 1993. Infine, per quanto
concerne le elezioni della Camera dei Deputati, è stato emanato il D.P.R. 5 gennaio 1994 n. 14, recante il regolamento di
attuazione della predetta L. n. 277/1993.
134
30
sotto il profilo del potere legislativo, venne attribuito al Governo l’esercizio di una funzione legislativa delegata,
con i limiti indicati dall’art. 74 del progetto di Costituzione.
In sede di Plenum, il progetto della Commissione venne ampiamente modificato, sia perché al Presidente
del Consiglio fu tolta la configurazione di Primo Ministro; sia perché, al potere legislativo delegato, venne
aggiunto il potere legislativo autonomo (e cioè quello della decretazione d’urgenza) 137. A quest’ultimo proposito,
merita ricordare l’intervento dell’onorevole Crispo, il quale – precisando che durante il fascismo furono emanati
dal Governo circa trentamila decreti-legge, in virtù della legge n. 100/1926 – sollecitava, altresì, un’integrazione
della disciplina costituzionale in materia, con l’introduzione del potere del Governo di emanare ordinanze di
necessità e regolamenti.
Per quanto concerne il Capo dello Stato, in sede di Commissione venne anzitutto respinta l’idea di qualche
Commissario e dello stesso presidente Ruini, favorevoli alla designazione diretta da parte del popolo.
In proposito, nella relazione sul progetto di Costituzione presentato all’Assemblea, il presidente Ruini
dichiarò di essere tra i pochi che “ritenevano che, senza arrivare alla identificazione americana col Capo del Governo, fosse da
ammettere la designazione del Capo dello Stato da parte del popolo, per dargli una maggiore autonomia per stabilire un potere più
durevole e più saldo, in mezzo alle fluttuazioni di forze e di partiti, che non consentono facilmente decise prevalenze e sicurezza di
governi”138.
Tale proposta minoritaria non venne presa in considerazione, mentre fu approvata la proposta di
elezione del Capo dello Stato da parte dell’Assemblea Nazionale, “con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli
regionali e di un consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta” (cfr. art. 79 del progetto di
Costituzione) 139.
Venne, poi, accreditata una configurazione giuridica secondo cui il Capo dello Stato risultava dotato di
una serie di poteri che, comunque, non comprendevano quelli di Governo e che, comunque, escludevano la sua
responsabilità personale.
In sede di Plenum, nella seduta dell’11 settembre 1947 pomeridiana, è significativo ricordare l’intervento
dell’onorevole Clerici, il quale – condividendo la scelta effettuata a maggioranza dalla Commissione dei 75, in
merito al procedimento di nomina del Capo dello Stato da parte dell’Assemblea formata dalle due Camere –
sottolineò l’importanza di definire costituzionalmente il “baricentro di quello che sarà il nuovo Stato repubblicano
italiano”. Al riguardo, Clerici affermò che ogni regime deve avere un centro di equilibrio, sia esso di tipo
monarchico o di tipo repubblicano: nel caso della Repubblica italiana il baricentro è stato individuato nel
Parlamento, “dal quale deriva ogni potere politico; sì la sovranità è nel popolo, ma l’esercizio della sovranità è nel Parlamento”.
Premesso tale principio fondamentale, Clerici evidenziò come non fosse possibile importare in Europa ed in
Italia il sistema presidenziale adottato negli Stati Uniti d’America che prevedeva, tra l’altro, l’elezione popolare del
Capo dello Stato, poiché “in Europa le elezioni popolari del Capo dello Stato hanno costantemente significato, se la storia ha un
valore, un fenomeno tipico di cesarismo: la reazione e la protesta, cioè, contro le Assemblee e l’elezione di un uomo, al quale gettarsi in
braccio” e “dunque un Presidente eletto dal popolo ha sempre in se stesso, in Europa (e Weimar ce l’ha confermato), il pericolo di un
cesarismo, che negli Stati Uniti d’America non sarebbe concepibile, sarebbe fuori clima”, sia “perché il sistema degli Stati Uniti
d’America ha un’origine storica e specifica ed ha soprattutto come postulato un popolo sostanzialmente democratico; un popolo rispetto
al quale sarebbe assurda qualsiasi forma di cesarismo” 140.
L’attuale DDL costituzionale, recante modifiche alla Parte II della Costituzione, innova profondamente l’assetto
delineato dalla Assemblea Costituente in materia di “Governo” (Titolo III – Parte II). In proposito, l’art. 30 del citato DDL
modifica l’art. 92 Cost., nel senso che “il Governo della repubblica è composto dal Primo ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il
Consiglio dei ministri”. Il Primo ministro viene nominato dal Presidente della Repubblica, “sulla base dei risultati delle elezioni della
Camera dei deputati” (cfr. art. 92, comma 3, del progetto di riforma costituzionale), ma i ministri sono nominati e revocati
dallo stesso Primo ministro e non più dal Capo dello Stato (cfr. art. 95, comma 1, del progetto cit.). Sono, ancora, previsti: la
soppressione dell’istituto della fiducia delle due Camere di cui al vigente art. 94 Cost.; la costituzionalizzazione del
programma di legislatura del Governo che deve essere illustrato, unitamente alla composizione del Governo stesso, entro
dieci giorni dalla nomina del Primo ministro; i poteri di “direzione”, in aggiunta a quelli già previsti di promozione e
coordinamento (cfr. l’attuale art. 95, comma 1, Cost.); il potere del Primo ministro di chiedere al Presidente della Repubblica
lo scioglimento anticipato della Camera dei Deputati e l’indizione di nuove elezioni, assumendone “l’esclusiva responsabilità”
(cfr. art. 88, comma 1, lettera a) del progetto di riforma).
138 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume I, p. LXXXIV.
139 In proposito, è opportuno ricordare che l’Assemblea Nazionale di cui al citato art. 79 progetto di Costituzione presentato
dalla Commissione dei 75 corrisponde al Parlamento in seduta comune dei suoi membri di cui all’attuale art. 83, comma 1.
L’art. 52 del citato progetto prevedeva, infatti, che “le Camere si riuniscono in Assemblea Nazionale, nei casi preveduti dalla
Costituzione” (cfr. l’attuale art. 55, comma 2, Cost.). Alla fine del dibattito, il termine “Assemblea Nazionale” non fu accettato.
Cfr. sul punto, Novacco, op. cit., p. 157.
140 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume IV, pp. 2788 ss..
137
31
Clerici rilevò, dunque, che la soluzione più aderente alla grande tradizione democratica occidentale ed
europea fosse quella prescelta dell’elezione del Capo dello Stato da parte del Parlamento in seduta comune e,
quindi, di un sistema costituzionale, nel quale il Capo dello Stato fosse persona distinta dal Capo del Governo,
nel quale il legame tra le Camere ed il Governo fosse “intimo e continuo” e nel quale, infine, il Governo risultasse
come “l’espressione ed il mandatario” del Parlamento, con un costante rapporto di fiducia tra i due Organi141.
Clerici notò, infine, che, a tali principi fondamentali, si legava inscindibilmente l’istituto della controfirma
ministeriale di tutti gli atti del Capo dello Stato, cui scaturiva la relativa responsabilità del Presidente del Consiglio
e del Ministro competente (cfr. art. 85, comma 1, del progetto di Costituzione e l’attuale art. 89 Cost.): “il Capo
dello Stato, re o presidente della Repubblica che sia, non ha in qualsiasi regime parlamentare alcuna responsabilità; ma appunto per
ciò egli non può non ascoltare il consiglio dei Ministri responsabili, che formano e rispondono per lui. Altrimenti si esce dalla
normalità e si entra nel dispotismo; si entra nel colpo di Stato. Tutto diverso, invece, logicamente avviene per il Capo dello Stato eletto
dal popolo stesso. Non sarebbe, quindi, concepibile, sarebbe anzi un assurdo, un Capo dello Stato eletto dal popolo, il quale si
riducesse ad essere, non dico un fantasma, ma di certo un Capo che non può far nulla senza l’assenso, senza la firma dei sui Ministri
responsabili e che, d’altra parte, non può rifiutare il consiglio dei suoi Ministri, negare la sua firma a un decreto che essi gli
sottopongono”142.
Al termine del dibattito, l’Assemblea Costituente recepì sostanzialmente il testo presentato dalla
Commissione, con alcune modifiche ed integrazioni.
In proposito, è significativo ricordare che il Plenum aggiunse alcuni poteri del Capo dello Stato a quelli
già originariamente previsti dall’art. 83 del progetto di Costituzione, fra i quali: quello di inviare messaggi alle
Camere; quello di indire le elezioni delle nuove Camere e di fissarne la prima riunione; quello di autorizzare la
presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa; quello di promulgare le leggi ed emanare i
decreti aventi valore di legge ed i regolamenti 143; quello di indire il referendum popolare nei casi previsti dalla
Costituzione; ed, infine, quello di conferire le onorificenze della Repubblica (cfr. il vigente art. 87).
È, altresì, rilevante ricordare che, sempre in sede di Assemblea Costituente, furono attribuiti al
Presidente della Repubblica anche il potere di c.d. “veto sospensivo” (cfr. il vigente art. 74) e quello di nomina di
un terzo dei giudici della Corte Costituzionale (cfr. l’attuale art. 135)144.
Sempre in sede di Plenum, fu emendato anche l’art. 84 del progetto (oggi art. 88) concernente il potere di
scioglimento anticipato delle Camere da parte del Capo dello Stato, con la previsione dello scioglimento anche di
una sola di esse e, soprattutto, il divieto dello stesso scioglimento nel c.d. “semestre bianco” (art. 88, comma
2)145.
7. Trattando l’argomento della Pubblica Amministrazione, la Commissione dei 75 enucleò tre norme (artt.
91, 92 e 93): la prima contenente il principio secondo cui i pubblici Uffici dovevano essere organizzati in base a
disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione; le altre,
Durante il proprio intervento, l’onorevole Clerici rivelò di essere, addirittura, favorevole al regime direttoriale, nel quale la
figura del Capo dello Stato “è praticamente annullata”, portando l’esempio tipico della Svizzera, laddove il Capo dello Stato si
confonde e si identifica con il Presidente del Consiglio: “esso non ha alcuna prerogativa particolare, tranne forse qualche migliaio di
franchi di più all’anno di stipendio, non ha alcuna residenza ufficiale, alcun apparato; sta a casa sua e paga il tram e il treno quando viaggia,
come ogni altro cittadino”.
142 Cfr. La Costituzione della Repubblica cit., Volume IV, p. 2790.
143 L’art. 83 prevedeva il potere di promulgare le leggi ed emanare i decreti legislativi ed i regolamenti.
144 Nel testo presentato dalla Commissione dei 75, non era previsto l’istituto del rinvio motivato alle Camere di una legge già
approvata. In particolare, l’art. 70 del progetto di Costituzione prevedeva che il Presidente della Repubblica potesse chiedere
che una Camera si pronunciasse o riesaminasse il disegno di legge, quando la stessa Camera non si fosse pronunciata entro il
termine stabilito (cfr. art. 70, comma 1) su un disegno di legge approvato dall’altro ramo del Parlamento, o quando lo avesse
rigettato. Per quanto concerne la nomina dei giudici costituzionali, l’art. 127 del progetto di Costituzione prevedeva che la
nomina degli stessi fosse di competenza esclusiva dell’Assemblea Nazionale.
145 Il DDL costituzionale di riforma della Parte II prevede che “il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato, rappresenta la
Nazione ed è garante della Costituzione e dell’unità federale della Repubblica” (cfr. art. 26 che sostituisce l’attuale art. 87 Cost.). L’ art.
22 di tale progetto di riforma prevede che il Presidente della Repubblica venga eletto dall’Assemblea della Repubblica,
presieduta dal Presidente della Camera dei Deputati e costituita dai componenti delle due Camere, dai Presidenti delle
Giunte delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano e dai delegati eletti dal Consiglio o dall’Assemblea
regionale. Il Presidente della Repubblica viene eletto a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti
dell’Assemblea della Repubblica. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti e dopo il
quinto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta dei componenti. Tra i nuovi poteri attribuiti al Presidente della
Repubblica è previsto quello di nomina dei presidenti delle Autorità amministrative indipendenti nazionali e del presidente
del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, sentiti i Presidenti delle due Camere, nonché quello di nomina del Vice
presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, “nell’ambito dei componenti eletti dalle Camere”. E’ stato, invece, soppresso
il potere di autorizzazione della presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa.
141
32
individuando gli organi di consulenza e di controllo del Parlamento e del Governo (Consiglio Economico
Nazionale, in materia di consulenza economica; Consiglio di Stato, in materia giuridico-amministrativa; Corte dei
Conti, in materia di controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e successivo sulla gestione del
bilancio dello Stato) 146.
In particolare, per quanto riguarda il Consiglio di Stato, venne precisato che detto organo, in aggiunta
alla funzione consultiva, era investito del potere di tutela della giustizia nell’amministrazione.
Il testo proposto dalla Commissione venne, poi, approvato dal Plenum con lievi modifiche formali (tra
cui la diversa denominazione del Consiglio Economico Nazionale).
Ampia discussione, invece, vi fu in Assemblea in materia di giurisdizione e di ordinamento giudiziario.
In aula (21 novembre 1947 seduta pomeridiana), introducendo l’argomento della giurisdizione, il
presidente Ruini subito segnalò che era stata abbandonata la proposta originaria che ammetteva l’istituzione (“con
legge qualificata”) di giudici speciali, tranne in materia penale. Nessun giudice speciale, né alcun giudice
straordinario deve esservi mai, disse in proposito Ruini, anche a nome della Commissione che aveva presieduto,
ribadendo invece l’esigenza dell’unicità della giurisdizione: “se ve ne sarà bisogno, e dovrà essere vero bisogno, si istituiranno
sezioni specializzate di magistratura. Quanto ai giudici ed alle giurisdizioni speciali esistenti, (siano esse più centinaia come fu
constatato dopo l’altra guerra, o siano già ridotte a meno di cento, che è sempre un numero troppo grosso) si sopprimeranno quelle che
non han ragione di essere, e si trasformeranno le altre in sezioni specializzate; con che non si intaccherà, ma si rafforzerà
sostanzialmente l’unicità della giurisdizione ”.
Prendendo atto, poi, dell’esistenza del Consiglio di Stato (al quale apparteneva) e della Corte dei Conti, lo
stesso presidente Ruini propose una soluzione di compromesso cercando di conciliare le opposte tesi di
Calamandrei e di Mortati (il primo, favorevole alla soppressione della giurisdizione del Consiglio di Stato e della
Corte dei Conti; l’altro, favorevole alla creazione di una giurisdizione unica in materia penale e nelle controversie
civili tra privati, con facoltà di creare nuove giurisdizioni speciali nelle controversie tra la Pubblica
Amministrazione ed i privati anche in materia tributaria).
Tale soluzione prevedeva la conservazione di organi speciali di giurisdizione amministrativa, nei casi e nei
modi previsti dalla legge, individuando tali organi proprio nel Consiglio di Stato e nella Corte dei Conti.
In particolare, per quanto riguarda il Consiglio di Stato, la tesi di Ruini era quella di non limitare la
competenza giurisdizionale di quest’ultimo alla sola tutela degli interessi legittimi, dovendosi concepire in favore
di detto organo una competenza giurisdizionale esclusiva anche in materia di diritti soggettivi per quelle questioni
in cui gli interessi legittimi ed i diritti soggettivi sono strettamente legati tra loro (gli esempi citati erano quelli del
debito pubblico e delle controversie del pubblico impiego).
Il testo finale approvato dal Plenum (attuali artt. 103, comma 1 e 113 Cost.), per quanto concerne la
competenza del Consiglio di Stato, recepì la predetta tesi di Ruini. Con ciò venne confermato, in definitiva,
l’assetto normativo che già esisteva in base alla legge del 1865 sull’abolizione del contenzioso amministrativo ed
in base alle leggi successive, che attribuirono allo stesso Consiglio di Stato la giurisdizione generale di legittimità
per la tutela degli interessi legittimi, nonché la giurisdizione esclusiva e di merito su talune specifiche materie 147.
Per quanto riguarda la Sezione II del Titolo III “Pubblica Amministrazione”, è opportuno segnalare che l’art. 35 del DDL
costituzionale di riforma della Parte II della Costituzione prevede l’inserimento dell’art. 98-bis dedicato all’istituzione di
Autorità amministrative indipendenti nazionali, “per lo svolgimento di attività di garanzia o di vigilanza in materia di diritti di libertà
garantiti dalla Costituzione e su materie di competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2…”.
147 Sulla conferma e sul consolidamento costituzionale del sistema di giustizia amministrativa vigente in Italia in base alle
leggi del 1865 e del 1889 (così come interpretate dalla giurisprudenza), cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Ed. Il Mulino,
1979, pp. 101 ss. laddove viene pure evidenziato che la Costituzione del 1948 ha, altresì, completato, migliorato e rinnovato
il sistema legislativo previgente nel quadro più generale della tutela giurisdizionale di tutte le situazioni giuridiche soggettive
spettanti ai cittadini. Svolgendo, poi, un ampio commento sullo “spirito” non solo conservativo ma anche di
modernizzazione e di rafforzamento della giurisdizione relativa alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi,
l’Autore così si esprime: “la Costituzione - respinto dall’Assemblea costituente il tentativo (Calamandrei) di abolire il dualismo di
giurisdizione concentrando nel giudice ordinario la tutela giurisdizionale contro la p.a., con poteri uguali a quelli di cui il giudice dispone nelle liti
fra privati – ha accolto e costituzionalizzati, piuttosto imprudentemente – le critiche ai costituenti sul punto (Miele) vanno condivise – la struttura
dualistica, conservando i due ordini di giudici, stabiliti per le decisioni delle liti contro la p.a., e il criterio di ripartizione delle competenze tra di essi
basato sul tipo di situazione giuridica lesa (diritti soggettivi ai giudici ordinari, interessi legittimi ai giudici amministrativi). Non si tratta però di
pura e semplice conservazione. Anzitutto, risulta dalla Costituzione la volontà di affermare con netta decisione la completa parità e originarietà dei
due ordini di giurisdizione, sgominando ogni residua velleità di fare della giurisdizione amministrativa una giurisdizione minore ed eccezionale
rispetto a quella ordinaria. Alla mantenuta e anzi rafforzata impostazione di fondo ha poi apportato delle precisazioni, anzi delle integrazioni
non del tutto marginali, sviluppando del resto degli orientamenti già presenti nella legislazione. Essa infatti, da una parte sembra far cadere (art.
113, c. 3) l’esclusività del potere del giudice amministrativo di annullare gli atti della p.a., consentendo chiaramente che tale potere sia attribuito
alla legge (è da pensare, però, eccezionalmente) al giudice ordinario (il che, a mio avviso, costituisce abrogazione dell’art. 4 II c., legge abolitrice del
contenzioso amministrativo, per assorbimento della disposizione nel più generale principio dell’art. 113); mentre dall’altra consente (sia pure “per
146
33
Quanto alla competenza giurisdizionale della Corte dei Conti, essa dovrebbe essere riconosciuta ratione
materiae nel settore della contabilità pubblica e nelle altre materie che la legge attribuisce alla competenza speciale
della Corte medesima.
Per quanto riguarda ancora i Tribunali militari, il presidente Ruini, precisando che la Commissione dei 75
li aveva ammessi a maggioranza solo in tempo di guerra, rappresentò la necessità di ammetterli anche in tempo di
pace, con due specifiche limitazioni: la prima, riferita alla competenza penale per i reati propriamente militari;
l’altra, riferita alla commissione degli stessi da parte degli appartenenti alle forze armate.
Sempre in materia di giurisdizioni speciali, rispondendo ad una specifica richiesta dell’onorevole Ghidini,
il presidente Ruini precisò che le “commissioni ed i collegi arbitrali”, costituenti vere e proprie giurisdizioni speciali,
dovevano senz’altro essere abolite, mentre dovevano essere conservati gli arbitrati in materia civile che si
formano per volontà delle parti e che, come tali, riguardando diritti disponibili, non possono essere disconosciuti.
Infine, in risposta ad una richiesta di chiarimento dell’onorevole Mortati, il presidente Ruini ritenne di
precisare che per “organi di giustizia amministrativa” dovevano intendersi anche i Consigli Regionali di Giustizia
Amministrativa, anch’essi da istituire per assicurare giustizia nell’amministrazione. In replica, l’onorevole Mortati
evidenziò che, esistendo all’epoca le Giunte Provinciali Amministrative ed i Consigli di Prefettura, anche per tali
organi si poneva il problema della loro abolizione.
Per quanto concerne la giurisdizione ordinaria in materia civile e penale, la Commissione dei 75 ribadì
l’autonomia e l’indipendenza della relativa magistratura, intesa come potere dello Stato e dotata di un proprio
organo di autogoverno, peraltro non totalmente chiuso e corporativo148.
Nel progetto della Commissione veniva, altresì, precisata l’inamovibilità dei magistrati, la distinzione
degli stessi solo per diversità di funzioni e non di gradi e la configurazione del pubblico ministero come
magistrato a tutto tondo.
In materia penale, poi, veniva stabilito il carattere pubblico dell’azione penale e della obbligatorietà
dell’esercizio della stessa da parte del pubblico ministero.
In generale, veniva anche fissato l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali, nonché
la facoltà di proporre in ogni caso il ricorso per Cassazione secondo le norme di legge contro le sentenze e le
decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali.
Infine, veniva stabilita come regola generale la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso gli
atti della Pubblica Amministrazione, tranne le eventuali eccezioni specificamente indicate dalla legge.
In sede di Plenum (seduta del 27 novembre 1947 pomeridiana), venne, poi, particolarmente discusso un
emendamento dell’onorevole Mortati che riguardava due specifici problemi: quello della competenza della Cassazione e
quello della sua unicità.
Per quanto riguarda la competenza, l’idea dell’onorevole Mortati era quella di sottrarre a detto Organo, non
solo la materia dei conflitti di attribuzione (e cioè quelli insorti tra la Pubblica Amministrazione ed il potere
giudiziario che dal 1877 in poi erano stati affidati alla Corte di cassazione a sezioni riunite), ma anche la materia
dei conflitti di giurisdizione, così unificando in capo al nuovo Organo (Corte costituzionale), previsto dall’art. 126
del progetto di Costituzione presentato dalla Commissione, tutte le competenze in materia di conflitti. In
sostanza, a giudizio dell’onorevole Mortati, il fatto che detti conflitti si svolgano nell’ambito dello stesso potere
giurisdizionale non era una ragione sufficiente per mantenere due distinti Organi decisionali.
Per quanto riguarda poi l’unicità della Cassazione, lo stesso onorevole Mortati, dissentendo dalle contrarie
tesi che correlavano la necessità di creare una pluralità di Cassazioni (come esistenti prima del 1923) in
corrispondenza con il carattere decentrato che veniva ad assumere il nuovo Stato italiano, ebbe a precisare che il
decentramento attuato nel nuovo progetto di Costituzione “non è un decentramento di carattere federalistico e quindi non
tocca e non può toccare l’esercizio della funzione giurisdizionale. D’altra parte se si prendesse a pretesto della moltiplicazione delle
giurisdizioni il principio regionalistico, la logica vorrebbe che questo principio fosse esteso a tutte le Regioni, e (che) ognuna di esse
avesse la sua Corte di Cassazione”.
particolari materie”) l’attribuzione ai giudici amministrativi di competenza in materia di diritti soggettivi (art. 103)”. Di recente, e
precisamente, con le sentenze della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 500 del 1999 e della Corte Costituzionale n. 204
del 2004 e n. 281 del 2004 sono state ulteriormente precisate e circoscritte le specifiche competenze che la Costituzione
attribuisce al giudice ordinario ed al giudice amministrativo: ciò in base ad un riparto fondato non sulle materie, bensì sulle
situazioni giuridiche soggettive protette.
148 In proposito, è doveroso segnalare che l’art. 36 del DDL costituzionale recante modifiche alla Parte II della Costituzione
prevede che i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura di nomina parlamentare - attualmente eletti dal
Parlamento in seduta comune (un terzo) tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici
anni d’esercizio - vengano eletti per un sesto dalla Camera dei Deputati e per un sesto dal Senato federale della Repubblica,
scelti sempre tra le due predette categorie professionali (cfr. art. 104, comma 4, del progetto di riforma citato).
34
Quanto poi alle critiche secondo cui una Cassazione unica accentrata a Roma, avendo il monopolio del
diritto, avrebbe potuto più facilmente subire le pressioni da parte del Governo, l’onorevole Mortati ebbe a
replicare che le garanzie costituzionalmente previste in favore dell’indipendenza di tutte le magistrature dovevano
ritenersi più che sufficienti per fugare un siffatto pericolo di pressione politica.
La conclusione di tale dibattito rese parzialmente ragione all’onorevole Mortati nel senso che - mentre
nel contesto dei compiti di nomofilachia spettanti a detto Organo la competenza per dirimere i conflitti di
giurisdizione è rimasta attribuita alla Cassazione - quest’ultima è stata definitivamente configurata a struttura
unitaria con sede a Roma.
8. Nella relazione al progetto di Costituzione, il presidente Ruini evidenziava, infine, l’importanza di
creare un nuovo “istituto” non previsto dallo Statuto Albertino e cioè quello della Corte costituzionale, inteso come
moderno strumento di garanzia a difesa di una costituzione di tipo rigido come quella deliberata in sede di Commissione.
A fronte delle conseguenze spesso dannose verificatesi in presenza di una costituzione flessibile e, come
tale, modificabile in via continuata e quasi inavvertita, a giudizio di tale relatore la creazione di una costituzione
rigida giustificava l’opportunità di un “custode supremo” che fosse a presidio di detta “rigidità”.
I problemi che, peraltro, determinava l’istituzione di detto Organo investivano tre delicati aspetti: i
compiti, la composizione ed il suo funzionamento.
Per quanto concerne i compiti, nel progetto varato dalla Commissione dei 75 (art. 126), fu recepita la tesi
secondo la quale, al sindacato di costituzionalità di tutte le leggi, fossero “riunite” altre due competenze
fondamentali: la risoluzione dei conflitti di attribuzione (fra i poteri dello Stato, fra Stato e Regioni e fra Regioni)
ed i giudizi sul Presidente della Repubblica e sui Ministri, messi in stato d’accusa dal Parlamento.
Per quanto riguarda la composizione della Corte, prevalse la tesi di affidare la nomina di tutti i giudici
costituzionali all’Assemblea Nazionale (art. 127), con l’unico temperamento dovuto al fatto che - se per un
quarto la nomina non era soggetta ad alcuna condizione - per le categorie dei magistrati, degli avvocati e dei
docenti universitari in materie giuridiche, l’Assemblea avrebbe dovuto scegliere tra i nominativi designati, in
numero triplo, dalle magistrature ordinaria ed amministrativa, dal Consiglio superiore forense e dai professori di
discipline giuridiche nelle Università.
Per quanto concerne, infine, il funzionamento, la Commissione dei 75 scelse la soluzione di affidare il
controllo di costituzionalità ai giudici “normali” (art. 128, comma 1, del progetto di Costituzione), i quali, d’ufficio
o su eccezione delle parti del giudizio, se ritenevano la questione non manifestamente infondata, potevano
rimetterla per la decisione alla Corte costituzionale.
Tale dichiarazione d’incostituzionalità poteva essere promossa anche in via principale dal Governo, da
cinquanta deputati, da un Consiglio regionale, da non meno di diecimila elettori o da altro ente od organo a ciò
autorizzato dalla legge sulla Corte Costituzionale (art. 128, comma 2).
Il comma 3 dell’art. 128 prevedeva, infine, che “se la Corte, nell’uno o nell’altro caso, dichiara
l’incostituzionalità della norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della Corte è comunicata al
Parlamento, perché, ove lo ritenga necessario, provveda nelle forme costituzionali”.
Nella seduta di venerdì 28 novembre 1947, l’Assemblea Costituente avviò l’esame del Titolo VI del
progetto di Costituzione (“Garanzie costituzionali”) e vennero subito discussi alcuni emendamenti contrari
all’istituzione della Corte Costituzionale, da quello che prevedeva la radicale soppressione dell’intera Sezione I
dedicata alla stessa Corte (onorevole Bertone149) a quello presentato dall’onorevole Nitti che prevedeva il
deferimento di tutte le questioni di costituzionalità al giudizio della Corte Suprema di Cassazione a sezioni unite.
Al riguardo, l’onorevole Nitti ebbe addirittura ad esprimersi nel senso che “credo inutile e dannosa la
costituzione di una Corte costituzionale. Non farà alcun bene e sarà causa di confusione”.
Assolutamente in contrasto con la tesi di Nitti fu svolto l’intervento dell’onorevole La Pira, durante la
riunione pomeridiana del 28 novembre 1947. In particolare, La Pira affermò che “per coronare l’edificio costituzionale,
come si corona un edificio con un tetto o una volta, ci vuole per forza una Corte Costituzionale” e che “data cioè l’essenza e la
finalità giuridica della Costituzione rigida, l’esistenza di una Corte Costituzionale è indispensabile. Se vogliamo che il nostro edificio
sia completo, è necessario mettere questa volta”.
Il Plenum costituente recepì appieno quest’ultima tesi favorevole all’istituzione della Corte
Costituzionale, la quale fu così inserita nel testo della nuova Costituzione, con l’attribuzione di tutte le
competenze già previste nel progetto della Commissione dei 75, ma con il rinvio ad una successiva L. Cost. per la
disciplina delle condizioni, delle forme, dei termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale, delle
Intervenendo a sostegno del proprio emendamento, l’onorevole Bertone dichiarò che, a suo parere, i conflitti di
attribuzione fra lo Stato e le Regioni avrebbero dovuto essere decisi nelle sedi “ordinarie” della magistratura e del Consiglio
di Stato.
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garanzie di indipendenza dei giudici della Corte, nonché ad un futuro intervento del legislatore ordinario per le
norme necessarie per la costituzione ed il funzionamento della Corte medesima (cfr. l’attuale art. 137)150.
***
La discussione in aula, avviata il 4 marzo 1947, si concluse il 22 dicembre dello stesso anno, sotto la
presidenza dell’on. Umberto Terracini che, il 6 febbraio 1947, aveva assunto la carica, dopo le dimissioni di
Saragat151.
L’Assemblea Costituente durò in carica, in regime di prorogatio, fino al 31 gennaio 1948; ciò, per
consentire l’approvazione della legge per l’elezione del Senato, nonché l’approvazione degli Statuti delle Regioni
ad Autonomia Speciale ed, ancora, per l’approvazione di una legge sulla stampa.
Per quanto riguarda i limiti operativi del potere costituente dell’Assemblea, appare ben chiaro che essa
era obbligata al rispetto della scelta istituzionale repubblicana derivante dalla consultazione popolare del 2 giugno
1946.
Per quanto riguarda, invece, la competenza ad operare nell’ambito della legislazione ordinaria, le riserve
espresse in senso negativo da taluni studiosi possono ritenersi fugate in considerazione del fatto che, già nel
Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 98/1946, era previsto (art. 3) che l’Assemblea Costituente potesse
deliberare (fino alla convocazione del nuovo Parlamento) su vari argomenti di competenza del Governo che
quest’ultimo avesse ritenuto opportuno sottoporre all’approvazione della stessa.
La votazione finale, a scrutinio segreto, della Costituzione della Repubblica italiana ebbe luogo nella
seduta pomeridiana di lunedì 22 dicembre 1947 e ebbe l’esito seguente: presenti e votanti 515; maggioranza 258;
voti favorevoli 453; voti contrari 62152.
Il successivo 27 dicembre, a norma della XVIIIª Disposizione Transitoria e Finale 153, la Costituzione
venne promulgata dal Capo provvisorio dello Stato De Nicola, con le controfirme del Presidente dell’Assemblea
Costituente Umberto Terracini e del Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi, nonché il visto del
Guardasigilli Giovanni Grassi, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948 .
Da tale data, De Nicola divenne il primo Presidente della Repubblica italiana
Paolo Ferrari
Funzionario dell’Agenzia delle Dogane
Le leggi costituzionali all’uopo emanate sono la L. n. 1 del 9 febbraio 1948 e la L. n. 1 dell’11 marzo 1953. La legge
ordinaria sulla costituzione e sul funzionamento della Corte è la legge n. 87 dell’11 marzo 1953. Meritano, altresì, menzione:
la L. n. 20 del 25 gennaio 1962 sui procedimenti e giudizi di accusa; la legge costituzionale n. 2 del 22 novembre 1967
contenente modifiche all’art. 135 Cost.; la legge costituzionale n. 1 del 16 gennaio 1989 in materia di procedimenti per i reati
di cui all’art. 96 Cost.; la L. n. 219 del 5 giugno 1989 in materia di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 Cost.; la L. n.
140 del 20 giugno 2003 in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato; il Decreto del Presidente
della Corte Costituzionale 21 luglio 2004 in materia di procedura per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale. Da ultimo, è
opportuno segnalare che l’art. 51 del DDL costituzionale recante modifiche alla Parte II della Costituzione prevede alcune
modifiche all’attuale sistema di nomina dei quindici giudici costituzionali: “quattro giudici sono nominati dal Presidente della
Repubblica, quattro sono nominati dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative; tre giudici sono nominati dalla Camera dei Deputati e
quattro giudici sono nominati dal Senato federale della Repubblica, integrato dai Presidenti delle giunte delle Regioni e delle Province autonome di
Trento e Bolzano” (cfr. art. 135 del progetto di riforma citato).
151 Cfr. Falzone e Grossi, op. cit., p. 375, laddove si precisa, fra l’altro, che “l’Assemblea, secondo il decreto istitutivo 16 marzo 1946,
n. 98, avrebbe dovuto esaurire il suo compito entro il 24 febbraio 1947. Essa si accordò due proroghe: la prima fino al 24 giugno 1947 con l.
cost. 21 febbraio 1947 n. 1, la seconda fino al 31 dicembre 1947 con l. cost. 17 giugno 1947, n. 2”. Cfr. anche Novacco, op. cit., pp. 165
ss..
152 Dal punto di vista statistico, merita ricordare che le discussioni sul testo costituzionale avvennero in 170 sedute. Sui 140
articoli del progetto furono presentati 1663 emendamenti, 1057 dei quali furono poi ritirati. Dei 606 restanti, 292 furono
accolti e 314 respinti. Soltanto tre articoli non furono oggetto di emendamenti. Sull’art. 109 del progetto della Commissione
dei 75, concernente la potestà legislativa delle Regioni, furono presentati il maggior numero di emendamenti (109).
153 La XVIIIª Disposizione Transitoria e Finale così recita: “La presente Costituzione è promulgata dal Capo provvisorio dello Stato
entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell'Assemblea Costituente ed entra in vigore il 1° gennaio 1948. Il testo della Costituzione è
depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l'anno 1948, affinchè ogni cittadino possa
prenderne cognizione. La Costituzione, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica.
La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato”.
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