anno 1. numero 1

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L
a rivista vuol essere un luogo aperto di interrogazione, di confronto
e di critica delle scienze del nostro tempo, soprattutto di quelle scienze
nei cui paradigmi epistemologici e nelle cui tradizioni di ricerca si è
sedimentato il sapere dell’umano con le sue forme peculiari di razionalità.
Riteniamo che oggi la pratica della filosofia non possa ridursi ad una
“ruminazione” storiografica fine a se stessa, ma debba incontrare sul suo
stesso terreno gli archivi e le sfide del tempo. Sotto questo profilo, il
prefisso “post-”, per quanto inflazionato, allude da un lato al pluralismo
degli orientamenti e delle prospettive filosofiche come un dato di fatto
incontestabile della nostra attualità, dall’altro ad un movimento di torsione
interna alla tradizione filosofica nella ricerca di nuovi linguaggi e di nuove
categorie in grado di pensare e comprendere il nostro presente. Su questo
punto siamo d’accordo con Deleuze e Guattari quando affermano che
“non si può ridurre la filosofia alla propria storia, perché la filosofia non
smette di divincolarsene per creare nuovi concetti che pur ricadendovi
non ne derivano” (G. Deleuze - F. Guattari, Che cos’è la filosofia?). Si tratta
di intraprendere un lavoro di delimitazione critica della storia della filosofia
(e, dunque, della metafisica) che non sia fine a stesso, vale a dire tale che
non sfoci né in una ripetizione tautologica del medesimo (come avviene
in Heidegger), né in una mera ricostruzione delle branche speciali in cui
la pratica filosofica si è via via strutturata (ontologia, gnoseologia, etica e
così via) diventando così una disciplina accademica. Il lavoro di delimitazione
critica consiste nell’accettare le sfide del pensiero e del mondo in cui
viviamo sul terreno della sperimentazione filosofica facendo emergere
volta per volta la fecondità e i limiti dei concetti che la pratica filosofica
ci ha trasmesso. Così intesa, la pratica filosofica conserva la sua connotazione
intrinseca di sapere storico (per riprendere un’espressione cara a Eugenio
Garin), ma in un’accezione pregnante rispetto al rischio sempre incombente
di una sua museificazione o riduzione a mero reperto erudito. In questo
orizzonte, il filosofo si troverà ad affrontare, a nostro avviso, almeno tre
compiti: 1) riattraversare con un approccio critico-genealogico, e a partire
dalle aporie del presente, il processo storico che dalla nascita della filosofia
in Grecia ha condotto alla proliferazione delle conoscenze specialistiche
proprie delle scienze umane o sociali: dal politico al religioso, dal sociale
al giuridico, dall’economico allo psicologico; 2) esplorare il retroterra
filosofico (metafisico, scientifico, teologico-politico), da cui è sorta e si è
sviluppata la concettualità diffusa della nostra epoca, a cominciare da
parole-chiave come “democrazia”, “cittadinanza”, “diritti umani”,
“multiculturalismo”, ecc.; 3) raccogliere ed elaborare sul piano della teoria
le istanze di verità e di giustizia che provengono da un mondo “uscito
fuori dai gangli”, mantenendo accesa la debole luce della ragione e
dell’utopia.
Roberto Finelli e Francesco Fistetti
Questo numero viene pubblicato con un contributo PRIN-COFIN 2003
Direttori: Roberto FINELLI e Francesco FISTETTI
Comitato direttivo:
Francesco FISTETTI (direttore responsabile)
Roberto FINELLI (co-direttore)
Francesca R. RECCHIA LUCIANI (direttore editoriale)
COMITATO SCIENTIFICO:
Bruno ACCARINO
Bethania ASSY
Giuseppe CACCIATORE
Domenico CHIANESE
Pietro COSTA
Antonio DE SIMONE
Piero DI GIOVANNI
Francesco DONADIO
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Domenico M. FAZIO
Simona FORTI
Vanna GESSA KUROTSCHKA
Fabrizio LOMONACO
Romano MADERA
Mario MANFREDI
Edoardo MASSIMILLA
Fabio MINAZZI
Salvatore NATOLI
Mario PERNIOLA
Stefano PETRUCCIANI
Furio SEMERARI
Marcello STRAZZERI
Andrea TAGLIAPIETRA
SEGRETERIA DI REDAZIONE: Sergio Alloggio, Clarice Isabella Luisi, Vito Santoro
Indirizzo:
Francesca. R. Recchia Luciani
Dipartimento di Scienze filosofiche
Università degli Studi di Bari
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è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso
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INDICE
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5
JEROME KOHN
Il male: un crimine contro l’umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
AXEL HONNETH
Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione
27
CHRISTIAN LAZZERI E ALAIN CAILLÉ
Il riconoscimento oggi: le poste in gioco di un concetto . . . . . . .
45
BRYAN S. TURNER
Cittadinanza, multiculturalismo e pluralismo giuridico:
diritti culturali e teoria del riconoscimento critico . . . . . . . . . . . .
77
FRANCESCO FISTETTI
Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria
critica della società? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
95
ROBERTO FINELLI
Una libertà post-liberale e post-comunista.
Riflessioni sull’etica del riconoscimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
121
FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI
Post-filosofia dei diritti umani: il corpo e le dinamiche
del riconoscimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
141
ANTONIO DE SIMONE
Identità, alterità, riconoscimento. Tragitti filosofici, scenari della
complessità sociale e diramazioni della vita globale . . . . . . . . . .
165
4
VITO SANTORO
Riconoscimento e soggettività nella filosofia pratica tedesca . . .
SERGIO ALLOGGIO
Globalizzazione e diritti. Su alcuni recenti contributi . . . . . . . . . .
Indice
193
217
INTRODUZIONE
Abbiamo scelto di inaugurare la rivista con una riflessione sulla
problematica del riconoscimento/misconoscimento, dando conto delle
posizioni più significative che nel dibattito filosofico internazionale
si vanno confrontando ormai da qualche decennio. Punto di partenza
per questa riflessione è il saggio di Jerome Kohn sul tema del male
in Hannah Arendt, in particolare su quella forma di misconoscimento
radicale del genere umano che sono state Auschwitz e Kolyma. Il Novecento è stato il secolo in cui la politica per la prima volta nella storia
si è attestata sulla soglia della distruzione metodica della vita umana
e della riduzione pianificata dell’uomo da “animale politico” ad essere puramente biologico. In ultima analisi, tre sono i paradigmi che
in materia di riconoscimento/misconoscimento si contendono oggi la
scena: il paradigma del riconoscimento vero e proprio (A. Honneth),
il paradigma della giustizia (N. Fraser) e il paradigma del dono (A.
Caillé e la rivista del MAUSS). Specialmente dai contributi di Alain
Caillé e Christian Lazzeri e di Bryan S. Turner si comprende come il
tema del riconoscimento/misconoscimento metta in discussione non
solo l’intera tradizione delle scienze sociali fino alle più recenti teorie della scelta razionale (rational action theory, RAT) e degli attori
in rete (analysis network theory, ANT), ma i modelli dominanti delle
filosofia morale e politica, inclusa la grande tradizione giuridica occidentale da Kant a Kelsen. Sebbene da prospettive teoriche diverse,
Caillé-Lazzeri e Turner concordano che sia il liberalismo politico di
J. Rawls sia la teoria dell’agire comunicativo di J. Habermas appaiono del tutto insufficienti a descrivere-interpretare in termini adeguati
la complessità della questione del riconoscimento/misconoscimento
6
Introduzione
non solo sul piano della genesi della soggettività individuale, ma soprattutto su quello delle condizioni sociali e politiche che rendono
possibile un rapporto positivo con se stessi e con gli altri. Il saggio
di Honneth sviluppa il motivo dell’“autorealizzazione” dell’identità personale mostrando il paradosso che una parola d’ordine come
quella della “realizzazione di sé”, in origine carica di una semantica
emancipativa, si capovolga nel suo contrario, una volta che venga
inscritta nella logica del mercato e in tal modo resa sinonimo di una
sempre più diffusa deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti
di lavoro e dell’uso dei talenti individuali e delle competenze tecnico-scientifiche. Il paradigma del dono, nella versione di Caillé e dei
teorici del MAUSS, indica una via di ricerca del tutto inedita rispetto
ai paradigmi egemonici del liberalismo rawlsiano e del cosmopolitismo habermasiano, ma anche rispetto al versante filosofico contemporaneo che ha rielaborato l’antropologia maussiana del dono nella
direzione che, volendo usare una formula corrente, possiamo definire
dell’“impolitico” nella duplice versione da un lato di Bataille, Blanchot e Derrida in Francia e dall’altro di M. Cacciari e R. Esposito
in Italia. Sulla strada aperta dal paradigma del dono sono possibili,
invece, sviluppi fecondi sia di una nuova teoria critica della società
che passi attraverso una teoria critica della globalizzazione, sia un
ripensamento dell’universalismo dei diritti incentrato sulla vulnerabilità e sulla fragilità del corpo umano, sia infine una riconsiderazione
della soggettività individuale alla luce di forme sociali o istituzioni
del riconoscimento – anche in senso strettamente costituzionale – che
siano intese esse stesse come beni sociali fondamentali.
JEROME KOHN
IL MALE: UN CRIMINE
CONTRO L’UMANITÀ*
Nel 1963 Hannah Arendt affermò che «per molti anni o, per essere più precisi, per trent’anni aveva riflettuto sulla natura del male».1
E trent’anni esatti erano trascorsi da quando il Reichstag, il Parlamento tedesco, era stato bruciato a Berlino, un evento immediatamente
seguito dagli arresti illegali da parte dei nazisti di migliaia di comunisti e di altri oppositori. Nonostante non avessero commesso alcun
crimine, gli arrestati furono condotti in campi di concentramento o
negli scantinati dell’appena nata Gestapo e sottoposti a ciò che Arendt definì un trattamento «mostruoso». Anticipando la repressione nei
confronti della sua opposizione politica, Hitler poteva spacciare come problema politico l’odio contro gli ebrei, che nel suo caso era un
fatto ovvio per chiunque avesse letto Mein Kampf, il testo che aveva
dettato in prigione e pubblicato nel 1925. Ciò equivale a dire che,
con il consolidamento del potere nazista, l’antisemitismo cessò di essere un pregiudizio sociale e divenne politico: la Germania doveva
diventare judenrein, cioè “purificata”, in primo luogo declassando gli
ebrei al rango di cittadini di seconda classe, in secondo luogo privandoli completamente della loro cittadinanza, in terzo luogo deportandoli, e, infine, uccidendoli. Da quel momento in poi Arendt disse di
«sentirsi responsabile». Ma responsabile di che cosa? Intendeva dire
* Ed. originale: “Evil: The Crime against Humanity” (memory.loc.gov/ammem/arendthtml/
essayc1.html), di Jerome Kohn, Direttore dell’“Hannah Arendt Center”, presso la New School
University di New York.
Traduzione dall’inglese di Francesco Fistetti.
1 Cfr. il “Grafton document” nel file dedicato a Eichmann (The Hannah Arendt Papers at the
Library of Congress). [Tutti i documenti inediti qui citati si trovano nell’indirizzo web sopra
indicato. N.d.T.]
8
Jerome Kohn
che, a differenza di molti altri, non poteva più essere «un semplice
testimone (bystander)», ma con la sua propria voce e persona doveva
rispondere alla criminalità dilagante nella sua terra natia. «Se si viene
attaccati come ebrei», scrisse, «ci si deve difendere come ebrei. Non
come tedeschi, né come cittadini del mondo e nemmeno come fautori
dei Diritti dell’Uomo».
Era il 1933. Nel giro di pochi mesi la Arendt fu arrestata, per un
breve periodo detenuta a causa del suo lavoro con un’organizzazione
sionista, e, non appena si presentò l’occasione favorevole, lasciò improvvisamente la Germania. Dopo un soggiorno in Francia e appena
arrivata in America nel 1941, scrisse più di cinquanta articoli per il
settimanale ebreo-tedesco «Der Aufbau», appellandosi all’impegno e
al dovere degli ebrei nel corso della Seconda Guerra mondiale.2 La
Arendt per la prima volta sentì parlare di Auschwitz nel 1943, ma
con la disfatta della Germania nel 1945 venne alla luce l’incontrovertibile evidenza dell’esistenza delle “fabbriche” di sterminio naziste, e nello stesso lasso di tempo cominciarono anche ad emergere
gradualmente notizie riguardanti le installazioni di lavoro da schiavi
nel Gulag sovietico. Colpita dalla somiglianza strutturale di queste
istituzioni, la Arendt volse la sua attenzione alla funzione dei campi
di concentramento sotto il governo totalitario. La sua analisi va letta
per essere pienamente apprezzata e qui possono essere fornite solo
poche indicazioni della sua potenza e originalità, e ancor meno della
sua acutezza.3
I campi ossessionarono la scrittura della Arendt fino alla morte di
Stalin nel 1953. Poi, dopo la pubblicazione nel 1958 di The Human
Condition (Vita activa), uno studio teoretico delle tre attività della
vita attiva (lavoro, opera, azione) e il loro decorso nell’età moderna,
e dopo essersi imbarcata in un’analisi delle rivoluzioni americana,
francese e russa, i campi di concentramento riapparvero all’orizzonte
del suo pensiero allorché in Israele nel 1961 assistette al processo ad
2 In Francia, invece, scrisse saggi sulla questione ebraica e sul problema delle minoranze, e
cominciò uno studio storico sull’antisemitismo moderno, cfr.: Judenfrage, Zur Minderheitenfrage,
e Antisemitismus. Esiste una traduzione italiana solo del secondo saggio: H. Arendt, “La questione
delle minoranze. Lettera a Erich Cohn-Bendit, Parigi, gennaio 1940”, in Antisemitismo e identità
ebraica. Scritti 1941-1945, a cura di M. L. Knott, trad. it. di G. Rotta, Ed. di Comunità, Milano,
2002, pp. 143-51.
3 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Ed. di Comunità, Milano
1999, con un saggio introduttivo di S. Forti, in particolare: il cap. 12, “Il regime totalitario”; “Osservazioni conclusive” della prima edizione di Le origini del totalitarismo; “Umanità e Terrore”,
in Archivio Arendt, 2. 1950-1954, trad. it. a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 1994; H. Arendt,
“Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento”, in L’immagine dell’inferno, trad. it. a cura di F. Fistetti, Editori Riuniti, Roma 2001.
Jerome Kohn
9
Adolf Eichmann (il principale coordinatore del trasporto degli ebrei
nei campi della morte). In un modo o nell’altro i campi nazisti giocarono un ruolo rilevante nella controversia seguita alla pubblicazione
di Eichmann a Gerusalemme nel 1963, e, anche se cessò di scrivere
direttamente su di essi dopo il 1966, basterà dire che ciò che chiamò
la «realtà schiacciante» dei campi di concentramento totalitari presupponeva il suo interessamento per il problema del male, un interesse
che nutrì ininterrottamente fino alla fine della sua vita. Com’era suo
solito, Arendt offre una spiegazione “essenziale” dello sviluppo dei
campi amministrati burocraticamente, in cui interi segmenti di popolazione venivano internati, ed è su questo sfondo che il male senza
precedenti costituito dal ruolo dei campi nei sistemi di dominazione
totalitari diviene evidente. I campi di concentramento non erano stati
inventati dai regimi totalitari, ma furono utilizzati per la prima volta
alla fine del XIX secolo dagli spagnoli a Cuba e dagli inglesi durante la guerra boera (1899-1902). L’ambiguo concetto giuridico di
“custodia protettiva” – che si riferiva alla protezione o della società
dagli internati o di questi ultimi dalla «presunta “rabbia della gente”»
–, sempre usato per razionalizzare e giustificare la loro esistenza, fu
invocato dal governo imperiale britannico tanto in India che in Sudafrica. Nella Prima Guerra mondiale i nemici stranieri furono regolarmente internati «come misura temporanea di emergenza»4, ma
in seguito, nel periodo tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale,
dei campi furono allestiti in Francia per nemici stranieri, in questo
caso per apolidi e rifugiati indesiderati in fuga dalla guerra civile
spagnola (1936-1939). La Arendt osservò anche che nella Seconda
Guerra mondiale i campi di internamento per potenziali nemici degli Stati democratici si differenziavano per un aspetto importante da
quelli della Prima Guerra mondiale. Per esempio, negli Stati Uniti
furono internati non solo cittadini giapponesi, ma anche «cittadini
americani di origine giapponese», i primi conservando i loro diritti di
cittadinanza al riparo delle Convenzioni di Ginevra, mentre i secondi,
sradicati solo per motivi etnici, furono privati dei loro diritti con un
decreto legge e senza un regolare processo.
Sebbene il contenimento e la brutale eliminazione delle opposizioni politiche fossero stati un fattore che contribuì alla costruzione
dei campi durante le fasi rivoluzionarie dell’avvento al potere dei
movimenti totalitari, è nel periodo post-rivoluzionario, quando Hitler
e Stalin divennero leader indiscussi di immense popolazioni, che la
4 Cfr. “Memo: Research Project on Concentration Camps” (The Hannah Arendt Papers at the
Library of Congress).
10
Jerome Kohn
Arendt focalizzò i campi come un fenomeno assolutamente nuovo.
La loro novità consisteva nella determinazione dei cosiddetti nemici
«oggettivi» e dei cosiddetti crimini «possibili», ed essa è confermata dal fatto che non l’esistenza dei campi, ma le condizioni in cui
operarono furono tenute nascoste alla gran massa della popolazione,
compresa la maggior parte dei membri delle gerarchie del regime.
Arendt definì la conoscenza di ciò che effettivamente accadeva nei
campi il vero segreto della polizia segreta che in entrambi i casi li
amministrava, e con raccapriccio si meravigliava di quanto profondamente questa conoscenza segreta «corrisponda ai segreti desideri e
alle segrete complicità delle masse del nostro tempo».5
Hannah Arendt non fu vittima dei campi, né scrisse collocandosi
su un piano di “empatia” (per lei un presupposto al contempo etico
e cognitivo) con coloro che ne avevano effettivamente sperimentato
il terrore. Come sempre, scrisse mettendo mentalmente a distanza gli
eventi in modo da rendere possibile il giudizio. In un passaggio particolarmente rivelativo ha affermato: «Solo l’angosciata immaginazione di chi è stato infiammato da tali resoconti, ma non direttamente ferito nella propria carne ed è quindi ancora immune dal bestiale
disperato terrore che, di fronte all’orrendo reale e presente, paralizza
inesorabilmente tutto ciò che non è mera reazione, può permettersi
di indugiare e riflettere sugli orrori», aggiungendo che tali riflessioni
«sono utili soltanto per la conoscenza dei contesti politici e per la
mobilitazione delle passioni politiche».6
Il guaio della maggior parte dei resoconti fondati sulla memoria o
sulle testimonianze oculari è che, in maniera direttamente proporzionale con la loro autenticità, essi sono incapaci di «esprimere quel che
esula dal regno del discorso umano».7 Sono condannati a fallire se
tentano di spiegare psicologicamente o sociologicamente ciò che non
può essere spiegato né in un modo né nell’altro, cioè di spiegare in
termini che cercano di conferire un senso nel mondo umano a ciò che
non ha alcun senso, vale a dire l’esperienza di «uomini senz’anima»
in una società inumana. Inoltre, i sopravvissuti che erano riusciti a
ritornare nel mondo del senso comune tendono a ricordare i campi
come se «avessero scambiato un incubo per realtà». Il «mondo spettrale» dei campi si è «materializzato» in una «massa di dati reali»8,
ma nel giudizio della Arendt questo fatto non indica che è stato speH. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 599.
Ivi, p. 604.
7 Ivi, p. 611.
8 Ivi, p. 610.
5
6
Jerome Kohn
11
rimentato un terribile sogno, ma che è stato commesso un nuovo tipo
di crimine. Una delle ragioni fondamentali della controversia creata
dal libro della Arendt su Eichmann fu e rimane l’incapacità di molti
scrittori, ebrei e non ebrei, di compiere lo sforzo tremendo richiesto
per andare al di là del destino del proprio popolo e vedere ciò che è
fatale per l’intera umanità. La nozione di «crimine contro l’umanità»
fu introdotta nel processo intentato nel 1946 a Norimberga contro i
principali criminali di guerra, ma secondo l’opinione della Arendt in
quell’occasione tale crimine fu confuso con le concezioni di «crimini
contro la pace» e di «crimini di guerra», non venendo mai definito in
modo pertinente, né portando ad individuare chiaramente i suoi esecutori. Per Arendt il genocidio degli ebrei da un capo all’altro dell’Europa controllata dai nazisti fu un crimine contro la condizione umana,
un crimine «perpetrato sul corpo del popolo ebraico»9, che «viola un
ordine del tutto diverso e lede una comunità del tutto diversa»10, cioè
«l’ordine internazionale, l’umanità nella sua interezza»11, il mondo
condiviso in comune da tutti i popoli nel rispetto reciproco di leggi e
costumi. Non solo distanza, ma coraggio era necessario per afferrare
ciò che la Arendt intendeva per male assoluto del totalitarismo, per
vedere che, nel caso dei nazisti, «solo la scelta delle vittime, ma non
la natura del crimine, poteva ricondursi all’antico odio per gli ebrei e
all’antisemitismo».12
Sia Hitler che Stalin scoprirono nei campi i mezzi per realizzare la
loro credenza nel potere totale, una credenza che significava non solo
che «tutto è permesso», ma implicava anche la proposizione di gran
lunga più radicale che «tutto è possibile». I campi venivano designati
come «laboratori» in cui erano condotti «esperimenti» per provare
quella proposizione, e ciò che quegli esperimenti dimostrarono fu
che «l’onnipotenza dell’uomo» viene pagata al prezzo della «superfluità degli uomini».13 Nei campi tutti gli uomini venivano come rifusi in un sol uomo, tutti gli esseri umani degradati ad un «cadavere
vivente» del tutto prevedibile, un corpo permanentemente immerso
nel «processo del morire». Gli esseri umani erano ridotti «al minimo
denominatore comune della vita organica»14, resi «uguali» nel senso
dell’essere intercambiabili, che, si noti, è l’esatto opposto dell’egua9 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 1992, p. 275.
10 Ivi, p. 280.
11 Ivi, p. 281.
12 Ivi, p. 275.
13 Cfr. “Ideology and Propaganda” (The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress).
14 Cfr. H. Arendt, L’immagine dell’inferno, cit., p. 100.
12
Jerome Kohn
glianza politica. Arendt intendeva l’eguaglianza politica come eguaglianza tra pari, conquista di una pluralità di individui distinti che
si uniscono insieme liberamente per generare potere e assumersi la
responsabilità di un mondo comune.
Secondo la Arendt, l’esistenza umana è in parte condizionata e in
parte libera, ma il terrore indotto nei campi di concentramento corrode dall’interno la parte che è libera. A differenza della paura, che
è intelligibile in relazione ad un oggetto nel mondo o all’oggettività
di un mondo minaccioso, il terrore condiziona gli esseri umani nello
stesso modo in cui il comportamento degli animali è condizionato da
strumenti come l’elettroshock. Il cane di Pavlov, che Arendt definì un
animale «pervertito»15, era condizionato a salivare non quando aveva fame, ma quando si suonava un campanello, e, sistematicamente
affamati, uomini e donne venivano in egual misura condizionati a
comportarsi in modo inumano nella speranza di essere nutriti.16 Nel
mondo pianificato dei campi le categorie di giusto e sbagliato, virtù
e vizio, innocenza o colpa individuale, e quasi ogni altra cosa che
da tempo immemorabile è stata associata alla natura specifica degli esseri umani, non ebbe più senso. Finora, almeno per quanto ne
sappiamo, i campi totalitari sono gli unici luoghi sulla terra dove la
dominazione totale della persona umana fu “scientificamente” installata e realizzata.
Confrontata con il suo «folle risultato finale» – la realizzazione
dell’inferno nel mezzo della vita senza alcuna pretesa ad «uno standard assoluto di giustizia» o il ricorso all’«infinita possibilità della
grazia» –, l’aggressione alla natura umana nei campi ebbe un carattere metodico e triplice. Il «primo, essenziale passo» è la distruzione della personalità giuridica o politica mediante la privazione dei
diritti; in secondo luogo, la persona morale viene distrutta rendendo
impotente la sua coscienza; e in terzo luogo l’«identità peculiare»
dell’individuo viene obliterata annientando la capacità umana della
spontaneità nel pensiero e nell’azione.
Privazione dei diritti significa l’eliminazione di ogni status giuridico, compreso anche quello di criminale. Gli esseri umani vengono
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 600.
Arendt cita il poeta polacco Tadeusz Borowski sulla sua esperienza ad Auschwitz: «Mai
prima la speranza fu più forte dell’uomo, e mai prima la speranza precipitò in un male così
grande […]. Ci insegnarono a non rinunciare alla speranza. Ecco perché moriamo nelle camere
a gas». Nell’essere d’accordo che la speranza «più forte dell’uomo» è «distruttiva» dell’umanità,
la Arendt aggiunse che l’innocenza delle vittime, «anche dal punto di vista dei loro persecutori»,
li disumanizza ancora di più: la loro «apatia» verso la propria morte è «la risposta quasi fisica ed
automatica alla sfida dell’assoluta insensatezza» (cfr. Why Did the World Remain Silent?, ristampato in «The Jewish World», 2, September 1964).
15
16
Jerome Kohn
13
sottoposti a tortura non solo in quanto non incolpabili di un reato
qualunque, ma anche indipendentemente da qualsiasi cosa abbiano
fatto; sono puniti per il semplice fatto di essere nati ebrei, per essere i
rappresentanti di una classe in via di estinzione, per essere “asociali”,
o mentalmente malati, o per essere portatori di una patologia. Nuove
categorie venivano inventate quando le vecchie si rivelavano inadeguate, o le vittime erano scelte a caso, come in realtà alla fine avvenne nel «più perfetto» sistema staliniano. L’arbitrarietà della scelta
delle vittime mira a distruggere «i diritti civili dell’intera popolazione», e una tale distruzione non è per nulla una questione di lavaggio
del cervello, dal momento che non di «consenso» c’era bisogno, ma
solo di un’assoluta «disciplina». Nei campi ogni diritto giuridico e
ogni istituzione politica che per secoli erano stati modellati per stabilizzare il mondo e liberare uno spazio per la libertà umana, inclusi l’espressione e il dibattito delle diverse opinioni, viene cancellato
come se non fosse mai esistito. In questo senso, la distruzione della
personalità giuridica o politica di un uomo «è una condizione indispensabile per dominarlo interamente».17
In seguito, viene negata la capacità di compiere una scelta scrupolosa. I prigionieri sono fatti per scegliere non tra bene e male, ma
tra male e male. Quando una madre viene costretta a scegliere uno
dei suoi bambini che deve essere ucciso al fine di salvare la vita (o
procrastinare la morte) di un altro, essa è coinvolta nel crimine commesso contro di lei. Non era possibile il martirio, dal momento che i
campi erano ciò che la Arendt chiamò «antri dell’oblio», luoghi completamente isolati dal mondo esterno, nel quale una storia di martiri
può essere raccontata, ricordata, e divenire un esempio per gli altri.
I morti vengono immediatamente dimenticati «come se non fossero
mai esistiti», e le loro morti sono superflue come lo sono state le loro
vite. Infine, la concentrazione degli esseri umani, ammassandoli insieme e legandoli nel «vincolo di ferro» del terrore, distrugge ogni relazione e ogni distinzione dell’uno verso l’altro, obliterando non solo il
loro posto particolare nel mondo, ma la loro stessa individualità. Essi
vengono sottoposti alla tortura non per imparare ciò che già sanno,
ma per umiliarli fino a trasformarli in fasci di carne inanimata. Lungi
dall’essere in grado di agire spontaneamente, dal cominciare qualcosa di nuovo con l’azione o con il pensiero, essi vanno «alla morte come manichini».18 Nel lavoro da schiavi dei campi del Gulag, con la
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 617.
D. Rousset, Le jours de notre mort, Paris 1947, citato da H. Arendt in Le origini del totalitarismo, cit., p. 624.
17
18
14
Jerome Kohn
loro presunta “razionalità” economica, i lavoratori vengono affamati
o esposti al freddo fino alla morte, subito sostituiti da altri la cui vita
e la cui morte non è meno superflua di quelle dei loro predecessori.
Affrontare il male della criminalità totalitaria richiede un modo di
pensare che riflette l’esperienza umana dell’essere superflui, la futilità e l’insensatezza del «non appartenere al mondo». Questa esperienza fu imposta con il terrore agli internati dei campi, ma la Arendt
vide anche che i «laboratori» del lavoro forzato e dello sterminio
cambiavano la natura di coloro che maneggiavano gli strumenti di
distruzione. Non era una questione di scelta, ma «un accidente della
nascita [che] aveva condannato» alcuni a vivere e altri a morire, ed
entrambi «hanno fino alla fine obbedito e giocato il loro ruolo in
modo altrettanto docile».19 Inoltre, il «non avere un posto nel mondo
riconosciuto e garantito da altri» costituì l’esperienza propria di masse umane sradicate, disoccupate ed indesiderate, che non generò, ma
rese possibile il mondo «menzognero» del totalitarismo. Più di ogni
altro singolo fattore, il fallimento dei «Diritti dell’Uomo», «formulati» e «proclamati» nelle rivoluzioni americana e francese, ma mai
«politicamente garantiti» o «filosoficamente giustificati»20, consentì
il sorgere di una forma di governo che, benché fatta da uomini, negava l’umanità e in cui l’insensatezza della vita e l’indifferenza verso
la morte era l’esperienza comune di base. Come Eichmann ebbe a
rilevare: «Non c’importava morire oggi invece che domani, e talvolta maledivamo la luce del nuovo giorno che ci trovava ancora in
vita».21
Arendt naturalmente era consapevole dell’abisso di umana sofferenza che separa gli oppressi dai loro oppressori, ma la sua opinione era diversa. Contrariamente alle spiegazioni popolari che
cercano di “demonizzare” gli oppressori, la Arendt vide gli stessi
esponenti del regime totalitario, spesso nella loro autovalutazione,
come esseri umani superflui. Gli ufficiali delle S.S. (le camicie brune Schutzstaffel o servizio di sicurezza) venivano selezionati sulla
base di fotografie e di caratteristiche razziali “oggettive”, e non attraverso colloqui in cui accertare la loro propensione o la loro riluttanza, la loro idoneità o meno agli orrendi compiti che venivano
chiamati ad eseguire. Le S.S. erano al di là dell’ambito della legge esattamente quanto lo erano i loro prigionieri, poiché, anche se i
Cfr. H. Arendt, L’immagine dell’inferno, cit., p. 100.
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 612.
21 Cfr. H. Arendt, La banalità del male, capitolo sesto: “La soluzione finale: sterminio”, cit.,
p. 114.
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nazisti non avevano mai formalmente revocato la Costituzione della
Repubblica tedesca, le sue leggi non avevano alcuna autorità quando esse entravano in conflitto con la volontà del Führer. Il lavoro
forzato e i campi di sterminio avevano successo nell’estirpare la personalità morale dei distruttori così come quelle di coloro che essi
distruggevano. Heinrich Himmler, il capo dell’apparato di polizia nazista e delle forze di sicurezza, disse agli ufficiali delle S.S. che essi
dovevano diventare «sovrumanamente inumani»22, cioè cessare di
essere degli umani se volevano realizzare «un compito grande che si
presenta una volta ogni duemila anni». Venivano richieste obbedienza e devozione, ma disprezzati convinzione e consenso, dal momento
che questi ultimi implicavano almeno la possibilità di una minima
traccia di pensiero e di azione spontanei. Eichmann, che non mostrava di avere alcuna spontaneità, nella sua difesa parlò di «obbedienza
cadaverica (Kadavergehorsam)».23
Secondo Arendt, coloro che sostengono un sistema totalitario
possono essere «portatori di ordini» o «portatori di segreti», ma agli
occhi del movimento non hanno alcuna responsabilità per ciò che
fanno. Senza la struttura della responsabilità, la realtà del mondo diviene «una massa di dati incomprensibili».24 Gli esseri umani possono essere torturati e massacrati, e «alla fine né il torturatore né
il torturato […] possono rendersi conto che quanto sta accadendo è
qualcosa di più che un gioco crudele o un sogno assurdo».25 I sostenitori, come se fossero pedine di scacchi, «incarnano» la volontà del
capo, che, quale unico ricettacolo di «responsabilità», è infallibile.
Tuttavia, una tale infallibilità non ha nulla a che fare con la verità
o con la veridicità, come i fedeli seguaci di Stalin ebbero a scoprire
quando divennero le sue vittime nei processi della Grande Purga della metà degli anni Trenta. Gli accusati, come veniva loro imputato,
non avevano tradito il Partito, ma erano senza difesa e rimanevano
del tutto passivi quando si trovavano davanti all’inesorabile volontà di Stalin. Più o meno nello stesso senso, quando Hitler di fronte
alla disfatta inevitabile non ritenne di capitolare per salvare la vita
dei tedeschi, ma al contrario dichiarò che l’intera nazione tedesca
sarebbe stata indegna di continuare a vivere, indegna di essere parte
della razza “ariana”, se e quando avesse mancato di eseguire la sua
volontà. E tuttavia Hitler e Stalin, a differenza dei comuni dittatori,
Ivi, p. 113.
Ivi, capitolo ottavo: “I doveri di un cittadino ligio alla legge”, cit., p. 142.
24 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 610.
25 Ibid.
22
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erano tanto i “prodotti” quanto i capi dei rispettivi movimenti, tanto
le loro direzioni di marcia quanto i loro dirigenti. «Tutto ciò che voi
siete, lo siete attraverso di me; e tutto ciò che io sono, lo sono solo
attraverso di voi», disse Hitler alle S.A. (le camicie brune della Sturmabteilung, o truppe d’assalto), che precedettero l’“élite” delle S.S.
nelle “gerarchie” del nazismo in continuo mutamento. Egli parlò di
se stesso come di una «calamita» che attraeva l’«acciaio» del popolo
tedesco. Come volontà di un movimento totalitario il capo è insostituibile; ma come funzione di quel movimento egli è sostituibile
virtualmente da uno qualsiasi dei suoi seguaci, e Hitler e Stalin lo
sapevano bene. Perciò la Arendt si riferì ad entrambi come a «nonpersone» o «non-entità». Per lei la considerazione principale non era
il calcolo della sofferenza o il numero delle vittime, ma il fatto che
nei campi gli esseri umani venivano distrutti senza una causa o una
ragione. «Come le vittime nelle fabbriche della morte o degli antri
dell’oblio non sono più “umane” agli occhi dei loro carnefici, così
questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà
derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana».26 I crimini
che venivano commessi non avevano motivazioni umanamente comprensibili. La semplice, irresponsabile velocità di questo nuovo genere di criminalità era simile ad una valanga o ad un bolide che, se non
controllati, possono devastare il mondo umano e ridurlo in cenere
finché non ci sarebbe stato più nulla da consumare se non se stesso.
La sua capacità di distruzione totale era, per la Arendt, la ragione per
cui il terrore totalitario era il male radicale. Era come se per la prima
volta la radice del male fosse apparsa nel mondo, dove era stata tenuta nascosta dalle leggi, dalla coscienza e da principi come l’onore e
l’eccellenza, e anche dalla paura che gli esseri umani, individualmente presi, manifestano quando sono ancora liberi di farlo.
Il «dominio totale dell’uomo», agli occhi della Arendt, era male
alla sua radice, non solo perché senza precedenti, ma perché non aveva alcun senso. Ella si chiese:
Perché l’aver sete di potere, che fin dall’inizio della storia tramandata è stato considerato il peccato politico e sociale per eccellenza, oltrepasserebbe all’improvviso tutte le limitazioni dell’egoismo e dell’utilità in precedenza conosciute
e cercherebbe non semplicemente di dominare gli uomini così come sono, ma di
cambiare la loro stessa natura; non solo di uccidere chiunque sia di ostacolo ad
un’ulteriore accumulazione del potere, ma anche testimoni innocenti ed inermi, e
26
Ivi, p. 628.
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ciò anche quando un tale assassinio è di impedimento – più che un vantaggio – per
l’accumulazione del potere?27
Non c’è alcuna risposta disponibile a questo interrogativo. Nel caso di Hitler è ben noto che la sua implacabile disumanizzazione e
distruzione di coloro che non costituivano per lui alcuna minaccia
intralciò la sua capacità di combattere efficacemente contro i suoi
veri nemici alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Qual è lo scopo di dominare gli uomini ad ogni costo, non come
sono, ma al fine di «cambiare la loro stessa natura»? Se è per ottenere «la coerenza di un ordine del mondo menzognero», come la
Arendt arrivò a suggerire, qual è lo scopo di un sistema che, nonostante fosse riuscito a distruggere il mondo umano, non sarebbe finito
nella creazione di un «Reich millenario» o di un’«età messianica»,
ma solo nell’autodistruzione? Certamente, la Arendt non giudicò mai
verosimile la “vittoria” suicida del totalitarismo. Ciò avrebbe richiesto anzitutto il governo globale di un unico potere totalitario, e sotto
questo profilo riteneva che l’invasione della Russia da parte di Hitler
nel 1941 era simbolicamente importante a dispetto del suo patto con
Stalin di due anni prima e a dispetto della reciproca ammirazione
tra i due leader, cui la Arendt dava grande rilievo. Inoltre, vide che
«nessun sistema è mai stato meno capace [del totalitarismo] di espandere gradualmente la sua sfera d’influenza e di restare fedele alle sue
conquiste». Soprattutto, poiché la pluralità è l’ineluttabile condizione
dell’esistenza umana – «non l’Uomo, ma gli uomini abitano la Terra» -, la Arendt giunse progressivamente a ritenere inverosimile la
nozione che un unico regime totalitario avrebbe potuto distruggere
l’intero mondo.
Che il totalitarismo sia comparso in due paesi quasi nello stesso periodo di tempo è un dato di fatto incontrovertibile, ed è più
facile immaginare la sua riapparizione che quali siano state le sue
prime manifestazioni. Senza dubbio ci sono importanti insegnamenti
da prendere in considerazione per quanto riguarda le sue origini, gli
“elementi” da cui nacquero i movimenti totalitari. Al giorno d’oggi
l’esistenza diffusa di masse e società di massa, alienate dal mondo
ed attratte non solo dalle ideologie, ma dagli ismi di ogni genere in
risposta al loro senso di estraniazione (homelessness), costituisce una
lezione di questo tipo. Tuttavia, la Arendt ha ripetutamente affermato
che il male del dominio totalitario sconvolge la comprensione umana, cioè fa esplodere «le nostre categorie politiche e i nostri criteri
27
Cfr. “Ideology and Propaganda”, cit.
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di giudizio morale».28 Che un male simile non possa essere afferrato
dalle convenzionali categorie di pensiero, cioè che non abbia motivi umanamente comprensibili, è esattamente questa la sua radicalità.
Una cosa è comprendere l’«idea» di totalitarismo, un’altra è venire a
patti con «atti [che] costituiscono una rottura con l’insieme delle nostre tradizioni». Avendo riflettuto per anni su tale impasse, la Arendt
rivolse la sua attenzione ad una critica dell’intera tradizione del pensiero politico occidentale29, e provò a ripensare concetti politici fondamentali come azione, potere e legge. Si pose domande come: «Che
cos’è l’autorità?», «Che cos’è la libertà?», «Che cos’è la politica?».30
Fu allora che incontrò Adolf Eichmann.
Quando Eichmann fu catturato in Argentina dagli agenti del governo israeliano e condotto in tribunale a Gerusalemme, Arendt scorse l’opportunità, davvero inconsueta per i filosofi, di affrontare «direttamente la sfera delle vicende umane e delle gesta umane».31 Al
processo fu corrispondente del periodico «The New Yorker», e subito
dopo che nel 1963 era stato pubblicato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, spinta dalle domande rivoltele da un giornalista, rifletté sulle ragioni per cui lei, «scrittrice e docente di filosofia
politica […] si era […] impegnata in un lavoro di giornalista». Il
perché stava – fu la sua risposta – nel fatto che il processo le offriva
l’opportunità di incontrare «in carne ed ossa» un noto criminale nazista, ed era ansiosa di capire, possibilmente, la sua colpa individuale,
perché egli aveva fatto ciò che aveva fatto, che – ella aggiunse – era
«irrilevante» per la maggior parte delle sue considerazioni teoretiche
in Le origini del totalitarismo. Nella sua prima opera aveva trattato il
«tipo» di criminali totalitari, ma ora cercava di sapere «Chi era Eichmann?» e «Quali furono i suoi atti, non in che misura i suoi crimini
erano parte integrante del sistema nazista», ma entro quali limiti egli
era un essere umano autonomo?
Aveva, così disse, «il desiderio di espormi – non agli atti che,
in fondo, erano ben noti –, ma allo stesso malfattore». Fu que28 Cfr. “Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere)”, in Archivio Arendt, 2. 19501954, cit., p. 82.
29 Cfr. Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, trad. it. a cura di S. Forti in
«MicroMega», n. 5, 1995, pp. 52-108.
30 Cfr. “Che cos’è l’autorità?” e “Che cos’è la libertà?” in H. Arendt, Tra passato e futuro, trad.
it. di T. Gargiulo, Introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991; “Che cos’è la politica?” e
“Introduzione alla politica, I e II”, in H. Arendt, Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, Prefazione di K. Sontheimer, trad. it. di M. Bistolfi, Ed. di Comunità, Milano 1995.
31 Cfr. “L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo”, in Archivio Arendt
2. 1950-1954, cit., p. 219.
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sto «il motivo più potente che agì nella mia decisione di andare a
Gerusalemme».32
Per certi versi La banalità del male richiama le ultime sezioni di
Le origini del totalitarismo, ma per altri ed importanti aspetti se ne
distacca. Arendt mise in chiara evidenza queste differenze in un certo numero di lettere. A Mary McCarty ne indicò tre. Per prima cosa
scrisse che non credeva più negli «antri dell’oblio», perché «vi sono
semplicemente troppe persone al mondo perché sia possibile dimenticare». In secondo luogo, ella aveva compreso che «Eichmann era
molto meno influenzato dall’ideologia» di quanto aveva ipotizzato
prima di assistere al processo. Ciò che le è diventato chiaro è il fatto
che «lo sterminio di per sé» non dipendeva dall’ideologia. In terzo
luogo, ed era questa la differenza più importante, la frase banalità del
male «si pone in contrasto con […] “male radicale”».33 Quest’ultima
distinzione viene sviluppata più dettagliatamente in una lettera a Gershom Scholem.34 «Quel che ora penso veramente – scrisse – è che il
male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo». «Il pensiero cerca
di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in
cui cerca il male, è frustrato».35 Che nel male non ci sia per il pensiero nulla a cui attaccarsi, è ciò che Arendt intese per banalità del male.
Non gli atti criminali, ma il malfattore che a Gerusalemme le stava
di fronte e l’imponenza del male che egli aveva inflitto al mondo
sono in tal senso banali.36 La comprensione del fatto che il male più
estremo (the most extreme evil) non ha alcun significato che la mente
umana possa rivelare, cioè che esso sia non solo insensato secondo la
sua logica interna, ma insensato in termini assoluti, era importante;
per non dire di più, ciò offrì alla Arendt un certo sollievo da un peso
che portava da molti anni.
In una lettera successiva alla McCarty, che aveva scritto dell’effetto
«moralmente esilarante» che la lettura di La banalità del male le aveva
32 Cfr. “Grafton document”, cit. L’intero file Eichmann è tra le componenti più importanti della
raccolta degli scritti della Arendt alla Library of Congress. È un tesoro di documenti, che comprendono note di Eichmann, trascrizioni e resoconti di dibattiti legali. Vi sono molte lettere pro e
contro la Arendt che attestano la profondità e l’amarezza della controversia che sorse immediatamente dopo la pubblicazione di La banalità del male.
33 Lettera a Mary MacCarty del 20 settembre 1963, in Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary MacCarty 1949-1975, a cura di C. Brightman, trad. it. di A. Pakravan Papi,
Sellerio, Palermo 1995, pp. 277-79.
34 Lettera a Scholem del 24 luglio 1963, in H. Arendt, Ebraismo e modernità, trad. it. a cura di
G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1993.
35 Ivi, p. 227.
36 Fin dall’inizio la nozione di banalità del male si è rivelata controversa e costituisce uno
scoglio per alcuni dei più avvertiti e simpatetici esegeti del pensiero della Arendt.
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procurato, Arendt annotò: «[S]ei stata l’unica tra i lettori ad aver capito
ciò che, altrimenti, non ho mai ammesso – cioè che ho scritto questo libro in uno strano stato di euforia».37 In una lettera ad un corrispondente tedesco38 affermò che vent’anni dopo aver appreso dell’esistenza di
Auschwitz aveva sperimentato una cura posterior, cioè una guarigione
dalla sua incapacità di pensare dalle sue radici il male della criminalità
totalitaria. Per quanto riguarda lo stile, La banalità del male è diverso
da qualsiasi altra cosa nel corpus degli scritti arendtiani. Come resoconto di un processo ad un’azione criminale è drammatico. In un’intervista la Arendt disse: «Che il tono della voce sia prevalentemente
ironico, è affatto vero», aggiungendo che «in tal caso il tono della voce
è realmente la persona», cioè lei stessa, il drammaturgo. Avrebbe potuto – disse – rimanere in silenzio e non aver scritto il libro, ma non
lo avrebbe mai scritto «diversamente». La cura, posterior o ritardata
che fosse, è importante in un altro senso, giacché qui, in un processo il
cui solo scopo era di fare giustizia, la terribile offesa inflitta al popolo
ebraico, almeno secondo il suo giudizio, alla fine avrebbe dovuto essere sanzionata come un crimine contro l’umanità.
Arendt vide Eichmann, sotto processo per la sua vita, come un
«buffone»39 la cui
[…] incapacità di parlare era intimamente connessa con un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista dell’altro. Nessuna comunicazione era possibile con lui, non perché egli mentiva, ma perché era circondato dalla più affidabile
di tutte le protezioni contro le parole e la presenza degli altri, e, quindi, contro la
realtà come tale. […Ciò era] la prova contro la ragione, la discussione, l’informazione e l’intuito di qualsiasi tipo.40
Avendo incontrato un uomo di tal genere, la Arendt vide che la
banalità del male è potenzialmente di gran lunga più grande in estensione – in verità, senza limiti – di quanto lo sia la crescita del male
da una «radice». Una radice può essere strappata, che è ciò che intese
fare quando parlò di «distruggere» il totalitarismo, ma il male perpetrato da un Eichmann può diffondersi sulla faccia della terra come
un «fungo» proprio perché non ha radici. Inoltre, il caso Eichmann
condusse la Arendt a vedere che almeno un malfattore non era «cor37 Lettera di Arendt alla MacCarty del 23 giugno 1964, in Tra amiche, cit., p. 310; la lettera
della MacCarty alla Arendt è del 9 giugno 1964, e la cit. è a p. 308.
38 Cfr. la lettera a Meier Cronemeyer del 18 luglio 1963 (The Hannah Arendt Papers at the
Library of Congress).
39 H. Arendt, La banalità del male, cit., p. 62.
40 Ivi, capitoli terzo e quinto.
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ruttibile». Avendo Eichmann dominato o nel suo caso dimenticato
ogni tentazione che può aver avuto a fermare o impedire l’organizzazione e il trasporto di milioni di ebrei innocenti verso la loro morte,
egli si vantava di aver fatto il suo dovere fino alla fine! A differenza di Himmler, il suo massimo superiore nella catena di comando
e architetto capo della “soluzione finale”, Eichmann non cercò mai
di “negoziare” con il nemico quando divenne evidente che la causa
dei nazisti era ormai perduta. Egli dichiarò, invece, «di aver sempre
vissuto secondo i principî dell’etica kantiana»41 e Arendt annotò che
«con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o
meno esatta dell’imperativo categorico»42, anche se egli nella pratica
l’aveva «distorto». La Arendt, inoltre, riconobbe che «l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso
Eichmann chiamava la teoria di Kant “ad uso della povera gente”»43,
l’identificazione della volontà di uno solo con la «fonte» della legge,
che per Eichmann era la volontà del Führer.44
Forse l’aspetto più provocatorio di La banalità del male è lo studio della coscienza umana. Il rifiuto della Corte di prendere seriamente in considerazione la questione della coscienza di Eichmann
ebbe come conseguenza inevitabile l’incapacità di affrontare ciò che
la Arendt chiamò «i principali fenomeni morali, giuridici e politici
del nostro secolo».45 I giudici israeliani intesero la coscienza in senso tradizionale come la voce di Dio o lumen naturale, che parla o
brilla in ogni anima umana, e che esprime o illumina la differenza tra
giusto e sbagliato, solo che ciò non si verificò nel caso di Eichmann.
Egli aveva una coscienza, e sembra che abbia «funzionato normalmente (in the expected way)» per poche settimane dopo che fu impegnato nel trasporto degli ebrei, e poi, quando non sentì alcuna voce
dire: Non uccidere, ma dire, al contrario: Uccidi, «cominciò a funzionare nel senso inverso».46 E questo era ben lungi dall’essere vero
solo per Eichmann. Arendt si convinse dalle testimonianze presentate al processo che da un capo all’altro dell’Europa era avvenuto un
generale «crollo morale», da cui nemmeno alcuni membri rispettati
della leadership ebraica erano rimasti indenni.47
Ivi, p. 142.
Ivi, p. 143.
43 Ibid.
44 Ivi, p. 144.
45 Ivi, p. 155.
46 Ivi, p. 103.
47 Ivi, pp. 133 e sgg. Un anno dopo (1964), scrivendo su Il Vicario di Rolf Hochhuth, scoprì
che non ne fu indenne nemmeno Pio XII, papa durante la guerra.
41
42
22
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E così la controversia divampò. La Arendt può aver esagerato circa la portata degli attacchi contro di lei orchestrati da una «congiura»
dell’establishment ebraico e diretti contro un libro che non era stato
«mai scritto».48 Certamente non tutti quelli che dissentirono da lei,
talvolta in modo molto netto, furono malevoli o male informati.49
In verità, molte delle cose che furono dette erano delle autentiche
sciocchezze, per esempio, che la Arendt aveva cercato di scagionare
Eichmann quando aveva fatto esattamente il contrario, o che era stata
moralmente insensibile nel chiedere perché gli ebrei non reagirono
combattendo, una questione sollevata dalla difesa ma mai dalla Arendt, che comprendeva che i processi di disumanizzazione impedivano
di ribellarsi. Tuttavia, molti furono profondamente turbati dalla sua
descrizione di un Eichmann che non era un antisemita ideologico né
motivato da spirito criminale – egli desiderava fare carriera non assassinando chiunque, ma compiendo «coscienziosamente» il proprio
lavoro. Per la Arendt non vi erano prove che egli fosse «deciso a
comportarsi in modo sbagliato». Egli non era «moralmente insano»,
poiché nel suo modo «confuso» distingueva tra bene e male, e i risultati dei test psicologici mostravano che non era un «mostro», ma
spaventosamente normale.
Eichmann non era stupido; sapeva ma non pensava ciò che stava
facendo, non nel passato e nemmeno a Gerusalemme. Si contraddiceva continuamente, ma non mentiva; la sua coscienza non lo infastidiva; e non soffriva di alcun rimorso. «Sapeva che ciò che una volta
aveva considerato suo dovere veniva definito oggi come crimine e
accettava questo nuovo codice di giudizio come se si fosse trattato
solo di una diversa regola linguistica».50 Perciò era importante per
Arendt che la giustizia della sentenza di morte emessa dalla Corte
fosse percepita da tutti, e per questa ragione propose il suo giudizio,
rivolgendosi a Eichmann nei seguenti termini:
E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non
coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che
tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la
terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con
te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato.51
48 Cfr. H. Arendt, “La responsabilità personale sotto la dittatura”, trad. it. a cura di F. Fistetti in
AA.VV., Pagine sulla Shoa, Kaos edizioni, Milano 2005.
49 Cfr. la lettera inedita di Hans Jonas a Hannah Arendt datata “gennaio 1964”.
50 Cfr. H. Arendt, “Pensiero e riflessioni morali”, in La disobbedienza civile ed altri saggi, trad.
it. a cura di T. Serra, Giuffrè, Milano 1985, p. 115.
51 H. Arendt, La banalità del male, cit., “Epilogo”, p. 284.
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L’“Epilogo” a La banalità del male si occupa della legalità del
processo di Gerusalemme, che nella più gran parte la Arendt difese, ma riteneva necessario chiarire ciò che il dibattimento aveva lasciato all’oscuro. Eichmann era colpevole di «attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della “condizione
umana” senza la quale la stessa parola “umanità” si svuoterebbe di
ogni significato».52 La Arendt riconobbe in Eichmann, che l’aveva
colpita come un individuo «neppure tanto inquietante (nicht eimal
unheimlich)»53, il criminale esemplare capace di commettere «il nuovo crimine, il crimine contro l’umanità». Egli aveva «appoggiato e
messo in atto» la distruzione fisica degli ebrei europei e avrebbe fatto
la stessa cosa ad ogni gruppo e a chiunque altro che un potere a lui
superiore avesse decretato come indegno di vivere.
Con la fondazione dello Stato di Israele gli ebrei furono finalmente in grado di «prendersi la responsabilità di giudicare i crimini
commessi contro il loro popolo»; essi non avevano più bisogno di
«appellarsi agli altri per ottenere protezione e giustizia, o di ricorrere
alla compromessa fraseologia dei Diritti dell’Uomo».
Arendt sapeva da tempo che i diritti umani universali sono una
chimera per coloro che non hanno il potere di difenderli. Per esperienza diretta sapeva che, a dispetto di ogni proclamazione della loro
universalità, tali diritti sono «indipendenti dalla pluralità» e non sono posseduti dagli esseri umani «espulsi dalla comunità umana».54
Perciò, la Arendt parlò di «un diritto ad avere diritti»55, un diritto «a
vivere in un ordinamento dove si viene giudicati sulla base delle proprie azioni ed opinioni», ed esso era quel diritto, negato dal totalitarismo, che sperava sarebbe stato stimato da tutti come il principio fondamentale della solidarietà umana. Il diritto ad avere diritti, il diritto
di una pluralità di persone «ad agire insieme per quanto riguarda cose
che sono di eguale interesse per ognuno» era per la Arendt la condizione minima di un mondo umano comune. Tale diritto, la fonte dei
diritti di libertà e giustizia, verrebbe «politicamente garantito» se e
solo se fosse considerato come il principio basilare della legge internazionale, una legge «al di sopra delle nazioni», la cui applicazione
sarebbe legalmente vincolante per tutti i popoli e per tutte le nazioni,
Ivi, p. 275.
Cfr. la lettera di Hannah Arendt a Heinrich Blücher del 15 aprile 1961, in Hannah Arendt
- Heinrich Blücher, Briefe 1936 – 1968, Piper Verlag, München 1999.
54 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., “Imperialismo”, cap. 9, “Le incertezze dei diritti
umani”, p. 412.
55 Ivi, p. 410.
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in grado di trascendere ogni «norma di sovranità».56 Dopo aver scritto di un «diritto ad avere diritti», ma prima di incontrare Eichmann,
la Arendt parlò del «rombo» dell’«esplosione» dei crimini totalitari,
che tuttavia ci lascia silenziosi quando «invece di “Contro che cosa lottiamo?”, osiamo domandare: “Per che cosa lottiamo?”».57 Non
diede una risposta diretta a quell’interrogativo, forse perché voleva
che i suoi lettori ci arrivassero da soli attraverso la riflessione. Sembra fuori discussione affermare che la Arendt stessa considerava il diritto ad avere diritti qualcosa di degno «per cui lottare». La difficoltà
sta nel fatto che il diritto ad avere diritti, come pure i diritti umani,
non sono mai stati «fondati filosoficamente». Qui anche il processo
Eichmann, in particolare la questione della coscienza, indicava la direzione della parte più impegnativa dell’opera matura della Arendt.
In un certo senso, ella ha decostruito il fenomeno della coscienza in
qualcosa di simile alle regole di un gioco mutevole o, meglio, alle regole mutevoli dello stesso gioco. Non era, però, soddisfatta di questa
spiegazione e voleva scoprire che cosa intendiamo quando parliamo
di fenomeni morali nei limiti in cui non sono regole, costumi e abitudini. Trovò che ciò che tradizionalmente è stata considerata la voce
della coscienza (voice of conscience) in realtà era l’attualizzazione
della coscienza (consciousness) nell’attività del pensare. Allora la relazione dell’incapacità di pensare con il male divenne concreta. Ciò
che è molto sfuggente e difficile da afferrare è che la Arendt intese
alla lettera l’attività del pensare, e non i suoi risultati o le cose pensate, da cui tutt’al più potrebbero essere derivate nuove regole, che
o si dissolverebbero in un pensare ulteriore o diverrebbero costumi
e abitudini.
Ciò che la Arendt intese per attualizzazione della coscienza era
non la coscienza (consciousness) in senso psicologico, ma un saperecon-sé (con-scientia) che impone dei limiti quando viene sperimentato. Il punto cruciale è che l’attività del pensare fornisce un’intensa
ed inevitabile esperienza di pluralità. Mentre pensa, cioè mentre pratica il dialogo silenzioso del pensiero, l’io si divide in due, aprendo
una differenza interna dentro di una identità apparente. Con la velocità di un fulmine questo «due-in-uno», come Arendt lo chiamò,
conversa finché dura l’attività del pensare. Scoprì che questi «soci»
56 Ivi, Ia edizione, “Osservazioni conclusive”. Arendt, coerentemente, si oppose all’idea di sovranità come di un potere al di sopra della legge.
57 Cfr. “La tradizione e l’età moderna”, in H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 53 (originariamente in Karl Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, cit.); cfr. anche Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), cit.
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dell’attività del pensare devono essere tra loro in buoni rapporti, cioè
in accordo reciproco, poiché non possono continuare o ricominciare a pensare se si contraddicono a vicenda. Arendt fondò, in chiave
esistenziale, la legge logica di non-contraddizione sull’accordo del
due-in-uno. Allo stesso modo, è nell’attività del pensare che esplicitamente la relazione tra una pluralità, anche se è solo tra due, viene
in primo luogo instaurata. Inoltre, non è un’«idea», ma l’esperienza
di una pura e semplice attività che consente ad uno non solo di rispettare ed apprezzare, ma di rifiutarsi ad ogni costo di revocare il diritto
dell’altro di esercitare liberamente il diritto di pensare. Socrate, che
non scrisse mai nulla, preferì morire anziché vivere senza la «compagnia» del pensiero e in molti passaggi della Arendt egli rappresenta
l’esatto opposto di Eichmann. Le contraddizioni di Eichmann indicavano non che egli avesse perduto la coscienza, ma che non aveva
alcuna esperienza della pluralità interna, alcun contatto con se stesso,
e che perciò si poteva fare assegnamento su di lui perché facesse
qualsiasi cosa, assolutamente qualsiasi cosa che la sua «coscienza»
gli assicurasse che fosse un suo dovere.58
Quanto sopra costituisce appena un rapido sguardo sull’ultimo lavoro della Arendt. Bisognerebbe almeno aggiungere che il pensare è
solo una delle tre attività mentali che la interessarono. Il volere dipende in un modo diverso dalla pluralità interna. È un’attività inquieta e
disarmonica in cui l’io che vuole è diviso due o più volte e trascinato
in direzioni diverse. La volontà genera il potere di influenzare il futuro; tuttavia è solo con la cessazione dell’attività che il sé individuato
“salta” nell’azione. Il giudicare, su cui non abbiamo l’ultima opera
della Arendt, è politicamente la più importante di queste attività. Come suo proprio testimone, esso frena l’io-che-vuole manifestando nel
mondo la giustezza implicita nella relazione del due-in-uno del pensare. A differenza dal pensare e dal volere, il giudicare abbraccia la
pluralità del mondo esterno, di uomini e donne nella loro unicità, di
persone. I testi più importanti che la Arendt scrisse dopo La banalità
del male rivoluzionano il significato della responsabilità individuale
e la natura del giudizio morale. Anche se essi, tranne poche eccezioni, hanno giocato un ruolo secondario nella copiosa letteratura secondaria che si è accumulata attorno alla sua opera, oggi ci sono segnali,
58 Fu dovuto alle sue flagranti contraddizioni, che non si limitavano affatto alle questioni morali, che Arendt vide Eichmann come un «buffone». Durante gli ultimi minuti rivolgendosi ai
testimoni delle sua esecuzione Eichmann «cominciò col dire […] che non crede nella vita dopo
la morte [e] poi aggiunse: “Tra breve, signori, ci rivedremo”»; cfr. La banalità del male, cit., p.
259.
26
Jerome Kohn
specie tra i lettori e gli studiosi più giovani, di un nuovo interesse
verso questi testi. In generale, il pensiero di Arendt si è rivelato stimolante grazie alla profondità, alla passione e all’indipendenza del
suo spirito e per il fatto che ebbe il coraggio di scrivere contro la
tendenza delle opinioni politiche dominanti e dei pregiudizi accettati. Le ultime opere ora accessibili59 aggiungono un’altra dimensione
all’attenzione che, con ogni probabilità, verrà in futuro rivolta alla
Arendt, una dimensione filosofica che senza dubbio era presente fin
dall’inizio, ma che cominciò ad articolare solo alla fine della sua vita
e che non visse abbastanza per delineare esaustivamente. L’eredità di
Hannah Arendt alle generazioni successive, più che in un insegnamento da apprendere, consiste in una sfida da affrontare.
59 [Accessibili nel sito sopra riportato. N.d.T.] Cfr.: “La responsabilità personale sotto la dittatura”, cit.; “Alcune questioni di filosofia morale”, in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura
di J. Kohn, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004; Basic Moral Propositions (la trad. it.
parziale di questo corso, tenuto dalla Arendt all’Università di Chicago nel 1966, è stata collocata
da Jerome Kohn nelle note a piè di pagina del saggio “Alcune questioni di filosofia morale”); Filosofia e politica, in «Humanitas», n.6, 1998; Pensiero e riflessioni morali, cit.; Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, a cura di R. Beiner, trad. it. di P. P. Portinaro,
il melangolo, Genova 1990; e “Pensare” e “Volere”, in H. Arendt, La vita della mente, trad. it. a
cura di A. Dal Lago, il Mulino, Bologna 1987.
AXEL HONNETH
AUTOREALIZZAZIONE ORGANIZZATA.
PARADOSSI DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE*
Sin dai suoi esordi alla fine del XIX secolo la sociologia, nella misura in cui si presenta come teoria della società, concepisce se stessa
come un confronto critico con i processi di trasformazione sintomatici della società moderna. Essa è prevalentemente agli ordini di due
concetti derivati dall’eredità della filosofia sociale classica: il concetto weberiano di razionalizzazione, con il quale viene caratterizzato
il progressivo dispiegamento dei criteri della razionalità strumentale
nelle sfere del sociale, all’inizio ancora sottoposte a forme di integrazione tradizionale mediante affettività e vincoli normativi; e il concetto di «individualizzazione» con il quale, invece, si intende, così
più o meno in Durkheim, quel processo di crescente, irreversibile liberazione dei membri di una società da vincoli tradizionali e obblighi
stereotipati, che favorisce una maggiore autonomia e libertà di scelta. Di conseguenza, lo sviluppo della società moderna è stato solitamente concepito, sulla base di questi due concetti, come un intreccio
istituzionale di razionalizzazione e crescente individualismo. Certo,
tanto maggiore è il guadagno conoscitivo che procede da questa coppia concettuale quanto molteplici sono i problemi che, sin dall’inizio,
queste categorie prese per sè sollevano a diversi livelli: del concetto
di razionalizzazione è da subito poco chiaro se davvero è il criterio
unitario dell’efficienza delle regole tecniche ciò che ci fa parlare
di una razionalizzazione istituzionale in contesti così diversi come
* Edizione originale in: “Organisierte Selbstverwirklichung. Paradoxien der Individualizierung”, in A. Honneth (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des gegenwärtigen
Kapitalismus, Campus, Frankfurt – New York 2002.
Traduzione dal tedesco di Vito Santoro.
28
Axel Honneth
quelli dell’organizzazione economica, dell’amministrazione politica,
della condotta di vita individuale e della vita familiare; in qualsiasi
modo vengono analizzati i singoli processi di trasformazione istituzionale in queste sfere, quantomeno non è sufficientemente chiaro se
esse tutte possono venir comprese nell’identico criterio di un incremento della razionalità strumentale. Ma altrettanto precoce è stata la
contestazione dell’utilizzo che Durkheimer fa della categoria di una
«individualizzazione» socialmente indotta, quando egli, concordando
con Hegel, conclude dal fatto della differenziazione delle funzioni
ad un incremento delle possibilità di configurazione individuale. Già
Weber, in un suo passo, afferma che con l’espressione «individualismo» è inteso «ciò che di più eterogeneo si possa immaginare».1 Ben
presto questo diventa il problema centrale: in che senso dalla pluralizzazione descrittivamente rilevata dei ruoli individuali, dei legami e
delle appartenenze, può effettivamente risultare anche un’indicazione sull’incremento dell’autonomia personale. Certo, anche per questo
secondo aspetto, l’aumento del potere d’agire e della capacità di riflessione individuale, si possono con tutta probabilità indicare criteri
che sono accessibili ad un determinato tipo di osservazione esterna;
ma, in qualsiasi modo i problemi di una ricerca di questo tipo vengono risolti, sembra essere fuori questione che con l’individualizzazione della storia di vita è inteso un processo che, compiendosi oggettivamente, non è difficile da osservare, mentre l’affermazione di una
autonomizzazione del soggetto resta sempre ultimamente vincolata
alla prospettiva di chi prende parte all’interazione. In questo modo, al
secondo elemento costitutivo di una diagnosi sociologica del moderno, il concetto di «individualizzazione», è sin dall’inizio intrinseca
una precaria ambivalenza, poiché con esso si pensa in pari tempo
al fatto esterno di una crescita delle qualità individuali così come
al fatto interno di un incremento dell’autonomia di prestazione del
soggetto. In questo contributo mi vorrei concentrare sulle peculiarità
strutturali che il processo di individualizzazione, determinato da questi due poli, ha oggi assunto; sono quindi preliminarmente necessari
ulteriori chiarimenti concettuali, in quanto lo stato di fatto considerato presenta molte più dimensioni di quello che può sembrare ad un
primo sguardo.
1 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. di P. Burresi, Sansoni,
Firenze 1977, p. 180.
29
Axel Honneth
I
Il classico della sociologia che ha sviluppato precocemente una
certa sensibilità per le differenziazioni concettuali che sarebbero necessarie all’interno di questa disciplina per risolvere le ambiguità del
concetto di «individualizzazione», è Georg Simmel. Come per nessun
altro autore della generazione dei padri fondatori, a lui è chiaro che
tra il mero fatto dell’incremento delle qualità individuali, cioè la pluralizzazione degli stili di vita resa possibile dall’economia monetaria,
e l’accrescimento dell’autonomia personale, sussiste una differenza
di principio; se l’anomizzazione delle relazioni sociali nella grande
città può condurre ad un allentamento dei vincoli d’appartenenza al
gruppo e, di conseguenza, ad una moltiplicazione delle possibilità
di scelta, ciò, dal suo punto di vista, non significa allo stesso modo
una crescita della libertà personale: per questa è necessaria «una protezione che dona sicurezza» da parte dell’altro soggetto.2 Ma Simmel, non solo è tra i primi a denunciare la necessità di differenziare
l’individualizzazione sociale dall’incremento della libertà, per rendere giustizia al compito di una diagnosi del capitalismo moderno;
anzi, nella sua diagnosi sociologica del presente, egli assegna alla
sociologia un concetto di individualizzazione che presenta ulteriori
complicazioni, mettendone allo scoperto due ulteriori dimensioni semantiche. Da un lato, come è chiaro dalle analisi della Filosofia del
denaro, con il processo rilevato descrittivamente della pluralizzazione delle possibilità di scelta si accompagna sempre il pericolo di un
impoverimento dei contatti sociali, di un incremento dell’indifferenza
intersoggettiva; di conseguenza, nel concetto di individualizzazione
va distinto ancora un terzo significato in relazione alla tendenza ad
una singolarizzazione del soggetto nel crescente groviglio di contatti
sociali anonimizzati.
Simmel crede di poter descrivere anche questa tendenza di sviluppo innanzitutto solo da una prospettiva osservativa; egli, quindi,
non si riferisce ad un processo di crescente solitudine, di isolamento
sentito o patito, quanto piuttosto al fatto oggettivo di una sempre più
forte concentrazione all’interesse meramente proprio, indipendente
da altri.
Ma soprattutto Simmel si accorge di due differenti aspetti semantici nell’idea stessa di un incremento della libertà, che lo portano ad
2 G. Simmel, Filosofia del denaro, trad. it. a cura di A. Cavalli e L. Parucchi, UTET, Torino
1984, p. 483.
30
Axel Honneth
una ulteriore differenziazione del concetto di «individualizzazione».3
Qui, il punto di partenza è rappresentato da una distinzione nella determinazione del fine del secondo polo dell’individualizzazione, cioè
dell’autonomizzazione: da una parte, secondo la sua interpretazione
della cultura giuridica romana, come telos della formazione della libertà interna viene intesa l’articolazione autonoma di convinzioni e
intenzioni che, per principio, tutti gli uomini possono condividere;
si tratta di un individualismo dell’eguaglianza, dato che qui ne va
della possibilità di una capacità di riflessione individuale che costituisce una caratteristica del genere umano in quanto tale. A questo
concetto di autonomia, come forse diremmo oggi, sta di fronte una
seconda forma di individualismo che ha le sue radici storico-spirituali nel romanticismo tedesco: qui, come fine dell’incremento della
libertà individuale, si intende la elaborazione storico-vitale di quelle
caratteristiche peculiari, insostituibili, in base alle quali i soggetti si
distinguono l’un l’altro; a tal riguardo si deve parlare di un individualismo qualitativo che, a seguito di Herder, Schleiermacher, Nietzsche
e Kierkegaard, ha decisamente di mira l’articolazione dell’autentica
personalità del singolo.
Ne consegue che l’incremento della libertà individuale procede per
Simmel nelle due direzioni dell’aumento in autonomia e della crescita in autenticità; tra queste sussiste una molteplicità di tensioni che,
nella modernità, non sono facilmente rimuovibili. Se riassumiamo la
sua impresa sociologica, risulta allora che Simmel distingue tra loro
quattro fenomeni che di volta in volta possono esseri compresi sotto
il concetto di «individualizzazione»: affianco alla individualizzazione
dei percorsi di vita, che sembra essere un fatto empiricamente osservabile, con questo concetto si intende anche il crescente isolamento
degli attori dell’agire così come o l’aumento delle capacità di riflessione o l’incremento dell’autenticità dell’individuo. La difficoltà sta
nel tenere sempre distinti, nella diagnosi sociologica del presente,
questi quattro processi di sviluppo, in un modo che solo possono venire alla luce i loro reciproci legami.
Deve essere stata questa estrema ricchezza di significato che negli
ultimi cento anni ha portato a modi completamente diversi di interpretare il reperto di una “individualizzazione” della società moderna.
Nel suo profilo di storia delle teorie sul dibattito sotterraneo Markus
Schroer4 distingue, in modo alquanto istruttivo, tre diverse correnti
3 G. Simmel, “L’ampliamento del gruppo e la formazione dell’individualità”, in Sociologia,
trad. it. di G. Giordano, Edizioni di comunità, Milano 1989.
4 M. Schroer, Das Individuum der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2001.
Axel Honneth
31
nelle quali il processo di incremento dell’individualità è stato valutato
rispettivamente in termini molto diversi: da un lato, la crescente attribuzione di «individualità» per mezzo dell’educazione, dell’ amministrazione e dell’ industria culturale viene descritta come un processo
di disciplinamento, dal quale emerge una forma vera e propria di individualismo conformistico, che piuttosto paralizza la forza riflessiva di resistenza del singolo; dall’altro, nei successori di Durkheim e
Parsons emerge una prospettiva nella quale la de-tradizionalizzazione
e la pluralizzazione funzionale viene interpretata come una chance
per l’incremento d’individualità, capace di liberare un’attitudine alla
pianificazione riflessiva, autoresponsabile della vita; per ultimo, tra
queste due correnti si trova un terzo indirizzo teorico di scuola nel
quale il processo dell’individualizzazione è visto come un procedere
bifronte, come emancipazione del singolo dai vincoli tradizionali e
insieme come surrettizio incremento del grado di conformismo.
Ora, se ci rivolgiamo alla situazione attuale, questa immagine già
in sé intricata si complica ulteriormente; alle tre prospettive interpretative già distinte da Schroer si sono aggiunti altri punti di vista che
dal processo d’individualizzazione desumono o un’accentuazione di
singoli fenomeni o un modello strutturale completamente diverso.
Volendo dare solo qualche indicazione, negli autori di orientamento
comunitarista è aumentata l’attenzione per quegli aspetti dell’individualizzazione che già Simmel aveva descritto nei termini di una crescita dell’indifferenza: i soggetti, poiché a causa dell’aumentata mobilità e dell’accelerazione del cambiamento delle professioni devono
abbandonare sempre più velocemente le loro relazioni consolidate,
sono ormai capaci solo di una scarsa capacità di legame e quindi, di
fronte al loro partner dell’interazione, sviluppano in modo sempre più
radicale un atteggiamento meramente egocentrico.5 In questo modo,
nella misura in cui anche le ricerche che analizzano le conseguenze
culturali della virtualizzazione della comunicazione sociale6 vanno
nella stessa direzione, viene toccata dall’osservazione diagnostica del
presente ancora un tema di Simmel, che Charles Taylor ha riproposto
negli ultimi anni: secondo la concezione di quest’ultimo, l’ideale romantico dell’autenticità è stato nel nostro tempo così banalizzato che
esso si è lasciato alle spalle il suo riferimento dialogico, comunitario
e ha condotto a una prospettiva della scoperta-di-sè (Selbstfindung)
5 R. D. Putnam, Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in
America, trad. it. a cura di R. Cartocci, il Mulino, Bologna 2004.
6 A. Wittel, Towards a Network Sociability, in «Theory, Culture and Society», Vol. 18, 2001,
pp. 51-76; H. Dreyfus, On the Internet, Routledge, London 2001.
32
Axel Honneth
meramente riferita all’io.7 Infine, vanno considerati ancora quegli
studi empirici che fanno riferimento a modelli di aspettative istituzionali; per mezzo di queste aspettative, la formazione di una storia
di vita originale è diventata una pretesa imposta al soggetto stesso: la
presentazione di un “sé autentico”, soprattutto nella sfera del lavoro
qualificato, è diventata sempre più un presupposto per l’assunzione
(Einstellungsvoraussetzung), così che, anche per gli stessi interessati,
è sempre più frequente non saper distinguere a ragione tra un “serio”
e uno stilizzato processo della scoperta-di-sé.8
Sicuramente, si potrebbe completare questa lista di nuovi fenomeni che cadono nel contesto per noi imprescindibile dell’«individualizzazione», con qualche ulteriore osservazione; negli
ultimi tempi, soprattutto nella psicologia sociale e nella sociologia
dei media, si trovano analisi che potrebbero ampliare con punti di
vista aggiuntivi lo spettro dei processi di singolarizzazione e autonomizzazione aperto da Simmel. Ma già lo sguardo d’insieme appena abbozzato è sufficiente a far risaltare in tutta la loro ampiezza le difficoltà di fronte alle quali è posto oggi chi si occupa dei
processi di «individualizzazione»: troppi sono i fenomeni sociali, i
rivolgimenti del presente che concernono l’uno o l’altro aspetto dell’“individualizzazione”, per poter sbrigativamente parlare di un modello di sviluppo caratterizzato in modo abbastanza chiaro. Se tuttavia si parlerà in seguito, a proposito del concetto di “paradosso”, di
un tale schema del processo sociale, ciò sarà possibile unicamente
con la precauzione metodologica di presentare, qui, solo una possibile interpretazione, altrettanto legittima, tra altre. La tesi che vorrei
sostenere è che le esigenze di una autorealizzazione individuale, rapidamente cresciute nella società occidentale negli ultimi trenta, quarant’anni per la coincidenza storicamente singolare di processi di individualizzazione tra loro molto diversi, sono diventate nel frattempo
modelli d’aspettative istituzionalizzati della riproduzione sociale, in
modo così radicale da aver perso la loro determinazione interiore di
fine diventando, al contrario, base di legittimazione del sistema. Il risultato di questo paradossale rovesciamento, in cui quei processi che
una volta promettevano un incremento della libertà qualitativa sono
ormai divenuti ideologie della de-istituzionalizzazione, è l’emergere
7 C. Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari
1994.
8 M. Baethge, Arbeit, Vergesellschaftung, Identität - Zur zunehmenden normativen Subjektivierung der Arbeit, in «Soziale Welt», 42, 1, 1991, pp. 6-19; H. Kocyba, “Der preis der Anerkennung”, in U. Holtgrewe, S. Voswinkel, G. Wagner, Anerkennung und Arbeit, UVK, Kostanz 2000,
pp. 127-40.
33
Axel Honneth
di una molteplicità di sintomi individuali di vuoto interiore, del sentirsi superflui, della mancanza di determinatezza. Per motivare la tesi
appena accennata vorrei procedere in tre passi successivi, tentando
innanzitutto di descrivere quella sorta di “affinità elettiva” che negli
anni Sessanta e Settanta si è realizzata nei paesi sviluppati dell’Occidente tra processi di individualizzazione sorti indipendentemente
l’uno dall’altro e procedenti in modo tra loro differente, per cui, nel
complesso si può parlare di una nuova forma di individualismo (II);
in un secondo momento, voglio ricostruire i processi sociali attraverso cui, nei decenni successivi, quelle pretese maturate individualmente venivano trasformate, mediante prestazioni di accomodamento (Anpassungsleistung) istituzionali e organizzative, in modelli di
aspettative istituzionalizzati, in modo che, adesso, queste stanno di
fronte al soggetto come pretese che vengono dall’esterno; anche in
questo caso, come prima, mi devo limitare ad indicare solo alcuni
trend essenziali di sviluppo (III); in ultimo, come terzo passo, vorrei
stilare un elenco degli indicatori clinici e socio-psicologici che parlano oggi di un rovesciamento paradossale dei processi di individualizzazione in una molteplicità di nuove forme di dolore, tanto materiale
che psichico; questa panoramica mi consentirà, inoltre, di concludere
con una citazione di Simmel sorprendentemente attuale.
II
Da una distanza di ormai quasi quarant’anni, ci è oggi assolutamente possibile descrivere i rivolgimenti socio-culturali nelle società
occidentali del dopoguerra come un processo in cui si intrecciano
differenti trend dell’individualizzazione nelle loro rispettive peculiarità. Perciò, non è del tutto sbagliato parlare con Ulrich Beck o Anthony Giddens di una nuova fase, post-moderna, di individualismo
riflessivo.9 Certamente, per una tale diagnosi è necessaria una chiara
coscienza del fatto che, relativamente a questa accresciuta forma di
individualità, non si tratta del risultato di un processo d’incremento,
per così dire unilineare, quanto del frutto di un reciproco rafforzamento tra dinamiche di sviluppo che procedono rispettivamente in
modo del tutto separato; ciò che si è verificato in questo contesto, lo
si può descrivere nel modo migliore con Max Weber come una confluenza di processi di trasformazione materiale, sociale e spirituale
9 U. Beck, Un mondo a rischio, trad. it. L. Castoldi, Einaudi, Torino 2003; A. Giddens,
Modernity and Self-Identity. Self and Society in the Late Modern, Polity Press, Cambrige 1991,
cap. 3.
34
Axel Honneth
che, per “affinità elettive”, avevano così tanti passaggi in comune da
poter produrre unitamente una nuova figura di «individualismo».10
Le basi materiali di questa “spinta all’individualizzazione” emergono da una serie di processi di sviluppo socio-strutturali. Questi,
presi insieme, hanno condotto ad una pluralizzazione dei percorsi di
vita che si lascia illustrare in modo puramente descrittivo: la crescita
sovraproporzionale dei redditi e del tempo libero del lavoro retribuito
ha reso possibile un ampliamento graduale dello spazio decisionale
dell’individuo e, per converso, ha ridotto la forza modellante dei contesti di vita specifici delle classi; inoltre, con la crescita del settore
dei servizi nei paesi capitalistici occidentali, sono aumentate in modo
così sostenuto le chance di ascesa per la maggior parte della popolazione, che si è potuto dar corso ad un più ampio processo di mobilitazione sociale verso l’alto, per mezzo del quale le condizioni di vita si
sono costantemente sempre più differenziate; infine, con l’espansione
culturale che, estesa a molte nazioni, si è verificata in Occidente dopo la fine della guerra intorno agli anni Cinquanta, si sono così rapidamente ampliate le possibilità di scelta professionale che, anche a
tal riguardo, i percorsi di vita hanno iniziato a divergere decisamente
l’uno dall’altro. Già ai tempi delle agitazioni studentesche, quindi, la
popolazione, per quel che riguarda il corso di sviluppo biografico e
delle forme di esistenza, dava di sé un immagine molto più pluralistica, multiforme di quella di appena dieci anni prima.
Alla tendenza oggettiva ad un ampliamento delle opzioni d’agire
si aggiungono altri indicatori; questi devono offrire almeno dei vaghi
punti d’appoggio alla constatazione che nello stesso lasso di tempo è
anche cresciuta quella capacità di autonomia dell’individuo, ultimamente rilevabile solo in modo performativo; sarebbe sorprendente,
infatti, se con l’ampliamento delle possibilità formative non fossero
cresciute decisamente anche le chance per i processi individuali riflessivi e della scoperta-di-sé.11 La dissoluzione della rete dei contatti specifici delle diverse classi, che ha preso corso per mezzo della
riforma culturale e della ristrutturazione delle grandi città, può aver
contribuito, dal suo canto, all’ampliamento dell’orizzonte dei percorsi di vita rappresentabili per il singolo e all’accrescimento radicale
dello spazio per un agire sperimentale. Anche le ricerche empiriche
dei primi anni Settanta, riferendosi all’acuirsi delle crisi adolescenziali, richiamano l’attenzione sul fatto che, in generale, è aumentato
M. Weber, op. cit., pp 162-63.
J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, a cura di G. E. Rusconi, il Mulino, Bologna
1986, Vol. II, p. 1064.
10
11
Axel Honneth
35
il potenziale per una scoperta autonoma della propria identità.12 In
qualsiasi modo si siano costituite le singole cause sociali, sembra non
essere in discussione che le forme di esistenza in solo due decenni si
sono radicalmente individualizzate: i membri delle società occidentali sono stati costretti, sospinti o incoraggiati, in vista delle chance
per il futuro, a rendersi centro della pianificazione e conduzione della
loro vita.
Ma tutti questi processi di trasformazione socio-strutturale non sarebbero bastati a condurre a nuove forme di individualismo se non si
fossero aggiunti ancora altre forme di cambiamento, relative piuttosto al contesto socio-culturale e al mutamento dei comportamenti. Di
certo, si può dire che, senza un ampliamento oggettivo delle opzioni
d’agire individuali, il nuovo ideale culturale non avrebbe avuto alcuna chance per imporsi; tuttavia, le sue radici si trovano in una regione
completamente indipendente. Così, è solo l’incremento dei redditi che
accompagna la crescita dell’economia nel periodo del dopoguerra ad
offrire la possibilità di un comportamento nei consumi improntato ad
un lusso moderato; ma il significato attribuito al singolo in maniera
crescente si spiega a partire da tutt’altra fonte, propriamente culturale:
il bisogno di cercare non nel consumo di beni necessari alla vita ma
in quello di prodotti culturali superflui la possibilità di un aumento
del proprio senso della vita, nasce cioè, secondo Colin Campbell, da
tradizioni religiose minori per lo più protestanti; in queste, in alternativa all’etica del lavoro calvinista, la condizione straordinaria dell’eccitazione affettiva veniva valutata come segno della bontà e della
grazia divina. Così, solo per il venir meno, con il sentimentalismo e
il romanticismo, della radice religiosa di questo piacere allo stimolo
sensoriale fantasticato, esso è potuto diventare uno sprone normativo
ad una distribuzione di massa progressivamente crescente di articoli
di consumo, dal quale il consumismo quotidiano del dopoguerra ha
preso il suo carattere specifico d’assicurazione d’identità.13 Ciò che
vale in particolare per il consumismo sembra riguardare però anche
molte altre trasformazioni nel comportamento di quel periodo: quasi
ovunque, la destrutturazione di rigide pretese di comportamento non
conduce direttamente alla formazione di nuovi ideali di comportamento, ma solo ad un incremento su base più ampia delle chance
d’appropriazione di una tradizione culturale fino ad allora riservata esclusivamente a qualche minoranza, che poi, solo in un secondo
12 R. Döbert, G. Nunner-Winkler, Adoleszenzkrise und Identitätsbildung, Suhrkamp, Frankfurt
a. M. 1975.
13 C. Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, trad. it. Lavoro, Roma
1992.
36
Axel Honneth
momento forza lo sviluppo di nuovi modelli di identità. I processi di
trasformazione socio-strutturale, che sempre più fanno del soggetto
il centro dei suoi propri piani di vita, rendono possibile l’assunzione
di massa di schemi interpretativi, per lo più di origine romantica, che
sono stati tramandati da piccoli gruppi e che lasciano apparire la vita
come un processo di autorealizzazione sperimentale.
Un buon esempio per questo intreccio di “affinità elettive” tra cambiamento sociale e trasformazione culturale è rappresentato da quel
processo di mutamento dei comportamenti che, a partire da allora,
è stato spesso caratterizzato come “rivoluzione sessuale”.14 Invero,
non è che la liberazione da modelli convenzionali di ruolo, divenuta
possibile nel corso della pluralizzazione delle forme di esistenza negli anni Sessanta, avrebbe di per sé suggerito una nuova valutazione
della sessualità come campo privilegiato del dare prova della propria individualità. Essa, anzi, prima che fosse in grado di pervenire alla formazione di uno stile di comportamento in cui la costante
sperimentazione di questa promiscuità sessuale poteva esser vissuta
come espressione dell’autorealizzazione individuale, aveva bisogno
di una più ampia appropriazione di un ideale culturale nel quale già
in precedenza, anche se per una minorità, l’uomo veniva interpretato principalmente come un “soggetto del desiderio” – del resto, per
questa diffusione di un modello interpretativo che ha basi tradizionali
può venir assegnato un ruolo decisivo di mediazione alla ricezione di
certi romanzi come quelli di Hermann Hesse e Henry Miller e alla
musica Rock che proprio allora stava emergendo. La falla normativa che si era in qualche modo aperta per mezzo di questa libertà di
nuovo sviluppo, resa possibile da un punto di vista socio-strutturale,
venne chiusa più o meno ovunque dall’assunzione pratico-vitale di
elementi di una tradizione quasi-romantica che rendeva esperibile la
propria biografia come un processo di tentativi autorealizzativi di un
nucleo di personalità esclusivamente proprio. Crebbe, così, dal confluire dell’individualizzazione socio-strutturale e dell’ideale romantico dell’autenticità, ciò che si può descrivere come la figura compatta
di un nuovo individualismo: anche a seguito dell’accellerazione nella
moltiplicazione delle relazioni sociali, i soggetti perdono in misura
crescente la disposizione a comprendere il loro proprio percorso di
vita come processo lineare di sviluppo dell’identità, al cui termine sta
il ruolo professionale e la divisione del lavoro secondo le specificazioni sessuali nella famiglia; al posto di questi schemi di identità re14 V. Sigusch, Sexuelle Störungen und ihre Behandlung, Thieme, Stuttgart - New York 2001,
pp. 16-52.
37
Axel Honneth
lativamente forti, che ancora Parsons comprensibilmente poneva alla
base della sua teoria, subentra la tendenza, per mezzo dell’apertura di
nuove opzioni d’agire, della partecipazione a diversi contesti sociali,
per mezzo di un rafforzamento dei contatti con forme di vita fino ad
allora estranee e dell’assunzione di modelli interpretativi romantici,
a concepire le diverse possibilità identitarie come materiale per una
scoperta-di-sè sperimentale. Detto con le parole di Simmel, sorge un
individualismo di massa di carattere «qualitativo»: i soggetti mettono
alla prova diverse forme di esistenza per poter realizzare, alla luce
delle esperienze fatte, quel nucleo del proprio sé che essi distinguono
chiaramente da tutti i possibili altri. Ma il prosieguo di questo processo di cambiamento appena all’inizio consiste, ora, nel fatto che le
organizzazioni chiave della società si adeguano creativamente a questo nuovo ideale di comportamento per renderlo, come profilo esistenziale in grado di incrementare l’efficienza, base di legittimazione
di una ampia ristrutturazione.
III
Dai processi di mutamento socio-culturale che ho appena descritto
come risultato della confluenza di sviluppo materiale e culturale, Daniel Bell, circa venticinque anni fa, ha tratto ampie conclusioni in direzione di una crescente contraddizione all’interno del capitalismo.15
Affermando che è sorta una nuova morale quotidiana edonistica che
dovrebbe entrare in un crescente conflitto con le richieste funzionali
del capitalismo, egli si basa essenzialmente sui rivolgimenti culturali seguiti al movimento studentesco: il valore della creatività estetica e dell’impulsività sensibile, nel frattempo penetrata, secondo le
sue convinzioni, dalla subcultura delle avanguardie artistiche negli
orientamenti di comportamento della maggior parte della popolazione, impedisce sempre di più la maturazione di quella virtù etica del
lavoro assolutamente necessaria per la conservazione dell’efficienza
economica. Ora, come oggi possiamo dire con una certa sicurezza,
la realizzazione di questa prognosi sociologica non si è verificata; il
nuovo individualismo «qualitativo», che si lascia facilmente riconoscere nella descrizione che Bell fa del carattere «edonistico», non ha
pregiudicato affatto la produttività dell’impresa economica capitalistica. Di certo, l’esigenza crescente d’autorealizzazione, il rapporto spe15 D. Bell, Die Zukunft der westlicher Welt, Kultur und Technologie im Widerstreit, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1976.
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Axel Honneth
rimentale con la propria identità nello spirito della scoperta-di-sé, si
riflette ormai nelle statistiche sociali che documentano un incremento
del tasso di divorzio, una diminuizione del numero delle nascite e
una trasformazione delle forme familiari16; le relazioni primarie, secondo l’interpretazione di A. Giddens, diventano sempre più fragili e
di breve durata poiché esse assumono sempre più radicalmente il carattere di relazioni «pure» nelle quali il legame reciproco si nutre ancor solo della materia effimera dei propri sentimenti e inclinazioni.17
Sembra crescere anche la tendenza ad avere più energie da utilizzare
per una creatività del tempo libero, che non viene più vissuta come
elevamento o rilassamento dal lavoro quotidiano ma come esecuzione di una messa alla prova dei contorni del proprio sé.18 Infine, anche il consumo di beni di lusso, con la nota differenza tra strati, è
decisamente aumentato negli ultimi anni, poiché in questa attitudine
si scorge chiaramente una chance per portare ad espressione estetica, almeno per un breve periodo, l‘identità nel suo fluire.19 Ma tutte
queste tendenze di sviluppo, che senza dubbio vanno in direzione di
un «individualismo dell’insostituibilità» (Simmel), non sono in alcun
modo entrate in conflitto con le esigenze funzionali dell’economia
capitalistica; al contrario, è difficile liberarsi dall’impressione che esse nel frattempo sono diventate, con una distorsione vera e propria,
forze produttive della modernizzazione capitalistica.
Anche i processi di cambiamento, diventati così visibili, non si
lasciano semplicemente comprendere come effetto di un singolo processo di sviluppo; e, allo stesso modo, l’idea che qui si tratti di un seguito di azioni intenzionalmente collegate, cioè di forme di reazione
consapevolmente prodotte, sembra non essere adeguata allo stato reale delle cose. Anzi, quando si vuole spiegare il perché l’esigenza dell’autorealizzazione nel corso dell’ultimo terzo del ventesimo secolo
è stata rovesciata sempre di più in una pretesa istituzionale, ci si offre
nuovamente l’immagine di processi di trasformazione che si adattano reciprocamente quasi come per “affinità elettive”: prima in modo
esitante, in ultimo in modo più massivo, gli individui si devono ora
confrontare con l’aspettativa di doversi presentare come soggetti biograficamente flessibili, disposti al cambiamento, per poter conseguire
K. Lüscher, F. Schultheis, M. Wehrspaun, Die postmoderne Familie, Meyer, Kostanz 1990.
A. Giddens, Identità e società moderna, trad. it. di M. Aliberti e A. Fattori, Ipermedium libri,
Napoli 1999, cap. 3.
18 D. MacCannel, Staged Authenticity: Arrangements of Social Space in Tourist Settings, in
«American Journal of Sociology», Vol. 79, 1973, pp. 589-603.
19 E. Illouz, Consuming the Romantic Utopia. Love and the Cultural Contradictions of Capitalism, University of California, Berkley - Los Angeles 1997.
16
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Axel Honneth
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un successo professionale o sociale. Un ruolo preparatorio a questo
processo di rovesciamento è sicuramente quello assunto dai media
elettronici, il cui aumento di significato nella quotidianità serve, molto più di prima, a mantenere costantemente debole lo stile ideale di
progetti di vita possibilmente originari, creativi; anche se gli individui, come presumeva Adorno20, possono sempre opporre ai modelli
di esistenza che passano attraverso i media la misura necessaria di
scetticismo alla rutinizzazione, non si può escludere che, per questa
via, l’ideale dell’autorealizzazione viene vissuto sotteraneamente come un’esigenza indotta alla formazione della propria soggettività.21
In alcuni casi, i limiti tra realtà e finzione possono scomparire, così
da far emergere una inclinazione, che resta inconscia, a cercare il
proprio sé proprio là dove lo si presume negli idoli della televisione o
del cinema; nel complesso, si può forse parlare, in relazione alla scoperta sperimentale del nucleo della personalità propria, di una certa
tendenza a seguire modelli standardizzati della scoperta-di-sè.
Probabilmente, un effetto paragonabile è stato esercitato anche da
quelle strategie pubblicitarie sviluppate negli ultimi due decenni dall’industria del consumo per provvedere ad un’accellerazione della
vendita dei loro prodotti; qui è fissata quella tendenza a pubblicizzare
determinati articoli con la nascosta promessa di procurarsi attraverso il
loro acquisto dei mezzi estetici per meglio presentare e per aumentare
l’originalità del proprio progetto di vita.22 La strumentalizzazione dell’esigenza di autorealizzazione, come si deve dire in questo caso, ha
portato al sorgere di una spirale sempre più accellerata di innovazioni
stilistiche e di reazione all’uso, in quanto ogni nuova immagine di sé
è stata resa velocemente contenuto cifrato della successiva strategia
pubblicitaria. Nel frattempo, si è addirittura fatta largo l’impressione di
un rovesciamento del rapporto di dipendenza, dato che l’industria della
moda e del consumo sembra ormai essere in grado di propagare immagini della vita autentica degne di essere imitate, alle quali, generalmente, si deve orientare il soggetto del processo della scoperta-di-sé. Il tentativo di realizzare-sé nel corso della propria vita viene, per così dire,
sotteraneamente organizzato dalle offerte culturali che si rivolgono al
singolo con un senso calcolato da parte dell’industria pubblicitaria per
le differenze specifiche di età, strato sociale e genere sessuale.
20 T. W. Adorno, “Tempo libero”, in Parole chiave, trad. it. di M. Agrati, SugarCo, Milano
1994, pp. 77-92.
21 J. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità: una teoria sociale dei media, trad. it. di
P. Palminiello, il Mulino, Bologna 1998, cap. 7.
22 R. Schields, Lifestyle Schopping: The Subject of Consumption, Routledge, London 1992.
40
Axel Honneth
Sicuramente più importante di questo effetto mediatico, la cui
portata sociale appare inoltre alquanto problematica, è senza dubbio
quella ristrutturazione che ha interessato il settore dei servizi e della
produzione negli anni Ottanta. Ciò che ha avuto luogo in quel lasso
di tempo è stato descritto, da un punto di vista economico, come
una fase di destruttuzione del metodo di produzione fordistico; ma,
ad essere decisivo per i nostri fini è che, così, si impone un modo
completamente nuovo di indirizzarsi ai soggetti del lavoro; questi
non vengono più evocati come lavoratori dipendenti ma come creativi imprenditori di se stessi.23 Se già abbastanza presto si è parlato
di una «soggettivizzazione normativa del lavoro»24, di un crescente
apprezzamento delle prestazioni individuali, con ciò si è voluto innanzitutto intendere la sempre più crescente inclusione nell’organizzazione del processo di produzione e di prestazione di servizi delle
iniziative intellettuali autonome dei lavoratori25: attraverso nuove
competenze di management, consistenti nello spianamento delle gerarchie, nell’ autonomia di team e nell’autogestione, l’esigenza di un
bisogno di autorealizzazione deve andare incontro a quei lavoratori
che nella loro attività sono alla ricerca di possibilità per una autonoma
estrinsecazione delle loro capacità acquisite. Ma è stato subito chiaro che le nuove strategie dell’impresa post-taylorista hanno l’effetto
completamente diverso di rendere il lavoro sempre più tematizzabile
come “professione”, così che ai lavoratori vengono poste aspettative
sempre diverse: la loro motivazione si deve attagliare intrinsecamente solo al preteso profilo dell’attività, essi devono essere disposti a
presentare ogni cambiamento del posto di lavoro come esito di una
loro decisione, e l’impegno deve essere, nel complesso, dedicato al
bene dell’intera impresa. Così, nel corso di soli due decenni, sorge un
nuovo sistema di pretese che permette di rendere le possibilità occupazionali dipendenti dalla presentazione convincente di una volontà
di autorealizzazione nel lavoro; e questo rovesciamento crea inoltre
lo spazio di legittimazione per giustificare misure di deregolazione,
richiamandosi all’obsolescenza dello status di sicurezza nelle aziende
al cospetto della capacità di responsabilità del singolo impiegato. La
pressione che quindi grava sui lavoratori e gli impiegati ha una forma
estremamente paradossale: essi devono, in vista delle loro chance future di impiego, organizzare fattivamente la loro biografia professio23 G. G. Voss - H. Pongratz, Der Arbeitskraftunternehmer. Eine neue Grundform der Ware Arbeitskraft?, in «Kölner Zeirschrift für Soziologie und Sozialpsycologie», 1998, pp. 131-58.
24 M. Baethge, op. cit.
25 H. Kocyba, op. cit.
Axel Honneth
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nale secondo il modello dell’autorealizzazione, sebbene a sussistere è
solo il desiderio di una sicurezza sociale ed economica.26
Di certo, non è del tutto sbagliato vedere, nel processo a cui abbiamo accennato, il porsi di una tendenza a trasformare le crescenti
esigenze all’autorealizzazione in forza produttiva dell’economia capitalistica. L’inclinazione del soggetto a comprendere la propria vita
sempre più come una ricognizione sperimentale della propria identità, serve non solo come base di legittimazione per una serie di misure di ri-strutturazione economica miranti, nel complesso, ad una
deregolazione dei settori produttivi e dei servizi.27 Ancora di più, il
nuovo individualismo viene oggi utilizzato direttamente come fattore
di produzione nel senso che ai lavoratori, richiamandosi ai loro bisogni apparentemente mutati, viene richiesto un di più in impegni, in
flessibilità e iniziative proprie di quanto succedeva nelle condizioni
del capitalismo regolato dallo Stato sociale. In tutti i casi, mi sembra sbagliato comprendere questa tendenza ad un utilizzo economico
degli impulsi e delle inclinazioni individuali come una strategia intenzionale con la quale un management cooperante in modo scaltro
e sensibile ha reagito alla critica «edonistica» del capitalismo degli
anni Sessanta; il «nuovo spirito del capitalismo» che Luc Boltanski
e Eve Chiapello hanno analizzato in modo così affascinante nel loro
omonimo studio28, sembra essere molto più il risultato di un intreccio
non intenzionale di diversi processi che possiedono le loro rispettive
storie e dinamiche di sviluppo. Se annoveriamo tra i mutamenti strutturali che abbiamo già menzionato guardando ai media elettronici,
all’industria pubblicitaria e alla sfera della produzione, anche il dato
di una crescita nelle diffuse aspettative quotidiane a una autorealizzazione individuale, allora perveniamo alle stesse conclusioni con
cui Boltanski e Chiapello chiudono il loro libro: che, cioè, l’individualismo dell’autorealizzazione, cresciuto gradualmente nell’ultimo
mezzo secolo, nel frattempo, per mezzo di una strumentalizzazione,
standardizzazione e finzionalizzazione, si è rovesciato in un sistema
di esigenze del tutto raffreddato emozionalmente, sotto le cui conseguenze il soggetto, oggi, sembra più soffrire che prosperare.
26 R. Sennett, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale,
trad. it. di M. Tavosanis, Feltrinelli, Milano 2001.
27 R. Castel, Die Metamorphosen der sozialen Frage. Eine Chronik der Lohnarbeit, UVK,
Kostanz 2000.
28 E. Chiapello - L. Boltanski, Le Nouvel Esprit du Capitalisme, Gallimard, Paris 1999.
42
Axel Honneth
IV
Con le trasformazioni istituzionali che hanno interessato il capitalismo occidentale negli ultimi vent’anni, l’aspirazione pratico-vitale
ad un ideale di autorealizzazione si è evoluta in ideologia e forza produttiva di un sistema economico deregolato: le esigenze che i soggetti si erano formati in precedenza, iniziando ad interpretare la loro vita
come un processo sperimentale della scoperta-di-sé, si ripercuotono
ora in modo diffuso su questi stessi soggetti come pretese esterne,
di modo che essi, nascostamente o apertamente, vengono sollecitati
a tenere sempre aperti i loro fini e le loro decisioni biografiche. Da
questo processo di rovesciamento di un ideale in una costrizione, dell’esigenza (Ansprüch) interiore in una pretesa (Anforderung) esterna,
sono cresciute forme di dolore e malessere sociale finora sconosciute come fenomeno di massa nella storia della società occidentale. Questo non vale principalmente per quei fenomeni di infelicità
quotidiana, che Pierre Bourdieu insieme ai suoi collaboratori hanno
cercato di comprendere nel libro La miseria del mondo29: dove la
deregolazione e la mancanza di lavoro crea una crescente classe di
disoccupati permanenti, dove complessi industriali che operano a livello internazionale senza qualsiasi controllo politico cercano sempre
nuove vie di contrattazione, dove lavoratori immigrati delle zone povere popolano le metropoli dell’Occidente alla ricerca di opportunità
occupazionali, là ritornano le stesse forme di lavoro salariato, parttime e domestico messe in piedi già dall’infanzia dell’industrializzazione capitalistica.30 La flessibilizzazione del mercato del lavoro, la
crescente mercatizzazione dell’intera società, che viene fragilmente
giustificata con il richiamo al nuovo individualismo, fanno sì che la
“questione sociale” diventi nuovamente una sfida che il ventesimo
secolo nella sua seconda metà aveva supposto appartenesse all’eredità con successo superata dell’Ottocento.
Tuttavia, al di sotto di queste tendenze visibili, negli ultimi decenni si sono fatte più ampie altre forme di dolore sociale che in qualche
modo non hanno precedenti nella storia delle società capitalistiche;
esse sono assolutamente meno accessibili all’osservatore empirico,
in quanto si giocano nel contesto della malattia psichica, così che per
queste sono disponibili solo indicatori clinici. Il sociologo francese
29 P. Bordieu, Das Elend der Welt. Zeugnisse und Diagnosen des Alltäglichen Leidens an der
Gesellschaft, UVK, Kostanz 1997.
30 R. Castel, op. cit.
Axel Honneth
43
Alain Ehrenberg, in un testo alquanto suggestivo dal titolo La fatica
di essere sé31, partendo dallo studio del materiale clinico perviene al
risultato che noi oggi abbiamo da confrontarci con un rapido aumento della depressione; non solo il crescente numero di referti terapeutici, ma anche la nient’affatto esemplare congiuntura di antidepressivi
chimici sta a segnalare che al posto di sintomi nevrotici è subentrata
una sorprendente quantità di malattie depressive. Ora, come conclusione per una spiegazione di questa forma di malattia divenuta un
fenomeno di massa, Ehrenberg fa uso dell’idea che gli individui, per
mezzo della pretesa sempre più diffusa a dover essere se stessi, sono
in qualche modo psichicamente sovraccaricati. L’obbligo permanente
di acquisire dalla propria vita interiore la materia per un’autentica
autorealizzazione, pretende dal soggetto una forma duratura di introspezione che, in qualche punto, deve portare, per così dire, nel vuoto;
e un tale punto, dove, nonostante i più forti propositi, il vissuto psichico non indica più la direzione per il compimento della vita, segna
per Ehrenberg il momento dell’inizio di una depressione. Può essere
che con il rovesciamento dell’ideale dell’autorealizzazione in un rapporto costrittivo, abbiamo raggiunto quel livello storico in cui il vissuto di quel vuoto è divenuto l’esperienza di una parte crescente della
popolazione: sospinto da tutti i lati a dimostrarsi aperto agli impulsi
psichici di una autentica scoperta-di-sé, ai soggetti non resta che l’alternativa tra un’autenticità simulata o la fuga nella malattia depressiva, tra una originalità inscenata per motivi strategici e un silenzio
malato.32 Al cospetto della chiaroveggenza con cui Simmel ha osservato le trasformazioni socio-culturali del suo tempo, non sorprende
se egli, nella sua Filosofia del denaro, trovi già un presentimento di
questa situazione. Là, dell’ideale dell’autorealizzazione si diceva:
Certo, egli [il contadino, A. H.] conquistava la libertà; ma soltanto libertà da
qualcosa, non libertà di fare qualcosa. Apparentemente, egli conquistava la libertà
di fare qualunque cosa – perchè essa era appunto puramente negativa -, ma di fatto,
proprio per questo, si trattava di una libertà priva di qualsiasi direttiva, di qualunque contenuto determinato e determinante e pertanto in grado di aprire la strada a
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, trad. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 1999.
A. Kuhlmann ha richiamato la mia attenzione sul fatto che in questo contesto si dovrebbe
distinguere meglio tra depressione in senso stretto – clinica – e depressione nel senso ampio, metaforico «del dolore per il vuoto interiore»: mentre la persona davvero depressa sembra aver perso
ogni interesse alla vita propria e al mondo esterno e perciò è «come paralizzato», la persona che
soffre del «vuoto interiore» è al contrario fissata ad una inquieta, febbrile attività compensatoria.
Questa distinzione sarebbe di significato straordinario per una trattazione ulteriore del tema qui
solo abbozzato.
31
32
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Axel Honneth
quella vanità e a quella inconsistenza che dà a ogni impulso casuale, stravagante e
seducente la possibilità di espandersi senza incontrare resistenze. Analogo è il destino dell’uomo privo di legami, che ha abbandonato i suoi dei e al quale la libertà
così conquistata concede soltanto di fare un ideale di qualsiasi valore monetario.33
33
G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 572.
CHRISTIAN LAZZERI E ALAIN CAILLÉ
IL RICONOSCIMENTO OGGI:
LE POSTE IN GIOCO DI UN CONCETTO*
Una definizione liminare
Tentiamo di abbozzare una definizione liminare del concetto. Prendendo come riferimento l’ultimo libro di P. Ricœur, Parcours de la
reconnaissance1, possiamo schematicamente delimitare almeno due
grandi significati di questa nozione. Il primo è di natura cognitiva, il
secondo – nelle sue diverse varianti – è di natura pratica, ma entrambi possiedono in comune una proprietà trasversale che permette loro
d’essere designati con lo stesso termine. Sul piano cognitivo, per riconoscimento possiamo intendere una competenza d’identificazione che,
in forma di giudizio, come per Descartes nella Quarta Meditazione,
identifica come vero quello di cui si era preliminarmente dubitato. Così, per Descartes, riconoscere significa conoscere davvero quello che
si conosce, ma di cui si dubitava fosse realmente conosciuto. Questo
riconoscimento può tuttavia essere incontrato nel quadro della produzione di un concetto, come per Kant, nell’analitica trascendentale
della prima edizione della Critica della ragion pura (“deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto”) dove la terza sintesi, la
sintesi della ricognizione nel concetto, consiste, per la coscienza, nell’identificare la propria unità oggettivata nella produzione di un’unità
di concetto mediante la sintesi del molteplice delle rappresentazioni. In
* Edizione originale: La reconnaissance aujourd’hui. Enjeux du concept, in «Revue du
MAUSS», premier semestre 2004.
Traduzione dal francese di Milena Maselli.
Di questo testo C. Lazzeri ha redatto la prima parte ed A. Caillé la seconda. Si tratta di uno
scritto che riassume un progetto di ricerca interdisciplinare in filosofia e sociologia politiche.
1 P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris 2004.
46
Christian Lazzeri e Alain Caillé
entrambi i casi (Descartes e Kant), la “competenza di identificazione”,
dal punto di vista del giudizio o della sintesi di ricognizione, possiede
lo statuto d’una conferma: quel che si conosce o di cui si anticipi la
natura secondo una modalità non accertata si trova confermato attraverso un’operazione di sussunzione attraverso la quale si pone la cosa
da conoscere sotto la giurisdizione di un concetto: concetto del vero, o
concetto dell’unità della coscienza.
Tale competenza d’identificazione sul terreno cognitivo fornisce
tuttavia nello stesso tempo il legame che assicura la transizione verso
l’aspetto pratico del riconoscimento, il quale si caratterizza anch’esso attraverso un atto d’identificazione che riveste la forma di un’attestazione, allorché si ha a che fare con una pratica d’imputabilità
giuridica o morale. Per lo più, un riconoscimento di responsabilità
significa che, là dove possono sorgere questioni o dubbi sull’identità di colui che commette un delitto o uno sbaglio, si ha bisogno di
una risposta in forma di ri-affermazione, tale che attesti il legame
tra l’identità dell’individuo e quella dell’autore del delitto.2 Qui, è
evidente, il riconoscimento, in quanto attestazione di responsabilità,
conserva il carattere cognitivo del giudizio di conferma. Ciò posto,
si può considerare che tale giudizio abbracci simultaneamente un’altra attestazione: se, effettivamente, questa conferma rende possibile
l’imputabilità giuridica o morale, essa indica, nello stesso tempo, che
si possedevano le capacità di commettere l’atto biasimato (razionalità, capacità deliberative, capacità decisionali, fermezza nell’azione,
ecc.), e quest’attestazione unisce indissolubilmente l’identità dell’autore del delitto ed il possesso delle capacità di commetterlo che sono
state utilizzate nell’atto in questione. Ora, sempre restando nell’ambito cognitivo, la transizione verso la dimensione pratica è tuttavia
quasi immediata, dato che l’attestazione che permette l’imputabilità
trasferisce sull’individuo e sulle sue capacità una valutazione negativa (biasimo) che può implicare o meno la sanzione. In breve, riconoscersi come l’autore dell’azione X significa anche riconoscersi come
l’oggetto di una valutazione negativa che si distribuisce su queste
due istanze. A partire da qui, si può mostrare l’atto inverso, vale a
dire quello di una domanda di conferma del valore delle azioni e delle capacità da parte di un individuo (o di un gruppo), allorché prova
un dubbio a questo riguardo e si rivolge al suo ambiente sociale per
ottenere una conferma. Ciò che egli rivendica, all’opposto del caso
precedente, è l’attestazione del valore delle capacità che possiede e
2
Ivi, pp. 119 e sgg.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
47
l’attestazione di possederle facendone un uso accettabile. Per dirla
con Honneth, la domanda di riconoscimento altro non è che un’attesa di conferma delle capacità e del valore da parte degli altri.
Stiamo assistendo oggi, nello spazio pubblico delle società democratiche, ad un’esplosione di aspettative e richieste di riconoscimento. Queste richieste riguardano sia diritti fondamentali – ad esempio,
le libertà civili e politiche – sia diritti specifici che si tenta di integrare nel gruppo dei diritti fondamentali: richieste di riconoscimento di
una specificità culturale, etica o religiosa; richieste di riconoscimento
della legittimità delle lingue minoritarie; richieste di riconoscimento
relative al “genere”; richieste di riconoscimento provenienti da vittime soggette a processi di sopraffazione non o insufficientemente riconosciute. A tutto questo si aggiungono speranze di riconoscimento
relative a rapporti sociali informali, come l’esercizio del potere nelle
organizzazioni gerarchiche, la consultazione e la deliberazione tanto
nelle organizzazioni che nelle associazioni multiple; richieste di presa
in considerazione in materia di lavori pesanti. Perfino le negoziazioni
economiche tra i differenti agenti avanzano istanze di riconoscimento, anche quando si tratta di negoziare su semplici questioni di potere
d’acquisto. Infine, il complesso dei rapporti interpersonali è anch’esso percorso da continue richieste di riconoscimento della singolarità,
che, sebbene non sempre codificabili, non sono meno intense.
In breve, se da almeno due secoli la sostanza dei conflitti politici e
sociali si era concentrata sulla questione della proprietà e dei redditi,
mettendo al primo posto l’aspirazione ad una ripartizione più equa
delle ricchezze, nel quadro delle domande di giustizia distributiva,
tali conflitti si formulano e si strutturano3 anch’essi nel linguaggio
del diritto ad un eguale riconoscimento.
La nozione di riconoscimento sembra, così, attraversare sia le domande espresse in seno allo spazio pubblico sia quelle che provengono
dalla sfera privata. Non è detto che questo insieme di esigenze – esprimibile tanto nel linguaggio giuridico che in quello della morale e perfino nel registro della psicologia – possieda sempre obiettivi chiari.
Quanto al riconoscimento, si tratta di formulare l’interrogativo
sollevato dal filosofo economista A. Sen a proposito dell’uguaglianza. In Etica ed economia4 e in La disuguaglianza. Un riesame
3 Cfr. su questo punto, il dibattito tra Honneth e Fraser in A. Honneth - N. Fraser, Redistribution or Recognition. A political-Philosophical Exchange, Verso, London - New York 2003, circa
le questioni di sovrapposizione tra giustizia distributiva e riconoscimento.
4 A. Sen, Etica ed economia, trad. it. di S. Maddaloni, Laterza, Roma-Bari 2002.
48
Christian Lazzeri e Alain Caillé
critico5, Sen fa osservare che, per poter essere trattato, il problema
dell’uguaglianza tra gli uomini dev’essere costruito con estrema
precisione, in ragione della molteplicità delle variabili di confronto, concernenti quello che può essere tra loro considerato uguale.
In maniera generale, si può valutare l’uguaglianza tra individui
mettendo a confronto un aspetto della loro situazione: è possibile
confrontare gli uomini dal punto di vista dei redditi, della fortuna,
della felicità, della libertà, dei diritti, delle chances che sono state
loro offerte, o anche dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni. C’è un gran numero di confronti possibili tra queste variabili.
Intuitivamente, pare tuttavia evidente di primo acchito che non si
possono comparare gli uomini su tutte queste variabili nello stesso
tempo: è impossibile decidere se X che possiede meno ricchezze di
Y ma più diritti civili di lui, che è più in condizione di soddisfare
i suoi bisogni ma che è meno felice, è, malgrado tutto, uguale a Y.
Bisogna, quindi, selezionare le variabili per definire uno “spazio di
comparazione”. Ogniqualvolta si desidera trattare il problema dell’uguaglianza tra gli uomini, bisogna inevitabilmente far precedere
la domanda: «uguaglianza di che cosa?».6
Da questo punto di vista potremmo allora parafrasare l’interrogativo di Sen concernente il nostro argomento, e porci la domanda:
“riconoscimento di che cosa?” Tale questione possiede, infatti, due
versanti: l’uno oggettivo, che riguarda le proprietà che possono costituire l’oggetto di un riconoscimento e servire da variabili focali,
l’altro, soggettivo, che consiste nel sapere ciò che gli uomini desiderano vedere riconosciuto. Il trattamento del caso sarebbe ottimale se
la scelta delle variabili oggettive, in numero limitato, coincidesse col
desiderio degli uomini. Ora, la prima difficoltà che si incontra deriva
dal fatto che questo versante soggettivo sembra imporsi immediatamente, ed essere condizionato da un principio di estrema dispersione
delle preferenze. Abbiamo, dunque, a che fare a priori con un’infinità di proprietà o capacità che gli uomini desiderano far riconoscere:
l’appartenenza civica, culturale o religiosa, determinate competenze
in tutti i tipi di attività che si collocano nei più diversi progetti di vita,
le innumerevoli particolarità personali.
5 A. Sen, La diseguaglianza. Un riesame critico, trad. it. di A. Balestrino, il Mulino, Bologna
1994.
6 Ivi.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
49
I. LOGICHE DI RICONOSCIMENTO
Costruire il concetto di riconoscimento
Che cosa, dunque, si potrebbe avanzare sul tema del riconoscimento, tenendo conto di questa pluralità di preferenze senza però disperdersi nella loro molteplicità? È possibile sostenere, anche solo
a titolo di ipotesi di lavoro, che esistono tre forme fondamentali di
riconoscimento, che – senza pretendere di esaurire la varietà di tutti
gli atti di riconoscimento – definiscono quelle che gli uomini considerano le più importanti e che classificherebbero al vertice della
gerarchia delle preferenze ordinarie. Queste tre forme sono già state
enunciate da Hegel nei lavori giovanili delle due Filosofie dello spirito del 1804 e 1805. Esse rinviano a tre tipi di rapporti sociali che
esprimono gli aspetti essenziali della vita umana: i rapporti sociali
connessi alla distribuzione di forme di stima sociale agli individui
(ciò che in parte è abbozzato nel Sistema dell’eticità7), i rapporti giuridici connessi allo statuto della proprietà e della cittadinanza, ed i
rapporti interpersonali in seno alla famiglia, che Hegel formula attraverso tre categorie: l’eticità sociale, il diritto e l’amore. Questi scritti
giovanili tentano di costruire una teoria del riconoscimento a partire
da questi tre tipi di rapporti sociali. Il lavoro, che nella Filosofia dello spirito del 1804 appare come una delle tre “potenze”, acquisterà
nella Fenomenologia dello spirito un posto centrale come condizione
del riconoscimento.
Nel solco di questa tri- o quadri-partizione hegeliana si è insediata
la maggior parte delle teorie del riconoscimento, anche quando esse
possiedono altri fondamenti o hanno modificato e allargato la portata
delle categorie hegeliane: ad esempio, quella del lavoro ha acquisito
un significato più largo designando un insieme di competenze espresse in compiti individuali e sociali più diversi, al punto che tale categoria può essere considerata una forma particolare di distribuzione
della stima sociale. La categoria dell’amore possiede, anch’essa, un
significato più esteso, e comprende l’insieme delle relazioni d’amicizia e, più in generale, delle relazioni proprie della socialità primaria.
La categoria del diritto, infine, non si riferisce semplicemente alla
nozione di diritti individuali o di gruppo che garantiscono il possesso
7 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, trad. it. di C. Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002,
pp. 15-16.
50
Christian Lazzeri e Alain Caillé
(come sosteneva Hegel nel 1804), ma si estende anche alla nozione
di cittadinanza, nazionale e sovranazionale.
Distinguiamo, dunque, tre grandi registri del riconoscimento: quello della competenza, quello dell’appartenenza e quello dell’amore.
Lo statuto della competenza. Cominciamo con l’esaminare la prima di queste categorie (cui conserviamo deliberatamente il suo grado
d’astrazione per rispettare la diversità degli approcci dei differenti
autori), studiata da Mead in Mente, Sé e società e sviluppata – in modi diversi – tanto da Teoria della giustizia di Rawls che da Lotta per
il riconoscimento di A. Honneth, da Sfere di giustizia di Walzer, dalla
teoria dei quadri sociali della morale di Taylor8, dal repubblicanesimo difeso da Ph. Pettit9 o da I. Honohan10, dalla teoria habermasiana
della comunicazione11 o ancora dai lavori sulla coscienza di sé di
E. Tugendhat.12 Per quanto riguarda la sociologia, ricordiamo poi i
lavori di Mauss13 o quelli, più recenti, di R. Sennett.14
Per venire all’essenziale, ed evitare una lunga discussione preliminare sulle varianti di questa categoria, richiameremo, a titolo di
esempio, l’analisi che ne fornisce Rawls nella terza sezione di Teoria della giustizia.15 In riferimento alla teoria della “realizzazione di
sé” sviluppata da Aristotele nell’Etica nicomachea, Rawls descrive
quella che egli chiama la messa in opera da parte degli uomini di un
«principio aristotelico». Possiamo definire questo principio nel modo
seguente: «A parità di condizioni, gli esseri umani provano piacere
nell’esercitare le loro capacità effettive (le loro doti innate o acquisite), e il loro piacere aumenta via via che la capacità si realizza o
cresce la sua complessità. L’idea intuitiva qui esposta è che gli esseri
umani provano maggior piacere nel fare una cosa quando aumenta la
loro competenza nel farla, e di due attività che svolgono ugualmente
8 Ch. Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari
1994; Id., Le radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it. di R. Rini, Feltrinelli,
Milano 1993.
9 Ph. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Prefazione di M. Guena, trad. it. di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2000.
10 I. Honohan, Civic republicanism, Rutledge, London 2002.
11 J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., a cura di P. Rinaudo, il Mulino, Bologna 1986.
12 E. Tugendhat, Autocoscienza e Autodeterminazione. Interpretazioni analitiche, La Nuova
Italia, Firenze 1997.
13 M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id.,
Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di C. Lévi-Strauss, trad. it. di F. Zannino,
Einaudi, Torino 1965.
14 R. Sennett, Autorité, Fayard, Paris 1982; Id., Rispetto. La dignità umana in un mondo di
diseguali, a cura di G. Turnaturi, il Mulino, Bologna 2004.
15 J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1982.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
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bene essi preferiscono quella che si avvale di un ampio repertorio di
distinzioni più sottili e complesse».16 Questo principio aristotelico si
caratterizza non solo per il suo versante individuale, ma anche per
il versante sociale che Rawls definisce così: «Al cospetto delle abilità ben sviluppate esercitate dagli altri, proviamo piacere da questo
spettacolo che suscita in noi il desiderio di essere in grado di fare
altrettanto. Vogliamo essere come quelle persone che sono in grado
di sviluppare le abilità naturali».17 Il versante sociale di tale sviluppo razionale delle competenze determina un’interazione sociale che
unisce due aspetti indissociabili: l’ammirazione e l’emulazione, l’approvazione ed il desiderio d’imitazione. E qui si tratta solo del primo
momento di questa interazione, poiché il risultato dell’ammirazione
e dell’emulazione è che colui che ne è la causa è portato ad attribuire
a se stesso il punto di vista degli altri, come già aveva mostrato G.
H. Mead.18 Percepisce se stesso attraverso la percezione degli altri
e il passaggio attraverso questa approvazione ha come conseguenza
il fatto che egli approvi se stesso. L’approvazione degli altri si confonde, allora, con la stima di sé che l’agente attribuisce alle proprie
capacità in virtù di questa interazione sociale riuscita. Possiamo dire
che tale stima s’identifichi col sentimento che l’agente possiede del
suo proprio valore, a partire dalle proprie competenze e dal loro sviluppo e che essa genera una certa fiducia in se stessi.
Così, se il riconoscimento comporta simultaneamente una dimensione d’integrazione e di approvazione sociali, si potrà sostenere che
la stima di sé costituisce la traduzione soggettiva dell’atto di riconoscimento. Si può completare la proposizione dicendo che il riconoscimento accordato dagli altri all’agente contribuisce nello stesso
tempo alla creazione del valore dei suoi progetti ed alla costituzione
del sentimento di fiducia nelle proprie capacità, al fine di condurli in
porto.
Si misura immediatamente l’implicazione di tale atto di riconoscimento che si ripercuote necessariamente sulle premesse iniziali.
Punto di partenza della tesi di Rawls è che la messa in opera del
principio aristotelico come motivazione fondamentale della condotta
è, innanzitutto, una motivazione individuale: quest’ultima riconduce,
in modo puramente interno, la soddisfazione dell’agente al grado di
sviluppo polivalente delle sue competenze. Dovremmo ora allargare
Ivi, p. 351.
Ivi, p. 352.
18 G. H. Mead, Mente, sé e società, Introduzione di C. W. Morris, trad. it. di R. Tettucci, GiuntiBarbera, Firenze 1966.
16
17
52
Christian Lazzeri e Alain Caillé
queste premesse, poiché la stima di sé non è soltanto legata allo sviluppo delle capacità, ma anche al fatto che queste ultime comportano
un piacere che dipende dalla loro approvazione sociale. Ne deriva
che l’agente cerca anche di sviluppare le sue competenze in vista del
conseguimento di questo tipo di approvazione. Come abbiamo visto,
tale approvazione discende dal fatto che lo sviluppo delle proprie capacità genera un’emulazione sociale per sviluppare le capacità degli
altri che possono ottenere anch’essi una forma di approvazione sociale. A partire da questo presupposto si comprende come a poco a poco possa generalizzarsi una sorta di aspettativa sociale relativamente
allo sviluppo delle competenze, e come essa si esprima soggettivamente sotto forma di una sintesi di approvazione da parte di quello
che Mead chiama «l’altro generalizzato», di cui ognuno interiorizza
il giudizio presunto e le aspettative. Attraverso la convocazione di
questo giudizio sociale, per metà reale e per metà immaginario, ogni
agente – secondo diverse interpretazioni possibili – tenta di valutare
la propria collocazione e la propria funzione sociale. A volte – nella
prospettiva utilitaristica – cerca di valutare la propria utilità sociale,
fonte di approvazione, e si trova soddisfatto se ci sono ragioni per
pensare che essa esista, anche se corrisponde solo ad un incremento
marginale dell’utilità sociale totale; a volte valuta – in una prospettiva deontologica – la propria capacità di produrre emulazione sociale
e di rivelare le capacità latenti dei suoi partner che mirano allo stesso obiettivo determinando così dei vantaggi incrociati; a volte – in
una prospettiva più sociologica, alla maniera di Mauss19, Veblen20,
Pareto21, Elias22 o Pitt-Rivers23, cerca di definire la propria posizione
e il suo statuto nella competizione sociale.
Questa differenza nel modo di valutare il posto e la posizione sociale degli agenti dà luogo ad interpretazioni differenti del riconoscimento sociale informale. Possiamo sostenere, con Sennett e Rawls,
che il processo di riconoscimento accresce la positività degli scambi sociali attraverso riconoscimenti sociali che rendono gli individui
complementari dal punto di vista dei loro talenti e dei loro progetti.
Ma possiamo anche sostenere, con Veblen e Pareto, che il riconosciM. Mauss, op. cit.
Th. Veblen, Teoria della classe agiata: studio economico sulle istituzioni, Premessa e trad. it.
di F. Ferrarotti, Prefazione di C. W. Mills, Introduzione di F. L. Viano, Ed. di Comunità, Milano
1999.
21 V. Pareto, Compendio di sociologia generale, a cura di G. Farina, Barbera, Firenze 1920.
22 N. Elias, La società di corte, trad. it. di G. Panieri, il Mulino, Bologna 1980.
23 J. Pitt-Rivers, Antropologie de l’honneur, Hachette, Paris 1997.
19
20
Christian Lazzeri e Alain Caillé
53
mento è iscritto in una competizione per il suo monopolio, cosa che
lo trasforma in una risorsa rara e ingenera numerosi conflitti sociali.
Appartenenza e cittadinanza. Prendiamo ora in considerazione la
transizione verso una seconda forma di riconoscimento, quella che
caratterizza la cittadinanza o l’appartenenza civica. Questa transizione – e ciò costituisce già una difficoltà da risolvere – può essere
considerata a partire da numerose e opposte prospettive.
Nel quadro del liberalismo deontologico, rappresentato in particolare da Rawls, si deve necessariamente partire dai differenti progetti che esprimono diverse concezioni del bene. Perché queste siano
garantite, gli agenti devono disporre della libertà di realizzarne una
qualunque, purché sia compatibile con la salvaguardia della libertà di
tutti gli altri. Tuttavia, questa non-interferenza si trova positivamente
raddoppiata dalla messa in opera delle condizioni di un’“amicizia sociale” che si fonda sul rispetto reciproco e sulla solidarietà reciproca
dei cittadini. La convergenza di questi due effetti genera, in linea
di principio, una «stabilità sociale relativa» tale che ogni defezione
nella cooperazione («ticket gratuito» o invidia) sia compensata dalla
tendenza del sistema sociale – incarnato nella struttura delle istituzioni e nelle disposizioni dei cittadini – a ritrovare il suo proprio
equilibrio nell’applicare i principi di giustizia.24
La peculiarità della concezione rawlsiana della giustizia risiede in
uno sforzo concettuale di astrazione e di sistematizzazione che tende a semplificare il numero dei “beni fondamentali” (diritti civili e
politici di base, diritti economici e sociali) distribuiti da principi di
giustizia, riconducendo la distribuzione dei diversi beni possibili alla
distribuzione delle condizioni della loro acquisizione, che costituiscono a loro volta dei beni.
Esiste però un tipo di bene fondamentale che non rientra direttamente in nessuna delle due categorie precedenti, ma che deriva dai
loro effetti combinati: esso è costituito dalle basi sociali del rispetto
di sé che consente ai cittadini di possedere un «senso reale del loro
proprio valore», ciò che dà loro la convinzione profonda che la loro
concezione del bene, i loro progetti di vita meritano di essere realizzati, e che consente loro di far progredire i propri fini confidando nella capacità di realizzarli.25 Senza questo rispetto di sé – che
costituisce la traduzione soggettiva di un meccanismo di riconoscimento – è impossibile che gli agenti desiderino realizzare la propria
24
25
J. Rawls, op. cit., § 69.
Ivi, § 17.
54
Christian Lazzeri e Alain Caillé
concezione del bene, indipendentemente dal fatto che questa risieda
nell’attuazione degli interessi di prim’ordine (le diverse concezioni
di bene) o negli interessi di ordine superiore (l’esercizio e lo sviluppo
delle facoltà morali). Le basi sociali del rispetto di sé appaiono così
come una sorta di meta-bene primario.
I principi di giustizia, come i beni fondamentali, giocano un ruolo
essenziale nella distribuzione e nella riproduzione del riconoscimento
e del rispetto. In realtà, perché gli agenti continuino a desiderare di
realizzare gli interessi di prim’ordine e di ordine superiore – e quindi
a desiderare di difendere i beni fondamentali che hanno richiesto –, è
necessario, evidentemente, che conservino il rispetto di sé. Bisogna,
quindi, che i principi di giustizia contribuiscano a produrre una forma
di riconoscimento sociale che risulti, nei confronti della precedente,
di natura pubblica. In questo modo, la realizzazione informale del
riconoscimento sociale si trova non già abolita ma, in linea di principio, completata e garantita dalle istituzioni politiche, e si dà, proprio
grazie a ciò, un legame di continuità tra la prima e la seconda. Tuttavia, il riconoscimento pubblico non ha niente di un processo interpersonale, non può, cioè, rivolgersi ai cittadini generando direttamente
il rispetto di sé.26 Tutto quello che gli è possibile fare attraverso la
mediazione della Costituzione, delle istituzioni e delle leggi è solo di
fornire le «basi sociali del rispetto di sé» secondo specifiche modalità.
Ma ci sono altre prospettive teoriche che mirano, anch’esse, a rendere conto della costruzione della nozione di riconoscimento civico e che si oppongono alla posizione rawlsiana. Nella problematica
dell’elaborazione di un’etica comunicativa, Habermas sostiene che il
mezzo migliore per fondare razionalmente la giustezza delle norme
non consiste nel partire dalla situazione fittizia di individui isolati
che dovrebbero scegliere dei princìpi in virtù di una decisione razionale. Esiste, a suo avviso, un primato dell’intersoggettività fondata
su processi di comunicazione e di argomentazione che è di per sé
sufficiente a determinare le forme della scelta sia politica che sociale.
D’altronde, le norme che gli individui devono scegliere non possono limitarsi ad alcuni grandi princìpi costituzionali di natura politica, economica e sociale: bisogna anche coordinare le azioni quotidiane di individui che appartengono a raggruppamenti di tutti i tipi
– associazioni, organizzazioni intermedie o Stati. L’intersoggettività
26 J. Rawls, Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a cura di S. Veca, Ed. di
Comunità, Milano 2001, § 17.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
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e la cooperazione sono inevitabili e non se ne può prescindere. Ma
poiché gli individui cooperano nell’azione, essi possono anche collaborare per quanto riguarda le regole stesse dell’azione. È esattamente quello che faranno argomentando e deliberando collettivamente,
cioè cercando di convincersi l’un l’altro. Da questo punto di vista, la
norma sarà il risultato di questo processo di intercomprensione razionale tra gli individui. Deriva da qui un primo principio che riguarda
l’instaurazione razionale di una norma, che è il principio di universalizzazione, che Habermas chiama anche «principio morale»: «Secondo l’etica del discorso, una norma può pretendere di avere valore
soltanto se tutti coloro che possono esserne coinvolti raggiungono
(o raggiungerebbero), come partecipanti a un discorso pratico, un
accordo sulla validità di tale norma».27 Ma il kantismo subisce qui
uno slittamento. Alla massima della morale kantiana “Agisci in modo
tale che la massima della tua azione possa diventare una legge universale” Habermas ne sostituisce un’altra: «Invece di prescrivere a
tutti gli altri come massima valida quella di cui io voglio che sia una
legge universale, io devo proporre a tutti gli altri la mia massima allo
scopo di verificare discorsivamente la sua pretesa di universalità».28
Per essere ammessi, gli interessi di ognuno devono essere accessibili
alla discussione ed alla critica degli altri. Habermas dedurrà, così,
dalla nozione stessa di discussione razionale le norme che ognuno
sarà tenuto a rispettare – pena l’essere ridotti al silenzio. Detto altrimenti, la procedura argomentativa comporta in se stessa regole morali che accettiamo necessariamente nel momento in cui accettiamo
di entrare in uno spazio di deliberazione. Questo è il fondamento che
conduce a stabilire la giustezza delle norme a partire dalla procedura
della discussione rivolta a trovare un accordo. È evidente, però, che
l’accordo non esiste solamente al termine della discussione, quando
questa si rivela convincente: esiste necessariamente in ciò che concerne le condizioni della discussione stessa. Non c’è nessuna discussione senza il riconoscimento della legittimità degli altri interlocutori
a prendervi parte.
È chiaro – e Habermas ne conviene per primo – che molte discussioni, ed in particolare le deliberazioni politiche, sono in primo
luogo, e quasi sempre, «strategiche» e non mirano in prima istanza
all’intercomprensione o alla piena comunicazione «trasparente» tra
soggetti. Ma dire che, in concreto, esistono solo comunicazioni «stra27
28
J. Habermas, Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 74.
Ivi, p. 76.
56
Christian Lazzeri e Alain Caillé
tegiche» non basta, secondo lui, ad annullare la validità di un’etica
della comunicazione, poiché il ruolo di quest’ultima consiste proprio
nel mostrare che una simile condotta è pubblicamente ingiustificabile, perché contraddittoria. Questa etica della comunicazione ha come
conseguenza il riconoscimento dell’eguaglianza tra i locutori e, nella
misura in cui la deliberazione considerata ha per oggetto la genesi di
norme pubbliche che regolano la vita di una società, il tipo di riconoscimento che scaturisce da questa intercomprensione è un riconoscimento politico.
Un terzo approccio si distingue tanto dalla problematica rawlsiana che dalla teoria della comunicazione di Habermas: si tratta dell’approccio propugnato dalla teoria repubblicana che annovera Philip
Pettit tra i suoi più importanti rappresentanti contemporanei. La sua
concezione del riconoscimento, in particolare del riconoscimento civico, discende da una critica del concetto di “libertà negativa”, difeso
dalla tradizione liberale: da Constant a Berlin e da Berlin a Rawls.
Questa critica della libertà negativa ha come contropartita la valorizzazione del concetto di libertà intesa come “non dominazione”.
All’incrocio tra tesi critica e tesi positiva si trova abbozzata la nozione di riconoscimento pubblico. Nella misura in cui la conservazione
della libertà negativa non si accompagna necessariamente con un’opzione democratica, così come aveva già ammesso Berlin nella sua
celebre conferenza su «i due concetti di libertà»29, è perfettamente
possibile che un potere autoritario si adatti a sfere di libertà negativa
in cui non interferisce in modo coercitivo.
L’estensione dell’ambito delle opportunità private dell’agente resta
al riparo da ogni effettiva interferenza, benché il potere in questione
disponga sempre della facoltà (del potere) di interferire arbitrariamente nelle opportunità dei soggetti, e possa succedergli di farlo.
In tali condizioni, riprendendo un concetto-chiave del pensiero
giuridico romano, codificato dal Digesto e che distingue tra colui che
è sui juris (che dipende dal suo proprio diritto) e colui che è alterius
juris (che dipende dal diritto altrui), Pettit30 spiega che c’è qui dipendenza e dominazione, anche senza interferenza. Al contrario, è possibile che gli individui si accordino per limitare le proprie opportunità
sulla base di leggi ed istituzioni che essi concorrono a produrre, ed in
questo caso ci possono essere interferenza e coercizione, senza però
dominazione. Potremmo così distinguere una dominazione senza in29
30
I. Berlin, Libertà, a cura di H. Hardy e M. Ricciardi, Feltrinelli, Milano 2005.
Ph. Pettit, op. cit.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
57
terferenza, un’interferenza senza dominazione, una dominazione con
interferenza e, naturalmente, una non-dominazione senza interferenza.
Perché la dominazione sia riconosciuta come tale, bisogna che
l’interferenza potenziale del dominante sia compresa come arbitraria, e questa lo è, solo e soltanto se al dominante è possibile scegliere se interferire o meno, a suo piacimento, senza dar conto delle
preferenze di coloro che ne sono investiti, senza cioè preoccuparsi dell’importanza che per loro hanno le loro scelte. Ciò può essere
illustrato, tra l’altro, dallo statuto del rapporto salariale, nel quale,
secondo Pettit, la razionalità economica può condurre il datore di lavoro a non interferire in modo coercitivo nella sfera di libertà del
salariato, ma solo là dove la sua volontà può sconfinare nell’ambito
delle opportunità d’azione e delle preferenze di quest’ultimo attraverso il controllo esercitato sulle sue risorse, la rottura eventuale del
contratto di lavoro o l’intervento sulle condizioni di lavoro. Cosa che
ha tante più possibilità di verificarsi quanto più egli arriva ad esigere
una protezione della libertà negativa attraverso cui esercita appunto
un controllo sulle proprie risorse, senza che lo Stato possa intervenire
se non come garante dell’applicazione del contratto di lavoro tra due
volontà «libere».31 Questo tipo di dominazione può essere riscontrato
sotto altre forme: nelle questioni di genere, nelle relazioni tra cultura
dominante e cultura dominata, o nel modo di aggredire l’ambiente.
Questa formulazione del concetto di dominazione fa sembrare che
l’idea di libertà negativa pecchi per difetto, nella misura in cui, riducendo il danno subito dall’agente solo alla restrizione delle proprie
opportunità, ne limita paradossalmente la libertà. D’altra parte, però,
dà l’impressione che questo medesimo concetto pecchi per eccesso,
nella misura in cui assimila impropriamente ogni protezione contro la
dominazione che riduce certe opportunità d’azione ad una limitazione
della libertà dell’agente. E in realtà l’interferenza senza dominazione
è possibile allorché derivi da dispositivi istituzionali e giuridici che
si accordano con gli interessi e gli obiettivi degli individui dominati,
che sono il prodotto della loro volontà e della loro partecipazione e
che li proteggono da ogni interferenza arbitraria attuale o possibile
nelle forme esaminate. Tale protezione, tuttavia, è reale solo nella
misura in cui non viene esercitata in modo arbitrario, e a condizione
che le leggi e le istituzioni non esercitino alcuna dominazione su coloro che devono proteggere.
31
Ibid.
58
Christian Lazzeri e Alain Caillé
Possiamo allora definire la non-dominazione alla maniera di Rawls
dicendo che essa costituisce un bene fondamentale, cioè qualcosa che
un individuo ha delle ragioni strumentali per volerlo, qualunque altra
cosa egli possa volere: qualcosa, dunque, che gli promette i risultati
che desidera, quali che siano le cose a cui egli dà importanza e che
desidera. Ma la non-dominazione è anche un bene da considerare per
se stesso e riconosciuto come un bene dotato di un valore per se32 a
partire dal momento in cui la non-dominazione riduce ogni strategia
di subordinazione, definisce l’individuo come capace di godere della sua propria stima, di essere considerato nelle sue proprie scelte,
senza che venga ingiustamente messo da parte. È questo, sostiene
Pettit, un «desiderio umano profondo ed universale»33: recuperare le
proprie capacità di scelta, senza che vengano limitate da interferenze arbitrarie, significa evitare i comportamenti di deferenza verso gli
agenti dominanti e ciò equivale a «vivere con onore»34, un processo
che, secondo Pettit, deve necessariamente cominciare nella sfera politica affinché possa essere conseguito anche nella sfera sociale e in
quella privata.
Amore e riconoscimento interpersonale. Possiamo ora affrontare
l’ultima forma di riconoscimento, quella che riguarda le relazioni
interindividuali di tipo puramente personale. Esiste innanzitutto, a
questo proposito, una differenza con le prime due categorie. Il riconoscimento politico, come il riconoscimento sociale informale, si
fondavano sulla valorizzazione di prerogative comuni. Col tipo di riconoscimento che riguarda l’amore e, in modo più largo, le relazioni
d’amicizia, non si tiene conto di ciò che può essere messo in comune
e che crea una relazione d’appartenenza ad un gruppo sociale qualunque. Ci si interessa a ciò che esiste di più individuale nella persona in
questione, e che prende posto in un rapporto interpersonale. Che cosa
può essere oggetto di riconoscimento in questo tipo di relazione? È,
per il soggetto X, il valore e l’importanza della propria individualità
da parte della singolarità dell’individuo Y ed è per Y la stessa cosa
da parte della singolarità di X. Quello che caratterizza questo tipo di
relazione è che essa è fondata su due caratteristiche individuali che
convengono tra loro e di cui ciascuna ha valore per l’altra, perché
questa a sua volta le conferisce valore. In altri termini, quello che X
ama in Y non è la proprietà o le capacità che possiede in comune con
altri, ma la sua particolarità (in quanto Y) che gli fa accettare quella
In latino nel testo. [N.d.T.]
Ibid.
34 P. Petit, Freedom with honor: A republican ideal, in «Social Research», 64, n. 1, 1997.
32
33
Christian Lazzeri e Alain Caillé
59
di X. X ama in Y l’aspetto particolare per cui egli cerca ed apprezza
la particolarità di X, ciò che fa sì che Y ami in X la stessa cosa. In
questo caso si vede che X ed Y hanno in comune il fatto che ognuno
di loro, attraverso questo riconoscimento singolare, vede nell’altro
disegnarsi la propria identità singolare, in modo tale che – come sosteneva Spinoza – tendono a formare un solo individuo. Quest’individuo di fatto non è nient’altro che una comunità a due (o un piccolo
numero di persone).
Questa concezione ha evidentemente dei predecessori in seno alla
tradizione filosofica e la si ritrova sia in Descartes del trattato delle
Passioni dell’anima che in Spinoza nelle parti III e IV dell’Etica. Ma
la troviamo anche nel giovane Hegel, nella Filosofia dello spirito del
1804. Nel capitolo III, nel momento in cui passa dal lavoro al desiderio e dal desiderio all’amore, offre di quest’ultimo la seguente definizione: «Ognuno è essere-per-sé nell’essere-per-sé dell’altro, ognuno
è cosciente di sé, è per sé nella coscienza dell’altro, cioè nella sua
esistenza, nel suo essere-per-sé».35 Forse si deve a Bourdieu, sulle
orme di Simmel e di Sartre, di aver riattualizzato questa definizione nella conclusione del suo libro su Il dominio maschile36, quando
mostra che, malgrado i rapporti di dominazione tra sessi, resta uno
spazio per la relazione di «riconoscimento reciproco». Sul piano antropologico, spiega, tale relazione è «fondata sulla sospensione della
lotta per il potere simbolico che la lotta per il riconoscimento suscita, e della tentazione corrispondente di dominare. Il riconoscimento
reciproco per cui ciascuno si riconosce in un altro che egli riconosce
come un altro se stesso e che a sua volta lo riconosce come tale,
può condurre, nella sua perfetta riflessività, al di là dell’alternativa di
egoismo ed altruismo, e anche al di là della distinzione fra soggetto
e oggetto, fino allo stato di fusione e comunione».37 Certamente ci
sono ancora discussioni per determinare le condizioni di questo singolare riconoscimento reciproco: si deve forse ritenere che esso sia
possibile solo nella misura in cui si stagli sullo sfondo del servizio
reciproco che gli individui si rendono a vicenda, in modo da apparire
semplicemente come un prolungamento dei rapporti utilitari? O bisogna considerare che esso sia completamente indipendente da questi
ultimi e che in realtà è qui in gioco soltanto il puro rapporto interindividuale di identità?
35 G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito in Id., Filosofia dello spirito jenese, ed. it. a cura di
G. Cantillo, Laterza, Bari 1971, p. 130.
36 P. Bourdieu, Il dominio maschile, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1998.
37 Ivi.
60
Christian Lazzeri e Alain Caillé
Comunque sia, per quanto riguarda le tre categorie di riconoscimento considerate, una teoria del riconoscimento dovrà sviluppare
l’indagine almeno in due direzioni: 1. costruire filosoficamente e sociologicamente un concetto di riconoscimento che consenta di prendere posizione sulle diverse concezioni appena esaminate; è questa
una sfida importantissima per le due discipline, nella misura in cui
ognuna delle definizioni adottate comporta delle conseguenze etiche,
politiche e sociali assai diverse; 2. interrogarsi su quali siano i rapporti tra le tre categorie di riconoscimento esaminate. Si tenga conto
del fatto che esiste tra di esse una gerarchia fondata su rapporti tra
condizionante e condizionato, tali che diventa necessario identificare quali devono essere considerati fondamentali nei confronti degli
altri. Possiamo sostenere, allora, insieme a Honneth e a Taylor, che
le relazioni familiari – o la socialità primaria (Cooley, Caillé) – costituiscono il nucleo iniziale del riconoscimento, a partire dal quale diventa possibile apprendere le altre forme di riconoscimento, e perfino
esigere che siano distribuite socialmente e politicamente. Ma è altrettanto possibile, con Rawls, ritenere che il processo fondamentale del
riconoscimento passi innanzitutto attraverso le istituzioni politiche,
per scendere via via fino al nucleo familiare e consentire anche che si
formuli una «morale familiare» di riconoscimento.38 Possiamo anche
sostenere con Habermas39 che è prima di tutto la costituzione dell’identità civica a consentire alle altre due forme di riconoscimento di
trovare un quadro a partire dal quale non solo esse sono possibili, ma
diventano anche significative. Inoltre, a seconda del contesto storico
e culturale di riferimento, possiamo supporre che tale gerarchia (qualunque sia il riconoscimento considerato fondamentale) sia suscettibile di esigere in certi casi il sacrificio di forme “subordinate”, cosa
che permette di rileggere sotto una nuova luce l’opposizione degli
antichi e dei moderni circa il primato della sfera pubblica su quella
privata o viceversa. Dovremo, quindi, riflettere con precisione sulle
possibili condizioni contestuali in cui intervengono questi differenti
tipi di gerarchia tra le tre forme di riconoscimento.
Riconoscimento e vita etica
Sosterremo qui, a titolo di ipotesi, che il riconoscimento costituisce un elemento della “vita buona”, o più esattamente una condizione
della vita buona senza che esso ne definisca il contenuto. Come è
38
39
J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., § 70.
J. Habermas, Etica del discorso, cit.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
61
noto, per gli antichi, la vita felice non è separabile dalla vita etica,
e, quando parlano della vita buona, essi designano con una stessa
espressione vita etica e vita felice. Il riconoscimento costituisce una
condizione della vita etica essendo una condizione della vita buona,
ma non possiede in sé alcun valore etico: per gli antichi, esso può
darsi solo nella misura in cui ammettono che certe qualità o capacità
di realizzazione di sé sono importanti per condurre un tale genere di
vita e, proprio perché ammettono una tale importanza, si riconoscono reciprocamente come coloro che le possiedono, ed entrano così a
far parte della stessa comunità. Il riconoscimento dipende così da una
specie di decisione inaugurale, suscettibile di definire ciò che deve
essere considerato come importante. È questa decisione che conferisce al riconoscimento il suo valore etico e che lo trasforma in mezzo
etico. Tuttavia, poiché nell’antichità tali qualità sono possedute solo
dai signori, il riconoscimento traccia una linea di demarcazione tra la
classe dei signori e quella degli schiavi. Ciò che vale per il rapporto tra signori e schiavi può essere altresì trasferito in altre categorie
che pure tracciano linee di divisione e creano tra gli uomini relazioni
asimmetriche fondamentali e non reversibili.
Da questo punto di vista, la caratteristica fondamentale dei sistemi etici moderni non risiede tanto nell’invenzione di nuove capacità
o nuove qualità quanto nella possibilità di percepire che le capacità
fin qui riservate alla classe dei signori, quelle che assicurano l’autogoverno, possano in realtà estendersi alla totalità degli uomini – ciò
che appunto definisce l’uguaglianza. Hobbes40 è stato uno dei primi
a formulare questo principio di estensione che definisce lo statuto
dell’uguaglianza delle capacità. Il riconoscimento può allora estendersi a tutti gli uomini considerati come uguali nella prospettiva della
possibilità di deliberare al fine di scegliere gli elementi della vita
buona, di garantire agli altri la scelta e di partecipare alla comunità
politica in seno alla quale hanno luogo queste deliberazioni. Appare, così, che il riconoscimento è suscettibile di servire fini opposti e
lo si può trovare al servizio sia di un ethos aristocratico che di un
ethos democratico. A riprova del fatto che esso sembra implicare una
neutralità etica per la sua capacità di essere assoggettato a qualsiasi
possibile fine. Possono esserci dei conflitti tra le forme di riconoscimento, poiché esiste un conflitto di interpretazione sul valore e sulla
distribuzione delle capacità umane che devono essere riconosciute.
40 T. Hobbes, Leviatano, ed. it. con testo inglese e latino a fronte, a cura di R. Santi, Bompiani,
Milano 2001, Parte I, § 13.
62
Christian Lazzeri e Alain Caillé
Nelle società antiche e in quella medievale la peculiarità del riconoscimento sta nel fatto che esso conduce ad una forma di esclusione di
coloro che non si riteneva che possedessero le capacità richieste per
essere davvero considerati liberi, mentre nelle società moderne il riconoscimento è, in linea di principio, assolutamente inclusivo, poiché
riveste una forma universale sancita da princìpi costituzionali.
Una prima possibilità di pensare il riconoscimento come mezzo
subordinato nei confronti della vita buona in questo contesto democratico rinvia proprio al tentativo di Rawls. Secondo lui, gli individui
posseggono talenti o capacità che esercitano, e tra questi le due facoltà del ragionevole e del razionale. Queste facoltà rappresentano interessi di ordine superiore, poiché la soddisfazione che deriva dal loro
uso abbraccia sia la loro funzione di realizzazione di una concezione
del bene, sia il loro esercizio come talenti suscettibili di essere perfezionati. Al di là dell’appagamento individuale, nato dalla funzione e
dall’esercizio di questi ultimi, gli individui, abbiamo visto, ottengono
un riconoscimento sociale informale.41 Quest’ultimo conferisce loro
il sentimento del valore dei loro talenti e, quindi, di se stessi, così come una fiducia in se stessi per realizzare i propri progetti. Tra questi
progetti sono inclusi quelli che consistono nello sviluppare le loro
facoltà morali e che fanno parte di ogni progetto di vita razionale.
Ciò contribuisce anche a definire la loro priorità in quanto interessi
superiori. Su queste basi, il riconoscimento dei talenti, come quello
delle facoltà, non può possedere di per sé nessun valore morale nel
contesto di una teoria procedurale pura della giustizia.
Nella prospettiva rawlsiana il riconoscimento sociale e politico si
trova sottoposto alla giurisdizione dei due princìpi di giustizia che
definiscono i valori morali e politici. Questi valori in senso proprio
non creano riconoscimento, poiché bisogna innanzitutto che gli agenti ne facciano esperienza in un quadro sociale informale, al fine di
poter desiderare di ottenere i beni fondamentali necessari alla propria
conservazione. Ma ne creano la garanzia pubblica. Ciò che vale nella prospettiva di Rawls potrebbe essere rinvenuto nella totalità delle
filosofie normative che difendono, anch’esse, la subordinazione del
riconoscimento nei confronti di un insieme di norme morali. Si è
visto, ad esempio, che nel quadro dell’etica comunicativa propugnata
da Habermas le regole della deliberazione collettiva razionale definiscono le condizioni di un’etica immanente alla comunicazione argomentativa, nella quale gli interlocutori si riconoscono reciprocamente
41
J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., §§ 65-66.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
63
come soggetti di convinzione che accettano il rischio di giocare quest’ultima nella discussione.
Agli occhi di altri autori, però, un tale percorso fondativo di natura normativa viene giudicato semplicistico e rende conto in modo
molto grossolano del posto e della funzione del riconoscimento. Parte dal presupposto secondo cui gli agenti procedono ognuno anzitutto
a una scelta relativa ai progetti di vita che vogliono portare avanti
e alle capacità necessarie alla loro realizzazione, poi si riconoscono con coloro i quali dispongono delle stesse capacità per formare
con loro una comunità. Ma ciò non riflette nessun processo sociale
e, secondo alcuni autori, non può rifletterne nessuno, poiché non è
così che in realtà gli agenti procedono. Quando valutano la validità
di un modo di vita e le capacità che vi si accordano, non lo fanno
indipendentemente da coloro che le mettono in pratica. Tali capacità
vengono valorizzate attraverso gli uomini che le posseggono, ma lo
sono soltanto nella misura in cui ci si appoggia a forme di giudizio
collettivo che predeterminano il loro valore ed il valore di coloro che
ne sono i portatori. Ad esempio, per Ch. Taylor42, questo riconoscimento di valore deve presupporre l’esistenza di una stessa concezione socialmente condivisa del bene (o più concezioni in concorrenza)
che definisca le condizioni di riconoscimento dell’importanza delle
capacità in questione e di coloro che le possiedono. In questa prospettiva, questa scelta collettiva di valori può essere spiegata solo da
un contesto culturale ogni volta particolare e storicamente variabile
all’interno del quale si collocano le diverse forme di riconoscimento.
Ciò non significa in nessun modo un rifiuto dell’etica, ma, più fondamentalmente, che essa è relativa ai contesti culturali e si definisce
in rapporto ad essi, e che il riconoscimento esprime questo sentimento di appartenenza e questa pratica di integrazione sociale. Questo
tipo di concettualizzazione si fonda sul riferimento alla nozione di
“quadro morale”, inteso come un insieme di intuizioni fondamentali
spesso implicite ed non formulate in una cultura data che consentono agli agenti di praticare delle distinzioni qualitative attraverso
cui definiscono le scelte e le azioni da ricercare così come quelle da
evitare, di differenziare e gerarchizzare le differenti forme di beni
(beni superiori e beni inferiori), e di definire i tipi di obbligazione o
di attrazione che ad essi corrispondono. Questi differenti quadri morali definiscono gli orizzonti entro cui i progetti di vita dei differenti
agenti acquistano senso ricercando il bene che questi quadri morali
42
Ch. Taylor, Le radici dell’io, La costruzione dell’identità moderna, cit.
64
Christian Lazzeri e Alain Caillé
determinano, cosa che conferisce loro un’identità in relazione a tali
beni ed in relazione a coloro che ne condividono la ricerca. Così,
qualsiasi cosa si voglia fare, è impossibile prescindere da tali quadri
morali e definire secondo le proprie preferenze individuali una morale o una contro-morale: anche le critiche alla morale si riferiscono a
dei quadri morali, d’altronde, spesso insospettati. Si potrebbe mostrare come la teoria del riconoscimento sviluppata da M. Walzer in Sfere
di giustizia43 e quella sviluppata da M. Sandel44 nella sua concezione
della costituzione comunitaria dell’identità si orientino, nonostante
incontestabili differenze, in una direzione convergente. Resta, tuttavia, una terza opzione possibile, abbozzata nelle filosofie di Spinoza
e Hegel, e che tende a considerare il riconoscimento come principio di emergenza di comportamenti etici e di norme politiche. Esso
costituisce il processo attraverso cui tali norme vengono prodotte e
giudicate in base alla possibilità di favorire il riconoscimento stesso.
Infine, si può menzionare l’esistenza di una possibilità intermedia tra
la prima e la terza, ed è quella che consiste nel pensare il riconoscimento all’interno di un quadro teorico che unisce indissolubilmente
una dimensione descrittiva ed una dimensione normativa, così come
fa A. Honneth.45
Vediamo ora delinearsi la natura del problema posto dalla relazione tra etica e riconoscimento. Esistono, infatti, tre tipi di risposte
possibili (con alcune varianti): la prima subordina il riconoscimento
al predominio di valori etici che lo rendono possibile e che cercano
di garantirlo; la seconda colloca la stessa etica in posizione subordinata rispetto ai contesti culturali o sociali specifici, se non proprio a
strutture sociali particolari che predeterminerebbero l’uno e l’altra;
la terza pone il riconoscimento in una situazione di autonomia nella
misura in cui contribuisce a definire lo statuto delle norme etiche
e politiche. Ogni teoria del riconoscimento dovrà inevitabilmente
determinarsi proprio come in rapporto alla scelta di una o l’altra di
queste risposte. Ma il riconoscimento non deve essere pensato solo
in modo positivo.
M. Walzer, Sfere di giustizia, trad. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1987.
M. J. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, trad. it. di S. D’Amico, Feltrinelli,
Milano 1994.
45 A. Honneth - N. Fraser, Redistribution or Recognition. A political-Philosophical Exchange,
cit. A. Honneth, “La reconnaissance, une piste pour la théorie sociale contemporaine”, in R. Le
Cordic (a cura di), Identité et démocratie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2004.
43
44
Christian Lazzeri e Alain Caillé
65
Il riconoscimento in negativo
Accanto a forme di riconoscimento positivo è, in effetti, necessario interessarsi a quelle che si potrebbero chiamare forme di riconoscimento “negative”. Nel linguaggio di E. Tugendhat46 o di A.
Honneth47 e E. Renault48, si dirà che il proprio del riconoscimento
negativo consiste nel produrre delle “ferite morali”. Una ferita morale non è nient’altro che una sofferenza particolare che manifesta la
vulnerabilità di un individuo (o di un gruppo sociale) rispetto ad una
serie di deprezzamenti di cui è oggetto, sia che esse prendano la forma
di una semplice indifferenza sia che rivestano quella del “disprezzo
sociale”. L’esame deve cominciare con l’enunciare le condizioni di
possibilità del deprezzamento, poiché quest’ultimo non può prodursi
in qualsiasi modo: ha bisogno di precise condizioni di produzione.
Tali condizioni – ma non è in nessun modo limitativo – sono tre, e la
prima comporta a sua volta tre varianti.
Prima condizione. Essa stabilisce, perché il deprezzamento possa
prodursi, che è necessario che il meccanismo del riconoscimento sia
già in funzione e che abbia potuto produrre effetti di stima di sé,
vale a dire che colui che subisce il deprezzamento disponga già di
una rappresentazione positiva di sé e sia dotato ai propri occhi di un
certo valore. Se questo meccanismo preliminare non ha funzionato,
il deprezzamento non può produrre nessun effetto, poiché non viene
preceduto da nessun apprezzamento preliminare.
– La prima variante descrive l’ipotesi in cui una capacità posseduta da un agente e che d’altronde è riconosciuta in altre circostanze
o in altri contesti, si trova investita da un valore negativo. Ciò che qui
è in causa non è tanto l’agente stesso quanto il valore delle capacità
che possiede.
– Nella seconda variante, il deprezzamento può consistere nel
fatto di non ammettere che l’agente possiede una capacità che è oggetto di riconoscimento. Ciò che qui è in causa non è tanto la capacità quanto l’agente stesso che, agli occhi degli altri, non la possiede
affatto o non la possiede al livello richiesto.
– La terza variante: in un senso più debole delle altre due, essa
può semplicemente consistere in una forma di ignoranza o più esatE. Tugendhat, Problemi di etica, trad. it. a cura di A. M. Marietta, Einaudi, Torino 1987.
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit.
48 E. Renault, Le Mepris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Editions du Passant,
Paris 2000.
46
47
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Christian Lazzeri e Alain Caillé
tamente d’indifferenza che non costituisce una negazione diretta, ma
si astiene dall’attribuire un qualche valore alle qualità o capacità dell’agente o presuppone che egli non ne possieda nessuna. Si tratta di
una variante delle due forme precedenti di deprezzamento.
Seconda condizione. Risiede nella modalità particolare da aggiungere al deprezzamento e che è quella del contesto culturale del riconoscimento, contesto che possiede una certa importanza per capire
gli atti del disprezzo sociale. Perché questo disprezzo sia percepito
come tale, occorre che coloro che ne sono oggetto comprendano il significato sociale del valore negativo attribuito a quella o a quell’altra
capacità o attribuito alla sua assenza; senza di ciò, essi non possono
realmente capire da che cosa sono esclusi, perché sono esclusi o a
che cosa vengono assimilati.
Terza condizione. Perché esista disprezzo, bisogna che gli agenti in
questione non possiedano una comunità reale o ideale di riferimento,
il cui riconoscimento positivo intervenga a compensare integralmente
il disprezzo, oppure che il riconoscimento che la comunità fornisce
loro non sia abbastanza intenso (nel caso di una comunità ideale,
essi non arrivano ad immaginarsela in modo abbastanza forte) per
controbilanciarlo efficacemente. Per essere precisi, questa condizione
stabilisce semplicemente che la resistenza non è abbastanza forte per
assicurare l’invulnerabilità.
Senza andare oltre in questo percorso49, diremo che se queste
condizioni vengono associate tutte e tre insieme, o l’una o l’altra, il
processo di deprezzamento produrrà i suoi effetti descrivibili sotto
forma di un conflitto delle rappresentazioni di sé, di cui l’identità
dell’agente sarà il risultato a seconda che l’una o l’altra di queste rappresentazioni avrà la meglio. Ora, la peculiarità di un tale conflitto è
che in questa prima fase esso è produttore di perplessità: gli individui
non sanno quale di queste due rappresentazioni descriva esattamente
quello che essi sono ed oscillano tra le due. Non sanno ancora se la
loro identità sia accettabile o meno, se siano integrati o esclusi. Ma
49 Anche se è possibile evocare condizioni supplementari al deprezzamento, come quella che
consiste nell’interrogarsi sulla sua efficacia in una prospettiva normativa (“buone ragioni” per
considerarsi deprezzato e si possono esigere dei risarcimenti al di fuori di queste buone ragioni?)
o in una prospettiva causale (basta sentirsi deprezzati perché nasca un’esigenza di riparazione).
Per quanto riguarda il primo caso, possiamo riferirci ai lavori di A. Margalit, La società decente,
trad. it. a cura di A. Villani, Guerini, Milano 1998, e per il secondo, ci orienteremmo, invece,
verso un’analisi del tipo di quella di Durkheim a proposito del castigo. Cfr. E. Durkheim, Lezioni
di sociologia: fisica dei costumi e del diritto, trad. it. di M. L. Corvi e A. S. Piergrossi, Etas,
Milano 1978.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
67
possono rimanere presi a lungo in questa situazione, poiché, se c’è
conflitto, è perché le due rappresentazioni sono dinamiche e tendono ognuna ad imporsi anche quando non possono farlo nello stesso
tempo e sotto lo stesso rapporto. Inoltre, questa situazione di dubbio
è tanto meno sopportabile che diventa paralizzante: se gli individui
non sono sicuri del valore delle loro capacità e delle loro competenze
e se – come si è visto – i progetti che formulano dipendono da queste
ultime, si scoprono nell’impossibilità di perseguirli e la fiducia che
avevano in se stessi si trova differita. Essi hanno nello stesso tempo
la tendenza ad agire e a non agire.
È evidente che la ferita morale si definisce come una specie di
violenza, per il fatto che innanzitutto insinua in loro la contraddizione: come direbbe Spinoza, essa introduce negli individui una specie
di “veleno” che distrugge il rapporto che hanno con se stessi. E si potrebbe aggiungere che quello che essa ha di insopportabile sta nel fatto che esiste solo perché colui che la subisce si trova nella situazione
in cui coopera al suo stesso deprezzamento. È questo che fa scrivere
a Sartre, a proposito dei fenomeni di resistenza al disprezzo sociale
di tipo coloniale, che “diventiamo quello che siamo solo attraverso la
negazione intima e radicale di ciò che si è fatto di noi”.50
Questo sforzo di eliminare ogni forma di deprezzamento e di cercare di restaurare il riconoscimento positivo può rivestire due modalità distinte, ma tuttavia complementari: la prima consiste nell’esigere la riparazione mediante la discussione argomentativa, la negoziazione, il ricorso alla narrazione o ad altre risorse simboliche.51
Ma nella misura in cui questa strategia si scontra con il rifiuto di
una riparazione, possiamo allora entrare, ed è la seconda modalità, in
conflitti di riconoscimento propriamente detti sia a livello individuale
che collettivo. Questo ingresso in una situazione di conflitto, con il
tipo di mobilitazione che ad esempio comporta nel caso di conflitti
collettivi, apre nuovi interrogativi.
Nella misura in cui il riconoscimento richiesto da un gruppo sociale appare per il gruppo stesso come un “bene collettivo”, ci si
può allora domandare se la decisione di ingaggiare tali conflitti – che
sembravano inevitabili ai teorici del riconoscimento – non esponga il
fianco alle obiezioni sollevate dai teorici della scelta razionale circa
il problema della partecipazione ad azioni collettive ed in particolare al paradosso di questa partecipazione. Sulla scia dei lavori di M.
50 J.-P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, trad. it. di I. Weiss, Mondadori, Milano 1990.
51 J.-M. Ferry, L’Éthique reconstructive, Cerf, Paris 1996.
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Christian Lazzeri e Alain Caillé
Olson52, teorici come G. Tullock53, G. Kavka54 o P. Kuril-Klitgaard55
hanno potuto far valere il fatto che tutte le forme di mobilitazione
conflittuali devono soddisfare i princìpi della scelta razionale dell’impegno, mentre altri autori moderano tale esigenza56 o la contestano.57
Anche qui, una teoria del riconoscimento dovrà fare da arbitro tra
queste interpretazioni rivali dell’impegno conflittuale.
II. PARADIGMA DEL RICONOSCIMENTO
E PARADIGMA DEL DONO
La teoria dell’azione razionale ed il suo “resto”
Sul filo delle pagine precedenti, abbiamo visto delinearsi due ipotesi che assumono tutto il loro peso nell’articolazione tra la filosofia
morale e politica da una parte, e le scienze sociali dall’altra.
La prima è che una delle linee di forza che struttura numerosi
dibattiti essenziali nei due campi è quella che oppone le teorie ispirate da quella che viene comunemente chiamata la “teoria della scelta
razionale” (rational action theory, RAT) o il “modello economico”
dell’azione (Van Parijs), ed un gruppo più o meno vago di teorie che
prendono le distanze o le contraddicono e che resta tuttora senza una
denominazione precisa e senza un chiarimento e una coesione paradigmatici.
La seconda è che il “paradigma del riconoscimento” rappresenta
il cuore di tali teorie, insieme alternative e complementari alla teoria
dell’azione individuale. Tuttavia, questa ipotesi ne chiama subito in
causa una terza che giustifica l’alleanza tra filosofia e scienze sociali,
che noi auspichiamo fortemente. Questa ipotesi è che il paradigma
del riconoscimento può assumere tutta la sua importanza solo se viene interpretato nei termini di quello che Alain Caillé, sulla scia di
Marcel Mauss e della Revue du MAUSS, ha chiamato il “paradigma
del dono”. Secondo la stessa ipotesi, quell’operatore morale e po52 M. Olson, Logica dell’azione collettiva: i beni pubblici e la teoria dei gruppi, trad. it. di S.
Sferza, Feltrinelli, Milano 1983.
53 G. Tullock, The Paradox of Revolution, in «Public Choice», 11, 1971.
54 G. S. Kavka, The Paradox of Future Individuals, in «Phil. Public Affairs», 11, 1982, pp.
93-112.
55 P. Kuril-Klitgaard, Rational choice, Collective Action and the Paradox of Rebellion, University of Copenhagen, Copenhagen 1997.
56 Ch. Lazzeri, “La citoyenneté au détour de la république machiavélienne”, in G. Sfez - M.
Senellart (a cura di), L’Enjeu Machiavel, PUF, Paris 2001.
57 A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, trad. it. di J. Sassoon, il Mulino, Bologna 1983; S. Bowles - H. Gintis, La Démocratie post-libérale, La Découverte, Paris 1986.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
69
litico per eccellenza che è il dono acquista, a sua volta, tutto il suo
significato solo se viene inteso come mezzo, performatore e simbolo
del riconoscimento pubblico e/o privato. Abbozziamo allora alcune
(troppo) brevi indicazioni per situare la posta in gioco di questa ipotesi.
L’opposizione complementare tra la teoria dell’azione razionale e
un “resto” ancora indeterminato coincide largamente con quella tra
la scienza economica e la sociologia (ricalcata dall’antropologia), anche se su questo terreno sono evidentemente possibili, concepibili e
spesso reali tutti i capovolgimenti paradossali e i ribaltamenti di fronte. La fragilità o l’indeterminatezza paradigmatica ed epistemologica
della sociologia di fronte alla scienza economica nascono dal fatto
che, non essendo mai giunta ad offrire uno statuto concettuale chiaro
a questo “resto”, si è troppo autoconfinata in un anti-utilitarismo (o
in un anti-economismo) meramente critico e negativo58, limitandosi
a rimproverare agli economisti il loro semplicismo, senza riuscire a
stabilizzare modelli di spiegazione o interpretazione alternativi che
mettessero d’accordo i sociologi (o gli antropologi). Nella tradizione
sociologica, è in Durkheim e nella scuola sociologica francese che si
può trovare l’opposizione più risoluta e determinata all’utilitarismo
(in questo caso quello di Spencer) ed il tentativo più fermo di costruire un modello di intelligibilità propriamente sociologica irriducibile
al modello dell’azione individuale razionale – mentre Max Weber,
da parte sua, costruiva l’altra grande branca dell’alternativa sociologica, storicizzante e comparativistica più che sistematica. Il celebre
Saggio sul dono di Marcel Mauss può essere considerato la punta più
avanzata al contempo della critica dell’antropologia speculativa degli
economisti e dell’elaborazione di un punto di vista sociologico ed
antropologico alternativo. A questo riguardo, ci sono due punti che
meritano di essere qui subito rilevati.
– Innanzitutto, appoggiandosi sul dono agonistico retto dalla logica dell’onore e del punto d’onore (e non sulle “prestazioni totali”
in generale), Mauss pone immediatamente il dono in stretta relazione
con la questione del riconoscimento, anche se non ne utilizza il termine: si tratta, nel potlatch, di «mettere l’altro all’ombra del suo nome», «nel Nord-ovest americano […] perdere il prestigio, è proprio
come perdere l’anima: ciò che veramente viene messo in gioco, ciò
che si perde al potlatch, o al gioco dei doni, così come in guerra o per
una colpa rituale, è la “faccia”, la maschera di danza, il diritto di in58
Ch. Laval, L’ambition sociologique, La Découverte, Paris 2002.
70
Christian Lazzeri e Alain Caillé
carnare uno spirito, di portare un blasone, un totem, è la persona».59
A giusta ragione si è potuto interpretare il potlatch come la forma
antropologica più spettacolare della lotta a morte hegeliana per il riconoscimento (Bataille, Lefort). O ancora, ritraducendo Mauss nel
linguaggio di J. Rawls, diremo che è attraverso la lotta di generosità
che si costruiscono, si conquistano, si acquistano e si perdono le basi
sociali del «rispetto di sé».
D’altronde, se sappiamo – anche se non ne tiriamo mai abbastanza
le conseguenze – che, cercando dalla parte della triplice obbligazione
di dare, ricevere e restituire la “roccia” della morale eterna, Mauss intendeva proporre una risposta sociologica alle domande-chiave della
filosofia morale, ignoriamo troppo che è il politico – «l’arte suprema,
la politica nel senso socratico della parola»: queste sono le ultime
parole del Saggio sul dono – che costituiva la linea di fuga di tutte le
sue analisi, come testimonia la sua importante e premonitrice Analisi
sociologica del bolscevismo. Teniamo presente, quindi, questa stretta
relazione stabilita da Mauss tra scienza sociale e filosofia morale e
politica, ed il suo tentativo di pensare la loro giuntura articolando la
questione del dono e del riconoscimento.
Bisogna dirlo: malgrado la (relativa) celebrità di questo testo, questo obiettivo ambizioso non è stato ancora ben compreso e tanto meno
ripreso. Ben presto l’eredità immediata del Saggio si è ritrovata divisa
tra due linee principali che, accentuando ognuna in modo unilaterale
alcuni tratti a danno di altri, hanno fatto smarrire la comprensione
dell’insieme. La prima, la lignée strutturalista (Lévi-Strauss, Lacan),
costantemente minacciata dallo scientismo, dissociando il dono da
quella che Claude Lefort ha chiamato la «lotta degli uomini» (per
il riconoscimento), l’ha a poco a poco ridotto a scambio, prima di
ridurre lo scambio stesso (per quanto, d’altronde, lo si definisca simbolico) ad una semplice struttura formale antistorica ed apolitica. La
seconda, via Bataille e poi Blanchot, ha, al contrario, insistito sulla
dimensione individuale e trasgressiva del dono, sulla sua dimensione
«in-calcolabile» (hors-calcul) cercando, insomma, le strade di una
santità e di una salvezza laiche in un’estetica della puro spreco o dell’esperienza interiore. Anche in questo caso il politico exit.
Per una ventina d’anni, all’improvviso la tematica stessa del dono
era quasi totalmente scomparsa. Strutturalizzata dagli uni, stigmatizzata dagli altri come maschera dell’interesse razionale consapevole
(RAT) o inconsapevole (Bourdieu), essa sembrava interessare solo
59
M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 219.
Christian Lazzeri e Alain Caillé
71
uno sparuto manipolo di vecchi credenti retrogradi. Ed è ancora più
stupefacente constatare da una decina d’anni lo straordinario fiorire
di lavori su questo tema.
Oltre, ovviamente, alla massa dei libri di etnologia ed antropologia che da quasi un secolo si occupano di questo tema per un motivo
o per l’altro, è possibile distinguere in questa vasta letteratura due
principali lignées di discussione.
La prima si inscrive direttamente nel solco di G. Bataille e M.
Blanchot per sfociare, attraverso Lévinas e la fenomenologia, in una
concezione del dono che possiamo legittimamente, con P. Ricœur,
definire iperbolica. È la lignée di J. Derrida o di J.-L. Marion (in
Etant donné, Marion ha poi cambiato notevolmente punto di vista),
che possiamo riassumere dicendo che per essa ci può essere dono
solo quando non ce n’è assolutamente, solo quando non c’è né dono,
né oggetto dato, né ricevente; in breve, c’è dono solo quando il dono,
ridotto così a pura donazione, è del tutto sprovvisto di ogni intenzionalità.
La seconda (sostenuta dalla Revue du MAUSS) propone, invece,
di non polarizzare tutta l’attenzione sulla dicotomia interesse – disinteresse, calcolo – incalcolabile, e di assumere la tematica maussiana
dell’intreccio, nel cuore del dono, tra interesse per sé e interesse per
altri come tra obbligazione e libertà, per meglio far risaltare la dimensione propriamente sociale e politica del dono. Sarebbe impossibile
citare qui tutti i lavori che vanno in questa direzione (B. Karsenti,
C. Tarot, J. Godbout, M. Anspach e, in una vena un po’ diversa, J.
Baudrillard e J.-P. Dupuy). Basterà rilevare che in Anthropologie du
don A. Caillé sviluppa una concezione politica del dono che ritiene
fedele a quella di M. Mauss e tenta di ricavarne tutto un insieme di
conseguenza teoriche, mentre M. Hénaff, in Le prix de la vérité 60,
presenta il dono arcaico come l’operatore del riconoscimento pubblico (ragione per cui deve essere ostentatorio), chiamato a diventare a
poco a poco dono morale, interiorizzato, sino a perdere importanza, a
mano a mano che le funzioni di riconoscimento pubblico dei soggetti
vengono assunte dalla promulgazione delle norme di giustizia centrali che fondano una comunità politica. Vengono così, per la prima
volta, esplicitamente associati il motivo del dono e quello del riconoscimento.
In questo modo, riunificando le tematiche maussiane sparpagliate
dai primi eredi, ci rendiamo conto di incontrare immediatamente le
60
M. Hénaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Seuil, Paris 2002.
72
Christian Lazzeri e Alain Caillé
questioni qui sollevate intorno agli usi contemporanei della nozione
di riconoscimento. Come si articolano riconoscimento privato e riconoscimento pubblico oppure riconoscimento in seno alla socialità
primaria e riconoscimento sociale nel suo insieme? Veniamo riconosciuti perché doniamo realmente (si pone qui la questione del lavoro, dell’eccellenza aristotelica e della competenza) o solo perché
mostriamo di donare e di essere riconosciuti (ed invidiati) in quanto
tali, così come temono i difensori iperbolici del dono non sacrificale? E che cosa dobbiamo donare? Utilità? la cosa stessa che viene
desiderata o solo il suo segno? un conformarsi ai valori dominanti?
Ma questi ultimi sono anch’essi – e in che misura - valori utilitari?
Oppure sono valori identitari, valori di autoconservazione o valori di
spreco? E così via.
La nostra scommessa teorica risiede nel fatto che c’è tutto l’interesse scientifico e filosofico nell’associare esplicitamente e sistematicamente paradigma del dono e paradigma del riconoscimento,
mentre lo sono solo in termini vaghi ed impliciti. Nel comprendere
che sono due facce della stessa medaglia concettuale e ognuna di esse è indispensabile alla piena e corretta comprensione dell’altra. Limitare gli studi sul dono (anche agonistico) alla sola faccia del dono,
significa correre il rischio o di moltiplicare senza principio gli studi
etnografici – illuminanti caso per caso, ma che non fanno avanzare
minimamente l’antropologia generale di cui la scienza sociale ha così
terribilmente bisogno –, o di interpretare il registro del dono reciproco come una semplice modalità cooperativa dell’economia, pena il
disconoscimento della sua funzione propriamente ed irriducibilmente
politica. Come Vincent Descombes ha egregiamente mostrato (dopo
il De Beneficiis di Seneca e la saggezza popolare…), non c’è dono se non nei termini di un’intenzionalità donatrice. Ma l’intenzione
che fa il dono, è il traguardo di un riconoscimento incrociato di sé e
dell’altro. Viceversa, attenersi al discorso del riconoscimento senza
cominciare a fecondarlo con la scoperta maussiana, significa correre
il rischio di relegarsi in un’astratta eidetica speculativa del riconoscimento e dell’alterità – associata al commento infinito di qualche
testo sacro – e di misconoscere completamente la sua storicità e la
sua densità propriamente sociale.
Più precisamente, non possiamo restare fermi ad una concezione
puramente intersoggettiva del riconoscimento e della rivalità agonistica. Tutta la forza della scoperta maussiana risiede appunto nella
messa in luce del fatto che il riconoscimento non discende solo dallo scontro tra due libertà individuali incondizionate, ma sorge sullo
Christian Lazzeri e Alain Caillé
73
sfondo di un obbligo sociale primario, attraverso cui si manifestano la presenza ed il peso dell’esistente, dell’istituito e del passato.
In una parola, il peso di tutti gli altri “altri”. Viceversa, il riconoscimento diventa effettivo, al di là della parola e dello sguardo primari, solo quando si cristallizza in un insieme di promesse, debiti,
impegni, simboli e rituali che strutturano la circolazione dei doni e
dei contro-doni. Circolazione dei doni che in definitiva altro non è
che la circolazione dei segni di riconoscimento. Come la moneta e le
cose, essi hanno un’esistenza sociale propria e vivono una loro vita
autonoma, talvolta dimentica della fondamentale posta in gioco del
riconoscimento che vi è sottesa. Sino a quando la crisi delle identità,
la discordia ed il conflitto vengono a ricordarci che è esattamente
di questo che si tratta e che, dunque, come affermava M. Mauss nell’ultima frase del Saggio sul dono, l’essenza del dono è propriamente
politica.
Dono e riconoscimento. Alcune implicazioni del loro abbinamento.
È impossibile elencare tutti i campi di dibattito aperti dalle scienze
sociali direttamente toccati dalla prospettiva così dischiusa, dato che
lo sono tutti. Si tratta ogni volta di riequilibrare analisi portate avanti in termini di scelta razionale con approcci che mettono l’accento
sulla questione del riconoscimento e del dono. Limitiamoci a qualche
esempio .
Nel campo della scienza politica, l’abbiamo già suggerito, si vede
bene come tutte le teorie dell’elettore razionale, dell’azione collettiva, della protesta o della mobilitazione di risorse – che inciampano
immancabilmente sulla circolarità tautologica e sui limiti della razionalità strumentale – sfociano necessariamente nella questione relativa
alle dinamiche che spingono alla militanza o all’impegno di parte o
di volontariato (perché si dona il proprio tempo e la propria persona?). Ora, questi casi – in positivo o in negativo: che ci si mobiliti
per o contro qualcosa o qualcuno – si trovano all’intersezione tra
l’identità, il suo riconoscimento (o la sua negazione), il dono (o il suo
rifiuto) e la giustizia (o l’ingiustizia).
In questo stesso spazio problematico bisogna riformulare la questione strettamente connessa delle identità collettive e del multiculturalismo.
Una delle grandi alternative attuali alla RAT è l’ANT (analysis
network theory), l’analisi degli attori in rete a cui ha dato impulso
negli Stati Uniti Harrison White e che ispira ormai sia la “nuova sociologia economica” di Mark Granovetter e Richard Swedberg sia la
74
Christian Lazzeri e Alain Caillé
sociologia o l’antropologia delle scienze di Michel Callon e Bruno
Latour. Collegata ad affluenti etnometodologici, essa ha dato anche
un contributo alla sociologia convenzionalista della giustificazione di
Luc Boltanski e di Laurent Thévenot. L’idea centrale di tutti questi
approcci è che per analizzare l’azione sociale, positivamente e normativamente, non si deve partire né dall’individuo della RAT né da
“la società” dei sociologi di tradizione durkheimiana o parsonsiana,
ma dalle alleanze, dalle associazioni e dalle reti formate dagli attori
umani (sociologia economica) e anche non umani (sociologia delle scienza). Perché no – anche se questa preclusione del momento
della singolarità individuale, come di quello della totalità politica, fa
sorgere altrettanti problemi di quanti ne risolve? Ma, aggiungeremo,
tutto questo a condizione di comprendere che le reti possono formarsi e durare solo nella misura in cui generano fiducia (parola-chiave di
queste analisi) e che quest’ultima presuppone l’inter-riconoscimento
dei partner attraverso l’instaurazione di relazioni di dono (e viceversa).
La stessa cosa si dica per tutte le teorie del “capitale sociale” che
da J. Coleman a R. Putnam stabiliscono che il principale fattore contemporaneamente della crescita economica e della democrazia è l’instaurazione di relazioni di fiducia generalizzate tra i membri di una
stessa comunità politica.
Da questo punto di vista, tali sistemi possono essere concepiti come la sintesi tra le teorie economiche del fattore residuale ed una
generalizzazione dell’interazionismo simbolico americano che trova
il suo coronamento in E. Goffman. Ora, l’analisi da parte di quest’ultimo dell’ordine dell’interazione e della gestione sociale del volto e
dell’io difficilmente può essere letta come cosa diversa da una microsociologia del riconoscimento (e della sfida agonistica, in cui la
questione posta è quella di sapere chi dona e chi perdona).
Applicata al problema propriamente politico dei fondamenti della
democrazia e delle sue contestazioni fascistizzanti, integraliste o totalitarie, l’abbinamento della questione del riconoscimento e di quella
del dono fa subito emergere quanto sia impossibile fondare teoricamente e praticamente l’ordine democratico sulla sola prospettiva di
un godimento tranquillo dei beni materiali prodotti e scambiati sul
mercato. Ammesso che essa sia effettivamente realizzabile, occorrerebbe pur sempre che il riconoscimento dei soggetti individuali e
collettivi sia garantito. Simmetricamente, l’aspirazione totalitaria si
nutre della pretesa di far nascere soggetti al contempo più sicuri del
Christian Lazzeri e Alain Caillé
75
riconoscimento della loro identità, più razionali e generosi del soggetto democratico.
Prospettive di lavoro
In modo trasversale, due prospettive principali di lavoro vanno
privilegiate nel solco delle problematiche qui formulate.
Evidentemente sarà utile innanzitutto lasciarsi alle spalle lo schematismo di cui ci si è accontentati finora e procedere ad un censimento e ad una prima sintesi sistematica dei diversi modi di pensare
il riconoscimento, da una parte, e delle analisi e delle teorie del dono,
dall’altra, avviando una loro comparazione ragionata.
D’altronde e simmetricamente, bisognerà avviare un confronto ed
un dibattito sistematico con l’insieme delle scuole e degli approcci nelle scienze sociali che intendono superare la teoria della scelta
razionale. Tale confronto è già stato seriamente cominciato, quanto
al paradigma del dono, con il versante istituzionalista della scienza
economica – e soprattutto con la scuola delle convenzioni (O. Favereau, F. Eymard-Duvernay) –, con l’analisi delle reti e con la nuova
sociologia economica.
Da questo confronto è lecito attendersi un’importante chiarificazione dei due punti centrali contro cui le scienze sociali continuano
ad urtare:
– la dicotomia eccessiva degli approcci olistico ed individualistico
- che tutti deplorano ma che nessuno ha realmente superato - può
con buone probabilità esserlo davvero se si osserva che attraverso
il riconoscimento e le sue simbolizzazioni si opera la sintesi tra
il punto di vista dell’individuo – il punto di vista dall’interno – e
quello degli altri e, infine, del Grande Altro (Lacan) o dell’altro
generalizzato (Mead) – il punto di vista dall’esterno. Più o meno
bene, è vero;
– l’efficacia operativa della teoria della scelta razionale deriva dalla
sua semplicità: è questa che è la sua forza e nello stesso tempo
il suo limite, ma essa resta troppo presa nell’orbita della razionalità strumentale (anche se un Boudon, per esempio, ne prende
sempre più le distanze). Tutti gli sviluppi che abbiamo richiamato
l’hanno suggerito: i soli progressi decisivi della teoria dell’azione
individuale o collettiva che possiamo immaginare sono quelli che
passeranno attraverso una considerazione, al livello degli scopi
dell’attore sociale, non solo delle finalità utilitarie, ma anche dei
suoi fini etici ed identitari. Detto altrimenti, attraverso una teoria
del riconoscimento.
BRYAN S. TURNER
CITTADINANZA, MULTICULTURALISMO
E PLURALISMO GIURIDICO:
DIRITTI CULTURALI E TEORIA
DEL RICONOSCIMENTO CRITICO*
Introduzione: tesi
Mentre i sociologi hanno esaminato i problemi del riconoscimento culturale in termini di identità, differenza e diritti culturali, essi hanno trascurato il quadro giuridico all’interno del quale il riconoscimento potrebbe aver luogo. L’etica del riconoscimento è stata
criticata innanzitutto per aver tralasciato le condizioni materiali che
consentono di conseguire la giustizia. I critici sociali, per esempio,
hanno sostenuto che la redistribuzione della ricchezza è una precondizione necessaria per ogni riconoscimento della differenza culturale
e che entrambi, a loro volta, sono necessari per raggiungere obiettivi
democratici e una società egualitaria. Intendo proseguire questa discussione considerando le dimensioni giuridiche del riconoscimento
e della redistribuzione, innanzitutto attraverso la considerazione del
concetto di pluralismo giuridico.
La questione del pluralismo giuridico diviene rilevante nella letteratura sul postcolonialismo, ma si tratta di un tema che è diventato
progressivamente sempre più importante con la globalizzazione del
diritto.
Molte interpretazioni della cittadinanza e del multiculturalismo
(nel contesto europeo) hanno considerato il problema dell’universalismo e della differenza in relazione ai diritti culturali. L’argomento
esplicito è consistito nel fatto che noi possiamo riconoscere l’Altro
soltanto se vi è un’accettazione della differenza culturale e della diversità.
* Saggio edito per la prima volta.
Traduzione dall’inglese di Francesca R. Recchia Luciani.
78
Bryan S. Turner
I filosofi politici come Will Kymlicka1 hanno difeso l’idea dei diritti dei gruppi e dei diritti culturali all’interno di un quadro liberale
(un tipo di politica che fa riferimento in modo specifico alle società
multiculturali, come nel caso del Canada e dell’Australia). Kymlicka
sostiene che è tipico delle democrazie liberali che hanno accettato
qualche forma di multiculturalismo l’operare aggiustamenti o riadattamenti al pluralismo culturale attraverso il meccanismo di quelli
che egli definisce «diritti differenziati in funzione dell’appartenenza
di gruppo».2 Questi sono poi divisi in tre categorie.
In primo luogo, vi sono diritti all’autogoverno. Negli Stati multinazionali, le nazioni che vi fanno parte possono aspirare a un qualche
livello di autonomia politica o di giurisdizione territoriale. Il diritto
all’autodeterminazione è stato sancito dalla Carta delle Nazioni Unite
– «tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione» – ma, come
sottolinea Kymlicka, il documento non definisce ciò che va inteso
con “popoli”. In alcune società, l’aspirazione all’autonomia può condurre alla secessione, sebbene il federalismo abbia rappresentato una
diffusa soluzione istituzionale a tale istanza. Per certi aspetti, la tesi
di Kymlicka può sembrare specificatamente riferita al Canada, dove
il federalismo offre qualche soluzione alle istanze degli abitanti del
Quebec proprio all’interno di una struttura federale. In Australia il federalismo non è un meccanismo per risolvere le richieste aborigene,
e negli Stati Uniti le rivendicazioni nazionalistiche dei popoli nativi
sono state affrontate attraverso un sistema di “riserve” in cui alcuni
poteri vengono devoluti ai consigli tribali.
Il secondo riadattamento si realizza attraverso lo sviluppo di diritti
poli-etnici. Considerati a un livello minimo, questi sono semplicemente diritti che consentono di esprimere differenze culturali senza
esporsi ai pregiudizi. Questi diritti vengono spesso manifestati contro
l’“anglo-conformismo” che è stato implicato dal prevalere dei valori
anglo-americani nel dominio pubblico, limitando alla sfera privata le
pratiche culturali delle minoranze. Forme più radicali di questi diritti
possono comportare l’aspirazione da parte dei gruppi etnici ad essere
esentati dal rispettare leggi e regolamenti che vengono considerati
come non vantaggiosi per i propri interessi. In tal senso, l’esempio
più ovvio è quello che ha permesso ai maschi della comunità Sikh
in Gran Bretagna e in Canada di indossare i turbanti, considerandoli
come parte delle loro divise ufficiali quando rivestono ruoli pubblici
1 W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, trad. it. di G. Gasperoni, il Mulino, Bologna
1999.
2 Ivi, pp. 48 e sgg.
Bryan S. Turner
79
nelle forze di polizia o nell’esercito o nelle scuole. Lo scopo di questi
diritti è quello di promuovere l’integrazione, mentre i diritti all’autogoverno devono assicurare l’autonomia. Si può notare che questi
diritti sono limitati in modo tipico. La religione Sikh richiede cinque
simboli o segni di appartenenza, uno dei quali consiste nel portare
uno spadino (kirpan). È improbabile che i diritti poli-etnici possano
essere estesi a questi segni di appartenenza sino a consentire agli uomini Sikh in veste di passeggeri di portare il kirpan sugli aerei.
La terza forma prevede la creazione di speciali diritti di rappresentanza in base ai quali alle minoranze o ai gruppi oppressi viene
attribuita una rappresentanza automatica o garantita negli organismi
parlamentari o nelle altre istituzioni democratiche. Questi diritti sono
una forma di tutela (affermative action), e Kymlicka sostiene che essi
tendono ad essere temporanei, poiché non sono che dispositivi “di
avvio” in grado di assicurare un’evoluzione verso un’adeguata partecipazione. Essi vengono abbandonati non appena i gruppi minoritari
fanno il loro ingresso nel sistema portante della nazione ospitante.
La teoria dei diritti differenziati di Kymlicka, sebbene venga presentata sotto forma di quadro giuridico generale, il più delle volte è
in concreto specifica della storia e delle vicende canadesi. Il Canada
è federale e, in quanto società di colonizzatori bianchi, le sue comunità che si richiamano alle nazioni d’origine hanno una relazione
problematica con la storia e la sovranità canadese. Infine, il Canada
comprende il francofono Stato del Quebec. Alcuni aspetti della tesi,
tuttavia, possono e di fatto si applicano al caso europeo, laddove il
federalismo viene inteso come un utile principio di riadattamento.
Per di più, i diritti poli-etnici già si applicano a determinati gruppi sociali, ma non ad altri. Il caso del velo nelle scuole francesi è la chiara
illustrazione di ciò. Una critica all’approccio generale di Kymlicka
è l’assenza di una qualsiasi discussione significativa sul diritto. Vi è
qualche minimo riferimento all’esenzione dalle leggi o alla capacità
di applicare il diritto di famiglia nelle “riserve”, mentre è del tutto
assente ogni tentativo di collegare il pluralismo giuridico con i diritti
differenziati a seconda dei gruppi. I diritti secondo Kymlicka sono
soprattutto diritti culturali3, ed è appunto per questo che il problema
della sovranità giuridica non viene adeguatamente affrontato.
Il riconoscimento culturale delle differenze rappresenta una debole teoria dell’integrazione sociale. L’etica del riconoscimento può
operare se siamo in grado di offrire pieno riconoscimento alle istan3
C. Kukathas, Are There Any Cultural Rights?, in «Political Theory» , 29, 1992, pp. 105-39.
80
Bryan S. Turner
ze culturali degli altri, e specialmente dei gruppi minoritari. La teoria dell’etica del riconoscimento è il prodotto dell’analisi hegeliana
del rapporto servo-padrone4, ed è una prospettiva criticata sulla base
del fatto che una redistribuzione della ricchezza è necessaria tanto
quanto il riconoscimento, o anche prima di esso. Occorre sviluppare
una teoria del riconoscimento critico che vada al di là della semplice (soft) questione di riconoscere la diversità culturale. Una politica
multiculturale pienamente sviluppata capace di dare pieno riconoscimento alla cittadinanza deve esaminare il quadro giuridico all’interno del quale tale riconoscimento può aver luogo. In breve, un’esauriente politica multiculturale ha necessità di porre la questione del
pluralismo giuridico: il riconoscimento dell’Altro non pretende forse
che vengano presi sul serio istanze di diritto o sistemi giuridici altri?
Potremmo definire questa dimensione la complessa (hard) questione
del multiculturalismo. Qualsivoglia soluzione a questo problema deve difendere la nozione di esercizio della legge (rule of law) come
principio-base del dialogo culturale e, al contempo, stabilire le condizioni sotto cui il pluralismo giuridico può dare espressione a diverse, e potenzialmente contraddittorie, tradizioni giuridiche. Il dialogo
culturale tra gruppi sociali a proposito delle differenze culturali può
aver luogo soltanto laddove uno schema di discussione sia già stato
accettato. Il pluralismo giuridico illustra chiaramente le limitazioni
del relativismo culturale, ma allo stesso tempo promette di riconoscere l’importanza di tradizioni giuridiche separate e distinte.
Il contributo di Kymlicka alla teoria liberale implica che le società
possano sopravvivere come effettive democrazie se sono capaci di
conciliare culture e identità divergenti. Altri autori si sono mostrati
ben più pessimisti riguardo alla possibilità di mantenere l’ordine sociale di fronte alla diversità sociale. Per esempio, Jack Knight5 nota
che è raro il consenso culturale nelle moderne società, poiché la crescente diversità sociale minaccia l’omogeneità culturale delle società
tradizionali. Egli opera un’utile distinzione tra due forme di consenso: condividere un sistema comune di credenze, che vengono valutate
positivamente, e conoscere un sistema di credenze, che fornisce delle
aspettative comuni. Nell’accezione cognitiva del “condividere”, «un
comportamento cooperativo prevedibile è garantito dall’esistenza di
meccanismi che fanno convergere le aspettative verso quelle azioni
4 R. R. Williams, Hegel’s Ethics of Recognition, University of California Press, Berkeley
1997.
5 J. Knight, “Social Norms and the Rule of Law: Fostering Trust in a Socially Diverse Society”,
in K. S. Cook (ed.), Trust in Society, Russell Sage Foundation, New York 2001, pp. 354-73.
Bryan S. Turner
81
che soddisfano i requisiti di un mutuo beneficio».6 La cooperazione
secondo norme sociali influenza gli atteggiamenti verso il modo in
cui altre persone coopereranno, e a sua volta questa aspettativa configura supposizioni relative al comportamento futuro. Knight sviluppa questa argomentazione per rendere significativa l’osservazione di
Robert Putnam secondo cui il capitale sociale è una risorsa morale
che si accresce con l’uso.7 La crescita di una fiducia generalizzata è
una funzione della conformità quotidiana a norme, e più gli individui
cooperano tra loro, più si fidano reciprocamente. Le passate esperienze di interazione cooperativa credibile tendono a consolidare il nostro
senso generale di affidabilità degli altri all’interno della comunità. In
breve, l’esser degni di fiducia solitamente genera fiducia, e inversamente la mancanza di reciprocità tende a far calare la fiducia.8
Alla luce di questa analisi, cosa riduce la fiducia nella società moderna? La tesi di Knight, secondo Steven Lukes9, è che la diversità
sociale minaccia la comunità e l’erosione della comunità minaccia la
fiducia. La diversità etnica e multiculturale è una normale caratteristica delle società più avanzate. Nelle società culturalmente diversificate la fiducia è difficile da raggiungere perché vi sono importanti
differenze relativamente agli interessi, ai fini sociali fondamentali,
oltre che ai valori e alle credenze sociali. Dentro società culturalmente diversificate, i gruppi sociali impiegheranno strategie di chiusura sociale per assicurarsi, contro gli esterni che vengono visti come competitori, vantaggi rispetto alle risorse. Le norme informali
di regolazione sociale non necessariamente funzionano nella pratica
all’interno di quegli ambienti sociali in cui l’eguaglianza e la giustizia sociale sono palesemente assenti. Più è ampio il pregiudizio
distributivo nell’assegnazione delle risorse, maggiore la propensione
dei gruppi svantaggiati a sovvertire le organizzazioni sociali esistenti. Più aumentano le condizioni sfavorevoli, più è forte l’incentivo
per i gruppi deboli a non interagire con i gruppi dominanti. Più è
profondo il disagio, più è bassa la probabilità che i gruppi marginali
possano rispondere positivamente alla motivazione normativa (cioè
non-strumentale) a conformarsi alle norme sociali esistenti. La storia
dell’apartheid in Sudafrica o della segregazione razziale negli Stati
Ivi, p. 358.
R. D. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in
America, trad. it. a cura di R. Cartocci, il Mulino, Bologna 2004.
8 R. Hardin, “Conceptions and Explanations of Trust”, in K. S. Cook (ed.), Trust in Society,
Russell Sage Foundation, New York 2001, pp. 3-39.
9 S. Lukes, The Rationality of Norms, «Archives Europeennes de Sociologie», 32, 1991, pp.
142-49.
6
7
82
Bryan S. Turner
americani del sud potrebbero rappresentare forme estreme di questo
sistema di chiusura sociale, ma il conflitto sociale tra gruppi sulla
base di una classificazione etnica resta una diffusa precondizione del
risentimento politico nelle società contemporanee.
Una conclusione che può essere tratta è che nelle società culturalmente diversificate la fiducia generalizzata non può essere sostenuta
dal fare affidamento semplicemente su meccanismi informali, come
le consuetudini, per assicurare conformità alle norme e cooperazione.
Knight sostiene che l’obiettivo è quello di «costruire, in una società
connotata dalla diversità sociale, una concezione dell’esercizio della
legge che soddisfi i requisiti dell’ordine sociale e della cooperazione
e che crei, come possibile sottoprodotto, le condizioni per l’emergere
e il conservarsi di meccanismi informali come la fiducia».10
Mentre Knight è pessimista riguardo alla possibilità di conseguire
un tale desiderabile risultato, egli sostiene un’interpretazione pragmatica dell’esercizio della legge come meccanismo per soddisfare gli
interessi di differenti gruppi sociali in un ordine sociale differenziato.
Per conciliare i diversi interessi di gruppi sociali culturalmente distinti, la legge deve sviluppare una gamma di meccanismi che evitino
il carattere accusatorio della disputa legale. Il proceduralismo legale
come principio giuridico mette in evidenza l’importanza, nella risoluzione del conflitto, di processi legali pubblici e prevedibili. Sotto
questo aspetto, l’opera di Lon Fuller11 ha avuto un ruolo importante
nello sviluppare procedure legali – quali giudizio (adjudication), mediazione (mediation), potere discrezionale (managerial discretion),
contratto e legislazione – che possono contribuire alla cooperazione
sociale. Il pragmatismo suggerisce che le decisioni legali debbono
soddisfare una condizione di mutuo rispetto e di equo trattamento dei
membri di differenti gruppi sociali.
Mentre Knight fornisce un’utile interpretazione di come l’esercizio
della legge possa operare in una società culturalmente diversificata,
egli resta pessimista riguardo all’efficacia di tali processi formali nel
generare fiducia generalizzata. Io ritengo che occorra vedere l’esercizio della legge all’interno di un più ampio quadro sociale e politico, ovvero la cittadinanza sociale. Le istituzioni della cittadinanza
moderna hanno rappresentato i principali meccanismi di inclusione
sociale nella società contemporanea, e la cittadinanza ha giocato un
ruolo fondamentale nel mitigare le conseguenze negative sia dell’ine10 J. Knight, “Social Norms and the Rule of Law: Fostering Trust in a Socially Diverse Society”, cit., p. 365.
11 L. Fuller, The Meaning of Law, Yale University Press, New Haven 1969.
Bryan S. Turner
83
guaglianza del mercato sia della condizione di svantaggio etnico. In
termini storici, la cittadinanza sociale è stata determinante nel ridurre
le conseguenze negative delle differenze tra le classi sociali nel capitalismo, ma essa può anche fornire un qualche alleggerimento delle
ineguaglianze etniche.
1. Pluralismo giuridico, costruzione dello Stato ed eredità coloniale
Storicamente le società europee hanno tentato di risolvere alcuni
aspetti del conflitto sociale attraverso il trattato di Westfalia, relegando la religione alla sfera privata (come un problema relativo alla
consapevolezza e alla coscienza personale), in modo da ridurre la
possibilità di un rinnovarsi delle guerre di religione nel XVII secolo.
Esso richiedeva che il principe (o lo Stato emergente) decidesse quale
versione della religione (cristiana) sarebbe dovuta essere considerata
come religione nazionale, ed esso creò un sistema internazionale di
Stati-nazione regolati, in linea di principio, da trattati. La globalizzazione ha sottoposto questo sistema ad una notevole pressione, come
viene illustrato, tra le tante cose, dalle tensioni tra la cittadinanza nazionale e i diritti umani universali. L’interessante questione posta dal
revival e dalla radicalizzazione dell’Islam nell’era del dopo Guerra
Fredda è la riaffermazione della shari’a come di un sistema di leggi
allargato, che è qualcosa di più di una semplice regolazione normativa della sfera privata, e come di un sistema di carattere giuridico-religioso che non può essere semplicemente contenuto all’interno dello
Stato-nazione.
Vi è un’accezione forte ed un’accezione debole di “pluralismo giuridico”. La definizione debole si riferisce all’esistenza del pluralismo
all’interno dei sistemi di diritto ufficiali. Il significato forte chiama in
causa un certo numero di ordinamenti giuridici sovrapposti all’interno dello stesso spazio politico.12 I giuristi che si occupano di diritto
comparato hanno solitamente riconosciuto l’esistenza di ordinamenti
giuridici differenti o di “famiglie di norme”, come nel caso del diritto
romano, germanico, nordico, della common law, dei sistemi giuridici
asiatici, della legge islamica e della legge indù. La globalizzazione
del diritto corrisponde in effetti alla crescita del pluralismo giuridico
nell’accezione forte del termine, secondo cui dentro un certo spazio si potrebbe trovare una sovrapposizione di queste “famiglie di
norme”, ma in aggiunta devono esserci nuovi sistemi di legge internazionale (soprattutto in relazione al commercio) e, se possibile,
12
W. Twining, Globalisation & Legal Theory, Butterworths, London 2000.
84
Bryan S. Turner
di legge globale (una sorta di ius humanitatis che regoli gli scambi a
livello globale). Le leggi ambientali sono, da questo punto di vista,
transnazionali; d’altronde potremmo immaginare leggi intergalattiche
che regolino i viaggi spaziali. Quali sono le tensioni politiche in tali
situazioni, ed esse sono compatibili con la cittadinanza nazionale?
La legge è anche una caratteristica fondamentale della solidarietà di
gruppo. Dal punto di vista dei modelli tradizionali di cittadinanza,
ciascun cittadino ha il dovere di rispettare la legge, ma tutti i cittadini
hanno diritto all’esercizio della legge. Storicamente questa relazione
tra diritto e dovere ha implicato uguaglianza di fronte alla legge. La
globalizzazione sembra richiedere una cittadinanza flessibile, e questa flessibilità politica potrebbe richiedere anche la differenziazione
del diritto e il pluralismo giuridico.
Gli atteggiamenti inglesi e francesi verso la cultura e la cittadinanza necessitano di essere visti nel contesto dell’espansione coloniale,
che ha costretto le società europee a confrontarsi tanto col pluralismo
culturale quanto col pluralismo giuridico. La colonizzazione britannica
ha generalmente creato l’immagine di territori vuoti o di terra nullius.
Il concetto di proprietà della filosofia politica di John Locke veniva
usato per spiegare perché i popoli nativi non avevano il possesso della
terra, e che dunque la colonizzazione non costituiva un’occupazione
violenta, ma una forma pacifica e legale d’insediamento. La descrizione della colonizzazione americana fornita da Alexis de Tocqueville
presupponeva un territorio vuoto, così come l’occupazione britannica
dell’Australia negava la presenza dei popoli aborigeni (almeno sino
al 1830). Nel sistema coloniale francese, per esempio nel caso della
Nuova Caledonia, la denominazione nativa di “canaco” fu abolita. Nel
1867 una legge coloniale francese sanciva il possesso comune di tutte le
proprietà dei canachi, e pertanto eliminava qualsiasi proprietà privata.
Questo mito antropologico dell’identità morale collettiva dei canachi
distrusse la possibilità stessa di un’individualità dei canachi, e pertanto
essi dovettero essere civilizzati (dal cattolicesimo) per poter finalmente
diventare riconoscibili come cittadini. In quanto popolo tribale, essi
non potevano essere individui proprietari.13 Recenti tentativi compiuti
dai tribunali australiani di riconoscere il diritto di possesso della tradizionale terra aborigena (in seguito alla sentenza sul caso “Mabo” 14)
hanno come implicazione il riconoscimento della legge aborigena al di
13 A. Bullard, “Paris 1871/New Caldonia 1878: Human Rights and the Managerial State”, in
J. N. Wasserstrom, L. Hunt and M. B. Young (eds.), Human Rights and Revolutions, Rowman &
Littlefield, Lanham 2000, pp. 79-98.
14 Il riferimento è alla sentenza dell’Alta Corte australiana che nel 1922 ha riconosciuto agli
aborigeni il diritto alla terra. [N.d.T.].
Bryan S. Turner
85
sopra del possesso ordinario delle terre, e dunque accettano implicitamente il pluralismo giuridico. Viene adesso riconosciuto che le pretese
britanniche nei confronti della terra di fatto non estinguono i diritti
accampati dagli aborigeni sulla stessa terra. In Nuova Zelanda, con il
trattato di Waitangi del 1840 si intese legittimare la sovranità britannica (sull’Isola del Sud). Come concetto, la “sovranità” risultava incomprensibile ai capi maori15, ma almeno sul lungo periodo significava
che la relazione tra i colonizzatori bianchi e i maori era regolata da un
trattato, una situazione di diritto assente in Australia. In altre situazioni coloniali (come nella penisola malese), la common law britannica
operava insieme ai tribunali della shari’a, che regolavano le relazioni
familiari. Lo scopo di questi esempi è di affermare il fatto che il pluralismo giuridico non è semplicemente una conseguenza degli sviluppi
recenti della globalizzazione.
2. La fine di Westfalia: diritti sociali vs diritti umani
Vi sono stati due modelli dominanti di cittadinanza nel processo
di costruzione della nazione. Il modello anglo-americano ammetteva
il mercato e i diritti di proprietà come condizioni fondamentali delle
libertà liberali e trattava la religione semplicemente come una questione privata. Nella condizione coloniale, i diritti di proprietà producevano l’utile immagine secondo cui le acquisizioni da parte dei
coloni si esercitavano su terre vuote. Nella misura in cui le società
tribali venivano riconosciute, le loro leggi erano locali e consuetudinarie, oltre che subordinate alla common law. L’obiettivo culturale di
civilizzare queste società aborigene era primariamente lo scopo delle
chiese cristiane, piuttosto che dei governi. Mentre la tradizione repubblicana francese accettava i principali presupposti del liberalismo
(diritti di proprietà, contratto sociale e individualismo), la componente illuminista del repubblicanesimo dava a intendere che lo Stato investiva nel processo di civilizzazione. L’eredità storica che ne deriva
è che lo Stato francese investe molto di più nella regolamentazione
dello spazio pubblico.
Uno degli esiti della globalizzazione è che la soluzione westfaliana del problema delle differenze culturali sta cominciando ad andare
in frantumi. Un aspetto di queste evoluzioni globali è stato quello
della “denazionalizzazione” della produzione di regole16 e dell’emergere di codici transnazionali di condotta che vincolano lo Stato e le
15 M. Sahlins, Isole di Storia. Società e Mito nei Mari del Sud, trad. it. di E. Basaglia, Einaudi,
Torino 1986.
16 S. Sassen, Global Networks / Linked Cities, Routledge, New York-London 2002.
86
Bryan S. Turner
corporazioni globali. Questi sviluppi sono complessi, ed è importante
non esagerare l’entità dell’erosione della sovranità (westfaliana) dello
Stato. La globalizzazione della legge implica lo sviluppo di relazioni
complesse tra vari luoghi della governance, in cui agenti governativi
e non-governativi agiscono strategicamente per realizzare i loro interessi. La più importante convergenza delle norme tra luoghi diversi è
l’internazionalizzazione dei diritti umani.17
Anche se vi sono molti modi in cui il pluralismo giuridico può
essere definito18, io lo descriverei semplicemente come la presenza di
differenti tradizioni giuridiche all’interno di una determinata comunità politica o spazio politico. Nel contesto coloniale, il pluralismo
giuridico ha spesso significato che le comunità vittime di segregazione razziale avevano le proprie pratiche giuridiche. Mentre i tribunali europei sottostavano agli interessi dei colonizzatori bianchi, le
comunità dei nativi conservavano le proprie leggi consuetudinarie.19
Nelle società globalizzate dell’età contemporanea, vi sono spesso importanti differenze tra le leggi relative ai diritti umani e le leggi nazionali, tra i codici internazionali e le leggi parlamentari. Le tensioni
tra diritti umani e diritti sociali nelle società europee contemporanee
possono anche essere interpretate come casi di pluralismo giuridico.
I diritti umani sono diritti senza territori, a dispetto del fatto che
la legge civile opera all’interno di territori specifici. I sistemi di diritto sono normalmente legati alle comunità politiche sovrane. Questo
punto è il nucleo dello scontro tra cittadinanza (diritti sociali basati
sull’appartenenza ad uno Stato-nazione e sulla sicurezza nazionale)
e diritti umani che esistono in virtù della vulnerabilità degli esseri
umani. I diritti di cittadinanza implicano doveri sociali dentro uno
spazio definito; i diritti umani offrono protezione e non ne specificano in quanto tali i doveri. Fondamentalmente i diritti umani accettati dall’Unione Europea e dalla sua Carta costituzionale hanno
interferito in modo consistente con il dominio legislativo nazionale,
spesso sfidando o entrando in conflitto con le espressioni nazionali
dei diritti sociali. Mentre la cittadinanza ha riguardato la costruzione
della nazione, i diritti umani forniscono protezione alle persone in
quanto esseri umani, senza alcun riferimento agli Stati. E ciò vale
anche per gli Stati Uniti, che pure hanno spesso opposto resistenza
17 F. Snyder, “Economic Globalization and the Law in the Twenty-first Century”, in A. Sarat
(ed.), The Blackwell Companion to Law and Society, Blackwell, Oxford 2004, pp. 624-40; cfr.,
p. 630.
18 C. Geertz, Antropologia interpretativa, trad. it. di L. Leonini, il Mulino, Bologna 1988.
19 S. E. Merry, “Colonial and Postcolonial Law”, in A. Sarat (ed.), The Blackwell Companion
to Law and Society, cit., pp. 569-88.
Bryan S. Turner
87
alla legislazione relativa ai diritti umani (per esempio, sulla questione
della pena capitale).
Le tensioni tra diritti umani e diritti sociali si sono parzialmente ridimensionate, poiché i diritti umani hanno progressivamente abbracciato un numero più ampio di componenti sociali ed economiche.
Sebbene la Dichiarazione del 1948 avesse una natura individualistica, il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali
ha esteso i diritti individuali al contesto sociale. E, cosa ancora più
importante, dal momento che vi è una limitata o nessuna governance
globale che possa rafforzare i diritti umani, la loro implementazione
dipende dagli Stati-nazione e dai loro sistemi legislativi. Per esempio,
in Australia i diritti dei nativi sono stati riconosciuti dall’Alta Corte,
sebbene contro l’opposizione governativa. Ora, la questione più problematica è se la legge islamica, o shari’a, possa ricevere qualche
riconoscimento all’interno della struttura federale europea.
Nell’ultima parte del XX secolo si è verificata una notevole crescita
del fondamentalismo religioso, nel cui ambito le fedi monoteiste abramiche hanno messo in discussione l’atto determinatosi dopo Westfalia
di relegare la religione solo alla sfera privata. In vari movimenti fondamentalisti, questa “risacralizzazione” della società ha suscitato tentativi
di ristabilire la legge religiosa, non soltanto all’interno della sfera domestica e familiare, ma anche nel dominio pubblico della giustizia penale, dell’educazione e dell’economia. Mentre i teorici fondamentalisti
hanno asserito che la shari’a deve governare la vita pubblica, ciò non è
necessariamente caratteristico delle società musulmane. E’ stato spesso
fatto notare che l’Impero ottomano si fondava sul pluralismo giuridico
in base al quale ogni comunità (o millet) aveva proprie regole giuridiche, morali e culturali. In Africa e in Asia, la shari’a generalmente
conviveva sia con le leggi consuetudinarie che con quelle tribali, oltre
che con le leggi dei poteri coloniali europei. L’età contemporanea, tuttavia, è sempre più caratterizzata dall’“attivismo giuridico”20, vale a
dire, i muftī stanno progressivamente estendendo la legge religiosa alle
questioni relative alla condotta pubblica: allorquando, per esempio, la
shari’a serve a giustificare le relazioni con Israele, gli attacchi suicidi
e la cattura di ostaggi in situazioni belliche, o la messa al bando di
certi libri. La restaurazione della shari’a all’interno di società secolari
e pluralistiche appare notevolmente problematica, poiché le sue prescrizioni relativamente alle donne, al divorzio, ai prestiti a interesse e
20 R. T. Antoun, Understanding Fundamentalism. Christian, Islamic and Jewish Movements,
Altamira Press, Walnut Creek 2001, p. 89.
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Bryan S. Turner
alle punizioni corporali sono state soggette a forti critiche da parte occidentale. Sebbene sia una questione controversa, le femministe hanno
convenzionalmente sostenuto che la legge islamica accorda alle donne
uno status che è meno favorevole rispetto a quello che viene loro riconosciuto, per esempio, dalla common law britannica. Uno dei problemi
legati al pluralismo giuridico è che potremmo essere riluttanti ad accettare una situazione in cui, all’interno dello stesso Stato-nazione, i cittadini possono finire sotto la giurisdizione di differenti sistemi di diritto
che li trattano in modo differenziato. La mutilazione genitale femminile è ovviamente un caso estremo. In Gran Bretagna, sono stati fatti
dei passi per presentare alla Camera dei Comuni un disegno di legge
d’iniziativa parlamentare che avrebbe consentito di perseguire i genitori che hanno consentito la circoncisione delle proprie figlie. Il Muslim
Council di Gran Bretagna ha fatto notare che, mentre la circoncisione
maschile è un obbligo per i musulmani, quella femminile non è una
pratica islamica prescritta e non ha alcuna autorizzazione coranica. La
circoncisione delle donne è un costume, e non è parte dell’insegnamento islamico formale. Il multiculturalismo e il pluralismo giuridico
dovrebbero forse includere, oltre alla legge, anche la tradizione?
Le opinioni sociologiche riguardo alla legge nell’Islam continuano
ad essere influenzate dalla spiegazione fornita da Max Weber circa le
caratteristiche irrazionali della shari’a. Weber21 ha sostenuto che sia
la common law britannica che la giustizia dei qādī sono notevolmente simili nell’attingere alla giurisprudenza preesistente. Dal punto di
vista di Weber, entrambi i sistemi sono irrazionali; essi non hanno la
medesima consistenza logica del diritto romano o continentale. La
tesi weberiana è che, sia nella common law britannica che nella giustizia dei qādī, esercitare il giudizio è un atto soggetto all’interesse politico. Weber criticava la common law britannica poiché essa
era aperta alle manipolazioni determinate da interessi di classe e in
quanto le decisioni del giudice venivano influenzate dagli interessi
economici e politici della classe dominante. E tuttavia, nel caso della
shari’a islamica, vi era la difficoltà aggiuntiva generata dal fatto che,
poiché si tratta di una legge sacra, essa è in linea di principio chiusa
ad ulteriori interpretazioni. Lo scarto tra il contenuto normativo della
shari’a e la realtà empirica viene superato dall’(arbitrario) esercizio
del giudizio o dalla pubblicazione di una fatwā. Questa caratterizzazione della legge islamica, tuttavia, non è accurata. Nell’Islam il
21 M. Weber, Economia e società, trad. it. di P. Chiodi e G. Giordano, a cura di P. Rossi, Ed. di
Comunità, Milano 1981, vol. II.
Bryan S. Turner
89
tradizionale esercizio giuridico del giudizio è da sempre soggetto ad
una discussione e ad una valutazione continuative, nel corso delle
quali le decisioni individuali subiscono il vincolo della tradizione e
dei costumi.22 Sotto questo aspetto, la giustizia dei qādī è il prodotto
di un consenso collettivo, e per di più, in anni recenti, sono stati fatti
sforzi consistenti e largamente riusciti di razionalizzare, sistematizzare e modernizzare la legge islamica per renderla adeguata alle condizioni attuali. La shari’a non è una legge religiosa congelata e fuori
del tempo, ma un insieme di tradizioni diverse, che sono aperte alla
critica e alla valutazione.
Nella critica femminista si afferma che la legge religiosa mette a
tacere la voce delle donne, ma anche nelle società musulmane vi è
un dibattito interno relativo all’incoerenza dell’esercizio del giudizio
giuridico nei tribunali musulmani.23 Non dovremmo, perciò, riferirci
alla legge islamica come ad un corpo giuridico coerente ed immutabile, ma piuttosto come ad un sistema di prescrizioni che sono aperte
alla discussione continuativa e all’attento esame interno. L’irrisolto
dibattito dentro l’Islam a proposito del cosiddetto matrimonio temporaneo (mut’a o sigheh) è un buon esempio di tale diversità interna,
dell’incertezza e della discussione.24 Non vi è nulla di fondamentalmente diverso tra la riforma della legge islamica e la riforma delle
leggi civili occidentali. Per esempio, nella common law britannica
sono state sollevate delle critiche a proposito del ruolo dei giudizi legali riguardo ai casi di stupro. Tradizionalmente, i tribunali non hanno favorito le vittime di sesso femminile e le sentenze emesse sono
apparse largamente incoerenti. Va sottolineato il fatto che sia la legge
islamica che la common law poggiano sul consenso sociale. La common law è detta “common” perché essa riflette, attraverso le decisioni
legali dei giudici, quella che è la comune visione del comportamento
socialmente adeguato; e, in una società come quella indonesiana, per
esempio, anche la legge islamica appare come la manifestazione di
una pratica comune.25 Questo paragone tra common law e shari’a,
in quanto entrambe derivate dalla pratica, ci riporta al problema fi22 M. G. Peletz, Reinscribing “Asian (Family) Values”; Nation Building, Subject Making, and
Judicial Process in Malaysia’s Islamic Courts, Occasional Papers of the Erasmus Institute, Notre
Dame (Ind.) 2003.
23 D. L. Horowitz, The Qur’an and the Common Law: Islamic Law Reform and the Theory of
Legal Ch’ange, “American Journal of Comparative Law”, 42, 1994, pp. 543-80.
24 S. Haeri, “The Institution of Mut’a Marriage in Iran: a Formal and Historical Perspective”,
in B. S. Turner (ed.), Islam. Critical Concepts in Sociology, Routledge, London 2003, vol. 3, pp.
154-72.
25 J. R. Bowen, Islam, Law and Equality in Indonesia, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
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Bryan S. Turner
losofico che rende il dibattito a proposito del pluralismo giuridico
particolarmente complesso. Weber, nel considerare la legge come un
comando, lega necessariamente la produzione di diritto alla sovranità
statale. La legge è semplicemente una collezione di regole che vengono fatte rispettare dagli Stati che vantano sovranità su un territorio.
Questa definizione significa innanzitutto che le relazioni internazionali non ricadono sotto il comando della legge e, in secondo luogo, in
base alla definizione weberiana viene escluso il pluralismo giuridico.
Malgrado ciò, però, nella realtà dei fatti del mondo contemporaneo
abbiamo molte leggi internazionali e un certo grado di pluralismo
giuridico.
3. Verso una teoria del riconoscimento critico
Il raggiungimento di un certo livello di ordine sociale nelle società
complesse richiede il riconoscimento delle differenze culturali delle
comunità minoritarie. Un’adeguata teoria del riconoscimento, a sua
volta, richiede sia la comune approvazione delle regole del dibattito (l’esercizio della legge), sia l’approvazione di un certo grado di
pluralismo giuridico. Potrebbe anche accadere che, in assenza di un
pluralismo giuridico allargato, possano venire approvate leggi minime (soft laws).
Vi è stato un’impressionante revival dell’etica hegeliana del riconoscimento, principalmente attraverso l’applicazione della teoria
etica del riconoscimento alla società multiculturale. Gran parte dello
sforzo intellettuale in questo campo è confluito nell’analisi dei diritti
culturali. Questo tipo di ricerca è, per così dire, il finale “soft” del
dibattito; spesso l’etica del riconoscimento trascura il problema della
redistribuzione economica, e altrettanto spesso favorisce il riconoscimento delle differenze rispetto alla statuizione della giustizia. Inoltre,
cosa ancora più importante, questo dibattito ha trascurato il quadro
giuridico dentro cui il riconoscimento potrebbe aver luogo, il quale
soltanto può fornire un solido quadro di riferimento per il dialogo.
In termini più generali, la moderna sociologia ha trascurato lo studio del diritto, confinandolo nelle discipline socio-giuridiche. Eppure, ogni sociologia che si occupi di cittadinanza deve prendere molto sul serio il tema del diritto. Forse il riconoscimento sottintende
l’accettazione dei sistemi giuridici degli altri? Il postcolonialismo
sembra implicare un qualche parziale riconoscimento dell’esistenza
parallela di sistemi giuridici alternativi. Per di più, la globalizzazione è andata via via producendo condizioni favorevoli all’incremento
del pluralismo giuridico. Per esempio, la legge internazionale diviene
Bryan S. Turner
91
una caratteristica permanente dei sistemi giuridici nazionali e, cosa
ancora più importante, le leggi ambientali e le leggi relative ai diritti
umani spingono i sistemi giuridici verso il pluralismo inteso in senso
“forte”.
Chiuderò con due domande. La prima è di carattere pratico: è probabile o no che i paesi europei accettino la legittimazione giuridica
della legge della shari’a? La seconda è teoretica: quali sono i limiti
del pluralismo giuridico?
Rispetto alla pratica politica, potremmo immaginare che in una
società come quella dei Paesi Bassi lo storico ruolo rivestito dalla social pillarization (ovvero, la creazione di spazi o di autonomi settori
sociali della società civile dentro i quali diversi gruppi religiosi come
i protestanti, i cattolici, gli “umanisti” possano praticare o sostenere le loro differenti credenze) potrebbe permettere l’estensione della
shari’a ai giudizi relativi al diritto di famiglia come regolamentazione della vita privata. Comunque, la shari’a, diversamente dal diritto
consuetudinario dei canachi, dei maori e dei cheyenne, ha pretese
universalistiche, ed i fondamentalisti vogliono applicarla alla legge
civile. Il recente sviluppo in Europa di un processo di radicalizzazione delle politiche della sicurezza (securitisation) suggerisce che i governi europei non sono disposti ad acconsentire ad alcuna apparente
erosione o diluizione della sovranità nazionale. I partiti politici che
hanno fatto leva sull’angoscia nazionalistica, come il Partito Indipendentista del Regno Unito o, in Francia, il Fronte Nazionale, hanno ottenuto una consistente risposta elettorale. L’islamofobia sembrerebbe
escludere qualsiasi facile inclinazione verso il pluralismo giuridico,
determinata da un qualche riconoscimento della shari’a, seppure in
quanto regolazione della sola vita privata. La competizione politica
sembra implicare che, se il pluralismo etico potrebbe essere tollerato,
il pluralismo giuridico non può esserlo. Nel contemporaneo contesto
improntato alla sicurezza, il multiculturale si applica alla sfera privata e il monoculturalismo all’arena pubblica.
Questo dibattito empirico a proposito del carattere della common
law e della legge islamica relativamente allo status delle donne può
avere un’importante implicazione teorica. Quando parliamo di riconoscimento tra due o più comunità, dobbiamo ammettere che all’interno delle comunità potrebbe non esserci un consenso stabile circa
la correttezza di una pratica o di una credenza. Nella teoria del riconoscimento critico, dobbiamo prendere in considerazione l’importanza di queste discussioni interne, locali o “indigene”. Dobbiamo
evitare di supporre pregiudizialmente che qualcosa chiamato “Islam”
92
Bryan S. Turner
non conceda alle donne gli stessi diritti concessi da quel qualcosa
chiamato “Occidente”; sia nell’Islam che in Occidente vi sono discussioni più o meno infinite su come dovrebbero essere trattate le
donne (ma anche gli uomini, i bambini, l’anziano, il malato e così
via). Né la common law, né la shari’a rappresentano un sistema statico, omogeneo o coerente; al proprio interno, vi sono sempre delle
contestazioni. Dobbiamo inquadrare questa analisi dentro lo schema
dei principi della razionalità comunicativa di Jurgen Habermas.
Immaginiamo un dibattito tra due comunità (A e B) a proposito
della natura e della funzione del matrimonio. In una democrazia potremmo sostenere che vi sono due condizioni perché si realizzi un
dibattito aperto e continuo.
La prima è che la discussione e il disaccordo non dovrebbero mai
essere messi a tacere. Il ruolo di una democrazia è quello di permettere il dialogo tra gruppi culturalmente diversi. Nella teoria del riconoscimento critico, notiamo che il dibattito tra A e B non dovrebbe
subire forzature, ma, allo stesso modo, i dibattiti interni sia ad A che
a B non dovrebbero soggiacere a inibizioni. Inoltre, la comunità A
dovrebbe essere libera di intervenire nel dibattito interno di B e viceversa. Potremmo perciò obiettare, per esempio, riguardo al fatto che
né i fondamentalisti islamici, né quelli cristiani sembrano riconoscere
questo criterio di apertura. Un dialogo critico può aver luogo soltanto
laddove vi sia già un qualche accordo relativamente alle regole del
dibattito.
Vi è una seconda condizione che deriva dal qualificato dibattito
tra Chandran Kukathas e Will Kymlicka intorno ai diritti culturali.
La garanzia definitiva dei diritti femminili è probabilmente l’esistenza del diritto liberale di un individuo ad abbandonare la propria comunità. Il diritto ad allontanarsi dal proprio paese o dalla propria
comunità è un diritto fondamentale.26 Così, in una discussione sul
riconoscimento che si svolga tra A e B, deve esserci una norma che
preveda che se un membro individuale della comunità A decide che
le pratiche culturali di quella B gli appaiono essere più congeniali ai
propri bisogni, quell’individuo può migrare nel gruppo B. In pratica,
questo diritto a dissociarsi è davvero difficile da far rispettare, poiché
la sopravvivenza di un gruppo (specialmente di un gruppo minoritario) potrebbe dipendere dall’abilità di quel gruppo ad esercitare un
26 S. Saharso, “Female Autonomy and Cultural Imperative. Two Hearts Beating Together” in
W. Kymlicka and W. Norman (eds.), Citizenship in Diverse Societies, Oxford University Press,
Oxford 2000, pp. 224-42.
Bryan S. Turner
93
controllo sulle sue donne al fine di assicurare la riproduzione della
cultura e della religione, inclusa la riproduzione della lingua.
Una teoria del riconoscimento critico, basata su principi comunicativi, fornisce solidi criteri di reciproca accettazione. Siamo tenuti a
riconoscere il diritto al disaccordo, ma dobbiamo anche riconoscere
un diritto alla persuasione razionale. Accettare le argomentazioni di
qualcun altro equivarrebbe allora piuttosto ad emigrare in un altro
paese. Potremmo tradurre questa idea in termini wittgensteiniani. Per
secoli vi è stata una disputa tra i francesi e gli inglesi, ma vi sono
anche discussioni interne alla società inglese a proposito della cultura francese: si possono trovare sia francofobi che francofili. L’etica
del riconoscimento critico deve consentire ai francofili che amano
lo stile di vita francese di migrare, sia mentalmente che fisicamente.
Accettare la verità di un’argomentazione potrebbe essere come adottare un nuovo stile di vita. Questa porosità tra culture è ciò che è
in gioco nella teoria del riconoscimento critico, poiché i francofobi
sono inclini a considerare sleali i francofili. Una teoria del riconoscimento critico può funzionare soltanto quando una società è disposta
ad accettare la “virtù cosmopolita” come un necessario accessorio del
dialogo interculturale.27
A partire dall’11 settembre le possibilità del pluralismo e della tolleranza sono state severamente messe alla prova e sottoposte a delle
costrizioni dal discorso del terrorismo e della sicurezza. Lo sviluppo
di un modo intelligente e cosmopolita di trattare le comunità islamiche, in Europa e dovunque, è stato interrotto (speriamo temporaneamente) a causa delle risposte politiche e legali al “terrorismo”.
In particolare, la tesi dello scontro tra civiltà ha identificato quella
islamica come un tipo di civiltà fondamentalmente incompatibile con
i valori occidentali. Mentre le comunità musulmane sono state marginalizzate dai processi di radicalizzazione delle politiche della sicurezza (securitisation), è improbabile che in Occidente le tradizioni
islamiche possano suscitare qualsivoglia comprensione simpatetica.
Vi è, pertanto, una considerevole pressione politica sui musulmani
della diaspora ad accettare la definizione westfaliana della religione
come di un problema di pratica privata e di fede personale. Negli Stati Uniti, l’Islam potrebbe in tal caso divenire accettabile come un’altra confessione nel melting pot del multiculturalismo.
27 B. S. Turner, Cosmopolitan Virtue, Globalization and Patriotism, in «Theory Culture &
Society», 19 (1-2), 2002, pp. 45-63.
94
Bryan S. Turner
4. Conclusioni: condizioni giuridiche dell’etica del riconoscimento
critico
In conclusione, le condizioni giuridiche per una teoria critica del
riconoscimento che si spinga al di là dei diritti poli-etnici dovrebbe
comportare:
1) il riconoscimento della validità di differenti sistemi legali;
2) l’accettazione delle pretese delle minoranze di esercitare le proprie giurisdizioni;
3) il reciproco riconoscimento che le leggi vengono prodotte socialmente e sono soggette alla discussione e perciò all’evoluzione;
4) l’accettazione di norme giuridiche che funzionino attraversando le
comunità – essenzialmente ammettendo un esercizio della legge
che ho interpretato nel significato di un’accettazione delle regole
della discussione e della valutazione;
5) il riconoscimento del diritto ad appellarsi contro le sentenze;
e
6) l’accettazione di qualche processo per mezzo del quale i membri
possano volontariamente lasciare le proprie comunità.
Cosa implicano queste norme? Che il pluralismo giuridico è una
conseguenza inevitabile del multiculturalismo, inoltre viene suggerito che i diritti differenziati per gruppo descritti da Kymlicka sono
attualmente sottosviluppati per il fatto che non viene riconosciuta
l’importanza dell’autodeterminazione giuridica, o “poli-giuridicità”.
Il pluralismo giuridico spingerebbe, pertanto, i presupposti del liberalismo sino al loro limite estremo.
Quali sono poi le implicazioni per le comunità religiose? Queste
norme escludono l’idea di una legge religiosa considerata immutabile
e stabilita una volta per tutte. Questo tipo di conseguenza potrebbe
non essere necessariamente un problema significativo nel senso che,
in pratica, l’Islam ha accettato l’idea dell’interpretazione giuridica
(iğtihād) proprio come la common law britannica evolve e si trasforma per effetto delle opinioni legali dei giudici.
La nozione in base alla quale gli individui possono dissociarsi dalle proprie comunità è forse la più problematica. Nel caso delle minoranze, la sopravvivenza delle proprie culture e tradizioni richiede
la continuità della socializzazione e della trasmissione – un processo
che è storicamente dipeso dalle donne. Dunque, le donne sono tipicamente soggette ad un’eccessiva (e talvolta brutale) subordinazione
alle norme gruppali. Ma questo fattore antropologico non offre alcuna ragione normativa per sostenere le ineguaglianze di genere o la
cieca obbedienza nei confronti della tradizione.
FRANCESCO FISTETTI
IL PARADIGMA DEL RICONOSCIMENTO:
VERSO UNA NUOVA TEORIA CRITICA
DELLA SOCIETÀ?
Introduzione
Per descrivere la situazione filosofica in cui viviamo con l’ingresso nel XXI secolo, potremmo rifarci a quel celebre frammento di
Hegel degli anni 1801-1802 nel quale si dice che le «epoche della
filosofia» cadono nei «periodi di transizione», quando il bisogno di
filosofia sorge dallo sgretolarsi del vecchio mondo etico in disiecta
membra, sicché si avverte insopprimibile l’esigenza spirituale di unificare in una nuova totalità le istanze disperse del presente.1 Ricorrendo ad una semplificazione, possiamo affermare che: 1) l’esigenza
di unificazione è sia di natura pratica, poiché tocca direttamente le
nostre forme di vita, sia di carattere epistemologico, nel senso che
interessa da vicino la nostra concezione della razionalità; 2) che una
tale istanza olistica, ancorata storicamente, ripropone oggi in termini
inediti la possibilità che essa possa tradursi nella costruzione epistemologica di una nuova teorica critica della società.
Questo bisogno di “totalità” rinasce prepotente dopo che si è consumata una lunga fase nella storia della cultura filosofica occidentale
1 Il testo è stato tradotto da R. Bodei in appendice al suo volume, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 253-55. Altrettanto significativo per illustrare il
bisogno di filosofia è il frammento, composto tra il 1798 e il 1801, in cui si dice che «tutti i diritti
sussistenti hanno il loro fondamento […] solo in questo nesso col tutto (Zusammenhang mit dem
Ganzen ), il quale nesso, non essendoci più da lungo tempo, li ha fatti divenire tutti dei particolari» (ivi, p. 11). Infine, in un frammento del 1803 Hegel scrive: «L’esistenza della filosofia ha il
suo fondamento nello stesso dissidio, solo che essa filosofia non è rivolta a singole forme, singole
determinatezze, ma alla determinatezza intesa nella sua assoluta astrazione, e la figura che in
essa si dà vita, è la determinatezza assolutamente libera, nell’elemento del conoscere; questo suo
elemento è esso stesso la coscienza, la singolarità […]» (ivi, p. 259).
96
Francesco Fistetti
in cui la scissione, proclamata da Kant, tra una ragione teoretica, una
ragione pratica e il mondo dell’arte era diventata una sorta di luogo
comune, invalso soprattutto in seguito alla crisi del marxismo e del
pensiero dialettico.2 È evidente che la nozione di olismo, qui impiegata, non designa quel modo di intendere il funzionamento della
società a cui Popper si riferiva in La miseria dello storicismo in alternativa all’individualismo metodologico per indicare nella tradizione
delle scienze sociali la fallacia naturalistica di postulare l’esistenza di
soggetti collettivi ipostatici come classe, popolo, nazione, ecc.3 Né
tanto meno la nozione di olismo va intesa in antitesi ai canoni della
ragione scientifica moderna, come avveniva nella teoria critica tradizionale di Horkheimer e Adorno, per i quali la scienza e la tecnica
sono lo strumento del trionfo di un’astratta razionalità strumentale
che cancella tutto ciò che è diverso ed eterogeneo. Olismo allude a
quello che con G. Bachelard potremmo definire un «nuovo spirito
scientifico», che nel nostro caso è rivolto a conciliare e a saldare
insieme scienze della natura e scienze storico-culturali, che fin dal
Methodenstreit a cavallo tra il XIX e il XX secolo si erano divaricate
dando luogo alla Grande Divisione della razionalità occidentale. Con
la nuova filosofia della scienza, inaugurata da La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Th. Kuhn (1962), che metteva radicalmente
in discussione l’immagine standard neopositivistica del sapere scientifico, si è andata affermando nel corso del Novecento una concezione storica e pragmatica della razionalità, che, scoprendosi governata
dal principio di ragione insufficiente4, non poteva non incontrarsi
sul piano etico con una cultura della responsabilità umana verso la
natura, le future generazioni e lo stesso pianeta Terra (Hans Jonas).
Ma questa nuova concezione della razionalità non poteva rimanere
confinata nella dimensione dell’etica: essa doveva prima o poi avere
delle ripercussioni profonde sull’intera enciclopedia dei saperi provocando una vera e propria rivoluzione epistemologica. Da un’enciclopedia dei saperi di tipo piramidale, composta di discipline rigidamente delimitate l’una rispetto all’altra, edificata attorno al primato
gerarchico della fisica-matematica – così come era stata consacrata
2 J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 Voll., trad. it. a cura di G. E. Rusconi, il Mulino, Bologna 1986, Introduzione.
3 Ci permettiamo di rinviare al lemma, “Methodologischer Individualismus”, da noi scritto per
la Enzyklopädie Philosophie, a cura di von H. J. Sandkühler, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1999,
v. I, pp. 840-44; e ad A. Caillé, Antropologie du don. Le tiers paradigme, Desclée de Brouver,
Paris 2000.
4 F. Fistetti, I filosofi e la polis. La scoperta del principio di ragione insufficiente, Pensa Multimedia, Lecce 2004, Introduzione.
Francesco Fistetti
97
dalla versione dominante del positivismo logico con la sola eccezione di Otto Neurath – si è passati all’immagine di un’enciclopedia «a
mosaico», come aveva già intuito lo stesso Neurath, strutturata come
uno spazio «fibrato», «labirintico», «oceanico», per dirla con Michel
Serres.5 Per rispondere a problemi sempre più trasversali, globali e
planetari è venuta maturando l’urgenza di ricomporre i nostri «saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline».6 Da questa sfida è
sorto il bisogno di una nuova totalità dei saperi, capace di ri-legare
le due culture e di superare il punto cieco di un’iperspecializzazione
la quale, come ha osservato Morin, non riesce a vedere gli «insiemi
complessi», le «interazioni» e le «retroazioni» tra il tutto e le parti,
le «entità multidimensionali» e i «problemi essenziali».7 Morin cita
due esempi illuminanti: il primo riguarda una ricucitura poli- e transdisciplinare riuscita tra scienze che fino a tempi recenti lavoravano
separatamente, cioè il caso dell’ecologia, delle scienze della terra e
della cosmologia; il secondo, in verità più difficile e delicato, concerne le scienze cognitive, ove si è ancora alla ricerca di un nesso tra
cervello (organo biologico), mente (entità antropologica) e computer
(intelligenza artificiale).8
Per certi aspetti il «nuovo nuovo spirito scientifico (nouveau nouvel esprit scientifique)»9, se vogliamo adoperare un’espressione di
Serres per indicare questo stile olistico di razionalità che si è lasciata
alle spalle il dualismo tra le due culture, è già empiricamente operante sul piano pratico-sociale, per altri aspetti è un compito intellettuale che abbiamo davanti. Infatti, se guardiamo alla rivoluzione
tecnologica avviatasi alla fine del XX secolo, ci rendiamo conto che
una nuova interazione tra saperi diversi e un tempo tra loro distanti
è ormai in atto. Il carattere distintivo di questa sorta di Grande Trasformazione, come l’avrebbe chiamata Karl Polanyi, è la capacità di
5 Rinviamo all’impresa, per definizione enciclopedica in senso nuovo, di M. Serres: Hermès I.
La communication, 1969, Hermès II. L’interferénce, 1972, Hermès III. La traduction, 1974, Hermès IV. La distribution, 1977, Hermès V. Le passage du nord-ouest, 1980, volumi tutti pubblicati
dalle Éditions de Minuit.
6 E. Morin, La testa ben fatta, trad. it. di S. Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 5.
7 Ivi, pp. 12-13.
8 Ivi, pp. 21-22 e p. 26. Nel suo monumentale lavoro, La Méthode (v. I, La nature de la nature,
Éditions du Seuil, Paris 1977), Morin rilevava che il temine enciclopedia non deve più essere
inteso nell’accezione meramente cumulativa ed alfabetica a cui è stato ridotto, ma nel senso di
en-ciclo-pedia, cioè del «mettere il sapere in ciclo», dell’«imparare ad articolare in un ciclo attivo
i punti di vista disgiunti del sapere». Sicché «lo sforzo porterà, dunque, non sulla totalità delle
conoscenze in ogni sfera, ma sulle conoscenze cruciali, sui punti strategici, sui nodi di comunicazione, sulle articolazioni organizzazionali tra le sfere disgiunte» (p. 19). Si veda anche il cap. IV
della Seconda Parte, dedicato al concetto di sistema, il cui primo paragrafo è intitolato “Au-delà
du «holisme» et du réductionnisme: le circuit relationnel”.
9 M. Serres, Hermès I. La communication, cit., p. 27.
98
Francesco Fistetti
creare un’interfaccia tra questi differenti campi del sapere attraverso
il comune linguaggio digitale, in cui l’informazione viene generata/archiviata/scaricata/trasmessa. Come ha spiegato M. Castells, in
questo inedito «paradigma informazionale» convergono la biologia,
l’elettronica e l’informatica, vale a dire si intrecciano reciprocamente
rompendo i confini in cui erano state codificate come discipline separate e dando luogo a un ciclo di feedback cumulativo tra innovazione
e usi polimorfici di quest’ultima.10 Vale la pena di rilevare che queste nuove tecnologie non sono tanto, come direbbe Heidegger, degli
«utilizzabili», prodotti «in-vista-di» un progetto che incide sul mondo-ambiente, ma sono piuttosto dei processi da sviluppare, cioè degli
artefatti mentali che a loro volta richiedono e stimolano l’intervento
intellettuale di «un sapere cosa» (know thing) e di un «sapere come»
(know how). In questo contesto, l’evoluzione tecnologica, resa possibile dal «paradigma informazionale», incrocia per la prima volta la
mente umana, nel senso che quest’ultima tende a diventare una forza
produttiva diretta. Riprendendo un’intuizione di Marx dei Grundrisse, si potrebbe dire che l’integrazione crescente tra cultura e forze
produttive genera un general intellect o un «cervello sociale» di tipo
nuovo caratterizzato dal fatto che la mente umana spinozianamente
assume una dimensione sempre più transindividuale, mentre le macchine vengono sempre più incorporate nella nuda vita dei corpi. Con
conseguenze di portata ancora inimmaginabile non solo sulle nostre
condizioni di esistenza, ma sulle stesse costanti antropologiche come
la vita e la morte, soprattutto se pensiamo agli effetti che le biotecnologie potranno avere sull’identità degli individui, a cominciare dall’identità fisica (un individuo diventerà anche fisicamente composito,
se è vero che gli organi potranno essere sostituiti) fino alla fecondazione cosiddetta eterologa, che conferiscono nuova ed inquietante attualità alla problematica dello Zarathustra di Nietzsche relativa
all’«allevamento» e alla «selezione» di quello che V. Sloterdijk ha
chiamato il «parco umano». D’altronde, non è casuale che il dogma
centrale dell’odierna biologia molecolare sia la metafora cibernetica
secondo cui il genoma funziona come un programma di computer.
Nonostante sia scientificamente e filosoficamente infondata, tale metafora ha un potenziale retorico eccezionale, che, come ha rilevato
J.-P. Dupuy, deriva dall’illusione cartesiana, tipica dell’homo faber,
che l’uomo è divenuto «padrone e possessore della natura», compre10 M. Castells, La nascita della società in rete, trad. it. L. Turchet, Università Bocconi Editore,
Milano 2000.
Francesco Fistetti
99
so se stesso attraverso la decifrazione e il controllo del genoma.11
A questo proposito, nella sua polemica di ispirazione nietzscheanoheideggeriana nei confronti dell’umanismo classico, Sloterdijk ha ragione quando, in consonanza con la problematica foucaultiana della
biopolitica e del biopotere, rileva che l’«addomesticamento» dell’uomo da parte dell’uomo «è il grande impensato di fronte a cui l’umanismo si è coperto gli occhi dall’antichità fino ai nostri giorni», dal
momento che la posta in gioco del futuro dell’umanità sarà costituita
dal potere «sovrumano» che l’uomo sempre più eserciterà sulla propria vita e su quella degli altri proprio attraverso le biotecnologie: le
quali altro non saranno che delle procedure artificiali di sorveglianza e di auto-addomesticamento.12 O, quanto meno, le biotecnologie
appariranno sempre più chiaramente come un capitolo dei paradossi
e delle antinomie del progresso: da un lato esse incrementano la sicurezza e il benessere della vita dei soggetti, dall’altro producono gli
effetti perversi di un controllo sociale dei singoli e delle comunità
sul modello totalitario dell’orwelliano Grande Fratello. È evidente,
comunque, che le tecniche antropologiche di promozione/assoggettamento della vita rientrano anch’esse nel «paradigma informazionale»
che pervade la società della conoscenza e dell’informazione, in cui
la Nuova Grande Trasformazione ha assunto la fisionomia della rete con i suoi nodi interconnessi, ove un nodo è un punto nel quale
una curva interseca se stessa. Ogni nodo è luogo di intersezione tra
locale e globale, ed esso è tale sulla base delle reti a cui si riferisce:
nodi sono le piazze finanziarie, i Commissari Europei, i campi della
coca e dell’oppio, i sistemi televisivi e così via. Ogni nodo ha il suo
contesto di riferimento, le sue conoscenze di sfondo, i suoi criteri
11 Jean-Pierre Dupuy, Avions-nous oublié le mal? Penser la politique après le 11 septembre,
Bayard, Paris 2002, p. 176.
12 La conferenza di Peter Sloterdijk, tenuta durante un convegno su Heidegger al castello di
Elmau il 17 luglio 1999 come una sorta di risposta alla celebre Lettera sull’umanismo di Heidegger, si può leggere in versione francese con il titolo Des règles du parc humain in «Le Monde des
Débats», ottobre 1999. Per quanto riguarda M. Foucault, è lo stesso Sloterdijk che si richiama al
filosofo francese: cfr. l’intervista a É. Alliez, Vivre chaud et penser froid, in «Multitudes», n. 1,
mars 2000. Vale la pena di ricordare che nella sua critica dell’umanismo classico Sloterdijk giunge a definire il consumismo come «l’umanismo pensato fino alle sue estreme conseguenze (der zu
Ende gedachte Humanismus)» e che esso soltanto, il consumismo, « […] possiede la chiave del
regno della pace, giacché impedisce relazioni guerresche tra gli Stati aperti al commercio dalla
pax oeconomica. Il way of life consumistico possiede il vantaggio che la pace del mercato esige
poco dagli uomini in termini di eccitazione nervosa – viene loro a mancare il caso di emergenza
(Ernstfallgefühl), che promette la liberazione dalla noia» (P. Sloterdijk, Sphären III. Schäume,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2004, p. 824). Sui rischi della «genetica liberale» si veda, invece, J.
Habermas, Il futuro della natura umana, trad. it. a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002. Infine, per una ripresa e uno sviluppo del paradigma foucaultiano della biopolitica, cfr. A. Brossat,
La démocratie immunitarie, La Dispute, Paris 2003 e R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia,
Einaudi, Torino 2004.
100
Francesco Fistetti
di rilevanza. È merito di Castells aver messo in luce che la società
odierna va assumendo una struttura reticolare, cioè quella di un sistema dinamico e «metastabile», volto all’innovazione, in cui il potere
e i rapporti di potere si ristrutturano incessantemente attraverso gli
«interruttori» che connettono le reti: basti pensare alla saldatura che
si stabilisce tra flussi finanziari, imperi mediatici e processi politici.
Come pure, è merito di Castells l’aver richiamato l’attenzione sul
fatto che ci sono intere aree del pianeta (dalle inner cities americane
alle banlieues francesi, alle baraccopoli dell’Africa) che sono ancora
tagliate fuori da questa rivoluzione tecnologico-culturale e patiscono
il cosiddetto «digital divide», ossia l’esclusione dall’accesso alla rete.
Ma il problema a cui occorre dare una risposta è se e in che modo il
«paradigma informazionale», che ha dato vita ad una forma inedita di
capitalismo – i cui caratteri sono la globalità, il suo statuto prevalentemente finanziario, il suo nomadismo per la capacità di spostarsi in
tempo reale come capitale deterritorializzato e circolante quasi fosse
una singola unità13 –, può essere incorporato all’interno di una nuova
teoria critica della società in grado di superare le vecchie impasses
del marxismo (o dei marxismi) e di elaborare un approccio olistico
capace di rendere conto su scala globale e locale dei costi umani della modernizzazione (costi morali, politici e culturali), delle sofferenze che essa provoca o può provocare a causa della disintegrazione dei
modi di vita tradizionali, delle forme di oppressione e di negazione
dei diritti delle persone e delle comunità che essa ingenera. Ma, come
tenteremo di mostrare, per attingere un livello adeguato di legittimità
scientifica, non è sufficiente che la nuova teoria critica della società
si inscriva in una dimensione normativa. L’impresa può riuscire solo se essa si accompagna alla costruzione di una teoria critica della
razionalità, tale cioè da ricomporre, almeno tendenzialmente, in una
visione poli- e trans-disciplinare la complessità dell’umano e dei suoi
saperi divisi. In un certo senso, questa impresa filosofica dovrà recuperare la celebre formula hegeliana della Fenomenologia dello spirito secondo cui «il vero è l’intiero (Das Wahre ist das Ganze)»14, e
dovrà lasciarsi alle spalle sia l’assioma adorniano «Il tutto è falso»15
sia l’impostazione di chi nella cultura filosofica contemporanea come
Apel, Habermas e Rawls ha, sia pure con accenti e finalità differenti,
M. Castells, La nascita della società in rete, cit., pp. 538 e sgg.
G. W. Hegel, Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, trad. it. E. De Negri, Vol. I, La
Nuova Italia, Firenze 1967, p. 15.
15 Th. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Introduzione
e nota di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1994, p. 48.
13
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realizzato una sorta di ritorno a Kant, quando ha separato teoria della
società e teoria della razionalità, ragione teoretica e ragione pratica,
cultura scientifica e scienze dell’uomo.
1. Riconoscimento e giustizia nell’orizzonte della globalizzazione
Per muovere alcuni passi in questa direzione – ricongiungere teoria della società e teoria della razionalità –, prenderò in esame il cosiddetto “paradigma del riconoscimento” così come è stato via via rimaneggiato da Axel Honneth fin dai suoi testi maggiori quali Kampf
um Anerkennung (1992) e Leiden um Unbesthimmtheit (2001)16 fino
al recente dibattito con Nancy Fraser attorno al rapporto tra il «paradigma della distribuzione» e il «paradigma del riconoscimento».17
Soprattutto la disputa tra questi due autori risulta oltremodo istruttiva
per afferrare la dimensione necessariamente olistica, dal punto di vista epistemologico, in cui oggi una teoria critica della società deve
situarsi. Honneth e Fraser, infatti, rifiutano la divisione del lavoro
disciplinare, ereditata dalla tradizione, tra filosofia morale, teoria sociale e analisi politica e «aspirano a teorizzare la società capitalistica
come una “totalità”».18 Entrambi sono convinti che la ricomposizione di filosofia morale, teoria sociale e analisi politica, che si sforzano
di praticare nel loro lavoro, li pone di fronte ad una questione, che
non a caso lasciano aperta, vale a dire: il capitalismo, così come oggi
lo conosciamo, va indagato come «un sistema sociale che differenzia
un ordine economico che non è direttamente regolato da modelli istituzionalizzati di valore culturale rispetto ad altri ordini sociali che lo
sono?», oppure l’ordine economico capitalistico va compreso «come
una conseguenza di un modo di valutazione culturale che è connesso,
fin dall’inizio, con forme asimmetriche di riconoscimento?».19 Prima
di procedere ad una breve disamina delle posizioni di Honneth e di
Fraser, conviene precisare che il confronto tra i due taglia trasversalmente i luoghi più significativi della riflessione filosofica contemporanea: a livello di filosofia morale la discussione tra gli assertori della
16 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C.
Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002; Id., Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della
filosofia politica di Hegel, trad. it. di A. Carnevale, manifestolibri, Roma 2003.
17 N. Fraser - A. Honneth, Redistribution or Recognition? A Political-Philosophical Exchange,
Verso, London-New York 2003.
18 Ivi, p. 4.
19 Ivi, p. 5.
102
Francesco Fistetti
priorità del «giusto» (the right) sul «bene» (the good) come J. Rawls
e i liberali in genere, da un lato, e gli assertori del «bene» sul «giusto», come Ch. Taylor e i comunitaristi dall’altro20; a livello di teoria
sociale, il rapporto tra economia e cultura e la struttura della società
capitalistica; a livello di analisi politica, la relazione tra eguaglianza
e differenza, tra lotte economiche e identità politica, tra democrazia e
multiculturalismo.21 Tuttavia, per la costruzione di una nuova teoria
critica della società la riconnessione tra questi tre momenti – filosofia morale, teoria sociale e analisi politica – deve fare i conti con il
contesto odierno della globalizzazione, cioè con lo scenario di una
rivoluzione capitalistica globale, trainata dal «paradigma informazionale», che, deregolamentando ogni vincolo di natura giuridica e prepolitica, estende la sua razionalità utilitaristica e la logica della merce
in ogni punto del pianeta e a tutti i mondi della vita, compresa la vita
biologica e i meccanismi della sua riproduzione.22 Pertanto, la nuova
teoria critica della società non può esimersi oggi dall’elaborare le
categorie fondamentali di una teorica critica della globalizzazione in
grado di spiegare le trasformazioni dell’economia-mondo23, intervenute dopo la fine del ciclo fordista, in un’ottica non-economicistica,
cioè tale che intrecci, seguendo il suggerimento di A. Sen, economia
e morale24 in modo che: 1) sul piano analitico-descrittivo renda visibile lo smantellamento della libertà concreta delle persone indotto
dai processi di globalizzazione, ogni volta che essi producono una
dissociazione tra diritti civili e diritti economici, che fa sì che senza la «libertà dalla fame», come osserva Vandana Shiva, la libertà
20 Ivi, p. 4. Sulla controversia tra liberali e comunitaristi ci permettiamo di rinviare a F. Fistetti,
Comunità, il Mulino, Bologna 2003, cap. V.
21 N. Fraser - A. Honneth, op. cit., p. 4.
22 Per un primo sguardo panoramico sulla globalizzazione, cfr. M. Albrow, The Global Age.
State and Society beyond Modernity, Polity Press, Cambridge 1996, e AA.VV., The Globalization of World Politics. An introduction to international relations, J. Baylis & S. Smith (eds.),
Oxford University Press, New York 2001. Nell’Introduzione i curatori richiamano i tre principali
«paradigmi» della politica mondiale, dominanti fino agli anni Ottanta del secolo scorso – quello
realista, quello liberale e quello marxista – e le relazioni da essi intrattenuti con la globalizzazione. Si vedano, inoltre, C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna
2001; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004; R. Finelli,
F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004.
23 L’espressione “economia-mondo” di F. Braudel è stata ripresa da I. Wallerstein, Il sistema
mondiale dell’economia moderna, 2 voll., trad. it. di G. Panzieri e D. Panzieri, il Mulino, Bologna
1978. Dello stesso autore cfr. Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistemamondo, trad. it. di C. Donzelli, Einaudi, Torino 1985.
24 Sull’urgenza teorica e pratica di sanare il divorzio tra economia ed etica si rinvia al numero
monografico dedicato a questo tema dalla «Revue du MAUSS», n. 15, premier semestre 2000, e
in particolare, per quanto riguarda Sen, al saggio di A. Insel, Amartya Sen. L’éthique de la liberté
face à la science économique, pp. 247-56.
Francesco Fistetti
103
di parola, di pensiero, di associazione, ecc. di fatto non esiste25; 2)
sul piano normativo venga esplicitata l’istanza di un nuovo «nomos
della Terra», vale a dire l’esigenza di una Legge internazionale o di
un Diritto internazionale che regoli i rapporti tra gli Stati, in modo
che la violazione dei diritti umani in un punto del pianeta possa essere avvertito, secondo Kant di Per la pace perpetua, in tutti gli altri
luoghi.26
Ma una nuova teoria critica della società ha bisogno di fondarsi su
una teoria critica della globalizzazione, poiché solo attraverso il paradigma della globalizzazione è possibile pervenire ad una teoria generale dell’«interdipendenza dei diritti» (secondo una felice formula di
Sen), che consenta di andare oltre la prospettiva del diritto internazionale cosmopolitico che, sulla scia di Kant e di Kelsen, oggi viene
perseguito da Habermas27 o da quanti propongono di estendere il costituzionalismo sul piano sopranazionale.28 Guardare ai diritti in un’ottica
di «interdipendenza», considerandoli non solo come “vincoli” cui gli
altri devono attenersi, ma anche come obblighi di «fare positivamente
qualcosa»29 per impedire delle violazioni dei diritti altrui, implica tra25 V. Shiva, “Diritti alimentari, libero commercio e fascismo”, in N. Chomsky, V. Shiva, J.E.
Stiglitz e altri, La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, a cura di M. J. Gibney,
trad. it. di G. Amadasi, Mondadori, Milano 2004, pp. 116-17.
26 I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in Id., Scritti politici e di filosofia della
storia e del diritto, trad. it. di G. Solari e G. Vidari, edizione postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino 1965, p. 305. Il passo che chiude il celebre scritto di Kant del 1795
recita così: «E siccome in fatto di associazione di popoli della terra […] si è progressivamente
pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in
tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti
esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno
come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per
l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente» (ibid.). Come è noto, la locuzione «nomos della Terra» è di C. Schmitt, Il
Nomos della Terra, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. Sulla necessità di un nuovo
nomos della Terra ci permettiamo di rinviare a F. Fistetti, Democrazia e diritti degli altri. Oltre lo
Stato-nazione, Palomar, Bari 1992, pp. 103-23.
27 J. Habermas, L’Occidente diviso, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005.
28 L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989, e Id.,
“Ipotesi per una democrazia cosmopolitica”, in AA.VV., Metamorfosi della sovranità. Tra Stato
nazionale e ordinamenti giuridici mondiali, a cura di G. M. Cazzaniga, Edizioni ETS, Pisa 1999.
Sul nuovo costituzionalismo e sull’ethos dei diritti si veda anche M. Prospero, Politica e società
globale, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 6-15. Sul rischio di una contrapposizione tra universalismo morale e universalismo giuridico, cfr. G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Laterza,
Bari-Roma 2004.
29 Sull’interdipendenza dei diritti si veda A. Sen, Rights and agency, in «Philosophy and Public Affaire», n. 1, 1982, e Id., “Rights as goals. Austin Lecture 1984”, in AA.VV., Equality and
discrimination. Essays in freedom and justice (S. Guest - A. Milne, eds.), F. Steiner, Stuttgart
1985. La teoria dell’interdipendenza dei diritti si oppone a tutte le concezioni minimalistiche
che si accontentano di una «lista breve» di diritti: cfr. come rappresentativi di queste concezioni
M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, trad. it. di S. d’Alessandro, Feltrinelli,
Milano 2003, e M. Walzer, Una lista breve di casi da difendere a oltranza, trad. it. di R. Capovin
in “Reset”, n. 84, 2004, pp. 40-45.
104
Francesco Fistetti
scendere il dilemma habermasiano «Kant o Karl Schmitt?» e spostare
il fuoco del discorso sulla necessità di assumere come punto di partenza di un nuovo «nomos della Terra» qualcosa che somigli ad una
“clausola antisacrificale”, e che estenda il principio rawlsiano di differenza su scala internazionale in modo che i popoli economicamente
meno favoriti nella distribuzione internazionale delle risorse abbiano
una priorità «lessicografica» nei confronti degli altri.30 Da quest’angolo visuale vengono alla luce non solo i limiti della concezione politica
della giustizia confinata nel perimetro degli Stati nazionali, per di più
solo molto parzialmente applicata agli altri popoli, dal momento che
secondo Rawls non a tutti i popoli risultano necessari i requisiti che
contraddistinguono le società liberaldemocratiche, cioè «i tre elementi
egualitari dell’equo valore delle libertà politiche, dell’eguaglianza di
eque opportunità e del principio di differenza».31 Vengono anche alla
luce i limiti della posizione habermasiana, che si ripropone di superare le carenze del liberalismo egemonico, ancorato alla visione di un
ordine mondiale di Stati liberi formalmente indipendenti, in direzione
di una società mondiale conforme al diritto e integrata «mediante una
consociazione politica dei cittadini del mondo».32 Questa prospettiva
cosmopolitica d’ispirazione kantiana difficilmente può incidere sulla
prassi vigente della globalizzazione che affida l’integrazione della società mondiale alla dinamica spontanea delle «relazioni sistemiche»,
in definitiva ad un «mercato mondiale completamente liberalizzato».33
Se consideriamo la teoria di Sen dell’«interdipendenza» dei diritti, coniugata con la sua teoria delle «capacità» (capabilities), e la clausola
antisacrificale dei popoli meno avvantaggiati del pianeta come cardini
di un nuovo ordine mondiale, questi due assunti divengono il nucleo
30 I due principi di giustizia vengono così formulati da J. Rawls: «Primo principio – Ogni
persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti. Secondo principio – Le ineguaglianze economiche
e sociali devono essere: a)per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente
con il principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni
di equa eguaglianza di opportunità» (in Teoria della giustizia, trad. it. a cura di S. Maffettone,
Feltrinelli, Torino 1982, p. 255). Dopo aver enunciato l’ordine lessicografico delle due regole
di priorità (la priorità della libertà al primo posto, e a seguire la priorità della giustizia rispetto
all’efficienza e al benessere), Rawls esprime la concezione generale della giustizia come equità
in cui viene stabilita la clausola antisacrificale: «Tutti i beni principali – libertà e opportunità,
reddito e ricchezza, e la basi per il rispetto di sé – devono essere distribuiti in modo eguale, a
meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno
avvantaggiati» (ivi, pp. 255-56).
31 J. Rawls, “La legge dei popoli”, in AA.VV., I diritti umani. Oxford Amnesty Lectures, a cura
di S. Shute e S. Hurley, trad. it. di S. Lauzi, Garzanti, Milano 1994, p. 64. Rawls aggiunge che «la
concezione liberale chiede alle altre società solo ciò che esse possono ragionevolmente garantire
senza mettersi in una posizione di inferiorità, e tanto meno di soggezione» (ivi, p. 94).
32 J. Habermas, L’Occidente diviso, cit., p. 186.
33 Ibid.
Francesco Fistetti
105
morale minimo di una concezione mondiale della democrazia che si
nutra anzitutto di argomenti di giustizia e non solo, come in Habermas,
delle istanze giuridiche indispensabili per la creazione di spazi pubblico-politici al di sopra delle nazioni (come l’Unione Europea), dotati di
strumenti costituzionali di autogoverno e di garanzia dei diritti individuali e di gruppo. Qui i due paradigmi della «distribuzione» e del «riconoscimento» si incrociano, ma si inscrivono in un orizzonte storico e
teoretico più ampio, che è quello dischiuso dal capitalismo globalizzato. È della “totalità” dei fenomeni riconducibili a questa matrice storica
universale che una nuova teoria critica dovrà essere in grado di rendere
conto sia in termini di analisi empirica sia in chiave di teoria. A questo riguardo, approcci teoretici al nuovo ordine mondiale come quello
di Michael Hardt e Antonio Negri ripropongono in forma aggiornata
la vecchia dialettica hegelo-marxista o, meglio, a ben guardare, come
ha osservato Sloterdijk, sotto il nome tradizionale di «impero» celano
un concetto metafisico che somiglia molto al Gestell heideggeriano,
vale a dire ad un super-apparato (Super-Installation) onnipervasivo e
totalizzante che, al pari della Tecnica, ha un «carattere ecumenico».34
Se è vero, come è stato osservato, che il progetto della sociologia era
strettamente connesso al destino degli Stati nazionali – e, potremmo
aggiungere, alle contraddizioni della modernizzazione capitalistica delle società nazionali tra Otto e Novecento –, ben si comprende come il
rinnovamento non solo della sociologia ma dell’intera tradizione delle
scienze sociali deve assumere un respiro globale, tale da spostare il fuoco dell’analisi sulla «svolta spaziale» e sui relativi «fenomeni di fluidificazione e di deterritorializzazione dei rapporti sociali indotti dallo
sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione».35
D’altronde, proprio Marcel Mauss nel celebre Saggio sul dono (1923/
34 P. Sloterdijk, Sphären III, cit., p. 825. «Questo “regno” – scrive Sloterdijk – va pensato solo
al singolare e ha un carattere propriamente ecumenico. Perciò non compare più dinanzi ad esso
nessun presunto nemico esterno: tutt’al più, esso potrebbe volgersi contro se stesso ed essere
portato alla rovina dalla rivolta dei suoi componenti. È comprensibile: il discorso di Empire è
motivato in termini religiosi – e l’ampio successo del libro lo si capisce alla luce di questa diagnosi. In realtà, esso accoglie, più suggestivamente che argomentatamente, le irrisolte tradizioni
della teologia cristiana della storia e conduce a risuonare in linguaggio materialistico i motivi
apocalittici di quest’ultima. Giacché per spinozisti e deleuziani non c’è a disposizione nessun fine
ultraterreno del divenire, per loro il regno del capitale, che è totalmente di questo mondo, viene
contrapposto al contro-regno altrettanto ed eppure altrimenti mondano delle moltitudini dissidenti
o agli espressionismi alternativi» (ibid.). Il riferimento ovviamente è al libro di M. Hardt - A.
Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.
35 L’idée d’une théorie sociologique générale a-t-elle encore un sens aujourd’hui?, in «Revue
du MAUSS», n. 24, second semestre 2004, p. 47. Si tratta del testo che accompagnava la richiesta
d’intervento ai relatori, inviata dagli organizzatori del convegno del GÉODE (Gruppo di Studio
e di Osservazione della Democrazia) sul tema “Une théorie sociologique générale est-elle pensable? De la science sociale”.
106
Francesco Fistetti
24), difendendo sul piano metodologico il concetto di «fatti sociali totali», sosteneva che in sociologia lo «studio del concreto» è sempre
uno «studio del completo», cioè tale da abbracciare «il tutto nel suo
insieme»36, di cui fanno parte integrante «sentimenti, idee, volizioni
della folla o delle società organizzate e dei loro sottogruppi».37 Da un
lato ha ragione, quindi, Alain Caillé quando afferma che bisogna superare le «cecità inerenti alle specializzazioni senza privarsi dei vantaggi della divisione del lavoro intellettuale autorizzata dal principio
disciplinare» evitando così di ricadere nella «sintesi speculativa» cui
aveva preteso la filosofia.38 Dall’altro, però, occorre prendere sul serio l’adozione della «svolta spaziale» della globalizzazione all’interno
delle scienze sociali – che sola può consentire un nuovo inizio «al contempo simmeliano e durkheimiano-maussiano»39 auspicato da Caillé
–, ciò che vuol dire impiantare la dimensione anti-utilitarista del dono
nel cuore stesso della teoria della globalizzazione e trarne tutte le conseguenze. Di qui alcuni interrogativi: che cosa significa per le scienze
sociali pensare la logica del dono come clausola antisacrificale? E se,
come ci ricorda Jean-Pierre Dupuy, le scienze sociali sono nate insieme con l’individualismo dell’età moderna40, una nuova teoria sociale critica non deve ripartire da un gesto di relativizzazione radicale
dell’atteggiamento individualista e delle sue forme di vita che sono
a fondamento della razionalità moderna e contemporanea? Sotto questo profilo, il cosmopolitismo giuridico di Habermas e i paradigmi di
Honneth e di Fraser lasciano ancora fuori dalla loro portata l’incidenza
che sul dibattito tra i diversi paradigmi e a livello di costruzione di una
nuova teoria sociale critica possono avere gli argomenti di giustizia su
scala internazionale.
2. Limiti dei due paradigmi
Nel suo confronto con Honneth, Nancy Fraser enuncia una diagnosi dell’epoca di questo tenore: dopo il crollo del comunismo sovietico e dei regimi dell’Est siamo entrati in una nuova costellazione
di cultura politica che ha registrato il passaggio da una grammatica di
36 M. Mauss, “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, in Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di C. Lévi-Strauss, trad. it. di F. Zannino,
Einaudi, Torino 1965, p. 288.
37 Ivi, p. 289.
38 A. Caillé, La sociologie comme moment anti-utilitariste de la science sociale, in «Revue du
MAUSS», n. 24, cit., p. 277.
39 Ibid.
40 J.-P. Dupuy, Vers l’unité des sciences sociales autour de l’individualisme méthodologique
complexe, in «Revue du MAUSS», n. 24, cit., pp. 310-28.
Francesco Fistetti
107
conflitti ad un’altra, completamente diversa. Se fino a quel momento
le lotte di emancipazione delle classi subalterne erano state caratterizzate dal linguaggio dell’eguaglianza economica, cioè erano animate da progetti di redistribuzione delle risorse, dopo l’Ottantanove il
«centro di gravità»41 delle lotte si è spostato dall’economia alla cultura, dai conflitti di classe ai conflitti di status: in breve, dalla redistribuzione al riconoscimento di valori culturali, siano essi individuali, collettivi, di razza o di genere. Charles Taylor e Axel Honneth
possono essere considerati gli autori più rappresentativi del paradigma del riconoscimento, per i quali l’essere riconosciuti è la precondizione senza la quale non è possibile che si formi una soggettività non
distorta, vale a dire capace di coltivare una relazione positiva con se
stessi e di attingere la propria autenticità.42 Per la Fraser, invece, occorre considerare il riconoscimento come un aspetto, per quanto centrale, del paradigma della giustizia, cioè come una questione che riguarda lo status sociale. «Nei paesi dell’OCSE – scrive la Fraser – il
paradigma fordista aveva immesso le richieste politiche nei canali
redistributivi del welfare state nazional-keynesiano, mentre le questioni del riconoscimento venivano ributtate ai margini come appendici dei problemi distributivi. Il post-fordismo ha infranto questo paradigma, dando via libera alla contestazione sullo status – in primo
luogo sulla “razza” (negli Stati Uniti), poi sul genere e sulla sessualità, ed infine sull’etnicità e sulla religione».43 Analogamente, il comunismo aveva provocato nei paesi da esso dominati una compressione delle richieste di riconoscimento, soprattutto di nazionalità e
religione, mentre nel cosiddetto «Terzo Mondo» nel corso della guerra fredda i problemi dello sviluppo erano stati al primo posto. Il postfordismo e il post-comunismo capovolgono questa situazione, che è
stata accelerata dai processi di una globalizzazione «multidimensionale», che secondo Fraser ha destabilizzato il moderno Stato westfaliano nel momento in cui ha messo in discussione «la premessa di
una cittadinanza esclusiva ed indivisibile, determinata dalla nazionalità e/o dalla residenza territoriale».44 Ma la globalizzazione resta un
41 N. Fraser, “Social Justice in the Age of Identity Politics: Redistribution, Recognition, and
Participation”, in N. Fraser - A. Honneth, op. cit., p. 89.
42 Ivi, pp. 27-30. Di Ch. Taylor si vedano almeno: Radici dell’io. La costruzione dell’identità
moderna, trad. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1998; J. Habermas - Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1998; Ch. Taylor, Il
disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1994.
43 N. Fraser, “Social Justice in the Age of Identity Politics: Redistribution, Recognition, and
Participation”, in N. Fraser - A. Honneth, op.cit., p. 90.
44 Ivi, p. 91.
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fenomeno abbastanza marginale, appena evocato, all’interno della riflessione storica e teoretica della Fraser. Esso non ha nessuna conseguenza sullo sforzo, da lei portato avanti, di costruire una concezione
antiriduzionistica e bidimensionale (two-dimensional) della giustizia,
in cui coniugare insieme il paradigma della distribuzione e il paradigma del riconoscimento. L’ambito di riferimento della sua teoria rimane la società e lo Stato nazionale senza mai verificare che cosa avrebbe potuto significare un nuovo paradigma redistributivo, quale quello
da lei rivendicato, sul piano di un nuovo nomos della Terra. La riprova di questa limitazione ottica – che si riflette inevitabilmente sullo
statuto di validità della teoria sia in termini empirici che dal punto di
vista dell’elaborazione categoriale – la si può riscontrare nel tipo di
critica mosso a Rawls, al quale viene imputata una concezione economicistica e al contempo legalistica delle dissimmetrie di status, che
lo avrebbe condotto a credere che «una giusta distribuzione di risorse
e diritti è sufficiente ad impedire il misconoscimento»45, mentre una
visione antiriduzionistica e pragmatistica porta a rendersi conto che
«non ogni misconoscimento è un effetto collaterale (by-product) di
una cattiva distribuzione (maldistribution), né di una cattiva distribuzione più una discriminazione giuridica».46 La tesi della Fraser è che
una teoria adeguata della giustizia deve andare al di là della «distribuzione di risorse e diritti» per indagare «i modelli culturali di valore» e, quindi, accertare se questi ultimi soddisfano la norma della
parità di partecipazione alla vita sociale. L’esempio di una discriminazione di status addotto per dimostrare il peso dei modelli culturali
di valore è quello del banchiere afro-americano di Wall Street che
non riesce a trovare un taxi che lo prenda su.47 In questo esempio
scorgiamo la ristrettezza oggettuale e prospettica del nuovo paradigma della giustizia elaborato dalla Fraser, il suo guardare a fenomeni
di breve e medio raggio. Basti pensare alla scala dei macroprocessi
della globalizzazione per rendersi conto che sul piano internazionale
l’invocata norma della parità di partecipazione ha bisogno di essere
ridefinita o almeno ulteriormente specificata rispetto ai criteri proposti da Fraser. In cosa consiste, infatti, la norma della parità partecipatoria? Fondamentalmente nel garantire tre condizioni di base per assicurare e promuovere l’interazione reciproca di tutti i membri della
società, nessuno escluso, cioè: 1) una condizione di «libertà soggettiva» (il pluralismo dei valori), 2) una condizione oggettiva (rivolta ad
Ivi, p. 34.
Ibid.
47 Ibid.
45
46
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109
impedire dipendenza economica ed ineguaglianze stridenti in materia
di reddito, istruzione, tempo libero), 3) una condizione intersoggettiva (eguale rispetto per tutti ed eguale opportunità di conseguire la
stima sociale).48 A questo livello, la disputa tra la Fraser e Honneth
appare una disputa intra-paradigmatica: le due posizioni, nonostante
le divergenze, hanno, come direbbe Wittgenstein, una marcata «rassomiglianza di famiglia», sostanzialmente per il fatto che il raggio di
applicazione dei rispettivi paradigmi coincide ancora con le società
nazionali e gli Stati nazionali singolarmente considerati. Volendo
problematizzare i criteri proposti dalla Fraser, dovremmo cominciare
a chiederci anzitutto che cosa significhi adottare un approccio teoretico «bidimensionale» nello studio delle relazioni tra i popoli e tra gli
Stati: come realizzare su questo piano la parità partecipatoria (partecipatory parity)? La Fraser assume che in una prospettiva democratica esiste una circolarità virtuosa tra le istanze di riconoscimento e la
loro giustificazione, dal momento che esse possono essere giustificate solo in condizioni di parità di partecipazione, le quali a loro volta
includono il reciproco riconoscimento. Ma per raggiungere questo
obiettivo – le condizioni di un’argomentazione pubblica democratica
–, dobbiamo ammettere un meta-livello di deliberazione sui processi
di deliberazione , che preservi «la possibilità di una critica radicale».
In breve, si tratta di applicare riflessivamente la norma della parità
partecipatoria, nel senso che la parità nelle pratiche sociali deve includere la deliberazione su quali devono essere le forme legittime ed
appropriate di interazione.49 Questo meta-livello di deliberazione non
può essere postulato soltanto per gli Stati nazionali, ma esteso a livello sovranazionale. Qui incontriamo la questione della globalizzazione del diritto, che solo in parte può essere affrontata, come ritiene
Habermas, tenendo insieme gli strumenti normativi del diritto internazionale con l’«universalismo individualistico-egualitario dei diritti
umani e della democrazia».50 In altre parole, l’universalismo della
dottrina kantiana del diritto, che attribuisce alla Costituzione la funzione di razionalizzare il dominio sia all’interno dello Stato nazionale sia, con il progetto cosmopolitico di pace perpetua, all’esterno di
esso, avrà bisogno di essere differenziato in una dialettica sempre
aperta tra ordinamenti giuridici diversi. Come ha osservato Bryan S.
Turner, la globalizzazione del diritto si accompagna alla crescita di
un pluralismo giuridico in senso forte, poiché all’interno di quelli che
Ivi, pp. 35-36.
Ivi, pp. 44-45.
50 J. Habermas, L’Occidente diviso, cit., pp. 190-91.
48
49
110
Francesco Fistetti
potremmo chiamare gli spazi che saranno creati dalla globalizzazione
ci troveremo di fronte alla coesistenza di ordini giuridici differenti
(legge islamica, legge indù, sistemi giuridici asiatici, ecc.), oltre che
di fronte a sistemi giuridici internazionali, come nel caso del commercio, o addirittura transnazionali, come le leggi sull’ambiente, fino
ad una legge globale che prefiguri uno ius humanitatis.51 In questo
quadro, applicare la norma della parità di partecipazione, avanzata
dalla Fraser, che cos’altro può voler dire se non riconoscere la validità di differenti sistemi giuridici e, in particolare, ammettere la pretesa
delle minoranze di esercitare, sia pure entro certi limiti, una propria
giurisdizione?
Ma, associato al problema della globalizzazione del diritto – che,
come chiarisce Turner, spinge nella direzione di una cittadinanza «flessibile» (flexible) o, come oggi si dice, multilevel –, vi è il problema
della distribuzione di «diritti e risorse» sul piano internazionale, che
la Fraser non prende in alcuna considerazione. Proprio su questo terreno – la distribuzione di «diritti e risorse» a livello internazionale – si
rivela molto fragile la sua distinzione tra la dimensione del riconoscimento che corrisponde all’ordine di status di una società, cioè all’articolazione del tessuto sociale in categorie di attori sociali definite
attraverso modelli culturali di valore e i relativi gradi di rispetto, prestigio e stima reciproci, da un lato, e la dimensione della distribuzione
che corrisponde alla struttura economica di una società, caratterizzata
dai regimi di proprietà e di mercato, da categorie di attori economici
o classi, con le loro dotazioni di risorse, dall’altro. A ciascuna delle
due dimensioni fa capo, secondo la Fraser, una specifica subordinazione: una subordinazione di status, «radicata in modelli culturali di
valore istituzionalizzati», e una subordinazione economica di classe,
«radicata nelle caratteristiche strutturali del sistema economico».52 La
Fraser mette in guardia dalla doppia trappola dell’economicismo e del
culturalismo, perché la struttura di classe e le gerarchie di status sono
sempre intimamente intrecciate e soprattutto nelle società contemporanee l’ordine culturale non può essere nettamente delimitato. «Non più
relegati ai margini, – scrive Fraser – i flussi transculturali pervadono
gli spazi centrali “interni” dell’interazione sociale. Grazie alle migrazioni di massa, alle diaspore, alla cultura di massa globalizzata, e alle
51 Si rinvia al saggio di B. S. Turner, Cittadinanza, multiculturalismo e pluralismo giuridico:
diritti culturali e teoria del riconoscimento critico, pubblicato in questo numero di «Post-filosofie».
52 N. Fraser, “Social Justice in the Age of Identity Politics: Redistribution, Recognition, and
Participation”, in N. Fraser - A. Honneth, op. cit., p. 50.
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111
sfere pubbliche transnazionali, è impossibile dire con certezza esattamente dove una cultura finisce ed un’altra comincia; tutte, piuttosto,
sono internamente ibridizzate».53 Ma, se questa tendenza all’ibridizzazione è un fenomeno che per ora riguarda in primo luogo la sfera del
mercato e dei consumi (quella che è stata chiamata la tendenza alla
McDonaldizzazione o Mcdominazione del mondo54), il problema è come si intrecciano reciprocamente istanze culturali di riconoscimento e
istanze economiche di redistribuzione nell’arena mondiale. Se in molte
parti del pianeta esistono norme che sanciscono il primato dei bianchi
sulle altre razze, degli eterosessuali sugli omosessuali, degli uomini
sulle donne, di alcune religioni sulle altre, allora si tratta di combattere
queste forme di subordinazione e di oppressione affinché questi soggetti siano riconosciuti al contempo nella loro dignità umana universale e nell’alterità irriducibile dei valori culturali da loro rivendicati. Ma,
poiché senza l’accesso alle risorse minime necessarie a sviluppare le
«capacità» della persona55 non è possibile partecipare su basi paritarie
all’interazione sociale, è evidente lo scarto che intercorre tra la sfera
nazionale e la sfera internazionale nell’applicazione della norma della
parità partecipatoria. Nell’ambito internazionale la norma della parità
di partecipazione, perché possa essere presa sul serio, ha bisogno di
essere preceduta da una “clausola antisacrificale”, che informi le relazioni tra nazioni ricche e nazioni povere, tra paesi cosiddetti sviluppati
e paesi cosiddetti arretrati, tra Nord e Sud del mondo: una clausola di
solidarietà e di generosità. Sotto questo profilo, la strada da seguire
è quella di articolare i due paradigmi della distribuzione e del riconoscimento con il paradigma del dono quale «mezzo, performativo e
simbolo del riconoscimento pubblico e/o privato», così come suggeriscono Alain Caillé e Christian Lazzeri56, ma anche quale «mezzo,
performativo e simbolo» della giustizia distributiva sia a livello dello
Stato nazionale che sul piano dei rapporti internazionali.
3. La clausola antisacrificale e il paradigma del dono
Propongo di considerare la clausola antisacrificale nei rapporti tra
le nazioni e tra gli Stati come un approdo che apparirà sempre più
Ivi, p. 57.
Il riferimento è al volume di P. Ariès, I figli di McDonald’s. La globalizzazione dell’hamburger, trad. it. di M. Ch. Giovannini, Dedalo, Bari 2000.
55 Cfr. Martha C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, trad. it. di W.
Mafezzoni, il Mulino, Bologna 2001, in particolare il cap. I.
56 Ch. Lazzeri - A. Caillé, Il riconoscimento oggi: le poste in gioco di un concetto, tradotto in
questo numero di «Post-filosofie», p. 69.
Si veda la traduzione di questo saggio sul presente numero della rivista.
53
54
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inevitabile nella dinamica dell’incontro tra le culture e le civiltà attivata dai processi della globalizzazione. Noi ci troviamo oggi in una
tipica situazione evocata da Mauss nelle pagine finali del Saggio sul
dono, ove egli descrive quei momenti di transizione, tra la guerra
e la festa, che hanno preceduto le società evolute quando gli esseri
umani si rapportavano l’uno all’altro con uno stato d’animo oscillante tra paura ed inimicizia «esagerate» e una «generosità» altrettanto
«esagerata», che ai nostri occhi sembrano ormai incomprensibili. In
circostanze del genere, che gli antropologi riscontrano in tutte le società «segmentate», Mauss spiega che «non esiste una via di mezzo:
fidarsi interamente o diffidare interamente; deporre le armi e rinunciare alla magia, o dare tutto: dalla ospitalità fugace alle figlie e ai
beni».57 E aggiunge significativamente:«È in uno stato del genere che
l’uomo ha rinunciato a restare sulle sue e si è impegnato a dare e a
ricambiare».58 Mauss dai suoi materiali di osservazione ricava, quasi
vichianamente, quello che egli chiama «uno dei segreti permanenti»
della «saggezza» e della «solidarietà» delle nazioni59, vale a dire la
tesi che il «progresso» morale e civile di nazioni, classi ed individui
ha avuto luogo tutte le volte che essi sono riusciti «a contrapporsi senza massacrarsi, e a “darsi” senza sacrificarsi l’uno all’altro».60
Non è azzardato affermare che la globalizzazione odierna ci ha introdotto in una situazione dilemmatica simile a quelle disegnate da
Mauss, in cui l’alternativa è tra la diffidenza – dunque, l’ostilità, la
guerra, lo scontro – o la fiducia, il venire a patti, l’alleanza.61 Questa indicazione di Mauss si rivela ancora più preziosa ai fini dell’elaborazione di una nuova teoria critica della società, se riflettiamo
sul fatto che per Mauss la logica del dono – del triplice obbligo di
dare/ricevere/ricambiare – è la sola che può mitigare, se non proprio civilizzare, la razionalità utilitaristica dell’homo oeconomicus,
il quale, egli avverte, non è sempre esistito, «non si trova dietro di
noi, ma davanti a noi».62 Non a caso egli ricorda che il termine «interesse» è di origine recente («interest» si scriveva nei libri contabili
per designare le rendite da percepire) e che la morale dell’utilità del
singolo con la connessa nozione di individuo nasce con «la vittoM. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 290.
Ibid.
59 Ivi, p. 291.
60 Ibid.
61 «Due gruppi di uomini che si incontrano non possono fare altro che: o allontanarsi – e, se
si dimostrano una diffidenza reciproca o si lanciano una sfida, battersi – oppure venire a patti»
(ivi, p. 290).
62 Ivi, p. 284.
57
58
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113
ria del razionalismo e del mercantilismo».63 Prima di Sen, Mauss ha
colto, dunque, l’interdipendenza tra economia e morale (la morale
di individui, classi e collettività di vario genere), quando ha messo
l’accento sul fatto che nei fenomeni dell’associazionismo sindacale,
imprenditoriale e delle professioni – che nel mondo moderno hanno
via via sempre più innalzato l’economia ad un livello «sociale» – bisogna leggere la volontà da parte di soggetti individuali e collettivi
di vedere riconosciuto il «dono» che essi hanno offerto alla società in
termini di tempo o prodotto di lavoro, di una parte della propria vita
e di se stessi. È interessante notare, a questo proposito, che in una
sûra islamica Mauss trova, formulato in linguaggio religioso, l’imperativo di subordinare gli interessi individuali all’interesse comune,
che, a suo avviso, è la strada che le «nazioni dell’occidente» devono
imboccare.64 Alla luce di queste considerazioni, non apparirà affatto
una forzatura proporre l’adozione di una clausola antisacrificale da
parte delle nazioni più ricche come una mossa teorica (ed etico-politica) del paradigma maussiano del dono, nella quale si intersecano
l’una con l’altra sia la dimensione del riconoscimento sia la dimensione della distribuzione.
D’altronde, la chiusa del Saggio sul dono, se letta attentamente,
chiama in causa l’esigenza di ricongiungere etica pubblica ed economia, «civiltà» e «civismo», arte, religione e morale individuale, in
breve tutti quei fattori «il cui insieme fonda la società e costituisce
la vita in comune, e la cui direzione cosciente è l’arte suprema, la
Politica, nel senso socratico del termine».65 Il riferimento alla Politica – intesa, si badi, socraticamente come dialogo nello spazio pubblico-politico della città e aristotelicamente come «arte suprema» (o
scienza «architettonica in massimo grado», perché si occupa del bene
più alto e della felicità dei cittadini66), che ha un sapore arendtiano
ante litteram – è preceduto dalla menzione della «Tavola Rotonda»
Ivi, p. 283.
È la sûra LXIV, la quale afferma: «15. Le vostre ricchezze e i vostri figli sono una tentazione, mentre Dio tiene in riserva una ricompensa magnifica. 16. Temete Dio con tutte le vostre
forze; ascoltate, ubbidite, fate elemosine (sadaqua) nel vostro interesse: Colui che si guarderà
dalla propria avarizia sarà felice. 17. Se farete a Dio un prestito generoso, egli vi ripagherà doppiamente e vi perdonerà perché è riconoscente e pieno di longanimità. 18. Egli conosce le cose
visibili e invisibili, egli è il potente, il saggio» (in M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 285). Vale la
pena di riportare il commento di Mauss: «Sostituite al nome di Allah quello della società e quello
del gruppo professionale oppure sommate i tre nomi, se siete religiosi; sostituite al concetto di
elemosina quello di cooperazione, di un lavoro, di una prestazione eseguita per gli altri: avrete
così una idea abbastanza precisa dell’arte economica che sta per nascere laboriosamente» (ibid.).
65 Ivi, p. 292.
66 Aristotele, Etica nicomachea, 1094 a28, edizione italiana con testo greco a fronte, a cura di
C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993, p. 53.
63
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di cui parlano le Cronache di Arturo, fatta costruire da quel sovrano
per porre fine alle inimicizie, alle invidie e agli assassinî dei cavalieri. Qualcosa di analogo all’invenzione di re Artù viene invocato da
Mauss per il tempo presente, qualcosa che somiglia ad una clausola
antisacrificale. «I popoli, le classi, le famiglie, gli individui – egli afferma – potranno arricchirsi, ma saranno felici solo quando sapranno
sedersi, come dei cavalieri, intorno alla ricchezza comune. È inutile
cercare molto lontano quale sia il bene e la felicità».67 È evidente che
la situazione odierna della globalizzazione richiede, per così dire, un
salto evolutivo nei rapporti tra nazioni ricche e nazioni povere (e all’interno stesso delle nazioni ricche) tale da far prevalere l’alleanza e
la volontà di pace sull’inimicizia e sulla guerra.
L’adozione di una clausola antisacrificale sarà il primo passo che
le nazioni ricche saranno obbligate a compiere unilateralmente, se
vorranno «contrapporsi senza massacrarsi»: una mossa paragonabile
alla deposizione delle armi prima che si affermasse il commercio, la
rete degli scambi delle persone e dei beni (da clan a clan, da tribù a
tribù, da nazione a nazione). Va da sé che l’adozione di una clausola
rivolta a «donare» ai dannati della terra e agli svantaggiati del pianeta
una parte della propria ricchezza non è per nulla un comportamento meramente economicistico, né tanto meno una forma di carità o,
peggio, di concessione del superfluo. È un gesto che metterebbe radicalmente in discussione tutti i miti e i dogmi di cui si è nutrita la modernità, che hanno condotto alla colonizzazione di tutti i mondi vitali
da parte della razionalità dell’homo oeconomicus. Sarebbe un gesto
di «sacrificio» o di auto-obbligazione, rivolto a revocare in questione
le forme di vita delle società opulente fondate sul consumismo, sullo
spreco e sulla distruzione dell’ambiente. Potremmo anche dire con
Ricœur che sarebbe un’azione di agapè, che certamente non abolisce
le regole dell’equivalenza che governano il mercato68, ma, possiamo
aggiungere, sospenderebbe temporaneamente l’obbligo di restituire,
almeno fino a quando i paesi poveri non conquistano un’autonomia
nella crescita e nello sviluppo. Sarebbe questo un modo di attenersi
ad uno dei principi-cardine che secondo Mauss ha guidato l’evoluzione umana, vale a dire «uscire da se stessi, dare, liberamente e
per obbligo».69 Nella triade donare/ricevere/ricambiare l’accento nel
nostro caso verrebbe a cadere sul primo termine, sapendo bene anche
che occorre evitare i due estremi dell’«egoismo» e dell’«eccesso di
M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 291.
P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance. Trois études, Éditions Stock, Paris 2004, cap. V.
69 M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 276.
67
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generosità», perché comportamenti entrambi nocivi.70 Come si intuisce, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana della nostra cultura, che è la cultura, come la chiamava Max Weber, del “razionalismo
occidentale”, una rivoluzione copernicana tesa ad aprire la razionalità
occidentale alle ragioni e alle culture degli altri, che nella storia sanguinosa del colonialismo e dell’imperialismo degli ultimi due secoli
erano state umiliate e, molto spesso, sistematicamente distrutte. Tuttavia, è innegabile che una tale rivoluzione copernicana, che può essere avviata solo dalle nazioni occidentali con una mossa unilaterale
di generosità, di rinuncia al suprematismo e di autolimitazione della
sovranità degli Stati nazionali, si inscrive in una dimensione politica
forte. La politica, riscoperta nell’accezione richiamata da Mauss, proprio nel momento in cui investe tutti gli aspetti della nostra cultura e
i loro rapporti reciproci mettendone in questione lo statuto di assolutezza e la pretesa egemonica, riguadagna il suo originario significato
«architettonico», vale a dire tornare ad interrogarsi sul valore della
società in cui viviamo e in cui vogliamo vivere.71
4. Il riconoscimento come responsabilità-verso-gli-altri
In conclusione, vorrei discutere brevemente la pretesa epistemologica di Honneth di costruire una nuova teoria critica della società senza
alcun riferimento normativo ai movimenti sociali che volta per volta
lottano per far valere le loro istanze di riconoscimento, soprattutto
quelle che sono venute in primo piano nello scenario del dopo Ottantanove e che sono riassumibili nell’espressione «politica dell’identità»
coniata da Taylor. Se l’asse della nuova teoria critica fosse orientato sui
movimenti sociali storicamente emergenti, allora, obietta Honneth, solo una piccola parte del disagio e della sofferenza verrebbe presa in
considerazione, più precisamente quelle forme di sofferenza sociale
che riescono ad entrare nella sfera pubblica e ad avere voce.72 Questa
restrizione dello spettro del malcontento sociale alla sola area che accede allo spazio dell’interazione sociale (o che rivendica l’applicazione
della norma della parità partecipatoria) ripeterebbe l’«errore fatale»
della teoria marxista che assegnava al proletariato la rappresentanza di
Ivi, p. 274.
La prospettiva di un’esistenza politica che consente all’individuo di dare un senso universale alla sua vita si trova sviluppata, nell’ambito di un’originale rielaborazione del paradigma del
riconoscimento, in E. Renault, Mépris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Éditions
du Passant, Paris 2004, pp. 89-93.
72 A. Honneth, Redistribution as Recognition: A Reponse to Nancy Fraser, in N. Fraser - A.
Honneth, op. cit., p. 124.
70
71
116
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tutte le classi sfruttate. Ma soprattutto avrebbe la conseguenza «inintenzionale» di riprodurre le forme di esclusione politica, tutte le volte
che le vittime dell’esclusione non trovassero la via della protesta e della resistenza. Un tale orientamento normativo sarebbe secondo Honneth una risposta sbagliata alla crisi del marxismo, perché vincolerebbe
l’elaborazione di una nuova teoria critica all’«istanza pre-teoretica»73
di ceti, strati sociali e soggetti, empiricamente esistenti, colpiti dalla
modernizzazione capitalistica, proprio come avveniva nel marxismo
classico con il proletariato, a cui veniva imputato in modo latente un
interesse generale, che assorbiva dentro di sé tutte le aspettative morali della società. «Pertanto – scrive Honneth –, la dimensione normativa
del disagio sociale non era mai portata alla luce nel marxismo a causa
degli assunti impliciti di un’antropologia più o meno utilitaristica: i
soggetti socializzati venivano fondamentalmente considerati non come
attori morali, contraddistinti in anticipo da un certo numero di pretese
normative e di corrispondenti vulnerabilità, ma come attori dotati di
interessi razionali, i cui interessi particolari potevano essere ascritti di
conseguenza».74 Fraser, invece, ci dice troppo poco delle aspettative
normative dei nuovi movimenti sociali e delle forme di ingiustizia che
essi vogliono combattere. Questi soggetti rimangono senza volto, come pure restano inindagate le «cause potenziali dei sentimenti di ingiustizia sociale».75 La svolta teoretica, che Honneth invoca, consiste,
quindi, nell’elaborare il nucleo normativo di una nuova teoria critica
dalla prospettiva dei membri della società chiamati a giustificarla sulla
base di «criteri normativi che sorgono da pretese radicate nell’interazione sociale».76 Non vi è alcun dubbio sul fatto che Honneth assuma
la teoria habermasiana dell’agire comunicativo spogliandola, però, della sua impostazione kantiana e – recuperando il concetto hegeliano di
Sittlichkeit come una teoria delle strutture pratiche e delle relazioni di
vita intersoggettive necessarie al riconoscimento degli individui e della
loro dignità morale – le conferisca una torsione storico-contestualistica
mediata dalla ricezione di elementi del pragmatismo di Dewey e della
psicologia sociale di Mead. Rispetto agli standard procedurali della razionalità discorsiva di Habermas, Honneth preferisce seguire l’approccio storico-pragmatico dell’ultimo Rawls collegando la critica delle
pratiche pubbliche di giustificazione, valide in una determinata società,
ai sentimenti di ingiustizia derivanti dalle aspettative frustrate di ricoIvi,
Ivi,
75 Ivi,
76 Ivi,
73
74
p.
p.
p.
p.
126.
127.
128.
129.
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117
noscimento sociale. In altre parole, – chiarisce Honneth – l’ingiustizia
sociale viene esperita nel momento in cui le pratiche pubbliche di giustificazione si rivelano sorde ed impermeabili alle aspettative morali
dei soggetti, al bisogno di riconoscimento della loro integrità, del loro
onore e della loro dignità. I soggetti «percepiscono le procedure istituzionali come un’ingiustizia sociale quando vedono non essere rispettati aspetti della loro personalità che essi ritengono che abbiano diritto al
riconoscimento».77 Honneth rimprovera alla Fraser di non aver compreso che nelle società capitalistiche mature il principio dell’«amore»
(il riconoscimento nelle relazioni affettive della famiglia e dell’amicizia), il principio di eguaglianza (il riconoscimento attraverso le relazioni morali e giuridiche) e il principio del successo (il riconoscimento del
valore della propria attività professionale, che fornisce lo standard della gerarchia sociale) – che egli aveva ampiamente trattato in Lotta per
il riconoscimento – «rappresentano prospettive normative in rapporto
alle quali i soggetti possono ragionevolmente argomentare che le forme esistenti di riconoscimento sono inadeguate ed insufficienti e hanno bisogno di essere allargate».78 Ma occorre chiedersi: ai fini della
ricostruzione di una teoria critica della società, è sufficiente il recupero
della nozione hegeliana dell’eticità nei termini proposti da Honneth,
cioè «un concetto formale di eticità», come egli lo chiama per distinguerlo evidentemente da quello organicistico e sostanzialistico dei comunitaristi, e che consiste in un complesso di condizioni sociali e politiche capaci di preservare l’integrità personale dei soggetti e di rendere possibile un rapporto positivo con se stessi?79 È sufficiente questo
passo epistemologico a fronte di un contesto di modernizzazione liberista, che tende ad espellere quote crescenti di popolazione dal mercato
del lavoro e, dopo la fine del ciclo keynesiano-taylorista, a precarizzare il lavoro abbattendo i diritti sociali e le garanzie di welfare conquistati nel «secolo socialdemocratico» (come è stato definito il Novecento da R. Dahrendorf), e perfino strumentalizzando l’esigenza di autorealizzazione personale e l’ideale dell’autenticità esistenziale che erano
emersi nella coscienza collettiva negli ultimi trent’anni?80 Si rendono
allora necessarie due profonde correzioni del paradigma di Honneth
che riguardano l’idea stessa di eticità di impronta hegeliana che egli ha
77 Ivi, p. 132. Sul tema del rapporto tra rispetto reciproco e disuguaglianza si veda R. Sennett,
Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, trad. it. a cura di G. Turnaturi, il Mulino,
Bologna 2004.
78 Ivi, p. 143.
79 Cfr. E. Renault, Mépris social, cit., p. 68 e sgg.
80 Si veda, in proposito, il saggio di Honneth, Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione, tradotto in questo numero di «Post-filosofie».
118
Francesco Fistetti
rielaborato sul versante della morale e della psicologia del soggetto. In
primo luogo, la sua teoria delle tre sfere del riconoscimento va integrata con la concezione arendtiana dello spazio pubblico-politico della
cittadinanza, che non coincide stricto sensu con lo Stato, dal momento
che esso è lo spazio della società civile in cui si svolge la dialettica
conflittuale del confronto tra opinioni e punti di vista diversi, e in cui
si affacciano sempre nuovi soggetti che pretendono il riconoscimento
della loro identità.81 Potremmo dire che la costruzione dell’identità attraverso le varie forme della socializzazione è indissociabile dalla trasformazione delle istituzioni: e ciò sia perché l’applicazione della
«norma della parità di partecipazione» allo spazio della cittadinanza
(con i relativi diritti) viene mano a mano reclamata da soggetti che si
trovano esclusi e perciò si sentono umiliati e misconosciuti, sia perché
il patto sociale va incessantemente ritessuto alla luce delle istanze di
riconoscimento avanzate dai nuovi soggetti che chiedono di essere inclusi. Come ha osservato Renault, quando la negazione del riconoscimento viene vissuta come un’ingiustizia, questo sentimento, anche in
un regime democratico di governo delle leggi, può convertirsi in rivolta assumendo una forma propriamente politica che si interroga su ciò
che la società deve essere e su come vanno trasformate le istituzioni.82
In questo contesto, la politica viene intesa tocquevillianamente come
pratica della cittadinanza attiva, che mira non soltanto al riconoscimento del valore morale della esistenza di ciascuno, ma anche a far valere
attraverso la partecipazione al governo degli affari pubblici il primato
del bene comune – o dei beni comuni – sugli interessi dei singoli e
delle “corporazioni” cui essi eventualmente appartengano.83 Ma il concetto di cittadinanza attiva comporta un corollario di fondamentale importanza. Esso implica che la rigida priorità del giusto sul bene – difesa da Rawls e da Habermas – non può essere più mantenuta. Infatti, la
cittadinanza attiva conduce a stabilire dei quadri di riferimento comuni
di riconoscimento come una serie di beni collettivi che vanno sottratti
al destino della privatizzazione, perché quest’ultima significherebbe
ledere l’integrità e la dignità dei soggetti o quella della comunità nel
suo insieme: beni come il corpo degli individui, l’acqua, l’aria, il paesaggio, le opere d’arte, l’ambiente come ecosistema, ma anche l’informazione, il sapere, l’istruzione. In breve, l’urgenza di arginare gli
sconfinamenti della logica del mercato condurrà inevitabilmente a ri81 Ci permettiamo, in proposito, di rinviare a F. Fistetti, “La ragione politica come Politeia”, in
Idoli del politico, Dedalo, Bari 1990, pp. 163-206.
82 E. Renault, Mépris social, cit., p. 96.
83 F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004.
Francesco Fistetti
119
comporre le due prospettive teoretiche del bene (teleologia) e del giusto (deontologia) che la modernità aveva dissociato imponendo come
naturale una forma di vita in cui lo statuto dell’umano è definito dal
consumo individualistico e narcisistico di un’economia dello spreco e
da un cosmopolitismo utilitarista.
Infine, quasi un rovescio della medaglia, il paradigma del riconoscimento deve integrare la teoria hegeliana dell’eticità con il concetto
di un’etica archi-originaria che, come ha insegnato Lévinas, accorda
la prima parola all’Altro e che chiama alla responsabilità-verso-glialtri.84 Sul piano internazionale, dove si registra una situazione oscillante tra la «festa» e la «guerra» analoga a quelle a cui accennava
Mauss nel Saggio sul dono, questo equivale a scongiurare il rischio di
una guerra tra le culture come mondi in sé chiusi e reciprocamente incommensurabili, che è l’obiettivo perseguito dal terrorismo dopo l’11
settembre. Quando prevale la deriva della guerra, il riconoscimento
passa attraverso la dialettica servo/padrone descritta magistralmente
da Hegel nella Fenomenologia dello spirito, e che può risolversi o
nella soppressione fisica dell’altro o nel suo asservimento. Un sbocco possibile, se non necessario, di questa dialettica sarebbe lo «Stato
universale e omogeneo», come lo chiamava Alexandre Kojève, che,
come paventava Leo Strauss, somiglia molto ad una sorta di tirannide
universale.85 Non a caso, nella situazione odierna, con un accento
scopertamente kantiano-kelseniano Habermas ha scritto:«Di fronte
ad una globalizzazione che si impone di fronte al dilagare dei mercati, molti di noi avevano sperato in un ritorno del Politico sotto nuove
vesti: non nella forma originaria hobbesiana di uno stato-di-sicurezza globale (ossia non nelle dimensioni di polizia, servizi segreti ed
esercito), bensì nella forma di un potere mondiale di incivilimento e
di pianificazione. Per ora ci resta soltanto tra le mani una tenue speranza nell’astuzia della ragione – e una iniziale presa di coscienza».86
Ma alla speranza di Habermas, abbastanza illusoria, che un nuovo
nomos della Terra nasca prima o poi grazie all’«astuzia della ragione» bisogna contrapporre una concezione del Politico nel senso au84 Su questo punto ci sia consentito di rinviare a F. Fistetti, “Cittadinanza e trascendenza del
volto”, in I filosofi e la polis, cit., pp. 161-84.
85 Ci si riferisce alla polemica tra A. Kojève e L. Strauss in seguito alla pubblicazione da parte
di Strauss del volume, On Tyranny: An Interpretation of Xenophon’s «Hieros» (1950), che nel
1954 esce in traduzione francese presso Gallimard grazie alla mediazione di Kojève, il quale fa
seguire un ampio saggio di discussione critica intitolato Tyrannie et sagesse, (ripubblicato in una
nuova edizione nel 1997 presso Gallimard a cura di A. Enegrén e M. Launay), a cui si aggiunse
un’anticritica di Strauss. L’edizione italiana, La tirannide. Saggio sul «Gerone» di Sonofonte, è a
cura di F. Mercadante, Giuffrè, Milano 1968.
86 J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 100.
120
Francesco Fistetti
spicato da Mauss e teorizzato dalla Arendt, di rinuncia al mito della
sovranità come “centro di riferimento” dell’organizzazione politica
delle comunità. E solo l’adozione di una clausola antisacrificale nei
rapporti tra le nazioni, tale da venire incontro ai più svantaggiati,
può restituire alla politica l’accezione perduta di scienza della felicità
dei popoli e degli esseri umani. Una tale dissimmetria interrompe la
logica della reciprocità che è la logica degli equivalenti, poiché lega
il riconoscimento del valore dell’altro ad un’azione etica e politica
unilaterale che non si aspetta di essere contraccambiata a breve e a
medio termine. In questa scommessa, che ricongiunge economia e
morale (sia nell’accezione della ragion pratica kantiana sia in quella
hegeliana dell’eticità), una nuova teoria critica della società, ripensata in un orizzonte globale, potrebbe ritrovare la sua ragion d’essere
fondamentale.
ROBERTO FINELLI
UNA LIBERTÀ POST-LIBERALE
E POST-COMUNISTA. RIFLESSIONI
SULL’ETICA DEL RICONOSCIMENTO
1. Le due libertà
La ricerca della più recente filosofia pratica tedesca, in particolare
grazie ai lavori di Axel Honneth, è sbocciata nel risultato di ridefinire
alcune categorie fondamentali della teoria sociale e politica.
L’acquisizione teorica più originale e significativa mi sembra concernere l’allargamento del concetto di libertà, definibile ora, non solo
come assenza o riduzione dei limiti che il mondo esterno pone all’attività di un soggetto, ma anche – e nel verso di una pari importanza
– come riduzione dei limiti che il mondo emozionale interno pone
allo stesso soggetto. “Libertà” è infatti definibile oggi, dopo un secolo di psicoanalisi, e secondo quanto ricorda Honneth rifacendosi
all’opera dello psicoanalitista inglese D.W. Winnicott, anche come
la capacità di star soli, di avere cioè un rapporto di confronto e di
interazione con la propria emotività, che non sia caratterizzato da
terrori, rimozioni e difese, che costringano il soggetto in questione
in ripetizioni rituali e patologiche, sottraendolo alla sperimentazione
del mondo e a un possibile godimento della vita. Tale complicazione
interiore del concetto di libertà mette immediatamente in gioco per
altro il concetto di riconoscimento, nel senso che non è possibile che
un soggetto riconosca se stesso, il proprio mondo di bisogni, affetti
ed emozioni, senza che in tale discesa verticale sia accompagnato da
un riconoscimento orizzontale: dall’appoggio, cioè, dalla stima e dal
sostegno di altri, che lo confermino e lo rassicurino in questo processo di individuazione. “Riconoscersi” del soggetto nella veridicità e
nell’autenticità del proprio sé ed “esser riconosciuto” da parte degli
122
Roberto Finelli
altri-da-sé fanno tutt’uno, secondo la complessità di un nesso che deve essere in pari tempo di individuazione e di socializzazione.
Ma qui appunto più che al linguaggio sociologico e antropologicofilosofico di Honneth a me sembra che sulla rilevanza strutturale di
tale intreccio, l’uno verticale, l’altro orizzontale, nella costituzione
di una soggettività, sia opportuno cedere direttamente la parola alla
clinica e alla teoria psicoanalitica, e specificamente all’opera di Wilfred R. Bion e alla sua originalissima concezione della mente. Nella
quale l’aspetto che maggiormente colpisce è che i pensieri vengano
considerati come precedenti, dal punto di vista sia genetico che epistemologico, alla capacità dell’apparato di pensiero di pensare, e che
la nascita del pensiero dipenda appunto dalla possibilità originaria
della mente in questione di essere accolta, contenuta e riconosciuta
da un’altra mente. I «protopensieri» – coerentemente con la teoria
freudiana del processo primario come modalità del pensare finalizzata a liberare la mente nei termini più immediati dall’eccesso di stimoli che la invadono – possono infatti rimanere non elaborati nella
condizione di oggetti («cose in sé» alla Kant, come le chiama Bion,
o «elementi β», per riferirsi a qualcosa che rimane estraneo e inconoscibile), alle quali corrisponde un pensiero che, invece di pensare,
agisce, nel senso che evacua ed espelle fuori di sé i pensieri-oggetti
cattivi per la loro carica di distruttività e di negatività. Mentre un apparato per pensare vero e proprio, che possa effettivamente mantenere dentro di sé e trasformare i pensieri epistemologicamente pre-esistenti, nasce solo – ritiene Bion – se la mente in questione, in genere
quella del bambino, può proiettare e collocare le proprie emozioni e
i propri bisogni in un’altra mente, in genere quella della madre, che
li riceve e li metabolizza, restituendoli tollerabili e trasformati alla
prima mente. Cosicché la mente funziona o come un muscolo, che
scarica continuamente pensieri-oggetto rimasti allo stato di cariche
energetiche intollerabili, o come un apparato di pensiero vero e proprio che pensa i pensieri («elementi α »), reintroducendo dentro di sé
esperienze emotive modificate e mitigate da altre menti.1
Ovviamente questa concezione bioniana rimanda ad un’elaborazione del lascito freudiano, il quale soprattutto dopo l’opera fondamentale di Melanie Klein, valorizza molto la seconda topica freudiana – la compresenza cioè nel fondo pulsionale dell’essere umano
non solo del principio di piacere ma anche della pulsione di morte
1 Sulla teoria bioniana della mente e del pensiero cfr. W. R. Bion, Gli elementi della psicoanalisi, trad. it. di G. Hautmann, Armando Armando, Roma 1973; Id., Trasformazioni. Il passaggio
dall’apprendimento alla crescita, trad. it. di G. Bartolomei, Armando Armando, Roma 1983.
Roberto Finelli
123
– e la tendenza, gia teorizzata dallo stesso Freud, dell’Io primitivo di
costituirsi secondo l’incorporazione di tutto ciò che è buono e positivo e l’espulsione di tutto ciò che di negativo e di distruttivo pure
appartiene allo stesso Io. Meccanismo di scissione all’interno dell’Io e di espulsione-proiezione all’esterno, che appunto spiega quell’originario e arcaico modo del pensare che Bion caratterizza come
incapacità di accoglimento, di mentalizzazione e di simbolizzazione
delle emozioni e come, invece, loro evacuazione, in quanto appunto
«elementi » (o «cose in sé», pensieri-oggetto non rappresentabili e
non mentalizzabili).
Ma, senza approfondire il discorso sul carattere “dialettico” del
fondo pulsionale umano, sulla compresenza in esso degli opposti e
dunque sulla sua strutturale ambivalenza, quello che qui preme sottolineare è come, anche con il progresso della clinica e della teoria
psicoanalitica, si sia venuto facendo sempre più chiaro nell’ambito
delle scienze umane quanto l’accoglimento e il riconoscimento da
parte dell’altro sia fattore costituzionale del formarsi e del consolidarsi dell’identità e della soggettività personale, quanto l’altro-da-sé
sia cioè fattore trascendentale, imprescindibile, e soprattutto intrinseco di costituzione del sé. Naturalmente a patto che si consideri ormai
definitivamente superato il canone dell’io liberale-kantiano, per cui
il soggetto moderno può accedere alla socializzazione solo attraverso
una messa in campo di forme e di universali che, malgrado l’appello al sintetico e al trascendentale, appaiono ripercorrere la vecchia
strada della forma come separazione e astrazione dal sensibile e dal
particolare: come nell’universalizzazione formale-quantitativa della
conoscenza scientifica, nella formalizzazione anaffettiva e razionale
dell’imperativo morale, nell’istituzione formalistico-negativa dello
Stato di diritto, dove l’istituzione pubblica non interviene mai nella
sfera privata dei singoli a dire cosa è bene e cosa è male, ma, obbligando appunto solo a ciò che non si deve fare, costruisce solo le
regole di limitazione all’interno delle quali ciascuno possa giocare
il gioco che vuole. Senza tralasciare la considerazione ulteriore che
proprio tale dualismo-distinzione tra pubblico e privato, tra nesso sociale e individuo, è la cerniera su cui gira, almeno secondo la critica
del vecchio Marx, la separatezza tra l’ambito democratico-pubblico
della circolazione delle merci e dello scambio tra soggetti liberi ed
equivalenti mediato dal denaro e l’ambito autoritario-privato del consumo capitalistico della forza-lavoro, mediato, non dal denaro, ma
dall’organizzazione tecnico-direttiva d’impresa.
124
Roberto Finelli
La civiltà del liberalismo classico, fondata su questo snodo tra
pubblico e privato, sembra del resto che stia esaurendo la sua funzione storica, proprio a causa della vuotezza e dei drammatici esiti
esistenziali che quella collocazione, all’esterno, dell’altro-da-sé ha
generato nel sé, quale doloroso e patologico rovesciamento da pagare
alla sua pretesa mitica e ideologica di costituire un’individualità fondamentalmente autosufficiente. Mitologia di una soggettività, presuntivamente concepita come originariamente compos sui, padrona di sé
a priori, e nella quale la relazione con l’altro-da-sé, espulsa e collocata all’esterno, ha costituito sempre un a posteriori, una possibilità
opzionale anziché una necessità strutturale e costitutiva.
Né peraltro il modello antropologico dei regimi del cosiddetto socialismo reale ha potuto presentarsi come modello di una civilizzazione alternativa a quella del liberalismo illuminista, dato il carattere,
parimenti astratto, della socializzazione che proponevano, istituito
sulla valorizzazione, univoca ed asimmetrica, dell’eguaglianza rispetto al polo della differenza e della singolarizzazione. E dove, di nuovo, anche se con una configurazione di valori opposta a quella della
civiltà liberale, società e individualità tornavano ad essere estranee
l’una all’altra, giacché il carattere comunitario e comune del vivere
escludeva il diritto all’individuazione come un errore ontologico e
come un terribile peccato sociale: tanto da potersi imporre, quel valore dell’eguaglianza estrema ed assoluta, anche attraverso istituzioni
autoritarie
È perciò a uno snodo diverso, a una diversa cerniera, che articoli
il nesso individuo-società, che bisogna guardare per trovare modi diversi e più avanzati di socializzazione e di antropologizzazione. Nel
verso appunto, io credo, del pensiero e della ricerca di Honneth la
quale si prova, partendo, come si diceva, da una complicazione psicoanalitica del concetto di libertà, a coniugare insieme individuazione e socializzazione. A concepire cioè una configurazione della
società il cui nesso di socializzazione sia fondato proprio sulla possibilità per ciascun suo membro di realizzare e veder riconosciuto un
percorso di vita altamente personalizzato: «una forma di società che
trova nel riconoscimento intersoggettivo della particolarità di ciascuno l’elemento organico della sua coesione».2 Ovvero, si potrebbe dire in modo ancora più espressivo, una configurazione sociale, nella
quale non accade che la mia libertà finisce là dove comincia la tua,
2 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C.
Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002, p. 26.
Roberto Finelli
125
secondo quanto vogliono una concezione classicamente liberale di
libertà e una rappresentazione atomistica dell’individualità, bensì che
la mia libertà inizi dove comincia la tua, giacché la maturazione di
una personalità maggiormente individuata da parte degli altri-da-sé è
condizione e medium, attraverso una maggiore capacità di riconoscimento, di una maggiore individualizzazione e capacità di autorealizzazione, a sua volta, di ciascun sé.
E proprio tale nuova configurazione dell’immagine di libertà, nel
suo carattere bidimensionale, fa ben capire l’estenuazione e l’esaurimento storico delle due classiche libertà contrapposte del moderno
(la «libertà liberale» e la «libertà comunista»), coll’esplicitarne i limiti di una medesima astrazione che le coinvolge entrambe, ciascuna
a suo modo, nel non tener in conto della dimensione opposta. La
libertà liberale, perché, considerando unica sede di creatività e di
valore quella del foro interiore o dell’agire privato, ha sempre derivato e dedotto il pubblico (quale male necessario o quale valore secondario) dal privato, concependolo appunto solo quale regolazione
negativa e reciproca limitazione degli ambiti privati, affinché non si
danneggino l’un con l’altro. Col finire così, come accade oggi nella
diffusione delle nuove forme di lavoro mentale-informatico e nelle
nuove tipologie di consumo mercantile del postmoderno, ad enfatizzare la pienezza e la creatività di un soggetto, che invece nella pratica
quotidiana reale si rovescia nella vuotezza di emozioni e nella fragilità di un io che si riconosce solo nell’interiorizzazione di stereotipi
massificati di superficie.
La libertà comunista perché, valorizzando solo l’eguaglianza e vedendo nella differenziazione individuale dal “comune”3 il disvalore,
ha finito con lo svincolare l’esistenza d’ognuno da una gestione sana
e matura della propria bisognosità: o consegnandola, con un basso
grado di elaborazione personale, al soddisfacimento burocratico-autoritario-indifferenziato del collettivo, o affidandola a un fai-da-tè
occulto ed arrangiante, furtivo e compromissorio. Dando vita, in entrambi i casi (sia con una percezione simbiotica del proprio sé che
con una valorizzazione dell’astuzia dell’io di fronte al collettivo), al
venire meno di una partecipazione motivata e appassionata alla vita
comune, che è stata una delle cause, non ultime, sul piano antropologico-esistenziale del crollo dei paesi del cosiddetto comunismo
reale.
3 Per una valorizzazione, invece, di questa categoria cfr. A. Illuminati, Del comune. Cronache
del General Intellect, manifestolibri, Roma 2003.
126
2. La libertà come unificazione di facoltà
Roberto Finelli
La nuova definizione dell’etico-politico, che qui si propone, – da
concepire come somma delle condizioni intersoggettive che valgano
come presupposti dell’individuazione intrasoggettiva – risponde anche al modo più laico e post-metafisico d’intendere l’istanza, io credo, di quella filosofia hegeliana che costituisce, com’è noto, il punto
di riferimento fondamentale, non solo della ricerca di Honneth, ma
di larga parte della riabilitazione della filosofia pratica che s’è avuta
in Germania nell’ultimo trentennio. Il movimento del Geist hegeliano
può essere letto infatti come quello di una soggettività che, quanto
più è capace di Erinnerung (interiorizzazione), tanto più è capace di
aprirsi all’Entaeusserung (esteriorizzazione) e alla relazione con l’alterità fuori di sé. Spirito cioè in Hegel può significare, propriamente,
la capacità di sottrarsi ad una serie di autorappresentazioni fallaci del
proprio sé, le quali in tanto sono inadeguate e fallaci in quanto scindono e collocano all’esterno quella relazione con l’altro-da-sé, che
è invece condizione interna della costituzione della soggettività. Lo
spirituale è così l’abbandonare l’identità più immediata ed estrinseca
del proprio sé – quella attinente al naturale per Hegel, perché il naturale è appunto il modo di autoconcepirsi dove il motivo dell’esclusione reciproca dei corpi individuali e del loro riprodursi prevale su
quello della relazione – ed è invece il processo dell’interiorizzarsi in
se stesso, trascorrendo dalle immagini di superficie a quelle più interne, dove si trova al fondo del proprio sé anche l’altro da sé, e dove
finalmente il soggetto può coincidere con sé, cioè totalizzarsi, perché
il suo fondamento non è mai l’essere uno ma sempre l’essere bino.
Che il movimento dialettico, del superamento della scissione e
della contrapposizione tra poli, in tanto abbia una conclusione triadica (tesi, antitesi, sintesi) in quanto la sua struttura effettiva sia in
effetti formata da una quadruplicazione dei termini – dove ciascuno
dei due si fa l’intero perché ognuno, accogliendo dentro di sé l’altro, da uno si fa bino – , è, com’è noto, quanto Hegel ha appreso
da Schelling nella loro collaborazione jenese al «Kritisches Journal
der Philosophie». La definizione schellinghiana dell’Assoluto come
indifferenza di soggetto ed oggetto impone infatti, al di là della sua
presupposizione speculativa e metafisica, che ogni forma d’esistenza
sia sempre doppia, compresenza di soggetto ed oggetto (con la prevalenza della dimensione oggettiva dell’inconsapevolezza nella natura, o mondo dell’oggetto-soggetto, e con quella della consapevolezza
soggettiva nel mondo spirituale del soggetto-oggetto). Ed impone
perciò che il cammino verso l’Assoluto, ossia verso l’autenticità,
Roberto Finelli
127
consista nella capacità di raggiungere ed esplicitare la struttura sempre duale del proprio sé. Ma, ancor prima, che l’autenticità consista
in una unificazione armoniosa degli ambiti interiori e delle facoltà
di un soggetto, senza che tale unificazione possa significare dominio
di una di quelle sulle altre, è quanto il giovane Hegel ha maturato con Hölderlin nella declinazione comune, pur tra accentuazioni
diverse, di una Vereinigungsphilosophie (filosofia dell’unificazione)
che, movendo, tra l’altro, da forti sollecitazioni schilleriane, discuteva appunto di come comporre senza violenza e senza asimmetrie,
al di là dei dualismi kantiani, l’unità della vita.4 Per cui ciò che qui
preme ora dire, senza stare ora a considerare i vari modi con cui,
secondo le diverse fasi del pensiero hegeliano, si produce tale unificazione (destino, negazione, contraddizione), è che per Hegel non si
dà realmente soggetto, ossia non si supera un’esistenza meramente
naturalistica, senza totalizzazione della propria interiorità. Senza cioè
che si dia un’attivazione e una messa in gioco di tutte le sue facoltà:
in una mancanza di dominio e di repressione interiore che implica e
rimanda, necessariamente, ad una mancanza di dominio e repressione
esteriore, come già voleva appunto l’ideale della Vereinigungsphilosophie, con la sua idealizzazione della grecità classica come il luogo di un’umanità armonica e pacificata sia all’interno di ogni essere
umano che all’esterno della vita pubblica e civile.
3. Filosofia dell’unificazione e filosofia del diritto
L’ideale della Vereinigungsphilosophie, come realizzazione, insieme, di individuazione e di socializzazione, nel sistema hegeliano
della maturità si traduce e si svolge in quella Filosofia dello spirito
oggettivo che nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts studia e
articola il nesso appunto di individuazione-socializzazione secondo
le tre sfere di “famiglia”, “società civile” e “Stato”. Infatti qui l’autoriconoscersi del soggetto nelle sue varie istanze interiori – quale,
rispettivamente, essere bisognoso di accudimento e d’amore, persona capace, alla pari degli altri, di attivarsi e oggettivarsi nel mondo
esterno, e individuo meritevole di godere del rispetto e della stima
sociale –, secondo quanto ha ben compreso Honneth, è legato al progressivo ampliarsi dell’ambito del riconoscimento che gli altri pongono in atto nei suoi confronti. Dove cioè approfondimento dell’autoriconoscersi da un lato, nel complicarsi delle proprie facce interiori
4 Sulla Vereinigungsphilosophie cfr. D. Henrich, “Hegel und Hölderlin”, in Hegel im Kontext,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975, pp. 9-40.
128
Roberto Finelli
e nell’uscita da un’autorappresentazione solo immediata e primitiva
di sé, e allargamento delle dimensioni e degli spazi sociali dell’essere
riconosciuto fanno tutt’uno.
Eppure è proprio qui, nella riattualizzazione della Filosofia del
diritto di Hegel che Honneth ha posto al centro della sua proposta di
un’etica sociale basata sul riconoscimento, che si evidenzia quanto
sia complesso impostare un nuovo discorso di antropologia sociale istituito sulla compresenza dei due “assi cartesiani” di espansione
orizzontale, quanto a socializzazione, e di approfondimento verticale,
quanto a interiorizzazione e appropriazione del Sé. E quali siano per
altro le difficoltà teoriche e i limiti dell’intero movimento di riabilitazione della filosofia pratica, quando le sue istanze si piegano troppo
nel verso dell’egemonia di quel paradigma comunicativo che l’etica
del discorso di Habermas sembra aver imposto all’intero ambito della
sociologia, nonché della filosofia sociale e politica contemporanee.
L’operazione teorica che Honneth compie sulla Filosofia del diritto di Hegel per altro è assai chiara ed esplicita. Il suo intento è di
mostrare infatti come il testo del 1820 de-metafisicizzato e de-statualizzato – affrancato cioè dalla curvatura ontologica e metafisica
dello Spirito in Hegel come dalla configurazione, ormai superata,
dello Stato hegeliano – contenga «l’abbozzo di una teoria normativa
di quelle sfere sociali del reciproco riconoscimento, il mantenimento
delle quali è costitutivo per l’identità morale delle società moderne».5
Si tratta di ripensare cioè la Filosofia del diritto senza la funzione di
sostegno della Scienza della logica (ossia senza la dialettica) e senza
il costituzionalismo monarchico-cetuale che ancora affetta lo Stato
hegeliano, per poterne sviluppare tutto il valore di un modello sociale che vuole rifondare il principio moderno dell’autodeterminazione
dell’individuo sul fondamento di un’intensificazione progressiva della stima di sé, procurata attraverso l’esposizione e la partecipazione
a sfere sempre più ampie del confronto sociale e del riconoscimento
intersoggettivo.
Infatti nella «famiglia» il singolo si rapporta alla propria bisognosità per mezzo di una relazione con gli altri che non è mediata attraverso vincoli e istituzioni sociali bensì attraverso sentimento ed amore. Ne deriva perciò, col soddisfacimento del bisogno, che il singolo non può riconoscersi ed essere riconosciuto ancora come persona
autonomamente distinta e libera, ma solo come individuo gruppale,
5 A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel,
trad. it. di A. Carnevale, manifestolibri, Roma 2003, p. 42.
Roberto Finelli
129
come membro di un gruppo. Nella «società civile» invece l’individuo
soddisfa una propria bisognosità, fattasi più complessa e più vasta,
relazionandosi agli altri attraverso la mediazione della ragione e del
lavoro. Attraverso la ragione è infatti capace di realizzare un’agire
strumentale adeguato ad uno scopo (lavoro), il cui prodotto scambia
sul mercato economico con i prodotti dei lavori di tutti gli altri. Per
cui, come individuo in grado di mediare da sé la propria bisognosità
attraverso la ragione, è riconosciuto persona autonoma, non dipendente da nessun gruppo o da nessun altro in particolare, e, come tale,
a tutti gli altri eguale in quanto soggetto di diritto privato: portatore
cioè di tutti i diritti liberali classici, che attengono appunto al libero
individuo in quanto diritti cosiddetti negativi e che impediscono che
l’esercizio della ragione, nonché la libertà, la vita e la proprietà della
persona privata sia danneggiata dall’ingerenza illecita degli altri singoli e dello Stato.
Solo che il riconoscimento giuridico a sua volta, riconoscendo il
singolo come persona pari a quella di tutti gli altri, lo considera ancora secondo qualità generali (ragione e lavoro) che trascurano ciò
che di più peculiare lo differenzia e lo individualizza. Per tale motivo
l’ambito di riconoscimento ulteriore alla dimensione astratta del mercato e ricco, invece, di individuazione, è lo «Stato». Dove, attraverso
le istituzioni comunitarie e solidali delle professioni e delle corporazioni, l’individuo acquisisce stima ed onore da parte degli altri membri della società proprio per le sue particolari qualità e la specificità
delle prestazioni che riesce ad apportare all’utile generale. Per cui all’astrattezza universalistica del concetto di persona si sostituisce una
soggettività, che cessa di soffrire d’indeterminatezza e di riconoscimenti generici, per essere stimata e valorizzata nell’individualità più
propria, irriducibile a quella degli altri, del suo Sé.
Così si può concepire la suddivisione della vita sociale, e la coesistenza in essa, di tre ambiti delle relazioni intersoggettive strutturate
secondo modalità specifiche di riconoscimento reciproco – amore,
diritto, solidarietà (nel senso di orientamento verso valori comuni)
– cui corrispondono specifiche e differenti modalità di autorelazione individuale. Secondo una progressione nella quale, tanto più si
approfondisce il riconoscimento intrasoggettivo e la valorizzazione
integrale del proprio sé, tanto più si estende la latitudine e l’orizzonte
del riconoscimento sociale. E per la quale – rilievo che mi sembra
fondamentale nell’argomentazione di Honneth – si può pensare, diversamente dal diritto liberale e dal diritto comunista, che portatrici di diritti in generale non siano più gli individui, atomisticamente
130
Roberto Finelli
concepiti e presupposti, ma le istituzioni del riconoscimento: a patto,
ovviamente, che, per sfuggire all’estremo opposto, di un’invasione
del collettivo nella singolarità, il loro scopo istituzionale prioritario
sia proprio la promozione e l’accudimento dell’autodeterminazione
individuale.
A questa proposta concettuale di Hegel si deve la trasposizione del moderno
concetto di “diritto”, cioè della rappresentazione normativa che ad un oggetto competono pretese universalmente legittimate e sanzionate dallo Stato, dalla sfera dell’individuo ai rapporti o alle strutture sociale nel loro complesso. Secondo l’utilizzo che Hegel fa del concetto di diritto nella Filosofia del diritto, i diritti universali
non spettano in primo luogo agli individui, ma a quelle forme sociali dell’esserci
che, nell’interesse a una realizzazione del libero volere, si lasciano mostrare come
beni sociali fondamentali. […] Le portatrici di “diritti” di cui la Filosofia del diritto
tratta sono perciò innanzitutto le sfere e le pratiche sociali che hanno una legittima
pretesa ad essere conservate e sviluppate dalla società nel suo insieme; mentre
destinatari di tali “diritti” di sfere, istituzioni o sistemi devono essere considerati
tutti i partecipanti a quelle società che sono caratterizzate dal principio normativo
dell’autodeterminazione dell’individuo.6
4. L’aporia di un impossibile sincronismo storico
Eppure, al di là dell’alleggerimento metafisico e politico che può
essere apportato alla Filosofia del diritto di Hegel, e al di là dell’accoglimento della sua tesi generale quanto alla necessità di coniugare
insieme progressi dell’individuazione e progressi della socializzazione, c’è una difficoltà intrinseca che a mio avviso impedisce la
riattualizzazione di quel testo, quale possibile modello paradigmatico della problematica in questione. L’aporia di fondo della soluzione
avanzata da Hegel di coniugare insieme, nell’unico spazio della modernità, tre diverse tipologie di libertà e tre diversi snodi del riconoscimento/autoriconoscimento, sta nel fatto che il maestro berlinese
è stato costretto, a mio avviso, a giustapporre tempi storici diversi
e dunque, a ben vedere, istituzioni, corpi giuridici ed usanze tra loro incompatibili perché iscritte ed appartenenti ad epoche successive
della civilizzazione. Ha preteso cioè di far coincidere la filogenesi di
un soggetto individuale – l’evoluzione di un soggetto che trascorre e
matura da forme insufficienti a forme sempre più adeguate del proprio sé – con la compresenza di modelli relazionali che rimandano
6
Ivi, p. 57.
Roberto Finelli
131
a genealogie diverse. Giacché non è forse vero che il sistema dei
bisogni, la parte più caratterizzante o comunque più celebrata della
società civile hegeliana, rimanda ai soggetti liberi, autonomi ed eguali del mercato moderno, nel loro scambio mediato da merci e denaro,
laddove Stände (ceti), Zünfte (corporazioni) e Polizey (polizia), gli
altri istituti che nella stessa società civile insediano il senso associativo e solidaristico della comunità, oltre che assistenziale-dirigistico
dello Stato, rimandano alla configurazione premoderna di una società
corporativo-cetuale e di un Polizeystaat legate all’ordinamento monarchico-principesco dei vari stati tedeschi e alla tradizione cameralistica del dispotismo paternalistico settecentesco?7
Hegel è stato il primo, com’è ben noto, a introdurre nella filosofia sociale e politica moderna la distinzione di «società civile» e di
«Stato politico», assegnando alle due sfere autonomie e peculiarità
di compiti. Ha cioè caratterizzato la modernità secondo la differenziazione di ambiti che nella società cetuale premoderna sono ancora
indistinti, per la coincidenza di funzioni economiche e di prerogative
giuridico-politiche che articolano secondo diritti-doveri e poteri-prerogative diverse la compagine dei vari, e tra loro gerarchici, ceti sociali. Tant’è che prima di Hegel il lemma «societas civilis», in tutto
il giuscontrattualismo sei-settecentesco, definisce la società in quanto
tale, nella totalità delle sue istituzioni economico-giuridico-politiche,
a differenza della «societas naturalis» che attiene allo stato di natura
e a una condizione precontrattuale e presociale della vita individuale.
Ma Hegel, attraverso la frequentazione fin dalla giovinezza degli economisti inglesi, ha compreso che il sistema dei bisogni, cioè
l’economia di mercato, annulla ogni vincolo sociale di natura non
economica che sia predeterminato e presupposto (come accade nella
società cetuale) all’agire degli attori economici, e che il nesso e la
relazione sociale nasce solo attraverso e con l’economico, scambiando merci e lavoro. Ha compreso cioè che con l’economia moderna si
costituisce per la prima volta nella storia un ambito, che è il mercato,
che si autoregola secondo un valore di scambio e legalità del tutto
autonome, che non dipendono più da altri valori e altri ordini culturali-simbolici, di natura parentale, religiosa, politica, com’era accaduto
fin’allora in tutte le società antiche e premoderne. E che appunto il
7 Cfr, P. Schiera, Società per ceti, in N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino (sotto la direzione
di), Dizionario di politica, UTET, Torino 1992, pp. 1076-81. Sulla teoria dei ceti e della “rappresentanza” politica in Hegel rimane sempre imprescindibile la lettura di R. K. Hočevar, Stände und
Repräsentation beim jungen Hegel, C. H. Beck, München 1968 (particolarmente pp. 15-44).
132
Roberto Finelli
sistema dei bisogni, come ambito dell’agire peculiare della borghesia
moderna e come luogo che contraddistingue per eccellenza l’intera
società civile, pretende legittimamente, per questa sua autonomia di
legalità e di fondazione, ad un suo spazio differenziato dagli ambiti
a valle e a monte, rispettivamente, della famiglia e dello Stato politico.
Anzi, va aggiunto, che Hegel ha tanto compreso la specificità e la
potenza di questo nuovo nesso di socializzazione, costituito da una
dipendenza di ciascuno da tutti, e perciò da nessuno in particolare, da
vedere e presagire il possibile estremizzarsi ad astratto e a cosa morta di tale nesso impersonale, con tutte le crisi e i rovesciamenti di cui
può soffrire un’economia di mercato. Tanto da concepire, soprattutto
con l’eleborazione del sistema maturo rispetto agli scritti di filosofia sociale e politica del periodo di Jena, il compenetrarsi del tempo
moderno con il tempo premoderno, per far intervenire tutta una serie
di istituti e di interventi solidali e comunitari che potessero mitigare
e compensare le asprezze strutturalmente connesse con l’economia
moderna di mercato. Per dire cioè che lo Stato etico di Hegel, ben
lungi dalla lettura assai miope di Stato totalitaristico che ne ha dato l’interpretazione liberale a cominciare da R. Haym per finire con
K. Popper, nasce, all’opposto, dall’esigenza d’impedire che proprio
l’autonomia dell’economia monetaria moderna possa, essa, totalizzarsi, facendosi soggetto smisurato ed abnorme che travolge, anche
da lontano nelle crisi economiche mondiali, le esistenze dei singoli.
Ma appunto le virtù e le modalità di riconoscimento solidale che
Hegel trova a disposizione sono quelle della tradizione cameralisticocetuale: a meno ovviamente di voler vedere, come pure taluni hanno
voluto proporre, nelle Zünfte medioevali e cetuali di cui parla Hegel,
già le associazioni mutualistiche e i sindacati della moderna lotta tra
le classi, o addirittura nella Polizey hegeliana una sorta di anticipazione dello Stato bismarckiano e del Welfare.8 Io credo al contrario
che l’articolarsi della società civile hegeliana secondo la tripartizione
del «substanzielle Stand» (ceto agricolo), del «formelle Stand» (ceto dei mestieri e dell’industria), e dell’«allgemeine Stand» (ceto dei
funzionari pubblici) rimandi alla valorizzazione-utilizzazione che da
sempre Hegel ha fatto della struttura cetuale premoderna – fin dal
Naturrechtsaufsatz e dal System der Sittlichkeit del 1802 – così come
la «Polizia» richiama esplicitamente non l’istituzione repressiva mo8 Per un’interpretazione del genere si rimanda alle pagine di commento di D. Losurdo (“Corporazioni, sindacato e società di mutuo soccorso”) a G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto,
proprietà, questione sociale, a cura di D. Losurdo, Leonardo, Milano 1989, pp. 405-26.
Roberto Finelli
133
derna finalizzata al mantenimento dell’ordine, ma la politica, quale
arte della polis e accadimento del benessere dei sudditi da parte del
sovrano premoderno attraverso la scienza cameralistica; così come
infine il riconoscimento e l’onore, che i membri di una Zunft si accordano reciprocamente in base alla qualità dei manufatti che creano e all’eccellenza della prestazione professionale che esercitano, mi
appaiono iscriversi indubbiamente assai più al mondo corporativo
delle arti e dei mestieri premoderni e preindustriali che non al mondo moderno del lavoro salariato e industriale. Ed appunto proprio
per questo suo strutturale anacronismo, o, come dicevo sopra, per la
giustapposizione di un tempo premoderno e di un tempo moderno, io
non credo sia né possibile né utile oggi proporre una riattualizzazione
della Filosofia del diritto, per quanto la si faccia leggera sottraendola
alla curvatura ontologico-dialettica del più generale impianto hegeliano.
5. Dalla dialettica al dialogo
Tanto più che proprio la giustapposizione hegeliana di un sistema
dei bisogni da un lato, improntato all’economia impersonale del mercato moderno e al suo automatismo privo di vertici e di asimmetrie
decisionistiche, e dall’altro di istituzioni della società cetuale, basate
su relazioni personali e su un forte decisionismo politico, – senza che
i due ambiti interagiscano e si compenetrino l’un l’altro – anticipa le
difficoltà che oggi stringono da presso, a mio avviso, il confronto tra
mercato ed economia capitalistica della globalizzazione e quel paradigma democratico-comunicativo di redistribuzione delle ricchezze,
di Welfare, di dialogo multiculturale, nel cui allargamento e intensificazione anche Honneth, seguendo la lezione di Habermas, fa sfociare, quanto a soluzioni istituzionali, la sua etica del riconoscimento.
Coltivando in tal modo quel percorso di abbandono di ogni istanza
dialettica legata alla critica marxiana dell’economia politica al fine di
una valorizzazione, invece, dell’ambito discorsivo dell’etica e della
politica, che, attraverso il programma habermasiano di un’etica del
discorso e di una rifondazione linguistico-comunicativa del materialismo storico – si potrebbe dire, riassumendo, “dalla dialettica al
dialogo” – ha caratterizzato la sociologia critica della Scuola di Francoforte e più in generale l’intera filosofia pratica tedesca degli ultimi
trent’anni.9
9 Cfr. L. Cortella, Habermas e la svolta comunicativa della filosofia contemporanea tedesca, in
«Fenomenologia e società», VII (1984), 2, pp. 19-41.
134
Roberto Finelli
In effetti il vizio di fondo del paradigma etico-discorsivo habermasiano – e si perdoni qui, per ragioni di spazio, la schematicità
dell’esposizione – sta, a mio avviso, probabilmente per eccesso di
un’originaria cultura sociologica, nella riduzione di Karl Marx a Max
Weber, nella riduzione cioè del processo di produzione della ricchezza
moderna marxianamente inteso all’agire strumentale di un soggetto
razionalmente orientato. Nell’interpretazione cioè dell’economia moderna come istituita sulla centralità della ragione calcolante, esito del
processo di secolarizzazione e della sostituzione, nella storia d’Occidente, dell’orizzonte religioso-teologico con quello logico-scientifico. Con la conseguenza di leggere la storia della modernità economico-tecnologica alla luce di un criterio d’azione soggettivistico e
individualmente intenzionale, secondo quanto poi ha ben compreso e
valorizzato Heidegger nella sua lettura del moderno e della tecnica,
come ipertrofia del soggetto logico-rappresentazionale e manipolante.
Laddove dovrebbe esser ben chiaro che la differenza più significativa
tra la matura critica dell’economia politica di Marx e la sociologia
tra Ottocento e Novecento si colloca nel fatto che la sociologia, a
muovere da quella weberiana, spiega l’evento sociale sempre a partire dalla motivazione e dall’intenzione del soggetto agente, mentre
non solo tutto il materialismo storico marx-engelsiano legge la storia
alla stregua di leggi oggettivo-naturalistiche ma soprattutto il Marx
di Das Kapital e dei Grundrisse mette in scena un soggetto astratto
e impersonale, qual è “Il Capitale” con la sua natura di ricchezza appunto astratto-quantitativa che riduce i soggetti concreti e individuali
ad essere solo maschere, cioè portatori delle varie funzioni della sua
produzione e riproduzione.
Ma soprattutto la traslazione del paradigma capitalistico di Marx
nel paradigma razionalistico di Weber, con la riduzione del processo
di produzione economico sostanzialmente a un modo di porsi, laico,
utilitaristico e calcolante, del soggetto di fronte all’oggetto, tende a
mettere sullo sfondo le relazioni sociali di cui quel processo è invece
intessuto e a vederlo, per la sua natura dichiaratamente solo funzionale-strumentale e produttivo-materiale, sostanzialmente estraneo alla produzione simbolico-culturale, di idealità cioè e valori diversi da
quelli immediatamente economico-materiali. Ed infatti la produzione
di tali valori, concernenti non l’utile, bensì il buono, il bello e il vero
– ossia fondamentalmente come i membri di una società devono distribuirsi e godere, quanto e come privatamente o comunitariamente,
quell’utile – avviene, sappiamo per Habermas e l’intera svolta comunicativa da lui impressa alla filosofia tedesca contemporanea, altrove:
Roberto Finelli
135
attraverso un’altra forma di agire, che, mettendo in campo un’altra
tipologia di ragione, diversa da quella tecnico-strumentale, è l’agire
dialogico-discorsivo, il cui orizzonte è quello istituzionale-democratico e in cui la relazione soggetto-soggetto domina la scena rispetto a
quella di soggetto-oggetto.
In tal modo la Kehre comunicativa di Habermas interrompe e riscrive del tutto a suo modo la tradizione della Scuola di Francoforte, con due radicali riorientamenti di prospettiva. Sostituisce infatti
all’economico marxiano il primato del sociologico weberiano, visto
che, come si è detto, pone a base di un sottosistema come quello dell’economia moderna l’astrazione mentale anziché l’astrazione reale.
Ossia l’azione razionale rispetto allo scopo propria dell’imprenditore,
con la pianificazione e organizzazione del processo produttivo che
ne consegue e con il calcolo sul mercato dei beni, del capitale e del
lavoro, al posto di un vettore di socializzazione come il capitale in
quanto tale, che per la natura astratto-quantitativa della sua ricchezza
e l’accumulazione tendenzialmente senza fine che ne deriva, riduce
invece le varie figure dell’imprenditore capitalista (produttivo, finanziario, commerciale) a funzionari della propria necessità impersonale
di crescita, piegando ogni logica specifica di razionalità al vertice
indiscutibile, e in quanto tale irrazionale, della ininterrotta maggiorazione quantitativa di profitto.
E libera, in pari tempo, la democrazia dall’economia, collocandola non più in uno spazio derivato e sovrastrutturale, ma in un luogo
intrinsecamente autonomo, perché istituito su un agire comunicativo, che non produce beni o denaro, ma è volto alla comprensione e
all’intesa linguistica, come mezzo e sistema di coordinamento delle
azioni dei singoli. Con la conseguenza, tra le varie tesi teoriche che
da questa dislocazione radicale derivano, di delegittimare l’istanza
teorico-critica che più specificamente aveva connotato l’attività di
ricerca dell’Istituto di Francoforte durante le due guerre e la filosofia sociale, soprattutto nella versione adorniana, che l’aveva a lungo
alimentata e che aveva assunto la società del capitalismo contemporaneo come totalità totalitaristica in quanto unificata da un medesimo
principio antilluministico e autoritario, sia nella produzione delle cose che in quella delle idee e della coscienze.
6. Un eccesso di comunicazione
Che nella filosofia etico-politica di Honneth una teoria della socializzazione basata sul progredire di forme sempre più approfondite
del “riconoscimento” sbocchi, come sua proposta antropologico-isti-
136
Roberto Finelli
tuzionale più adeguata, nella valorizzazione di un riconoscimento democratico-comunicativo quanto più esteso ed ampio possibile, che si
ponga accanto – e come ulteriore – a un economico strutturato già secondo una sua specifica ma insufficiente modalità di riconoscimento,
mi sembra dunque palesare le difficoltà e le incongruenze, per altro
inevitabili io credo all’inizio di un nuovo cammino, che si danno
tra il modo assai fecondo e originale d’impostare il problema di una
nuova filosofia sociale della postmodernità, qual è quello di Honneth,
e soluzioni congrue all’altezza dei problemi che quella medesima filosofia inaugura e pone.
La possibilità da parte del riconoscimento comunicativo d’intervenire solo dall’esterno a contemperare e a riformare gli esiti del riconoscimento economico – insomma il sostanziale dualismo d’interessi
e di logiche tra agire strumentale e agire comunicativo – continuano a parlare di una attualità della Filosofia del diritto di Hegel, ma
alla rovescia: nel senso negativo dell’impossibilità di riproporre la
sua aporia di fondo, che consiste nella giustapposizione sincronica
di funzioni storiche diacroniche. Del resto tale compromesso storico
è quanto di meglio ha potuto concepire Hegel, per soddisfare il nobile ideale della sua filosofia della storia, perseguito fin dagli scritti
giovanili, di riunificare l’etica antica del comune e del collettivo con
l’autonomia moderna della soggettività individuale e privata. Ma al
prezzo appunto con la Filosofia dello spirito oggettivo delle Grundlinien di sciogliere la processualità dialettica del suo filosofare, scandita nella sua tipologia generale dal succedersi di figure per opposizione-contraddizione, in una compresenza, qui invece, di distinti, il cui
nesso, proprio perché di coesistenza e di distinzione, non è costituito
da opposti in conflitto e in esclusione reciproca tra di loro.
Salvo cadere nell’errore, come è accaduto invece, a mio avviso,
a una larga parte degli interpreti d’ispirazione marxista che hanno
seguito su ciò l’esegesi semplicistica e sbagliata del giovane Marx,
di leggere la Filosofia dello spirito oggettivo, e in particolare il nesso
società civile-Stato politico come un legame, non di distinzione-giustapposizione, bensì di opposizione e contraddizione. Da cui sarebbe
derivata, ancor prima che per ragioni economiche, una spinta e una
facilitazione al superamento della società borghese moderna, minata
appunto al suo interno, come teorizza il Marx del 1843 della Critica
del diritto statuale hegeliano nella sua facile e moralistica costruzione di opposizioni, da un lato dal principio dell’individualismo astratto che reggerebbe la società economica e dall’altro dal principio di
un universalismo parimenti astratto, che reggerebbe lo Stato.
Roberto Finelli
137
Ma quello che più in generale mi preme dire è che una teoria dei
distinti, alla Benedetto Croce, o degli spazi sistemici differenziati,
alla Luhmann, oggi non credo sia più possibile utilizzare o predisporre di contro al darsi di una postmodernità, che nell’era della globalizzazione, assiste all’imporsi di una sovradeterminazione economica che supera ogni differenziazione di ambiti, sia geopolitici che
di funzioni di vita, eccedendo da un lato i confini tradizionali dello
Stato-nazione e dall’altro traducendo dall’extraeconomico all’economico ogni luogo dell’esperire capace finora di un’esistenza che non
si riproducesse attraverso merce e denaro. La funzione identitaria e
omologante dell’economico oggi è così pervasiva, così universalizzante, sia in termini di macrocosmo che di microcosmo, che è vano
pensare al suo contenimento attraverso cerchie concentriche, di valorizzazione qualitativamente eterogenea, nonché di maggiore ampiezza e presunta universalità. È vano cioè pensare secondo una logica
della giustapposizione, giacché la forza universalizzante, e astraente
da ogni differenza, propria oggi dell’economico potrà, verosimilmente, essere discussa e messa in questione da una valorizzazione altra
solo quando quest’ultima sarà in grado di attraversarla, di mediarla
e di risignificarla intrinsecamente. Quando dunque invece di una logica e di una politica della pretesa distinzione, si metterà in campo
un vettore di universalizzazione e di socializzazione capace di essere
ancora più universale e socializzante dell’economico.
Ed è appunto quanto si può provare a progettare: un’antropologia, un’economia e una politica del riconoscimento, a muovere da
ciò che ha significativamente e meritoriamente inaugurato Honneth.
Giacché l’ideale di una comunità il cui principio di socializzazione sia costituito dal «riconoscimento intersoggettivo della specificità
biografica di tutti i soggetti»10 può effettivamente valere, io credo,
come una nuova tipologia e realtà di ricchezza da far valere, come
più universale e insieme più individualizzante, di contro alla ricchezza universale ma astratta dell’economico oggi dominante su scala
globale. Non foss’altro perché un’individualizzazione di tale natura e
ampiezza porterebbe a una tale liberazione di energie che senza dubbio la produttività economica, quanto a creazione e a moltiplicazione
di beni e di servizi, aumenterebbe forse come non mai. La proposta
di Honneth di una socializzazione individualizzante, per la quale ciascuno potrebbe vedere nella realizzazione dell’altro/altri la condizione della propria autorealizzazione, può implicare dunque una nuova
10
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 73.
138
Roberto Finelli
definizione di ricchezza incentrata su un’ecologia antropologica, a
cui, nell’ottica di una generalizzata non-violenza e del rifiuto di ogni
dimensione di dominio, si connette necessariamente il paradigma di
un’ecologia ambientale.
Del resto, come ho già avuto modo di affermare altrove11, la fuoriuscita di una parte privilegiata della popolazione mondiale da una
antropologia della penuria, legata al soddisfacimento di bisogni solo materiali e a un’autorappresentazione ancestrale e primitiva di sè,
consente di mettere all’ordine del giorno, per la prima volta nella storia dell’umanità, un concetto di ricchezza, in qualche modo non più
materiale, istituito appunto sul grado più ampio possibile di autoriconoscimento come di riconoscimento dell’altro da sé. Ma ciò non può
non significare, per quanto s’è fin qui detto, provarsi, in un grande
sforzo di innovazione e di sperimentazione collettivo, a sottrarre la
pienezza del modulo del riconoscimento a un contesto di relazioni
solo dialogico-comunicative, come avviene ancora con Honneth, e
dislocarlo in un contesto fondamentalmente economico-produttivo,
riuscendo ad articolarlo secondo sistemi di relazione uomo-macchine, uomo-uomo, uomo-natura, composizione merceologica dei prodotti che strutturino un nuovo modo di produzione.
Condizione indispensabile di questo nuovo procedere appare perciò ogni sforzo che si dia nel tentativo di riequilibrare l’asimmetria
che in una coniugazione prevalentemente dialogico-comunicativa del
paradigma del riconoscimento si dà, a mio avviso, tra costituzione
interpsichica e costituzione intrapsichica del sé. Dove ciò che progressivamente si fa assente, o viene asimmetricamente neutralizzato
e raffreddato, è il corpo, nella sua complessità di corpo fisico-emozionale, nonché di luogo ultimo e fondativo del senso. Giacché tale si
configura la corporeità almeno a chi, nella continuità della tradizione
ideale che da Spinoza giunge a Freud, ritiene che la mente dell’essere
umano sia sempre mente di un corpo: che abbia cioè il corpo e la sua
cura come oggetto prioritario e fondamentale della sua attività di vita
e di pensiero.
La libertà come assenza d’impedimenti, di rimozioni, di terrore rispetto alla propria interiorità, di cui parla Honneth, quale complicanza indispensabile del concetto postmoderno di libertà, è soprattutto
capacità di ascolto e di valorizzazione della propria corporeità e del
percorso emotivo-rappresentazionale-simbolico che la conduce ad
11 Cfr. R. Finelli, “Il diritto a una prassi futura”, in R. Finelli, F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani,
P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 15-28.
Roberto Finelli
139
essere presente e significante nella mente. La cura di questo versante
relazionale-verticale del proprio Sé, abbiamo detto, è di pari importanza a quella del versante relazionale-orizzontale, visto anche che
l’una non può realmente darsi senza l’altra. Giacché senza fiducia
di sé non c’è confidenza con l’altro, come senza conferma dell’altro
non c’è accettazione di sé.
Riuscire a fare della protezione di tale libertà interiore, e dell’accudimento della corporeità ch’essa implica, un’acquisizione e un valore
irrinunciabile del nostro vivere futuro non solo nell’ambito delle relazioni d’“amore” familiare ma anche nell’organizzazione della scuola
e della trasmissione del sapere, ma soprattutto nell’organizzazione e
nelle modalità del “lavoro” in generale – significa concorrere all’ipotesi di realizzazione della nuova ricchezza di cui si diceva. E solo di
lì, alla luce di una libertà postliberale e postcomunista che coniuga
insieme l’altro da sé e l’altro di sé, tornare a concepire una nuova
filosofia e una nuova pratica dei distinti, che differenzi, secondo diverse proporzioni di quel criterio, spazi privati e pubblici, scolastici
e lavorativi, formativi e di tempo libero: perché la differenziazione e
l’autonomia dei vari ambiti d’esperienza nell’ambito di una cornice
unitaria di vita è la condizione di ogni assetto sociale che non si voglia indifferenziato e totalitaristico secondo un unico principio, quali
sono stati nel moderno – certo secondo valori, progetti e destinazioni
assai diverse tra loro – rispettivamente, il principio liberale e il principio comunista.
FRANCESCA R. RECCHIA LUCIANI
POST-FILOSOFIA DEI DIRITTI UMANI:
IL CORPO E LE DINAMICHE
DEL RICONOSCIMENTO
Ascoltate, fratelli, la voce del corpo.
Esso parla del senso della terra.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra.
1. “Dare corpo” ai diritti
Quale contributo sia oggi in grado di assicurare la filosofia al vivace dibattito teorico sulla legittimità, validità e applicabilità dei diritti
umani, e in che termini il discorso filosofico possa provare ad affrontare la questione dei diritti – soprattutto delle loro continue, ripetute,
quotidiane violazioni in ogni angolo del globo – sono i temi oggetto
delle riflessioni che andrò svolgendo in queste pagine. Ciò implica fare i conti con la questione fondamentale dell’età contemporanea, con
quella che è oggi la domanda filosofica par excellence, poiché domandarsi nel nostro tempo cosa sono i diritti e come sia possibile dar loro
“corpo” – farli passare cioè dallo stato gassoso della loro predicazione, proclamazione, dichiarazione a quello solido della loro applicazione e messa in pratica – è ciò che Habermas, con Foucault, definirebbe
«scagliare una freccia al cuore del presente».1 Non si tratta di cedere
alla tentazione di cavalcare l’onda di una philosophy of current events
(l’espressione è di Vincent Descombes), quanto piuttosto di reagire
a certe risibili conclusioni tratte, per esempio, all’indomani dell’11
settembre dagli zelanti oppositori delle cosiddette “filosofie postmoderne”. Essi – talvolta tradendo una certa frustrazione, probabilmente determinata dal successo di autori come Rorty, Vattimo, Derrida
e dei loro epigoni – hanno affastellato, e spesso in modo incongruo,
sotto l’etichetta di “postmodernismo” punti di vista eterogenei di na1 J. Habermas, Una freccia scagliata al cuore del presente: a proposito della lezione di M.
Foucault su “Was ist Aufklärung?” di Kant, in «Il Centauro», nn. 11-12, 1984, pp. 237-42.
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Francesca R. Recchia Luciani
tura non solo filosofica, ma anche etica, politica, sociologica, tutti accomunati dal medesimo relativismo, antifondazionalismo e “debolismo”, decretandone poi la tragica morte che sarebbe avvenuta sotto
le macerie delle Twin Towers.2 Questa interpretazione del rapporto tra
teoria e storia, tra comprensione ermeneutica ed eventi non conferma
la necessità, come vorrebbero questi Platones redivivi (così li definisce Vattimo), di riabilitare un rassicurante pensiero “forte” della corrispondenza tra la verità e la «natura intrinseca della realtà» (Rorty),
ma piuttosto induce ad una disamina e ad un ripensamento del nostro
presente che non è liquidabile con soluzioni polemiche o prêt-à-porter. L’interpretazione critica e la ricerca di una possibile risposta alle
domande del proprio tempo è a ben guardare il solo assolvimento convincente del compito del filosofo. Soltanto quando «il filosofo diviene
il contemporaneo» provandosi «a decifrare il presente»3, osando una
lettura «sagittale» della propria attualità, egli celebra degnamente quel
ruolo sociale e quella funzione pubblica che possono attribuire un significato al suo pensare. Se il senso stesso della filosofia di sicuro non
si esaurisce in un solipsistico interrogarsi sull’età presente, tuttavia
è in questa interrogazione e nella riflessione che questa innesca che
essa trova il suo compimento, soprattutto quando giunge ad additare
un percorso, per quanto impervio o accidentato, che alle domande del
tempo sappia dare se non lo spessore di una prassi almeno la speranza
di un’utopia.
Allora, la filosofia è a tutt’oggi, come per Hegel, il «proprio tempo appreso col pensiero»4, anche nell’età della globalizzazione, dell’occidentalizzazione5 a tappe forzate del mondo. Leggere il mondo
globalizzato non è facile, e di fronte ad un fenomeno complesso non
ci si può accontentare di semplicistiche alternative tra le interpretazioni apologetiche e votate all’ottimismo, e quelle critiche e orientate al
2 In Italia questo acceso dibattito si è svolto su tre numeri di «Reset»: n. 84, luglio-agosto 2004;
n. 85, settembre-ottobre 2004; n. 86, novembre-dicembre 2004.
3 J. Habermas, op. cit., p. 239.
4 È la celebre espressione utilizzata nella prefazione alla Filosofia del diritto, che compare accanto a frasi come: «la filosofia è la comprensione del presente e del reale»; «ogni uomo è figlio
del proprio tempo».
5 Che l’“occidentalizzazione” universale sia il vero volto della globalizzazione è, per esempio,
la tesi di S. Latouche nel suo L’occidentalizzazione del mondo, trad. it. di A. Salsano, Bollati
Boringhieri, Torino 1992; in gran parte condivisa, nelle linee essenziali, da tutti coloro che stigmatizzano l’evento stesso della globalizzazione, tra i quali possiamo annoverare anche il Nobel
J. E. Stiglitz, che nel suo La globalizzazione e i suoi oppositori, trad. it. di D. Cavallini, Einaudi,
Torino 2002, sostiene che la globalizzazione del mercato promossa dalle politiche economiche
delle istituzioni internazionali come il FMI o il WTO produce di fatto una penalizzazione e un
progressivo impoverimento dei paesi in via di sviluppo e in generale di tutte le classi disagiate
del globo.
Francesca R. Recchia Luciani
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pessimismo.6 Gli oppositori della globalizzazione, come Hardt, Negri
o Chomsky, vedono in essa soltanto l’illimitata espansione neoliberista del mercato mondiale guidata dalle multinazionali statunitensi, attraverso lo sfruttamento più o meno brutale della manodopera
terzo- e quartomondista, e la decifrano in chiave neoimperialista e
neoegemonica, stigmatizzando come null’altro che l’alibi per questa
rinnovata forma di colonialismo economico quella che definiscono,
con un certo disprezzo, la “retorica dei diritti”. E, d’altra parte, risulta
francamente arduo condividere il cieco (o interessato) entusiasmo di
coloro che invece ritengono che con la liberalizzazione del commercio mondiale prodotta dal globalismo economico-capitalista si realizzerà, con un automatismo che ricorda non a caso la “mano invisibile”
di smithiana memoria, un’autentica “globalizzazione dei diritti”.7 Di
certo, da qualunque versante lo si guardi, si tratta di un complesso
e articolato fenomeno planetario che, accanto a tratti spiccatamente
economicistici e mercantilistici, contiene, almeno in nuce, anche un
potenziale evento dalla forte carica positiva ed emancipativa. Ovvero,
anche se non si può parlare di una vera “globalizzazione dei diritti”,
di certo si assiste al lento ma progressivo animarsi di un’attenzione
verso queste questioni, che procede di pari passo con la crescita e la
diffusione di una conoscenza relativa ai diritti che potrebbe rivelarsi – il che non equivale a dire che sarà – gravida di conseguenze.8
Un effetto, per esempio, essa lo ha già prodotto: i diritti umani sono
divenuti, proprio per via della globalizzazione, una priorità assoluta
non solo nell’agenda politica delle organizzazioni sopranazionali (oltre che, talvolta ipocritamente, talaltra no, di alcuni leader mondiali),
ma anche in molti ambiti della discussione teorica contemporanea
filosofica, sociologica e politica. Di certo siamo ancora ben lungi dal
veder realizzata una “civiltà dei diritti globali”, ma se l’utopia che
essa incarna può aspirare a divenire per l’umanità globale l’equivalente contemporaneo di quel “principio-speranza” che Ernst Bloch
6 Nella ormai vastissima letteratura su questi temi va segnalato, per la sua centralità nella
discussione che qui si affronta, ma soprattutto per le interpretazioni pluralistiche che contiene, il
volume di N. Chomsky, V. Shiva, J.E. Stiglitz e altri, La debolezza del più forte. Globalizzazione
e diritti umani, trad. it. di G. Amatasi, Mondadori, Milano 2004.
7 Su queste due letture contrastanti relative al rapporto tra globalizzazione e diritti, si veda
l’Introduzione di M. J. Gibney a La debolezza del più forte, cit., pp. 7-22.
8 Per esempio, è proprio Gibney, nell’Introduzione citata, a sollevare il caso Cina, nella quale i
diritti si fanno strada attraverso la TV che trasmette telefilm americani. A questo punto sarà forse
opportuno chiedersi: con i processi sempre più rapidi di de-localizzazione, che tanto terrorizzano
le economie occidentali, quanto tempo ancora occorrerà agli operai cinesi ormai massicciamente
“globalizzati” per rivendicare i propri diritti di lavoratori? Anche in questo caso si tratta ovviamente di processi di “diffusione delle conoscenze”, potremmo anzi parlare di un proficuo “contagio dei diritti e della democrazia”.
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Francesca R. Recchia Luciani
aveva additato alla sua generazione, essa non potrà che fondarsi su
un ampliamento e un radicamento ovunque nel mondo di una cultura
dei diritti umani.9 Una cultura mirante a promuovere, alimentare e
diffondere una sensibilità nuova verso il rispetto della “dignità” degli esseri umani (indipendentemente dalle loro connotazioni etniche,
sociali, culturali o di genere), anche laddove questo non è considerato un valore fondante della comunità, né tanto meno il criterio di
valutazione della “natura umana” in quanto tale. Il tipo peculiare di
sensibilità di cui questa cultura è depositaria, per la sua stessa natura, può propagarsi e attecchire solo ed esclusivamente quando a
veicolarla sono strumenti non coercitivi e politiche non repressive.
Il compito della filosofia – ma, detto per inciso, anche della teoria
politica – diviene allora quello di ripensare i diritti (e, necessariamente, i correlativi doveri), sollevando su di essi uno sguardo inedito
e disinibito che, per la complessità del suo oggetto, non potrà esimersi dall’essere uno sguardo “duplice”, in grado cioè di procedere sul
doppio binario teoria/prassi, ovvero di fornire, con gli strumenti della
riflessione e del pensiero, risposte concrete alle domande e ai bisogni
veri di chi si vede i propri diritti negati, offesi, umiliati, violati. Un
ripensamento che ottenga il duplice effetto, da un lato, di sottrarre i
diritti alle tentazioni metafisico-trascendentali assolutizzanti, dall’altro, di compiere l’audace salto qualitativo che conduca da un puro e
troppo semplice predicare i diritti ad una prassi, ben più faticosa e
complessa, incentrata sul praticare i diritti. Salto che sarà consentito
solo dal mettersi in moto di un circolo virtuoso tra potenza e atto in
relazione ai diritti, capace di tradurre la teoresi dei diritti applicabili e
praticabili in prassi di diritti applicati e praticati. Movimento che inevitabilmente cattura, coinvolge ed implica l’insopprimibile bivalenza
diritti/doveri, per la quale anche i secondi, perduta definitivamente
l’aura di principi etici astratti divengono concreti obblighi verso gli
altri esseri umani, tutti partecipi della comunità umana in generale.10
Dappertutto si avverte, con l’urgenza del tempo presente, che “dichiarare” i diritti non può più essere sufficiente se essi non trovano
il modo di divenire effettivi, se restano solo sulla carta, o, letteralmente, soltanto sulle varie “carte” che le istituzioni sopranazionali
9 Rorty discute l’idea di una «cultura dei diritti umani», riprendendo questa espressione utilizzata dal filosofo argentino Eduardo Rabossi per contrastare la concezione ispirata dal «fondazionalismo dei diritti umani»; cfr. R. Rorty, “Diritti umani, razionalità e sentimento”, in Verità e
progresso. Scritti filosofici, trad. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 157-74.
10 I. Kant, nella Metafisica dei costumi (trad. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 19913, p.
303), scrive: «L’uomo dunque non può avere dei doveri verso altri esseri, fuorché verso l’uomo
[…] e i suoi pretesi doveri verso altri esseri sono soltanto dei doveri verso se stesso».
Francesca R. Recchia Luciani
145
utilizzano spesso proprio per autofondarsi e per legittimarsi, come è
il caso della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del
2000, o come è accaduto nel 1948, quando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha svolto il ruolo decisivo di dar vita,
funzione, legittimità all’ONU.11 Ciò, però, impone anche una svolta
teoretica, ovvero un mutamento radicale delle forme della riflessione e del ripensamento filosofico sul tema dei diritti, poiché l’utopia
di una prassi che metta al centro dignità della persona e cultura dei
diritti umani necessita di un approccio innovativo e di un metodo
originale. A questo scopo si deve immaginare una “post-filosofia dei
diritti umani”12, edificata su un’epistemologia dell’umano attraverso la quale venga riaffermata l’imprescindibilità della dignità individuale e al contempo avvalorata una ri-fondazione anti-metafisica e
pragmatica dei diritti di ogni singolo essere umano, in grado di garantirne una definitiva e autonoma legittimazione. Per riprendere qui
una distinzione foucaultiana, nell’irresistibile dilagare dei processi di
globalizzazione non possiamo che situarci, rispetto alla questione dei
diritti umani, dalla parte di un’«ontologia del presente», opponendoci
con forza ad ogni arrogante e inattuale «analitica della verità»13, le
cui pretese metafisiche di autorevolezza fondativa crollano di fronte
alle medesime pretese avanzate dalle altre innumerevoli, e altrettanto
dispotiche, “metafisiche della verità”, offerte oggi dal prodigo e ben
fornito “supermarket delle certezze”.14
I fenomeni di secolarizzazione e “disincantamento”, profeticamente anticipati dalla teoria maxweberiana della “razionalizzazione
del mondo”, che hanno disegnato con la loro prepotente affermazione il profilo del passaggio dalla modernità alla post-modernità, sem11 Se c’è una valenza performativa del linguaggio non è tuttavia del tutto ininfluente che il Primo articolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’EU reciti: «La dignità umana è inviolabile.
Essa deve essere rispettata e tutelata», parallelamente al Primo articolo della Dichiarazione del
1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».
12 Si parla di post- e non di metafilosofia in questo contesto poiché non si intende affatto
valicare i limiti del discorso filosofico in quanto tale, bensì si aspira a teorizzare dal suo interno
dando però per acquisita sia la rinuncia definitiva ad ogni progetto fondazionalista, sia l’abbandono irrevocabile della “grande narrazione” metafisica tipica della tradizione occidentale. Questa è
l’idea che anima anche il mio “Pluriversalismo dei diritti e dei doveri”, contenuto in R. Finelli, F.
Fistetti, F. R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 77-93, al quale mi permetto di rinviare.
13 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? Che cos’è la rivoluzione?, in «Il Centauro», nn. 1112, 1984, pp. 227-36.
14 Questa espressione riprende la critica – che tuttavia non si intende assolutamente condividere
– mossa dai razionalisti all’epistemologia kuhniana e feyerabendiana, incentrata sulla “pluralità dei paradigmi” e sull’“anarchismo epistemologico”, che a loro parere avrebbe trasformato la
scienza nel «supermercato» delle teorie scientifiche. Si veda, per esempio, J. M. Preston, Science
as Supermarket: “Post-Modern” Themes in Paul Feyerabend’s Later Philosophy of Science, in
«Studies in History and Philosophy of Science», 29, 1998.
146
Francesca R. Recchia Luciani
brano oggi del tutto rimossi. E l’artefice di questa rimozione è proprio la globalizzazione, sebbene essa sia connotata da un’intrinseca
“doppiezza”. Infatti, su un versante essa mostra i tratti marcati di un
orientamento spiccatamente “razionalizzante” rispetto alla complessità del reale: per esempio, uno tra i tanti esempi di questa luhmanniana “riduzione della complessità” in chiave razionalistica operata
dall’espansione del globalismo liberistico-capitalista è la capillare
diffusione mondiale delle logiche astratte e formalistiche, puramente
calcolanti, a livello dell’economia di mercato mondiale; così come
un altro esempio sta nell’accelerazione, nell’intensificazione e nel simultaneo progressivo inaridimento dei processi comunicativi globali.
Ma, sul versante opposto, la globalizzazione si sta rivelando nei fatti
anche un evento caratterizzato da forme vistosamente dogmatiche di
“ritorno al sacro”, capaci addirittura di innescare nuove guerre di religione e nuove contrapposizioni confessionali travestite da “conflitti
tra civiltà” (è la nota tesi di Samuel Huntington). Ciò dimostra con
chiarezza che una fondazione e una giustificazione dei diritti su basi
teologico-metafisiche (oppure idealistico-trascendentali) risulterebbe
oggi non solo e non tanto inefficace, quanto soprattutto finirebbe per
alimentare l’incendio, già pericolosamente esteso e minaccioso, dello
scontro tra fedi, della guerra tra credenze apparentemente contrapposte, ma in realtà accomunate solo dall’appello ad una acritica adesione e, in definitiva, ad una cieca obbedienza a dogmi e precetti. Con
buona pace degli antirelativisti radicali, solo un pluralismo per così
dire “politeista” può evitare il conflitto cultural-religioso globale.
Favorire un radicamento dei diritti nell’esistenza reale delle persone è divenuto oggi un compito eminentemente filosofico, “dare
corpo” ai diritti un’esigenza vitale della filosofia del tempo presente. Ciò può apparire prima facie relativamente semplice nei luoghi e
nelle comunità in cui la storia ha istituito la democrazia come forma
dominante della vita sociale e politica, favorendo al tempo stesso la
diffusione del vocabolario e della grammatica dei diritti, divenuti così il linguaggio comune e condiviso da quelle comunità. Tuttavia, le
difficoltà intrinseche alla quotidianità della convivenza multietnica e
multiculturale nei paesi occidentali sembrano sempre più spesso suggerire che, anche laddove sono note e collaudate le regole del gioco
democratico e della pratica corrente della giustizia, esse stentano ad
applicarsi ai gruppi minoritari o “subalterni”, e non per una sorta di
fatalismo della legge della maggioranza, quanto piuttosto per mancanza di corrispondenti regole d’uso del “riconoscimento” sociale.
Naturalmente, è proporzionalmente ancora più difficile promuovere
Francesca R. Recchia Luciani
147
i diritti in quelle culture e in quelle società in cui storie, tradizioni
e sistemi di giustizia si sono sviluppati in altre direzioni e che, pertanto, fanno fatica ad accogliere queste nozioni – e soprattutto ad
accettarne i comportamenti conseguenti –, di sovente avvertite come
un invadente corpo estraneo rispetto alle consuetudini e alle norme
che regolano da sempre la loro atavica vita sociale. Occorre prendere
atto del fatto che ciò che appare del tutto naturale a noi, che abitiamo
in questa parte del pianeta, e che siamo orgogliosamente inclini a
considerarci detentori naturali dei diritti almeno dal 1789, può non
esserlo affatto in molte altre aree del globo terraqueo.
La post-filosofia dei diritti umani, allora, se vuole provare a dare una fondazione solida e resistente alla possibilità di garantire
l’«adeguatezza dei diritti umani come standard trasversale in tutte le
culture»15 deve, sin da principio, sottrarsi alle insidie che il terreno
sabbioso e friabile delle metafisiche confliggenti finisce per offrirle.
E nell’età in cui sono saltati tutti i parametri di riferimento che da
sempre hanno ancorato i diritti agli esseri umani e viceversa (in particolare, è venuta meno la stessa nozione classica di “cittadinanza”
su cui lo Stato-nazione del passato ha costruito le sue fortune e le
sue tragedie), la post-filosofia dei diritti umani può attingere esclusivamente ad una concezione “pluriversale” del corpo16, inteso come
solo possibile “universale plurale” in grado di costituire quel suolo
roccioso e stabile che necessita ai diritti umani per venire riferiti e
applicati a tutti coloro che appartengono all’umanità. Infatti, essereumano è ab origine essere-corpo.
Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza è corporea e che il mio corpo
è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà carnale, i tratti di
questo viso, il senso di questa parola portata da questa voce non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto, ma sono io, così come il mio
volto non è un’immagine di me, ma sono io stesso. […] non esiste un uomo al di
fuori del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso nella realizzazione della sua
esistenza.17
Tutti ci riconosciamo nel nostro corpo, e il nostro corpo è il mezzo attraverso cui gli altri ci riconoscono: esso è la cifra, il segno
distintivo del nostro appartenere alla comunità umana. “Dare corpo
ai diritti”, o meglio ancora, consentire ai diritti di “prendere corpo”,
M. J. Gibney, op. cit., p. 17.
L’espressione “pluriversale”, che ho già utilizzato in “Pluriversalismo dei diritti e dei doveri”, cit., è degli “antiutilitaristi” del MAUSS, Serge Latouche e Alain Caillé.
17 U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 200514, pp. 15-16.
15
16
148
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corrisponde, dunque, per una post-filosofia dei diritti, e dei paralleli doveri, umani a interrogarsi sull’umano, a indicare e specificare
le relazioni che intercorrono tra l’idea di “umanità” e la sua natura
essenzialmente corporea, il suo essere a priori qualcosa che viene a
incarnarsi dentro una materialità irriducibile, poiché il prius di ogni
essere umano è il suo costitutivo, originario consistere di “carne e
sangue”. Condividendo con molta parte della filosofia contemporanea il rifiuto verso una «pretesa natura umana astorica»18 – e quindi
metafisicamente degna di vedersi riconosciuto uno statuto trascendentale –, dobbiamo passare a tematizzare la natura corporea dell’umano, operando un’energica deviazione del baricentro dell’analisi
verso la dimensione materiale dell’esistenza umana: la “natura umana” sarà allora null’altro che l’essere-nel-mondo del corpo individuale. L’aggettivo “umani”, che si affianca ai diritti nell’efficace sintagma che introduce un numero ormai assai cospicuo di “dichiarazioni”
e documenti ufficiali, va riportato ad un uso che potremmo definire
wittgensteinianamente “terra terra”, proprio nel senso del rifiuto di
ogni sua accezione idealistica o metafisica. L’efficacia dei diritti può
essere misurata soltanto sul dato imprescindibile costituito dal rispetto per l’integrità del corpo: su questa soglia occorre fermarsi perché
i diritti, rafforzati da una riflessione post-filosofica e da una pratica
etica che aspirano ad universalizzarli, possano, per l’appunto, prendere materialmente e storicamente “corpo”.
2. Il corpo umano “deumanizzato”
Rorty mette efficacemente a fuoco il tema della “deumanizzazione”, sempre implicita nelle situazioni in cui i diritti umani vengono
violati: in casi del genere, ciò che immediatamente colpisce è lo stabilirsi di una «differenza fra uomini veri e pseudouomini», tra esseri che hanno sembianze umane e appartengono al genere umano ed
esseri che, pur avendo sembianze umane, sono in effetti non umani. Coloro che commettono violenze contro un nemico tracciano una
netta linea di demarcazione tra se stessi, che si autorappresentano
come «casi paradigmatici di umanità», e quelli ai quali si contrappongono, concepiti come «animali che girano per il mondo in forma
umanoide».19 Ciò che qui viene implicitamente suggerito è che ogni
R. Rorty, op. cit., p. 162.
pp. 157-58. A ragione, Rorty precisa nelle pagine successive che «la distinzione tra umano e animale è solo uno dei tre modi principali in cui noi, umani paradigmatici, ci differenziamo
dai casi dubbi»; il secondo «invoca la differenza tra adulti e bambini», mentre «essere un non
maschio è il terzo modo principale di essere non umani», in quanto – come afferma Catharine
18
19 Ivi,
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149
qualvolta si mette in moto la tragica dinamica amico/nemico quel
che viene sempre, e in modo ineluttabile, a istituirsi artificiosamente
è qualcosa che, per usare un’espressione di Simone Weil20, potremmo definire una vera e propria “incommensurabilità” tra un gruppo
di esseri umani e “gli altri”, non umani o non più umani. Questo
accade a causa della spirale di ostilità, di inimicizia e di odio che
il «terrificante potere della forza» è in grado di attivare. Qui Weil
intende per “incommensurabilità” quella differenza ontologica tra gli
esseri umani e gli oggetti che la «forza», veicolo di morte, è in grado di cancellare tramutando i viventi in cadaveri, ovvero in «cose».
Il concetto di “incommensurabilità” le serve per distinguere il vivo
dal morto, poiché chi è privato della vita è assimilabile in tutto e per
tutto ad una “cosa”, ad un oggetto inanimato, il cui statuto ontologico
lo rende incommensurabilmente dissimile dal vivo. Ora, applicata al
contesto in esame, questa idea acquista quasi un senso profetico, poiché la tragedia dell’“incommensurabilità” tra umano e pseudo-umano
è che essa finisce spesso proprio per riaccendere le macchine di sterminio, riattivare le catene di montaggio dell’industria della morte che
produce, appunto, cadaveri.21
«Quando le rivalità tribali e nazionali diventano serie, chi appartiene a una tribù o nazione rivale non è più umano».22 A partire da
questa atroce constatazione, Rorty introduce una critica radicale alla filosofia morale classica, quella dei “fondazionalisti” come Platone e Kant soprattutto. Essa, infatti, imbozzolata dentro al proprio
rigido razionalismo, ha mitizzato il valore morale di una presunta
“razionalità”23 che avrebbe dovuto costituire il modello assiologico
universale nel quale tutti si sarebbero potuti facilmente riconoscere, e in base al quale ognuno sarebbe entrato volentieri a far parte
MacKinnon – «per la maggioranza degli uomini l’essere donna non è una forma di umanità». Naturalmente, la lettura della discriminazione femminile attraverso l’idea che l’essere donne significa di fatto appartenere paradigmaticamente ad una condizione di non-umanità o di semi-umanità
viene drammaticamente confermata da situazioni come quella pakistana, nella quale, per esempio,
la testimonianza di una donna resa in tribunale viene considerata la metà di quella di un uomo.
20 Cfr. S. Weil, “L’Iliade, poema della forza”, in La Grecia e le intuizioni precristiane, trad. it.
di C. Campo, Borla, Roma 1984, pp. 9-41.
21 Sui campi di sterminio come «industrie di morte» e sulla «terrificante normalità umana» del
male incarnato dagli esecutori dei programmi di sterminio restano insuperate le considerazioni di
Hannah Arendt contenute sia in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P.
Bernardini, Feltrinelli, Milano 1999 sia in L’immagine dell’inferno: scritti sul totalitarismo, trad.
it. a cura di F. Fistetti, Editori Riuniti, Roma 2001. Una fondamentale raccolta di testimonianze
su questa spaventosa “normalità del male” si trova in D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di
Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, trad. it. di E. Basaglia, Mondadori, Milano 1997.
22 R. Rorty, op. cit., p. 167.
23 Sulla relazione tra le forme plurali di razionalità e le eterogenee costellazioni culturali reali,
si veda di Rorty, “Razionalità e differenza culturale”, in Verità e progresso, cit., pp. 175-89.
150
Francesca R. Recchia Luciani
di un’unica comunità morale di agenti razionali. Questa ingannevole
mitologia ha di fatto condotto la filosofia morale classica a trascurare
il caso, assai diffuso, e molto più problematico anche dal punto di
vista filosofico, «della persona che tratta in modo irreprensibile un
gruppo abbastanza ridotto di bipedi implumi ma rimane indifferente
alle sofferenze di quelli che non appartengono a questo gruppo, e che
considera pseudoumani».24 A parte il fatto storicamente verificabile,
e non irrilevante sul piano morale, che in questa tremenda condizione
(tremenda sia per le vittime che per i carnefici) sono venute a trovarsi
nel corso dei secoli moltitudini di persone appartenenti alle più svariate tipologie etniche, sociali, culturali, religiose e così via, quel che
risulta estremamente problematico da risolvere attraverso i paradigmi
classici della filosofia morale è che, eccetto quelle che appartengono
alla «cultura europea postilluministica», la maggioranza delle persone è «del tutto incapace di comprendere perché l’appartenenza a
una specie biologica dovrebbe bastare per appartenere anche a una
comunità morale». Cosa resa ancora più complicata dal fatto che esse
«vivono in un mondo nel quale sarebbe troppo rischioso (e spesso
pericoloso fino alla follia) permettere al senso della comunità morale
di estendersi oltre la famiglia, il clan o la tribù».25
Quel riferimento alla condizione di rischio e pericolo che caratterizza il mondo illustrato nella rappresentazione che traspare in controluce dalle considerazioni rortyane ne mette in risalto la notevole
somiglianza (atemporale e trans-storica) con quello raffigurato dall’iconografia hobbesiana relativa allo “stato di natura”. In esso, come
è noto, vige la condizione anomica di comunità travolte dal bellum
omnia contra omnes, nelle quali l’insicurezza dei singoli si concretizza nella percezione di rapporti umani e di relazioni interpersonali
caratterizzate dalla paura che suscita la malvagità naturale degli uomini e che Hobbes efficacemente descrive con l’espressione homo
homini lupus.26 Naturalmente, in una situazione in cui il sentimento
dominante tra i membri appartenenti ad una comunità è la costanza
della paura della morte e l’istinto più avvertito è quello all’autoconservazione diviene difficile concepire le relazioni umane in termini di
amicizia e concordia, dunque, dobbiamo convenire con Rorty quando
sostiene che ciò di cui sono deprivati coloro che si trovano in un cliR. Rorty, “Diritti umani, razionalità e sentimento”, in Verità e progresso, cit., p. 166.
Ivi, p. 167.
26 Vi è più di un parallelismo tra la situazione descritta da Hobbes e quella attuale, e per di più
con l’aggravante che non sembra una soluzione quella di invocare la nascita di un super-Stato,
dotato di sovranità sopranazionale, in grado di risolvere con un contratto sociale le innumerevoli
difficoltà della convivenza tra i membri di quella che Rabossi definisce «comunità planetaria».
24
25
Francesca R. Recchia Luciani
151
ma di violenza (sia quando la subiscono sia quando la infliggono, va
aggiunto) non sono, come vorrebbero i filosofi morali, la «razionalità», la «verità», la «conoscenza morale», ma piuttosto la «sicurezza»
e la «simpatia». «Per “sicurezza” intendo una condizione di vita abbastanza lontana dal rischio da rendere inessenziale, per il rispetto di
sé e il senso del proprio valore, il fatto di essere diverso dagli altri».27
L’altrui diversità è un valore, allora, solo ed esclusivamente quando
non viene percepita come una fonte di pericolo o una minaccia per
se stessi. E soltanto in circostanze che consentono questa comprensione ben disposta dell’alterità è possibile avvertire quella “simpatia”
umana che rende vivibili le comunità e gratificante per i singoli la
condivisione sociale. All’opposto, la paura e l’insicurezza sono proprio quelle condizioni che concretizzano la possibilità della morte e
che quindi proiettano immediatamente sui soggetti la percezione della vulnerabilità e della fragilità del proprio corpo, deprivandolo della
sua funzione principale, ovvero di definire, delimitare e consolidare
l’identità personale, la percezione di sé come soggetto. Essere consapevoli del fatto che il corpo è vulnerabile ed esposto continuamente
alla morte è qualcosa di connaturato alla nostra natura di esseri umani, sia in quanto singoli individui28, sia – come a ragione sottolinea
la Butler – in quanto esseri relazionali e interdipendenti, cioè animali
sociali e politici:
[…] ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo – in quanto luogo del desiderio e della vulnerabilità fisica,
luogo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e assertiva. La perdita e la
vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio
di una violenza che da questa esposizione può derivare.
[…] Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica. Il mio corpo,
socialmente strutturato nella sfera pubblica, è e non è mio.29
R. Rorty, “Diritti umani, razionalità e sentimento”, cit., pp. 169-70.
«Il corpo è un oggetto diverso da tutti gli altri, giacché è un oggetto che contiene il soggetto. Noi stiamo dentro al nostro corpo, ne abbiamo coscienza, lo percepiamo come un oggetto
d’indagine, ma naturalmente non possiamo mai separarci da esso. Inoltre, nel corpo sentiamo
costantemente il lento lavorio della morte. È dunque un oggetto la cui fine è sempre annunciata».
Sono parole di Alain Corbin pronunciate durante un’intervista rilasciata a F. Gambaro della «Repubblica» (25 gennaio 2005) in occasione della pubblicazione in Francia dei primi due volumi di
una Histoire du corps, curata dallo stesso Corbin con G. Vigarello e J. J. Courtine.
29 J. Butler, “Violenza, lutto, politica”, in Vite precarie, trad. it. a cura di O. Guaraldo, Meltemi,
Roma 2004, p. 40 e p. 46.
27
28
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Ma la constatazione che la fragilità e la precarietà che connotano
la nostra dimensione corporea, tanto a livello individuale che intersoggettivo, contraddistinguono in ugual maniera tutti coloro che sono
simili a noi, troppo spesso separa piuttosto che unire. Infatti, lungi
dal condurre all’identificazione della stessa dimensione corporea come del tratto omogeneo fortemente unificante del genere umano, e
quindi del terreno morale comune su cui costruire una convivenza
pacifica30, converte la consapevolezza della vulnerabilità e mortalità
umana nell’arma dell’annientamento dell’altrui differenza attraverso l’annichilimento degli altri corpi. Proprio perché in quanto esseri umani, appartenenti alla medesima specie animale, condividiamo
– oltre a una certa struttura corporea, una precisa anatomia, una comune fisiologia e determinate note caratteristiche fisico-biologiche –,
l’autocoscienza della precarietà della nostra vita, il nostro corpo e il
corpo dell’altro possono tramutarsi nel luogo della deumanizzazione.
Per esemplificare questo passaggio, questa fatale trasformazione
tramite la quale si riproduce il divenire incommensurabile della distanza tra l’umano e il non umano basterà soffermarsi brevemente
sul tema della tortura, e in particolare su quella fisica, rivolta contro
il corpo, poiché se è gravissimo ferire e violare l’identità culturale e
religiosa di un individuo, è altrettanto atroce frantumarne l’essenza.
Lo scopo della tortura (indipendentemente dall’infinita varietà dei
metodi, sui quali da millenni la fantasia umana si è esercitata con
illimitato successo) è esattamente quello di degradare e disumanizzare la vittima, la quale diventa pseudo-umana o non umana sin dal
momento stesso in cui si decide di sottoporla a tortura, inaugurando
contro la sua volontà una nuova storia irreparabile che non può non
appartenerle.31 Quel che lede il corpo danneggia irreparabilmente
ciò che di più intimo appartiene alla persona danneggiata, ovvero la
30 È la strada indicata da B. S. Turner in “Cittadinanza culturale, diritti umani e vulnerabilità:
verso una teoria dell’etica del riconoscimento critico”, trad. it. di F. R. Recchia Luciani in R.
Finelli, F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri,
cit., pp. 285-304. In questo bel saggio egli segnala «l’idea di vulnerabilità umana come paradigma
ontologico per sviluppare una difesa universalistica dei diritti umani» (ivi, p. 285).
31 Monica Serrano in un breve ma denso saggio intitolato Dalla parte delle vittime, il corpo violato, nel quale analizza il tema della tortura attraverso una “fenomenologia del corporeo”
attinta da alcune pagine di Husserl e di Heidegger, si muove su una traiettoria che incrocia le
riflessioni che qui si espongono in molti passaggi. Per esempio scrive: «A sdoppiare, a frantumare
l’identità della persona nella tortura gioca un ruolo determinante la manipolazione del corpo. Il
subire violenze fisiche, umiliazioni disumane, deprivazioni sensoriali, porta a uno scardinamento
cognitivo-affettivo dell’identità personale, a una frattura del sé […]» (in «Alternative», n. 7, gennaio-febbraio 2005). Sulla tortura e in generale sulla sofferenza fisica si veda il densissimo libro
di E. Scarry, La sofferenza del corpo: la distruzione e la costruzione del mondo, trad. it. di G.
Bettini, il Mulino, Bologna 1990.
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sua personalità, la sua identità di essere umano, perché ne cancella
l’umanità, realizza l’elusione del suo io. Nondimeno, però, anche se
nell’assoluta assenza di consapevolezza e di autocoscienza, pure chi
esercita la tortura, a qualunque specie di aguzzino appartenga, subisce
un similare processo di deumanizzazione, per via di quel terrificante
potere di avvilimento e degradazione che ha la violenza, la forza, e
che agisce indipendentemente dal fatto di ricoprire il ruolo di vittima
o di carnefice. Infatti, come ci ricorda ancora Simone Weil: «Colpire
e essere colpito è un’unica e medesima impurità».32 Il corpo del torturatore, infatti, ha anch’esso subito una trasformazione a causa della
sua stessa crudeltà, e così egli stesso è stato deumanizzato, venendo
di fatto degradato a strumento di tortura, nella stessa maniera in cui
la vittima è stata deumanizzata dal dolore, dall’abiezione, dall’umiliazione che le sono stati inflitti. Certamente è l’inerme torturato che
subisce la profanazione del corpo da parte del suo persecutore, ma,
in qualche modo, l’uno e l’altro soggiacciono ad un processo di alienazione da se stessi, essendo stati espropriati della propria umanità
nell’atto stesso in cui il loro essere-corpo non coincide più con il
loro essere-umani. Da quel momento e per sempre il loro è un corpo
disabitato. Si tratta di un caso estremo di mancato riconoscimento,
di un vero e proprio misconoscimento: nel rapporto vittima/carnefice
si tocca con mano il fallimento della capacità tutta umana di riconoscere l’altro come appartenente alla nostra stessa specie, si interrompe definitivamente quel processo di identificazione con l’altro che ci
rende umani e si dà fondo al sentimento che per il mondo classico
connotava l’umano in quanto tale, ovvero la pietas, venendo così a
consumarsi completamente ogni empatia che ci consente di immaginarci nei panni, nella pelle dell’altro.33
Tra i diritti civili fondamentali ve n’è uno che nei sistemi giuridici
dei paesi anglosassoni fa da presupposto a molti altri diritti, ovvero
32 S. Weil, “L’ispirazione occitana”, trad. it. di G. Gaeta in I catari e la civiltà mediterranea,
Genova, Marietti, 1996, p. 33. Nei Quaderni (trad. it. e Introduzioni ai 4 voll. di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1982-1993, vol. III, p. 195), poi, ribadisce: «La purezza assoluta sta nel non subire
né esercitare la forza».
33 G. Agamben – in Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998 – analizza
in questa chiave la figura del Muselmann, espressione gergale che indicava nei Lager l’internato
tramutato in «cadavere ambulante» (Amery), che si situa sull’estremo limite tra umano e nonumano, un vivente che non è ancora una cosa, fermo sulla soglia di ciò stiamo definendo la “differenza incommensurabile”. Quel che colpisce è che nel “musulmano” non si “riconosceva” più
alcuna natura umana; certamente non era più umano per le SS, ma non lo era più neanche per gli
altri internati. Recenti volumi sulla tematica del riconoscimento identificano nell’“ebreo” un caso
paradigmatico di misconoscimento: si veda M. Manfredi, Teoria del riconoscimento. Antropologia, etica, filosofia sociale, Le Lettere, Firenze 2004; e D. Sparti, L’importanza di essere umani.
Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2003.
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Francesca R. Recchia Luciani
l’habeas corpus, il cui ruolo principale è quello di garantire il rispetto
della libertà personale, e in particolare di evitare la detenzione illegittima. Questa formula deriva dall’espressione più estesa “habeas corpus ad subiciendum”, che sebbene sia stata sempre intesa più o meno
come: “abbi la disposizione della tua persona”, contiene nella sua traduzione letterale l’idea di poter disporre, sempre e in ogni condizione,
del proprio corpo, il che corrisponde certamente ad istituire il valore
assoluto e irrinunciabile della libertà personale, ma implicitamente ingloba il diritto al rispetto altrettanto assoluto per la propria dignità,
integrità e incolumità. Chi è detenuto è interamente soggetto al potere
di altri, e il suo assoggettamento lo espone al rischio reale della negazione, della cancellazione definitiva dei suoi diritti, ponendolo in
una condizione di perdita della titolarità stessa dei diritti umani fondamentali, condannando alla deriva e annientando la sua identità umana
e infine tramutandolo in non umano.34 Se estendiamo questa idea di
reclusione e di privazione a tutte quelle circostanze in cui vengono
annullate le garanzie negando libertà e diritti fondamentali – a cominciare dal «diritto a essere liberi dalla fame», «diritto primario alla vita» che come osserva Vandana Shiva35, nella «dissociazione dei diritti
civili da quelli economici» viene di fatto obliterato –, cogliamo immediatamente l’urgenza e la necessità di una convinta salvaguardia dei
diritti umani nella loro «indivisibilità»36. Infatti, se assumiamo come
compito inderogabile di un impegno post-filosofico e di un’azione politica incisiva e coerente la difesa e la protezione della vita degli esseri
umani – a partire dal rispetto assoluto e irrinunciabile all’intangibilità
del loro corpo (e qui non fa alcuna differenza se in questione sono
le mutilazioni sessuali femminili, la tortura o la fame stessa) –, non
possiamo prescindere da un’altrettanto consapevole difesa dell’intero
insieme dei diritti e delle libertà umane, che sole possono dare attuazione e realtà a questa missione. Rifiutare ideologicamente la logica
dei diritti umani significa, nei fatti, rinunciare a farsi carico della tragica condizione in cui versano donne e uomini che si trovano in ogni
34 In un saggio intitolato “Detenzione infinita” (contenuto in Vite precarie, cit., pp. 73-126),
nel quale analizza la condizione di “invivibilità” dei prigionieri detenuti a tempo indefinito a
Guantanamo Bay, tra le altre cose J. Butler scrive: «La detenzione infinita estende dunque indefinitamente un potere incontrollato, non sottoposto al diritto» (p. 86). Questo è precisamente il
modo in cui il “biopotere” sospende, elude e revoca i diritti fondamentali.
35 V. Shiva, “Diritti alimentari, libero commercio e fascismo”, in La debolezza del più forte.
Globalizzazione e diritti umani, cit., pp. 116-17.
36 Ivi, p. 117. Su questo punto, ovvero sull’idea che «i diritti umani sono indivisibili» non si
può che concordare con Vandana Shiva, tuttavia la tesi che la globalizzazione «globalizzi diritti
inumani ed errori umani» (ibid.) e che «il diritto del più forte di calpestare i più deboli viene globalizzato attraverso il libero commercio» (p. 138) appare estremista e in larga misura infondata.
Francesca R. Recchia Luciani
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momento, nei molti luoghi del globo in cui viene ignorato il valore
della vita umana, esposti alla propria finitezza, al dolore e al lutto. Ma
altrettanto pericoloso è proporre di questi diritti e di queste libertà una
visione ridotta e minimale, una sorta di thin theory, come fa Walzer
con la sua short list, o Ignatieff nella sua debolissima «ragionevole
apologia dei diritti umani», o anche Rawls con l’idea che ne esista
un “nucleo minimo” difendibile37. Infatti, non è un caso che generalmente autori che si muovono in questo orizzonte di “minimalismo”
etico-morale si preoccupano quasi sempre anche di accompagnare le
loro analisi con l’invocazione della possibilità, da parte di uno o più
Stati, di assumersi il gravoso compito di un enforcement38, cioè di una
attuazione di questi diritti che però non esclude, anzi esplicitamente
contempla, la possibilità di intervenire militarmente contro coloro che
non li applicano, di fatto determinando con l’uso della violenza e della forza il generarsi di altre, spesso ancora più gravi, violazioni di quei
diritti che si pretende di “rafforzare” (il caso Iraq, in tal senso, è esemplare). Su questo terreno vale ancora l’assunto arendtiano teorizzato
in On Violence, che la violenza è intramata col potere: dunque, è solo
un’illusione quella che pretende di separare l’esercizio della forza da
parte di un potere sovrano dai fini buoni, o altruisti, o “umanitari” che
si vorrebbero ottenere.
Chi intenda seriamente difendere i diritti umani non può accettare,
neanche eccezionalmente (per di più è noto come lo “stato di eccezione” possa facilmente diventare “regola”) che essi vengano piegati
a logiche di violenza e sopraffazione. Coerentemente Butler scrive:
Di sicuro la violenza è un contatto del peggiore tipo, un mezzo attraverso cui
la vulnerabilità umana originaria si manifesta nella sua forma più terribile, e per il
37 Si veda M. Walzer, Una lista breve di casi da difendere a oltranza, trad. it. di R. Capovin in
«Reset», n. 84, 2004, pp. 40-45; M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, trad. it.
di S. d’Alessandro, con interventi di S. Veca e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2003, il quale addirittura sostiene in casi specifici un «uso moderato della tortura»; J. Rawls, Il diritto dei popoli, trad.
it. di G. Ferranti e P. Palminiello, a cura di S. Maffettone, Ed. di Comunità, Torino 2001.
38 Per esempio, questo tema è l’oggetto di numerosi interventi di Michael Walzer, compreso
quello citato in precedenza. Ritengo che Walzer, Ignatieff e gli altri ideologi interventisti applichino del tutto a sproposito l’idea di Max Weber che «lo Stato è quella comunità umana la quale,
nell’ambito di un determinato territorio – ed il “territorio” è un elemento caratteristico – pretende
per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica», poiché «lo Stato vale
come unica fonte del “diritto” all’uso della forza» (M. Weber, Economia e società, trad. it. di F.
Casabianca e G. Giordano, a cura di P. Rossi, Ed. di Comunità, Milano 1981, vol. IV, p. 479).
Infatti, in presenza di gravissime violazione dei diritti umani, e in assenza di un’istituzione sopranazionale che potrebbe essere paragonata ad una sorta di super-Stato dotato di una super-autorità
politica e morale, essi auspicano interventi extraterritoriali, ovvero vere e proprie “invasioni” da
parte di Stati (moralmente superiori?) nei confronti di Stati e territori che non gli appartengono.
Esattamente come è accaduto in Iraq da parte della sedicente “coalizione dei volenterosi”.
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Francesca R. Recchia Luciani
quale veniamo consegnati, senza alcun controllo, alla volontà altrui. Attraverso la
violenza la vita stessa è obliterata dalla deliberata azione altrui.39
Creare una “cultura dei diritti umani” significa rifiutare a priori la
violenza, impedire sempre, in ogni luogo e in ogni circostanza che il
corpo umano possa subire quell’“incommensurabile” deterioramento
che l’irreversibile processo della deumanizzazione, cui la sua fragile costituzione ontologica lo ha predisposto, inevitabilmente genera.
Perché ciò accada occorre trovare la strada che ci conduca «a recuperare il senso della vulnerabilità umana», il significato sociale che
la coscienza della finitezza, ovvero l’anticipazione fantasmatica, ma
condivisa della propria fine – che coincide con ciò che Heidegger ha
definito “essere-per-la-morte” –, riveste per ciascun essere umano.
Dinanzi alla potenziale ma sempre reale imminenza dell’ultimo atto,
di fronte alla precarietà intrinseca alla nostra e alla altrui vita non
possiamo evitare di assumerci la «nostra responsabilità collettiva per
la vita corporea l’uno dell’altro».40
3. Vulnerabilità ed etica del mutuo riconoscimento responsabile
«La vulnerabilità deve essere percepita e riconosciuta al fine di
entrare nella dinamica di un incontro etico»41, e – va aggiunto – la
natura di questo incontro deve essere tale che esso possa generare
forme nuove di quel necessario riconoscimento che ci costituisce sia
come identità soggettive che come esseri sociali e culturali. Perché
si possa immettere nel presente un processo, ormai indifferibile, in
grado di riattivare dinamiche universalizzabili del riconoscimento
dell’Alterità che possano comprendere metodiche della reciprocità di
impronta hegeliana e un appello all’etica, weberiana per un verso e
levinasiana per l’altro, della responsabilità42, sarà forse opportuno,
allora, ricorrere proprio alla cognizione morale dell’universale fragilità dei corpi.
All’idea, cioè, di quella «comune vulnerabilità umana, una vulnerabilità legata alla vita stessa, [che] precede la formazione dell’“io”,
[e costituisce] il segno di una condizione primaria di necessità e
J. Butler, “ Violenza, lutto, politica”, in Vite precarie, cit., p. 49.
Ivi, p. 50.
41 Ivi, p. 64.
42 In “Pluriversalismo dei diritti e dei doveri”, cit., p. 84, auspicavo l’evoluzione di «un’etica
della responsabilità, del riconoscimento e della reciprocità, soggettiva e collettiva», capace di
«rivitalizzare e riattualizzare i diritti». Questo riferimento ha il solo scopo di creare un ulteriore
collegamento con quel testo, che in un certo senso costituisce il necessario antecedente di questo.
39
40
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bisogno»43, cui tutti indistintamente siamo sin da principio consegnati. Il “pluriversalismo” della precarietà della vita e della fragilità
del corpo degli esseri umani è, dunque, l’a priori e l’a posteriori di
un’etica allargata del mutuo riconoscimento responsabile – nel senso che la precede, la legittima, la giustifica. Un’etica la cui apertura
consiste nel non limitarsi più a stabilire hegelianamente un legame
relazionale e biunivoco tra soggetti (la reciprocità), ma che si manifesta, da un lato, nella disponibilità a comprendere gli altri diversi da
noi, le loro culture e i loro valori, attraverso uno sforzo continuo di
traduzione interculturale (il riconoscimento), e, dall’altro, nell’assumersi l’impegno di un’auto-obbligazione nei confronti degli altri e, à
la Jonas, del pianeta e delle generazioni future (la responsabilità).
Nell’età delle globalizzazioni, plurali, stratificate e polimorfiche, e
perciò in un mondo a più livelli globalizzato, anche i problemi sono
globali e tali non possono non essere le risposte. L’etica hegeliana del
riconoscimento, che autori come Honneth44 hanno riportato in auge
negli ultimi anni, pecca in questo senso di limitatezza, poiché la relazione ristretta che essa ben illustra è tuttavia non facilmente estendibile sul piano della dimensione spazio-temporale che ha rapidamente
assunto la dinamica della globalizzazione. Il riconoscimento hegeliano è in definitiva un “corpo a corpo”, che però la globalizzazione ha
da tempo trasceso mettendo costantemente a confronto una pluralità
vastissima e differenziata di corpi, facendoci toccare con mano l’infinita possibilità di diversità che le vite incarnate degli esseri umani
possono rappresentare sul piano storico, antropologico, sociale e culturale. La globalizzazione, tagliando tempi e distanze, ha annullato
l’esotico, da adesso in poi nulla ci è più veramente estraneo; al contempo, però, ha anche ampliato illimitatamente le possibili varianti
dell’umano, riproblematizzando una concezione universalistica dei
diritti umani che in questa parte del globo davamo in un certo senso (ed erroneamente) per scontata. Qui, una disamina disincantata
dei macroprocessi della globalizzazione (che escluda sia le posizioni
acriticamente contrarie, sia quelle pregiudizialmente favorevoli) incrocia e intercetta, da un lato, i modelli paradigmatici relativi al riconoscimento che emergono nelle scienze umane, nelle filosofie e nelle antropologie contemporanee (Honneth, Caillé, Habermas, Taylor),
dall’altro, l’indispensabile riesame della categoria di “umano” che
J. Butler, “Violenza, lutto, politica”, in Vite precarie, cit., p. 52.
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C.
Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002; e Id., Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione
della filosofia politica di Hegel, trad. it. di A. Carnevale, manifestolibri, Roma 2003.
43
44
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utilizziamo quando, pur in presenza di continui fallimenti e deficit,
non rinunciamo al progetto di universalizzare al massimo grado del
loro potenziale i diritti di donne e uomini. Il discorso post-filosofico,
allora, deve mettere a tema e ripensare l’umano, dal momento che
«rielaborare l’umano è, potremmo dire, un incessante compito dei
diritti umani, nella misura in cui la loro presunta universalità non
ha campo d’azione universale».45 Se i diritti umani stentano a raggiungere e a proteggere tutti gli esseri umani, essi mancano il loro
principale obiettivo, e la bancarotta dei diritti umani è la rovina dell’umanità stessa, perché è la rinuncia alla “lotta per il riconoscimento” di diritti che tenacemente aspirano – condizione necessaria, ma
non sufficiente – all’universalità e a divenire così paradigma praticorelazionale riconosciuto nell’ordine della macrosfera.
Il modello honnethiano del riconoscimento intersoggettivo, articolato nei passaggi relativi all’«amore» (attraverso il riconoscimento
emotivo-affettivo), al «diritto» (tramite il riconoscimento cognitivo
di natura morale e giuridica) – fasi che insieme contribuiscono a sviluppare «fiducia in se stessi» e «rispetto di sé» – e, infine, alla «solidarietà» (il cui effetto è l’«autostima» che viene generata dal sentirsi
parte di una comunità etica in cui ci viene riconosciuta «stima sociale»), ha l’indubbio e insostituibile vantaggio di sganciare la teoria eticamente rilevante per i soggetti dalla dimensione categoriale, formalistica e astratta, cui l’aveva consegnata il trascendentalismo morale
kantiano. La teoria del riconoscimento intersoggettivo, resa feconda
dall’incontro tra Hegel e Mead, e innervata com’è sia nelle strutture
“verticali” fisico-corporee e naturali che in quelle “orizzontali” delle connessioni social-relazionali che contraddistinguono il soggetto
umano, riaggancia bisogni etici a bisogni naturali, riconnette le esigenze di una prassi moralmente significativa alla costituzione empirica dell’identità soggettiva.46 Essa, peraltro, recupera l’etico-pratico
senza perdere di vista la dimensione universale dei diritti:
Solo con la determinazione dei diritti universali [una specifica] forma di rispetto di sé può assumere il carattere che le viene attribuito quando si parla della
responsabilità morale come del nucleo meritevole di rispetto di una persona; infatti
solo nelle condizioni in cui i diritti individuali non sono più accreditati in modo
J. Butler, “Detenzione infinita”, in Vite precarie, cit., p. 115.
Su questi aspetti fondamentali della teoria honnethiana del riconoscimento, si vedano i saggi
di R. Finelli, Una libertà post-liberale e post-comunista. Riflessioni sull’etica del riconoscimento,
e di V. Santoro, Riconoscimento e soggettività nella filosofia pratica tedesca, contenuti in questo
numero di «Post-filosofie».
45
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disparitario ai membri dei gruppi sociali differenziati per status, ma vengono in
linea di principio accordati in ugual misura a tutti gli uomini in quanto tali, la
singola persona giuridica potrà considerarli come una garanzia oggettiva di vedersi
riconosciuta la capacità di giudicare autonomamente.47
E tuttavia la tesi honnethiana mostra anche due limiti costitutivi:
in primo luogo, essa è completamente schiacciata sullo sviluppo morale di una soggettività per così dire “oggettivata”, che corre costantemente il rischio di tramutarsi in una “metafisica del soggetto”; e, in
secondo luogo, è una teoria evolutiva tutta interna alle meccaniche e
alle dinamiche del modello tradizionale di Stato-nazione tipicamente
occidentale.48 Honneth, nell’ammettere esplicitamente «il nesso empirico [e] il rapporto concettuale» tra l’acquisizione di una dignità
personale, che include la fiducia in sé e la stima di sé («individualizzazione»), e il riconoscimento di tipo affettivo, giuridico ed eticosociale («socializzazione»), non si rende conto che sta descrivendo
la biografia morale di una soggettività non universalistica. Si tratta,
piuttosto, di un meta-soggetto ben identificabile nel paradigma tipico-ideale dell’individuo-persona che nasce, cresce, sviluppa e intrattiene le proprie relazioni sociali in una specifica e ben riconoscibile
area del mondo (l’Occidente) e che, da ultimo, si riconosce e viene
riconosciuto come soggetto giuridico-politico dentro i confini della
cittadinanza statale, nella quale si danno le lotte “sociali” per il riconoscimento. Questa duplice dimensione tipicamente soggettivistica
e statalista del paradigma honnethiano del riconoscimento ne limita
la portata rispetto al ripensamento dell’umano che si rende necessario per rivivificare dei diritti umani autenticamente ed effettivamente
universali. Eppure, in Lotta per il riconoscimento, è possibile individuare un segmento di universalità che potrebbe fornire un prezioso
contributo al progetto post-filosofico che si va delineando. Laddove
Honneth analizza le forme del misconoscimento, che rappresentano un rischio mortale nella misura in cui minacciano di frantumare
l’identità personale, nell’indicare, parallelamente alla sua teoria a tre
stadi, tre simmetrici livelli di «riconoscimento negato», li individua
rispettivamente 1) nella «violenza», 2) nella «privazione dei diritti» e
3) nell’«umiliazione». E, in particolare, egli sottolinea che soltanto il
primo caso di misconoscimento, ovvero quello derivato dalla disinHonneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 144.
Su questo limite “statalista” della teoria honnethiana del riconoscimento, si veda il saggio
di F. Fistetti, Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria critica della società?, in
questo numero di «Post-filosofie».
47
48
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tegrazione della fiducia in sé a fondamento dell’identità soggettiva
generata dall’attacco sferrato all’“integrità personale” dalla violenza o da forme di maltrattamento fisico (esemplificate dalla tortura e
dallo stupro), è riconducibile ad una situazione trans-storica e transculturale, ovvero è universalizzabile nei suoi effetti. Questa peculiare
e devastante «esperienza di misconoscimento», legata alla dimensione corporea, non può «variare semplicemente in relazione al tempo
storico o al quadro di riferimento culturale»49, perché, contrariamente
alla 2) «privazione dei diritti», che produce la perdita del rispetto di
sé, o alla 3) «offesa e umiliazione», che consiste nel «negare valore sociale a singoli individui o gruppi», essa non è inserita in «un
processo di trasformazione storica»50, ovvero è drammaticamente incondizionata sul piano empirico e universalmente valida su quello
morale. Da ciò si deduce che, sebbene in maniera del tutto inconsapevole, Honneth afferra che la sola dimensione generalizzabile della
sua teoria tripartita della soggettività relazionata intersoggettivamente (“individualizzazione”/“socializzazione”) è, sia quando si realizza come riconoscimento emotivo-affettivo, sia quando si manifesta
come misconoscimento violento e disintegrante, quella che avviene a
livello del corpo, e, corrispondentemente, poiché tertium non datur,
che gli altri due stadi del riconoscimento/misconoscimento, invece,
non sono affatto universalizzabili.51
Se è vera la tesi fin qui sostenuta che solo la comune “cognizione del dolore”, intrinseca alla caducità delle esistenze umane e alla
fragile struttura dei corpi, può contribuire a “dare corpo” ai diritti
umani fondamentali, dobbiamo anche affermare, con Butler, che «la
vulnerabilità, se deve essere attribuita a ogni soggetto umano, dipende profondamente da preesistenti norme di riconoscimento».52 Questa affermazione, però, dà luogo ad una circolarità teoretica perché
comporta che una resa normativa della vulnerabilità umana può darsi soltanto qualora essa venga riconosciuta da tutti gli esseri umani:
Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 160.
Ivi, pp. 160-61.
51 Honneth fa anche un’interessante osservazione sull’uso metaforico che facciamo, nel linguaggio corrente, di espressioni legate alla decadenza fisica e alle infermità del corpo per riferirci
a situazioni di «revoca del riconoscimento»: infatti, usiamo sintagmi come «morte psichica» per
il misconoscimento di tipo 1); «morte sociale» per il misconoscimento di tipo 2); «malattia» per
quello di tipo 3). Da ciò egli ricava l’indicazione che «l’esperienza della degradazione e della
mortificazione sociale mette a rischio l’identità degli esseri umani allo stesso modo in cui le
malattie minacciano la loro vita fisica» (ivi, p. 162). È vera però anche la tesi opposta, vale a dire
che le esperienze mortificanti per il corpo trovano un’altrettanto immediata corrispondenza in
patologie e forme di disagio sociale.
52 J. Butler, “Violenza, lutto, politica”, cit., p. 64.
49
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in questo senso, la vulnerabilità è l’ante- e il post- di una teoria del
riconoscimento che valga agli effetti pratico-etici e normativi.53 Il
fatto che «le norme di riconoscimento sono essenziali alla costituzione della vulnerabilità come precondizione dell’“umano”»54 implica
e impone una visione ampia e dilatata della “lotta per il riconoscimento”, che esce così dalle maglie strette dell’autofondazione di una
soggettività individualistica socialmente identificabile, per quanto
desiderosa di hegeliana “eticità”, per divenire una conquista intersoggettiva, collettiva, di intere comunità. Il riconoscimento, allora,
non può essere declinato prima al singolare e poi al plurale, poiché
in esso singolarità e pluralità, soggetto e società, uno e molti sono
indissolubilmente allacciati sin da principio. Una genealogia del riconoscimento costruita su una scala evolutiva, in cui l’esito socializzante si ottiene annodando progressi filogenetici e sviluppi ontogenetici a partire da una prospettiva inevitabilmente individualista, rischia
di costituire un’illusione ottica perché non porta automaticamente e
meccanicisticamente inscritta dentro di sé un’espansione illimitata e
onnicomprensiva, che possa estendersi ai gruppi culturalmente differenziati, poi alle comunità, alle società e infine all’umanità tutta.
Una siffatta teoria del riconoscimento, articolata per intero all’interno
della cultura filosofica e teorico-politica della tradizione occidentale (basti pensare al soggettivismo di una categoria come quella di
“autorealizzazione”55), nella quale peraltro la formula della reciprocità tra sé e altro-da-sé viene circoscritta a soggettività individuali ben
determinate, mentre resta sostanzialmente sullo sfondo quella della
responsabilità-verso-gli-altri, risulta scarsamente efficace ai fini di
una costruzione normativa universalizzabile, in quanto essa non può
essere proiettata sullo scenario globale dove è più avvertita l’esigenza di ciò che abbiamo definito una vera e propria etica del mutuo
riconoscimento responsabile. Che risposte, infatti, può offrire l’etica
honnethiana del riconoscimento alle istanze di autodeterminazione
dei popoli, alle esigenze culturali dei gruppi minoritari, alle problematiche poste dai movimenti femministi e, soprattutto, alle questioni
prepotentemente imposte dal multiculturalismo in continua espansione? Se non perdiamo di vista che il riconoscimento è «un bisogno
umano vitale» non solo per gli individui, ma anche per le culture, le
53 «La vulnerabilità assume un altro significato nel momento in cui la si riconosce, e il riconoscimento rafforza il ricostituirsi della vulnerabilità» (ivi, p. 65).
54 Ibid.
55 Su questo tema, si veda il saggio di Honneth contenuto in questo numero di «Post-filosofie»,
intitolato per l’appunto Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione.
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tradizioni, i gruppi e le comunità, poiché «il rifiuto del riconoscimento può essere una forma di oppressione»56, non potremo fare a meno
di cogliere tutti i limiti della nuova filosofia pratica à la Honneth.
In tal senso, Ch. Taylor, più opportunamente, evidenzia come le
vere difficoltà legate ad un’autentica politica orientata all’universalismo sorgono dal fatto che essa si presenta al contempo sia come una
«politica dell’uguaglianza» – o meglio dell’«uguale dignità», perché
aspira a diritti universali –, sia come una «politica della differenza» – in grado cioè di far emergere di volta in volta ogni «identità particolare».57 Ciononostante, il suo ricorso all’idea trascendentale kantiana che esista una «potenzialità umana universale»58, che
costituisce il contesto della giustificazione dell’uguaglianza, sposta
nuovamente lontano dall’unica datità concreta, cioè il corpo, la possibilità di ottemperare alle istanze di riconoscimento con strumenti teorici e politici non fondati metafisicamente. Pertanto, anche se
l’apporto “comunitarista” di Taylor, nell’insistere sulle identità collettive differenziate, è fondamentale per reimmettere i valori etici e
culturali dentro le norme giuridiche che derivano la loro universalità
da una pretenziosa astrattezza, consentendo così alla teoria del riconoscimento di trascendere i propri limiti soggettivistici e individualistici (che poi coincidono con quelli del liberalismo), molto resta
ancora da fare perché i diritti fondamentali vengano realmente estesi
ed effettivamente praticati nei confronti degli esseri umani nella loro
totalità. Quella di una prassi eticamente significativa a livello universale è a tutt’oggi un’utopia, in primo luogo, perché la disparità delle
risorse e la disuguaglianza socioeconomica sono ancora il principale
ostacolo ad una diffusione della democrazia e di diritti uguali per
tutti, e, in secondo luogo – ma in stretto collegamento col primo –,
perché sul piano della normativizzazione empirica anche i progetti
universalistici come quelli dell’ingegneria giuridica di stile kantianohabermasiana si scontrano con la concreta realtà delle sofferenze e
della precarietà dei corpi esposti alla povertà, alla fame, alle malattie,
alla violenza.
56 Ch. Taylor, “La politica del riconoscimento”, in J. Habermas e Ch. Taylor, Multiculturalismo.
Lotte per il riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 20035, p. 10 e p. 22. Scrive Habermas a proposito del «diritto soggettivo» e del concetto di «persona giuridica individuale»: «Ma una teoria dei diritti siffatta, dalla dichiarata prospettiva individualistica, è poi in grado
di spiegarci quelle lotte di riconoscimento che sembrano ruotare sull’articolazione e affermazione
di identità collettive?» (ivi, p. 63). In pratica, si tratta della stessa obiezione che qui si muove alla
teoria del riconoscimento proposta da Honneth.
57 Ch. Taylor, “La politica del riconoscimento”, cit., p. 27.
58 Ivi, p. 28.
Francesca R. Recchia Luciani
163
L’obiettivo perseguito da una post-filosofia dei diritti umani al
tempo delle globalizzazioni – che è dato dal tentare di modellare
materialisticamente un universalismo etico-giuridico impiantandolo
e radicandolo sulla consistenza irriducibile e imprescindibile della
corporeità costitutiva dell’umano –, da un lato, oppone una risposta
non-violenta alle politiche improntate al suprematismo e alla sopraffazione, dall’altro, rimette al centro della scena filosofico-politica
l’istanza universalistica sempre viva, e ogni volta disattesa, diretta a
creare pari opportunità sociali ed economiche per soddisfare i bisogni delle donne e degli uomini “in carne ed ossa”. La partita di un
effettivo, concreto rispetto della dignità umana si gioca tutta dentro
questo orizzonte.
ANTONIO DE SIMONE
IDENTITÀ, ALTERITÀ, RICONOSCIMENTO.
TRAGITTI FILOSOFICI, SCENARI DELLA
COMPLESSITÀ SOCIALE E DIRAMAZIONI
DELLA VITA GLOBALE*
Anche nell’Altro e nel Diverso noi possiamo in qualche modo
incontrare noi stessi. Ma più pressante che mai è oggi il dovere
di riconoscere nell’Altro e nel Diverso quel che vi è di comune.
Hans-Georg Gadamer
1. Icone del presente. La questione dell’identità
Nei nostri sguardi minimi sulla quotidianità, intenti a cercare di
penetrare la superficie delle cose, ci stiamo accorgendo, nelle diverse
aree del mondo della vita quotidiana1, che sta sensibilmente mutando
il nostro sguardo su di noi, su “chi siamo”, sull’enigmatico rapporto
che si stabilisce tra Je, nous et les autres.2 Nel fluire del tempo, la
contemporaneità ha preso il sopravvento: comprenderla significa vivere un’esperienza ermeneutica ed un’emergenza critica in grado di
decifrare la complessità del nostro tempo storico di-segnato da uno
scenario in cui domina la continua frammentazione che sempre più
caratterizza l’indeterminazione di ciò che è singolare, l’indecisiona* L’esercizio di pensiero praticato in questo contributo presuppone le acquisizioni già sviluppate e anticipate dall’Autore nel volume di F. D’Andrea, A. De Simone, A. Pirni (a cura di), L’Io
ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Morlacchi, Perugia 2004.
1 Cfr. A. De Simone, “Senso ed enigma della vita quotidiana. Uno sguardo filosofico e sociologico”, in G. Gasparini (a cura di), Le piccole cose. Interstizi e teoria della vita quotidiana,
Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 31-51; M. A. Toscano, L’ovvio quotidiano. Memorie del
senso compiuto, Guida, Napoli 2004 e A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, QuattroVenti, Urbino 2005.
2 Cfr. P. Malizia (a cura di), Noi, gli altri, noi versus gli altri, Effatà, Cantalupa 2001 e V.
Cesareo (a cura di), L’Altro. Identità, dialogo e conflitto nella società plurale, Vita e Pensiero,
Milano 2004.
166
Antonio De Simone
lità del senso e la non-riconciliabilità dei punti di vista differenti. Il
nostro presente non è un tempo storico qualsiasi: è un’“epoca agitata”, di “incertezza identitaria” e di “perdita dell’identità” e nel contempo di “inflazione identitaria”.3 I “campi di battaglia” e le nuove
e diversificate forme del conflitto sociale e politico contemporaneo
ne segnano la sua tragicità. Tutto ciò rende sempre più difficile il
modo, la strategia, le opportunità, le motivazioni e gli stili di costruzione dell’esperienza quotidiana, personale e collettiva, e pone in uno
“scandalo permanente” sia il pensiero critico che voglia comprenderla e interpretarla, sia la prassi politica trasformatrice che intenda di
volta in volta progettarla o cambiarla. Oggi4, vivere la temporalità
della propria forma di vita, essere nella storia, nella durezza quotidiana dello scontro con le sue ingiustizie e violenze significa anche essere interpreti attivi e critici delle sue molteplici contingenze
e non soltanto spettatori passivi delle sue vittime. L’esperire sensibile nella fluidità contemporanea di-mostra che abbiamo sempre più
bisogno di praticare il sentimento della vergogna di fronte alla vita
“offesa” e la forza del dissenso e di un pensiero critico di resistenza
nei confronti di ciò che di inaccettabile accade nel mondo mentre
noi lo abitiamo. In un’epoca dove domina l’incertezza, tutti i confini dell’esistenza si vanno ridisegnando. Ogni punto di riferimento
viene quotidianamente rimesso in discussione, modificando di conseguenza anche a dismisura il significato possibile di che cosa significa
“orientarsi nel pensiero”. Nuove dinamiche della socialità si vanno
delineando in relazione ai mutamenti strutturali che caratterizzano la
contemporaneità5 a partire significativamente dalla profonda ristrutturazione delle varie forme dell’esperienza soggettiva e dei processi
di individualizzazione nel mondo globalizzato sempre più caratterizzato dallo ius migrandi6: ecco perché, in questo scenario, il migrante
– sospeso tra due culture, incerto sulla propria identità – costituisce
«l’icona del tempo presente».7
3 Cfr. F. Laplantine, Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, trad. it. di C.
Milani, Eleuthera, Milano 2004, pp. 7 e sgg.
4 Sul significato e consumo categoriale della parola “oggi” nello “scrivere di filosofia”, cfr. F.
Papi, “Il tempo della scrittura filosofica”, in Figure del tempo, Mimesis, Milano 2002, pp. 9 e
sgg.
5 Un piccolo lessico di “sociologia della contemporaneità” è offerto da P. Malizia (a cura di), Il
linguaggio della società, Angeli, Milano 2004.
6 Sull’argomento, cfr. E. Vitale, Ius migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli,
Bollati Boringhieri, Torino 2004.
7 Cfr. C. Giaccardi - M. Magatti, L’Io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 214; degli stessi autori cfr. inoltre La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari
2001. Sulla globalizzazione, cfr. tra gli altri i contributi recenti di R. Guolo, La società mondiale.
Antonio De Simone
167
Se per capire ciò che ci aspetta occorre esplorare e chiarire i meccanismi che presiedono alla costruzione sociale e alla formazione
delle identità individuali e collettive in una fase, come la nostra, di
profondo mutamento, è altresì necessario, per comprendere la trama
temporale del nostro presente, interrogarsi altrettanto criticamente sul
rapporto tra identità ed epoca storica, proprio all’interno di una temporalità nella quale sembrerebbe affermarsi un presente (Jetztzeit) irrelato, assoluto, che pretenderebbe di assorbire «in sé ogni tempo, per
essere quindi senza tempo»8, proprio nel momento in cui c’è chi ha
tentato di dare, senza però riuscirvi plausibilmente, massima espansione ai discorsi sulla presunta “fine della storia e delle ideologie”,
invece di chiedersi – sotto gli effetti di replica indotti inevitabilmente
dalla “durezza del reale” – dove esse siano «andate a finire», cioè
quali sono oggi le nuove modalità e figure della prassi.
Nell’attuale società della conoscenza e della comunicazione, nelle
pratiche quotidiane dell’esistenza si sta ridisegnando il processo di
costituzione dell’identità attraverso il progressivo affermarsi di una
«modalità relazio-nale con gli oggetti, le persone, le informazioni, le
conoscenze, il lavoro, dove alla costanza, alla durata, alla con-tinuità, subentra l’istantaneità, la discontinuità, l’episodicità puntuale, la
precarietà»9: ovvero, la frammentazione. Quest’ultima, tra l’altro, ha
anche a che vedere, relativamente ai diversi poli relazionali dell’esistenza, con «la disarticolazione della linearità tra passato, presente
e futuro».10 In una tale temporalità, in cui pare predominare la “fine” della relazione continuativa nel fare esperienza con il “mondo”
e le sue possibili province di senso, che assicurano la funzionalità
della nostra inclusione (e/o esclusione) in esso, si registra anche un
considerevole effetto di obsolescenza delle tradizioni, compresi i loro quadri d’azione prescrittivi. Di fatto, «la riduzione dell’influsso
delle tradizioni rimette indubbiamente in questione l’identità, poiché
Sociologia e globalizzazione, Guerini e Associati, Milano 2003; G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003; D. Zolo, Globalizzazione.
Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004 e V. Cotesta, Sociologia del mondo globale,
Laterza, Roma-Bari 2004. Per un’analisi critica dei modelli interpretativi adeguati al nuovo assetto del capitalismo contemporaneo e sul rapporto tra capitalismo della conoscenza e conoscenza
del capitalismo, cfr. L. Cillario - R. Finelli (a cura di), Capitalismo e conoscenza. L’astrazione
del lavoro nell’era telematica, manifestolibri, Roma 1998. Per un quadro interpretativo interdisciplinare e critico sul tema del globalismo, della cittadinanza plurale e dei diritti umani, cfr. R.
Finelli, F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri,
manifestolibri, Roma 2004.
8 F. Merlini, La comunicazione interrotta. Etica e politica nel tempo della “rete”, Dedalo, Bari
2004, p. 8.
9 Ivi, p. 15.
10 Ibid.
168
Antonio De Simone
una identità, per così dire non-tradizionale deve continuamente rinegoziare, fuori dalle coordinate ereditate, i propri contenuti lungo un
processo in cui l’irrompere aleatorio di congiunture sempre diverse
vanifica, appunto, la possibilità di agganciare in modo efficace i nuovi stili di vita alla continuità di un quadro di riferimento stabile e,
soprattutto, reinterpreta-bile con successo».11 Benché la maggioranza
delle azioni della vita quotidiana risentano praticamente il senso della
tradizione, quando però il mutamento che tocca la nostra esperienza
del mondo si fa così veloce, allora anche il passato rischia di perdere
la sua autorità, pertanto «l’orizzonte delle aspettative non si può più
basare su ciò che si era imparato a conoscere in condizioni che, ogni
volta, non sono più le stesse».12 A partire dall’esperienza dell’inquietudine contemporanea, come sostiene Laplantine, «oggi la conoscenza può essere solamente frammentaria e incompiuta».13
Per diversi motivi, quindi, la posta in gioco è sempre ancora
l’identità: il suo contenuto, i suoi limiti, la sua stessa possibilità. Sebbene l’identità, a parere di Laplantine, sia una nozione di grande efficacia ideologica che si esprime non solamente con l’inflazione del
verbo essere, ma anche del verbo avere – attraverso cioè una logica
ed una sintassi in definitiva del potere nelle sue differenti forme che
non vuol sapere nulla dell’esperienza della perdita, della mancanza
e dell’assenza –, eppure in agenda, oggi, c’è il processo problematico della sua costruzio-ne, decostruzione e ricostruzione. Un processo
particolarmente connesso alla nostra possibilità «di rapportarci agli
oggetti di consumo, di accedere all’informazione, di disporre delle
conoscenze, di esperire i legami sociali»14: quattro dimensioni (consumo, informazione, conoscenza e comunicazione) che riaffermano
la necessità di una nuova ermeneutica della (inter)soggettività e dei
processi di soggettivazione, che nel concreto ridisegnano la prassi
odierna e che collocano l’esistenza all’interno di logiche temporali
caratterizzate da alcuni peculiari tratti comuni, quali le trasformazioni dell’esperienza15, la frammentazione della linearità, la contrazione
della durata, l’accelera-zione del divenire.16
Ivi, p. 16.
P. Jedlowski, “Le trasformazioni dell’esperienza”, in C. Leccardi (a cura di), Limiti della
modernità. Trasformazioni del mondo e della conoscenza, Carocci, Roma 1999, p. 147.
13 F. Laplantine, Identità e métissage, cit., p. 9.
14 F. Merlini, La comunicazione interrotta, cit., p. 16.
15 Cfr. F. Dubet, Sociologie de l’expérience, Seuil, Paris 1994; P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994 e Id., “Le trasformazioni dell’esperienza”, cit., pp. 147-78.
16 Cfr. F. Merlini, La comunicazione interrotta, cit., p. 17.
11
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La frammentazione della linearità è «un fenomeno che interessa
le nostre vite a vari livelli: cognitivo e affettivo, pubblico e privato,
collettivo e individuale».17 Attraverso di essa si mette complessivamente in gioco e in discussione la stessa possibilità di vivere la propria biografia come costruzione narrativa dell’identità o, al contrario, continuare a pensare l’identità soltanto secondo il principio della
narrazione lineare. La contrazione della durata fa del tempo «una
struttura puntiforme, il che non equivale alla scomparsa del tempo,
ma piuttosto all’esperienza di una volatilità che istituisce su altre basi
temporali il rapporto con il mondo e con se stessi».18 L’accelerazione
del divenire, vissuta quotidianamente nella forma dell’urgenza, «trasforma la successione temporale in una serie di punti irrelati che si
affermano indipendente-mente l’uno dall’altro, secondo quella logica
dell’istante e dell’immediatezza che oggi siamo soliti chiamare “tempo reale”».19 Nelle figure del tempo che caratterizzano la quotidianità
contemporanea20, l’asse predominante al livello delle trasformazioni
dell’esperienza soggettiva è la discontinuità. I termini e le espressioni
di queste trasformazioni «appartengono ormai alla vulgata comune,
oltre che (in modo talora drammatico) all’esperienza di molti, e sono: incertezza, flessibilità, frammentazione, rete, erosione delle tradizioni, reengineering (ristruttura-zione) – con l’inevitabile corollario
del downsizing (riduzione dei posti di lavoro). Da qualsiasi punto si
guardi – sia esso l’esperienza del lavoro, il fenomeno della produzione, l’apparizione delle merci, la struttura dei legami sociali, il senso
di appartenenza o le forme della comunicazione –, si presenta ogni
volta il medesimo quadro, quello di una percezione degli oggetti, del
proprio sé e del suo rapporto con gli altri sé, che frammenta il tempo
narrativo, rendendo sempre meno necessario il ricorso alla continuità
biografica, come costruzione di una linea della memoria coerente e,
in ultima analisi, unitaria».21 Dunque, il rapporto tra temporalità e
identità del soggetto dice non sol-tanto che la qualità del tempo muta
completamente la qualità dell’esperienza, ma modifica anche la quotidianità dei nostri rapporti interpersonali.
Definendo il nostro tempo come «l’età dell’identità» piena di «urla
e furore», Zygmunt Bauman ha affermato che «la ricerca dell’idenIbid.
Ivi, p. 18.
19 Ivi, p. 19.
20 Sull’argomento del tempo come modalità simbolica del vissuto, dal punto di vista filosofico,
cfr. F. Papi, Figure del tempo, cit.; sul senso del tempo nella società contemporanea, dal punto di
vista sociologico, cfr. G. Gasparini, Tempo e vita quotidiana, Laterza, Roma-Bari 2001.
21 F. Merlini, La comunicazione interrotta, cit., pp. 20-21.
17
18
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tità divide e separa, e tuttavia la precarietà dell’impresa solitaria di
costruzione dell’identità spinge coloro che la intraprendono a cercare
appigli ai quali appendere tutte insieme le paure e le ansie individuali
e a svolgere riti esorcistici in compagnia di altri individui altrettanto
intimoriti e ansiosi».22 Bauman non ha dubbi né incertezze: per la
meditazione filosofica come per l’indagine sociologica, l’identità è
«la questione all’ordine del giorno» sia «come problema» che «come
compito».23 Nello specifico, egli sostiene che, soprattutto oggi,
l’identità […] è un “concetto fortemente contrastato”. Ogni volta che senti questa parola, puoi star certo che c’è un battaglia in corso. Il campo di battaglia è
l’habitat naturale per l’identità. L’identità nasce solo nel tumulto della battaglia,
e cade addormentata e tace non appena il rumore della battaglia si estingue. È
dunque inevitabile che abbia una natura a doppio taglio. La si può forse […] estromettere dal desiderio, ma non la si può estromettere dal pensiero, e men che mai
estromettere dalla pratica umana. L’“identità” è una lotta al tempo stesso contro la
dissoluzione e contro la frammentazione: intenzione di divorare e allo stesso tempo
risoluto rifiuto di essere divorati.24
Le profonde e continue trasformazioni di fare esperienza del mondo e della vita quotidiana ci obbligano a ripensare nell’insieme della
società complessa contemporanea25 – che è anche una società di differenze, ricca di potenzialità quanto di incertezza e di rischi26 sempre
più globali – la lettura e l’interpretazione delle metamorfosi dell’individualità e dell’identità contemporanea, in generale, e di cosa significhi diventare persone ed imparare ad esistere, in particolare27,
in contesti «in cui le risorse simboliche e materiali per il processo di
individuazione si fanno sempre più ricche, ma dove crescono anche,
con un movimento parallelo, le disuguaglianze legate alla produzione
22 Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, trad. it. di G.
Arganese, il Mulino, Bologna 2002, p. 191.
23 Cfr. Z. Bauman, Intervista sull’identità, trad. it. di F. Galimberti, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 15-17.
24 Ivi, p. 75.
25 Cfr. D. Ungaro, Capire la società contemporanea, Carocci, Roma 2000.
26 Sulla sociologia del rischio e sul concetto di società del rischio e dell’incertezza, cfr. A.
Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. it. di M. Guani, il Mulino, Bologna 1994; N.
Luhmann, Sociologia del rischio, trad. it. di G. Corsi, Mondadori, Milano 1996; Z. Bauman, La
società dell’incertezza, trad. it. di R. Marchisio e S. Neirotti, il Mulino, Bologna 1999; U. Beck,
La società del rischio, a cura di W. Privitera, trad. it. di G. Brioschi e M. Mascarino, Carocci,
Roma 1999.
27 Cfr. A. Melucci, “Diventare persone. Nuove frontiere per l’identità e la cittadinanza in una
società planetaria”, in C. Leccardi (a cura di), Limiti della modernità, cit., pp. 123-45 e F. Crespi,
Imparare ad esistere, Donzelli, Roma 1994.
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171
e alla distribuzione di tali risorse».28 Perché l’identità? Rimasto per
lungo tempo patrimonio del linguaggio e del sapere specialistico dei
filosofi e dei sociologi29 (oltre che degli psicologi), oggi il tema dell’identità diventa non soltanto un interesse di massa, entrando nelle
pratiche quotidiane e nel mercato dei media, ma coinvolge progressivamente sia il linguaggio del senso comune quanto il campo d’indagine specifico delle discipline (neuro)scientifiche le quali s’interrogano sul destino dell’io.30 L’identità come problema e la discussione
sull’io (conoscenza di sé, identità personale, storia dell’io, rapporto
io/altri, rapporto io/mondo, struttura dell’io, persona, coscienza) sono
il sintomo di una preoccupazione per la soggettività e i processi di
soggettivazione che pervadono l’agire umano e i sistemi complessi
caratteristici delle società contemporanee in cui, tra l’altro, si vivono le profonde ambivalenze della dimensione spazio-temporale che
strutturano la fenomenologia dell’esperienza.31 In particolare, alcuni
dei processi e talune dinamiche della socialità che caratterizzano l’Io
globale dell’uomo contemporaneo32 – a cui solitamente ci riferiamo
quando parliamo di crisi di identità, sia individuali che collettive,
nelle società complesse – sono la differenziazione dei sistemi e dei
sotto-sistemi sociali, le tendenze alla globalizzazione, la variabilità,
l’eccedenza di possibilità d’azione, nonché l’intensificazione dei rapporti tra individui appartenenti a culture diverse che portano alla conseguente diffusione dei principi del multiculturalismo.33
C. Leccardi, Introduzione a Id. (a cura di), Limiti della modernità, cit., p. 19.
Per una ricostruzione critica delle posizioni moderne e post-moderne, filosofiche e sociologiche, che hanno messo in discussione l’idea tradizionale di identità, cfr. F. Crespi, Identità e
riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2004; cfr. inoltre I. Bartholini, Uno e nessuno. L’identità negata nella società globale, Prefazione di V. Cesareo, Angeli,
Milano 2003.
30 Cfr. D. Sparti, Identità e coscienza, il Mulino, Bologna 2000; dello stesso autore, si veda
inoltre Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, Feltrinelli, Milano 1996.
31 Cfr. G. Mandich, “Ambivalenze dello spazio-tempo”, in C. Leccardi (a cura di), Limiti della
modernità, cit., pp. 179-99.
32 Cfr. E. Pulcini, “L’Io globale: crisi del legame sociale e nuove forme di solidarietà”, in D.
D’Andrea - E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2001 e C. Giaccardi
- M. Magatti, L’Io globale, cit.
33 Sull’argomento, tra gli altri, si veda: Ch. Taylor (a cura di), Multiculturalismo. La politica
del riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, Anabasi, Milano 1993; A. Gutmann (a cura di),
Multiculturalism: Examining the Politcs of Recognition, Princeton University Press, Princeton
1994; F. Crespi - R. Segatori (a cura di), Multiculturalismo e democrazia, Donzelli, Roma 1996;
J. Habermas - Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di L. Ceppa e
G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1998; A. Semprini, Il multiculturalismo. La sfida delle diversità
nelle società contemporanee, Angeli, Milano 2000; U. Hannerz, La diversità culturale, trad. it.
di R. Falcioni, il Mulino, Bologna 2001; E. Colombo, Le società multiculturali, Carocci, Roma
2002; C. Vigna - S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano
2002; D. di Iasio, L’Io e l’Altro. La relazione interculturale nella società dei migranti, Milella,
Lecce 2003.
28
29
172
Antonio De Simone
Nei paesaggi sociali, l’incertezza «diventa una componente costitutiva e permanente dei sistemi contemporanei perché non è possibile
muoversi da un contesto all’altro usando ciò che è stato acquisito
altrove: non si può passare da un tempo all’altro trasferendo direttamente ciò che è stato esperito in precedenza; non si può agire senza
far svanire nell’irreale tutti i possibili corsi d’azione meno uno, quello che viene effettivamente realizza-to».34 Di fatto, anche per l’identità, l’esperienza dell’incertezza è segnata dal paradosso di trovarsi
sempre più nelle condizioni in cui «è impossibile non scegliere»:
Poiché anche il non decidere è una scelta, questa non è più solo espressione di
una libera volontà ma di una nuova forma di destino. Siamo destinati a scegliere e
a decidere e poiché decidere vuol dire letteralmente “tagliare”, la perdita entra a far
parte dell’orizzonte quotidiano come esperienza culturale generalizzata che corre
parallelamente con la percezione di avere un’infinità di possibilità a disposizione,
un’infinità di tempi e di spazi per l’azione.35
Noi, oggi, in quanto attori (e personaggi) sociali viviamo nella società complessa il cui tempo-spazio è contraddi-stinto dalla pluralità.
Comprendere e interpretare quanto sia importante questa pluralità e
come sia ancora possibile continuare ad essere ad un tempo uguali,
diseguali, distinti, differenti, altri e diversi è un problema ineludibile,
strategicamente centrale ed inquietante in questo nostro tempo caratterizzato dal gioco, dalla costruzione, dalla distruzione, dal conflitto continuo di in-finite, precarie, con-fuse, multiformi e disseminate
identità, differenze e diversità. Tutti percorsi che indicano dei possibili transiti tra zone di confine e di frontiera, tragitti, spostamenti,
tracce, itinerari che impongono all’occhio e alla mente del soggetto
contemporaneo di procedere necessariamente in uno scenario declinato al plurale. Percorsi di confine, sentieri che borgesianamente si
biforcano all’infinito, che generano continuamente incertezze, che vivono di ambivalenze, contingenze e/o di progettualità: queste sono le
condizioni individuali e collettive che all’ermeneutica dell’osservatore contem-poraneo descrivono il carattere polimorfo, disseminato,
frammentario, paradossale ed inquietante dell’identità contemporanea, della sua crisi che per taluni costituisce il nuovo mal du siècle.
Nel nostro tempo, partire da sé, dalla propria identità, dalle proprie
appartenenze è sempre più alla base delle attuali scelte individuali e
collettive, della formazione dei criteri di giudizio, dei comportamenti
34
35
A. Melucci, “Identità”, in Id. (a cura di), Parole chiave, Carocci, Roma 2000, p. 119.
Ibid.
Antonio De Simone
173
e degli stili di vita. L’identità diviene così non solo il luogo dell’affermazione della propria soggettività, della riflessività dell’attore sociale, ma anche conseguentemente il luogo di tutti i conflitti, il punto
di partenza per differenziarsi e spesso opporsi a tutti coloro che non
sono ascrivibili sotto lo stesso segno identitario. Da questa centralità dell’identità si dipartono due diversi percorsi: uno indirizzato alla
affermazione solo di se stessi e di coloro che con-dividono gli stessi
tratti “naturali”, geografici, etnici, razziali o di genere e che porta
al particolarismo, all’egoismo e alle più recenti teorie comunitariste.
L’altro percorso possibile è invece indirizzato alla condivisione delle
proprie esperienze e, pur partendo dall’amor proprio, coniuga i propri interessi ed i propri desideri con il riconoscimento dell’altro come
soggetto portatore di diritti e di passioni: questo percorso conduce a
nuove forme di solidarietà.36
È sempre più difficile oggi teorizzare, rappresentare, interpretare e
diagnosticare l’identità, l’alterità e la diversità, ovvero la galassia della
pluralità. È arduo per l’osservatore far rientrare il complesso e polimorfo multiversum della pluralità entro i limiti (e i confini perimetrali)
della teoria. Per molti aspetti la teoria è incapace di “ridurre la complessità” interna ed esterna della pluralità, della intera “dialettica del
vivente” intesa come proces-so dinamico sincronico e diacronico altamente differenziato. Le situazioni tragiche esistono: la teoria non può
eli-minarle! La pluralità, ovvero le variegate forme e manifestazioni
esperienziali di identità dell’io, di alterità e di (vecchie e nuove) diversità, si può soltanto vivere praticamente nell’atto singolo e/o collettivo
della propria e altrui universale singolarità, come accadimento fenomenologico dell’io, del tu e del noi. La pluralità vissuta, irrappresentabile, non si apprende e non si insegna né per teoria né per empatia,
ma la si accoglie o la si rifiuta. Per comprendere la pluralità occorre
sostituire la visione bipolare e dicotomica della realtà con quella multifocale, multiculturale, che contempla al suo interno la moltiplicazione
delle parti in campo e che comprende la totalità differenziata e processuale delle relazioni e delle identificazioni. Qui però la teoria della
pluralità è giustificata perché, retroagendo circolarmente sulla pratica
della pluralità, può e deve aiutarci a procedere analiticamente e criticamente per scomposizioni prismatiche a parlare insieme dell’identità,
dell’alterità, della differenza, della diversità: cioè della pluralità. Nelle pagine che seguono cercherò di sondare alcune delle possibili (e
36 Cfr. G. Turnaturi, “Le nuove basi della solidarietà: amor proprio e stima di sé?”, in F. Crespi
- S. Moscovici (a cura di), Solidarietà in questione, cit., p. 100.
174
Antonio De Simone
plausibili) risposte che la riflessione speculativa e il dibattito culturale
contemporaneo hanno cercato di dare – attraversando alcuni “percorsi”
– alla complessa e problematica questione dell’identità, dell’alterità e
del riconoscimento. In particolare ho scelto di soffermarmi (1) sull’antropologia filosofica della pluralità e della intersoggettività e (2) sull’ermeneutica del riconoscimento37 che il pensiero filosofico, sociale,
politico ed ermeneutico del Novecento ha tracciato nell’affrontare il
tema qui dibattuto. Trasversalmente, nel contempo, affronterò – senza
alcuna pretesa di esaustività – le tematiche (di altri autori) che fanno
specularmene riferimento a tali importanti questioni.
2. Filosofia dell’apparenza e pluralità umana (tragitti da H. Arendt)
Hannah Arendt, una delle intelligenze critiche più alte del Novecento, studiosa di filosofia e politica, nella sua ultima ed incompiuta
opera The Life of the Mind38 ha affermato che «la pluralità è la legge
della terra». Secondo la Arendt, «non esiste in questo mondo nulla e
nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre
parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è è fatto per essere percepito da qualcuno. Non
l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta».39 Per tutto ciò, dunque,
la pluralità, come si diceva, è “la legge della terra”.
Al centro della ricostruzione arendtiana della teoria dell’agire – già avviata in precedenza nella sua principale e più nota opera Vita activa40 – e del pensare vi è il tentativo di mostrare come
37 Per una ricostruzione mirata della teoria critica della solidarietà tra estranei (Habermas) e
del riconoscimento (Honneth), rinvio il lettore a A. De Simone, “Identità, alterità e dialettica del
riconoscimento. Filosofia europea contemporanea e mondo globale”, in F. D’Andrea, A. De Simone, A. Pirni (a cura di), L’Io ulteriore, cit., pp. 165 e sgg. (ivi bibliografia).
38 New York 1978; ed. it. La vita della mente, introduzione e cura di A. Dal Lago, trad. it. di
G. Zanetti, il Mulino, Bologna 1987. Sui fondamenti antropologici, politici ed ontologici del pensiero della Arendt, cfr. tra gli altri F. Restaino, “Hannah Arendt: «vita activa» e «vita contemplativa»”, in Storia della filosofia fondata da N. Abbagnano, vol. IV, La filosofia contemporanea, t.
2 di G. Fornero, F. Restaino e D. Antiseri, UTET, Torino 1994, pp. 63-76; R. Esposito (a cura di),
La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, QuattroVenti, Urbino 1987
(che comprende anche il saggio di D. Losurdo, “Hannah Arendt e l’analisi delle rivoluzioni”); S.
Forti, Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Angeli, Milano
1994; L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente. Pensare politicamente, Feltrinelli, Milano
1995; F. Collin, L’homme est-il devenu superflu? Hannah Arendt, Odile Jacob, Paris 1999; S. Forti (a cura di), Hannah Arendt, Mondadori, Milano 1999; R. Giusti, Antropologia della libertà. La
comunità delle singolarità in Hannah Arendt, Cittadella, Assisi 1999; AA.VV., Hannah Arendt, in
«Fenomenologia e società», n. 3, 2001; D. Losurdo, “Per una critica della categoria del totalitarismo”, in M. Ceretta (a cura di), Bonapartismo, cesarismo e crisi della società, Olschki, Firenze
2003, pp. 167-96; F. Fistetti, I filosofi e la polis. La scoperta del principio di ragione insufficiente,
Pensa Multimedia, Lecce 2004 (sulla Arendt: pp. 33-157).
39 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 99.
40 Ed. ted. Stuttgart 1960; ed. it. Vita activa, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964.
Antonio De Simone
175
la sfera dell’apparenza riesca a render conto del rapporto tra corpo,
emozioni, differenza, singolarità (rapporto caratterizzato dall’ombra
e dall’oscurità della vita interiore e della sfera privata) e apparizione nel contesto della pluralità, nella vera e propria realtà del mondo
comune. La reciprocità e la forza di incorporazione dell’esperienza
percettiva, che fa sì che gli esseri viventi siano soggetti e oggetti,
percipienti e percepiti, trova il suo spazio nella sfera dell’apparenza,
della relazione, della pluralità. Il fatto di vivere in un mondo in cui
gli esseri senzienti sono apparenze destinate e insieme atte ad apparire, a vedere e a essere viste, a toccare e a essere toccate, fonda la
“fede percettiva” che per la Arendt poggia sulla certezza secondo cui
ciò che si percepisce possiede un’esistenza indipendente dall’atto del
percepire. Da un lato, viviamo in un mondo in cui ognuno vede da
prospettive molto diverse rispetto a quelle dei suoi simili, prospettive
plurali, infinite, diverse, eccentriche; dall’altro, ciò che ognuno vede
e sente è sempre un unico mondo, il mondo reale. Il “riconoscimento
tacito da parte degli altri” della realtà del mondo nel suo apparire,
ovvero il fatto che non siamo soli a vedere e a sentire, ma gli altri intersecano la nostra attività percettiva, la integrano così come la
ostacolano, ripropone con forza la tesi della Arendt, secondo la quale,
come abbiamo già osservato, “la pluralità è la legge della terra”.
L’apparenza si costituisce nei movimenti della percezione, che
coinvolgono la presenza delle cose così come degli altri esseri umani e non può essere derivata dall’attività di un soggetto singolo che
si rivolge verso se stesso e si forma un’immagine del mondo. Questa esperienza non è primaria, è derivata e costruita e come tale è
il prototipo dell’attività mentale. Originaria è l’esistenza del mondo
e di esseri che sono del mondo prima ancora che nel mondo. L’apparizione di un essere vivente – innanzitutto come autoesibizione,
far vedere, sentire la propria presenza e successivamente come autopresentazione, scelta deliberata, attiva e consapevole di come apparire - è dunque il momento inaugurale dell’esperienza intesa come
coinvolgimento in un tessuto di relazioni e scambi tra il percepire e
l’essere percepiti, l’esplorazione soggettiva e gli aspetti del mondo
oggettivo.
Tra luce ed oscurità, tra emozioni, riflessi, ombre, variazioni, rifugi, fughe, derive o prospettive, tra natalità41, esistenze vissute e
morti, l’io agisce e patisce, in quanto è corpo ed anima, ha perduto
41 Sul tema della natalità nella riflessione di Hannah Arendt, cfr. M. Durst, “La forza della
fragilità. La nascita in Hannah Arendt”, in AA.VV., Hannah Arendt, cit., pp. 23-50.
176
Antonio De Simone
il mito del rifugio dell’interiorità, ma ha guadagnato l’ancoramento
nella realtà delle relazioni con altri corpi e con le cose. In questa
realtà è accompagnato da un coscienza silenziosa dell’io-sono-io, che
unifica le sue esperienze, anche quando è totalmente dimentico di se
stesso, a partire dal “sentirsi” fisico-corporeo. Questa coscienza tacita si trasformerà poi nella rivelazione agli altri del chi, di un’identità
costruita attraverso gli atti di una vita: la biografia.
Secondo la Arendt, «l’azione, la sola attività che metta in rapporto
diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde
alla condizione umana della pluralità». Non esiste azione solitaria in
quanto tale, e l’agire, all’opposto del «lavorare» e più ancora dell’«operare», si coniuga sempre al plurale. La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso che dell’azione, ha “il duplice
carattere dell’eguaglianza e della distinzione”. Che cosa significa?
Innanzitutto, il fatto che questa eguaglianza proceda insieme alla “distinzione” significa che essa non va intesa come riduzione all’identico e all’invariabile, ma come parità fondamentale che autorizza la
possibilità di azioni e parole “rivelatrici” che ci distinguono dagli altri
manifestando la nostra identità più peculiare. Infatti non esisterebbe
uno spazio pubblico senza questo fragile equilibrio della prossimità
e della distanza tra l’io, il tu e il noi. Il senso di questa eguaglianza
propone il riconoscimento nella pluralità (e non nell’uniformità) delle differenze.
Nella filosofia dell’apparenza abbozzata dalla Arendt l’immagine
del mondo come “scena” è immersa in una luce greca: agire è soprattutto dar da vedere e la visione è appunto l’attitudine umana fondamentale non solo al livello della teoria, ma anche al livello dell’esistenza
mondana. La parola “rivelante” e il discorso libero e comunicativo costituiscono i modi fondamentali dell’azione. L’attore sociale ha come
testimoni coloro insieme ai quali agisce, perché l’azione richiama gli
sguardi su di lui o lo espone agli occhi di tutti: agire è scoprirsi. Ecco
perché, come si diceva poc’anzi, “non esiste in questo mondo nulla e
nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore”. La relazione soggetto-oggetto si schiude su di una circolarità nella quale l’essere “vero” non si trova né da una parte né dall’altra perché il soggetto
esige un mondo che di per se stesso è invito allo sguardo, al dialogo
reciproco tra l’io, il tu e il noi. Il mondo è dunque essere per il soggetto
e l’uomo è essere al mondo e per il mondo. Nell’azione, l’apparenza
non è in se stessa travestimento ingannevole, maschera di una persona,
perché la realtà si concede a noi nei suoi vari aspetti come delimitata
dal visibile o dall’evidenza nella distinzione tra sembianti autentici e
Antonio De Simone
177
sembianti inautentici. L’azione ci inserisce nel mondo permettendoci di
“acquisire e sostenere la nostra identità personale e di iniziare qualcosa di completamente nuovo”. L’azione, in quanto inizio perenne, è la
trama della storia da cui emerge il senso dell’identità e che fa parlare
la pluralità nel e del mondo. Hannah Arendt ha discusso criticamente il modello della polis greca, cifra emblematica della libertà degli
antichi, confrontandolo con il modello di sfera pubblica espressione
dilemmatica della libertà dei moderni42: ci ha offerto un’analisi critica
della condizione umana e della pluralità tale che ci protegga dall’illusione di vivere in un mondo privo di orientamento, un mondo dove le
trasformazioni scientifiche, l’esplosione delle tecnologie informatiche,
l’internazionalizzazione dell’economia e la crisi della socializzazione
sono ormai fenomeni strutturanti la vita quotidiana degli uomini.
3. Identità, alterità, riconoscimento: scenari della complessità sociale e diramazioni della vita globale
Oggi viviamo in una società caratterizzata, tra l’altro, da un simultaneo processo di globalizzazione della vita economico-finanziaria, dei
processi comunicativi, nonché in alcuni casi degli stili di vita, e dall’accentuazione dei particolarismi – culturali, etnici, religiosi – che sembrano rendere impossibile un concetto universalistico di solidarietà43,
una società, dunque, altamente complessa, interdipendente, che pervade la vita pubblica e privata di noi tutti. Una società dove identico e
diverso, normale, deviante e patologico, permesso e proibito diventano
sempre più indistinti. La globalizzazione con gli squilibri degli scambi
economici e finanziari, il contatto di culture diverse, il “conflitto” (presunto e/o tale) tra diverse civiltà44, la conseguente mancanza di senso
di appartenenza, la crisi dell’identità, gli sconvolgimenti ecologici, i
conflitti interetnici e religiosi, le guerre terroristiche, il male d’infinito
diffuso socialmente, caratterizzano pervasivamente ogni ambito della
società, relegando sempre più l’orizzonte delle aspettative verso il futuro turbato al mondo del possibile e/o del contingente oppure al tempo dell’attesa e dell’aldilà religioso.45 Questo scenario appena descritto
è sufficiente per dire che apparteniamo (anche in Europa) alla stessa
42 Sull’argomento, cfr. E. Antonini, Hannah Arendt: nostalgia della “polis” o modernismo
politico?, Jouvence, Roma 2002.
43 Cfr. F. Crespi - S. Moscovici, Solidarietà in questione, cit.
44 Cfr. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it. di S. Minucci, Garzanti, Milano 1997.
45 Cfr. R. Bodei, Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995; cfr. inoltre
F. D’Andrea, L’uomo mediano. Religiosità e “Bildung” nella cultura occidentale, Angeli, Milano
2005.
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Antonio De Simone
società e alla stessa cultura? Di fatto, nella società complessa, quando
siamo tutti insieme non abbiamo quasi niente in comune, non riusciamo a comunicare, mentre quando condividiamo una stessa comunità di appartenenza, una lingua comune, una tradizione e una storia,
una reciproca identità, rifiutiamo l’altro e chi è diverso da noi. Anche
l’agire educativo e la sua vocazione autenticamente formativa e civile
si rende più difficile in un mondo diviso che rifiuta la diversità. Sulla
terra, dove la legge è la pluralità, possiamo vivere insieme soltanto
se paradossalmente perdiamo la nostra identità. Quella che va colta,
compresa e interpretata non è tanto la progressiva ed accelerata mutazione dei comportamenti individuali provocata dal mercato globale,
ma la crescente, ineffabile frammentazione dell’esperienza individuale,
cioè dell’esperienza di individui che appartengono simultaneamente a
diverse situazioni ecologiche e sociali. Il soggetto, come dice Charles
Taylor – in Radici dell’io46 – è diventato un flusso di esperienze. Se
nella società moderna «siamo consape-voli del mondo attraverso un
“noi” prima che attraverso un “io”», è altrettanto vero che nella società
complessa la continua mobilità richiede la tematizzazione della propria
identità. L’io, dunque, ha perso la sua unità, il suo centro, è diventato
multiplo e acentrico. Nella nostra epoca, l’affermazione della propria
identità si è andata sempre più caratterizzando come l’attestazione della
propria differenza. Si è arrivati così molto spesso all’essenzializzazione
di quei tratti che distinguono il sé dagli altri o un gruppo da un altro e
alla contrapposizione fra differenze. Le politiche identitarie divengono
politiche della contrapposizione di una differenza all’altra, della essenzializzazione delle differenze che sempre più divengono vincolanti per
l’azione individuale e collettiva. Inoltre questa essenzializzazione che
accomuna alcuni e che li contrappone ad altri finisce con l’azzerare
l’individualità nella sua complessità. Attraverso le politiche identitarie,
pur partite dalle problematiche dell’identità, si arriva alla templificazione dell’identità stessa. L’essenzializzazione di un tratto identitario,
sia esso un’etnia, la razza o il genere, finisce paradossalmente per negare quella differenza che si voleva affermare, annullando tutte le altre
componenti che costituiscono l’identità di ciascun soggetto.47
46 Ch. Taylor, Radici dell’io. La costituzione dell’identità moderna, trad. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1996. Sul pensiero di Taylor, cfr. P. Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001; A. Pirni, Charles
Taylor. Ermeneutica del sé, etica e modernità, Milella, Lecce 2002; N. Genghini, Identità, comunità, trascendenza. La prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2004.
47 Cfr. G. Turnaturi, Le nuove basi della solidarietà: amor proprio e stima di sé?, cit., p. 101.
Antonio De Simone
179
Ma, come si può vivere insieme se il nostro mondo “in frammenti”, come direbbe Geertz48, è diviso? Nella “disuguaglianza” reale
che pervade drammaticamente la condizione umana contemporanea,
come si può comunicare con gli altri e vivere insieme quando l’esperienza quotidiana ci mostra una crescente dissociazione tra il mondo
dell’oggettività e lo spazio della soggettività, tra la verità del cuore e
la verità della ragione? Come si possono coniugare reciprocamente le
nostre identità e diversità con l’unità molteplice e differenziata di una
vita vissuta al plurale? Per vivere insieme nel rispetto, nella tolleranza, nell’accoglienza e cura reciproche delle nostre identità plurime,
pur essendo diversi, dobbiamo rispettare determinati codici di buona
condotta, le regole del gioco sociale e della democrazia procedurale e sostanziale nel rispetto delle libertà personali e collettive, senza
violarne le differenze logiche. Dobbiamo educarci ed educare ad un
nuovo universalismo sensibile alle differenze, in cui, come dice Jürgen Habermas, l’inclusione dell’altro non significa accaparramento
assimilatore e strumentale né chiusura verso il diverso, ma apertura verso gli altri che tali vogliono rimanere.49 Oppure, realizzare un
progetto ottimisticamente eco-politico a scala mondiale che, come
sostiene Morin, mira a superare barriere nazionali e pregiudizi etnici,
cioè un «nazionalismo planetario» che a Franco Ferrarotti50 appare
più una «scommessa cosmica» e una «promessa profetica» che un
progetto razionale in grado di valutare le realtà effettuali del mondo contemporaneo. Di fatto, la tolleranza può soltanto tutelare una
difficile coesistenza, ma non assicura né garantisce la libera comunicazione tra identità, alterità e diversità: è qui che si apre lo spazio
48 Cfr. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, trad. it. di A. Michler e M. Santoro, il Mulino, Bologna 1999. Su Geertz, cfr. F. Inglis, Clifford
Geertz. Culture, Custom and Ethics, Polity Press, Oxford 2000; C. Malighetti, Il filosofo e il
confessore. Antropologia e ermeneutica nel pensiero di Clifford Geertz, Unicopli, Milano 1991;
A. De Simone, “Tra Gadamer e Geertz. Ermeneutica, antropologia e filosofia”, in M. Gardini e
G. Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive, Quodlibet, Macerata 2004, pp. 245-74
e A. Pirni, “Politica, antropologia ed ethos della cultura in Clifford Geertz”, in Filosofia pratica e
sfera pubblica. Percorsi a confronto, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 81-115.
49 Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998. Sul pensiero di Habermas rinvio il lettore a A. De Simone, Tradizione e
modernità. Ermeneutica, filosofia pratica e teoria politica nel primo Habermas, QuattroVenti,
Urbino 1993, e A. De Simone, Habermas. Le metamorfosi della razionalità e il paradosso della
razionalizzazione, Milella, Lecce 1999; cfr. inoltre S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 2000; S. Haber, Jürgen Habermas, une introduction, La Découverte, Paris 2001;
M. Beck Matuštík, Jürgen Habermas. A Philosophical-Political Profile, Rowman & Littlefield,
Lanham 2001 e R. Wiggershaus, Jürgen Habermas, Rohowolt Taschenbuch, Reinbek 2004.
50 Cfr. F. Ferrarotti, La patria planetaria del candido Morin, «Il sole-24 ore», 5-9-1993, p. 25.
Sul pensiero di Morin, cfr. S. De Siena, La sfida globale di Edgar Morin, Besa, Lecce 2002 e C.
Pasqualini, “Complessità e identità umana. L’uomo Morin-l’uomo di Morin”, in A. De Simone (a
cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, cit., pp. 249-84.
180
Antonio De Simone
d’intervento dell’agire politico, educativo e formativo. Essere, vivere
ed esistere non sono la stessa cosa. Di fatto, la complessità dell’identità non è riconducibile ad un unico tratto e le appartenenze non sono
mai naturali, ma piuttosto sono il risultato di scelte consapevoli del
soggetto, che può continuamente scegliere fra più apparte-nenze ed
essere sul confine di più identità e più differenze. Ciò che fa di un
uomo un uomo – scriveva Montesquieu – è la sua capacità di sottrarsi al determinismo della propria nascita. L’identità e le appartenenze
sono allora frutto di scelte, possono essere ritrovate più che nell’appartenenza ad un luogo o ad un gruppo, in uno spazio retorico scelto,
costruito e condiviso insieme agli altri. Le identità e le appartenenze
divengono così il risultato di azioni intersoggettive basate sulla vita
quotidiana e sull’esistenza. Ciò che di comune costruiamo insieme
agli altri è dunque il luogo della reciproca comprensione e del reciproco riconoscimento. Ciò porta a ripensare identità e differenze
non come qualcosa di dato una volta per tutte, ma come fragili, storicamente e socialmente costruite. Solo basandosi sull’identità e la
differenza così ridefinite possiamo affrontare la contraddi-zione fra
la nostra appartenenza ad una comunità e l’appartenenza a noi stessi,
arrivando ad una declinazione identitaria che non sia necessariamente contro l’altro.51
Il bisogno di esistere non può mai essere colmato definitivamente,
nessuna coesistenza già vissuta ci libera dalla ricerca di nuove coesistenze. Il riconoscimento della nostra esistenza, che è la condizione
preliminare di qualsiasi coesistenza, è l’ossigeno dell’anima. La mancanza di riconoscimento è la solitudine. Una pluralità di solitudini
non crea una società. L’io sociale di un uomo è il riconoscimento che
egli ottiene per parte dei suoi simili. La possibilità e la certezza di
essere riconoscibili e riconosciuti è un elemento fondamentale per la
costruzione dell’identità e della stima di sé. È la posizione dell’estraneo, dello straniero52, dell’emarginato, dell’escluso, del diverso che
ci permette di conoscere questa situazione. Il paesaggio della vita
sociale contemporanea, dall’alba alle tenebre della notte, è solcato
da continui sconvolgimenti. Le risposte del passato sono diventate
o inattuali o incomprensibili per spiegare la complessa dialettica tra
51 Sulla nozione critica di identità, ivi compresi i suoi paradossi e i suoi aspetti contraddittori
in rapporto a quella di alterità, cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2001. Sulle strategie narrative e rappresentative dell’identità e dell’alterità che le società mettono in atto
a livello antropologico-culturale, cfr. J. Clifford, Ai margini dell’antropologia, Meltemi, Roma
2005.
52 Cfr. V. Cotesta, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagini dell’Altro nella società globale, Laterza, Roma-Bari 2002.
Antonio De Simone
181
identità, alterità e riconoscimento. Il tempo del muta-mento ha sostituito quello dell’ordine. Il “disagio della modernità”, le sue conseguenze e la dissociazione tra eco-nomia, cultura, istituzioni, hanno
reso sempre più difficile “vivere insieme” e comunicare con gli altri,
con chi è diverso.
Nella nostra esperienza contemporanea, il mondo che abitiamo, e
nel quale, come dice Heidegger, siamo “deietti”, è degradato. Il nostro pianeta è saturo di rifiuti e di «esseri umani di scarto»: i reietti,
i rifugiati, gli sfollati, i richiedenti asilo sono i “rifiuti” della linea
non controllata di produzione della globalizzazione nella società «liquido-moderna».53 I nostri destini personali54 e i nostri mondi vitali
sono sempre più “colonizzati” (Habermas). L’io non ha più una dimora stabile, è sempre più un io nomade.55 Non sappiamo più con
certezza dove ci sentiamo a casa.56 “Ognuno va dovunque”. Nel fluire incessante di contatti reali o virtuali, nei continui spostamenti di
informazioni, di conoscenze, di uomini, di donne, di merci e di valori
che caratterizza la nostra epoca, l’aderenza al territorio di un individuo e di un gruppo perde la sua unilateralità e diviene sempre più
ambigua e discussa: in molte situazioni sociali e in diversi contesti
culturali, il rapporto fra territorio e gruppo, tra individuo e casa diviene sempre più evanescente e problematico. Questo processo che
oggi ha raggiunto livelli avanzatissimi viene definito come deterritorializzazione: l’umanità è sempre più nomade. Esaurito ed esautorato
il radicamento nel territorio circoscritto della propria comunità di appartenenza, oggi il nomadismo mentale e fisico a cui siamo destinati
in modo crescente impone di trovare modalità di relazione con la
pluralità, con la molteplicità degli incontri, con la diversità, con la dinamicità delle situazioni umane e degli eventi. Gli scenari nuovi sono
descritti da milioni di individui che nella loro vita quotidiana erano
fino a pochi decenni ignoti gli uni agli altri, mentre oggi sono posti
gli uni di fronte agli altri in un “mondo che è dappertutto ma da nessuna parte”, in un mondo dove “ognuno va dovunque” finché i flussi
Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, trad. it. di M. Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2005.
Cfr. R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002.
55 Sul nomadismo contemporaneo e la strutturazione di una «sociologia dell’erranza» fra analisi
politica, riflessione sul quotidiano e sull’immaginario sociale, cfr. M. Maffesoli, Del nomadismo.
Per una sociologia dell’erranza, trad. it. di R. Vitali e A. Toscani, Prefazione di L. Mazzoli, Nota
introduttiva di G. Boccia Artieri, Angeli, Milano 2002. Su Maffesoli, cfr. F. D’Andrea, “Genius
loci. I luoghi del quotidiano attraverso Maffesoli”, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e
vita quotidiana, cit., pp. 285-329.
56 Cfr. A. Heller, Dove siamo a casa, trad. it. e cura di D. Spini, prefazione di M. A. Toscano,
Angeli, Milano 1999.
53
54
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Antonio De Simone
dei capitali internazionali, la produzione tecnologica e il mercato dei
consumi, come i mutamenti negli scenari geo-politici, determineranno le nostre vite e i nostri destini. Tutto ciò richiede anche un nuovo
sforzo ermeneutico per rappresentare e descrivere l’alterità, per interpretarla, conoscerla e viverla nella trasversalità dinamica che agita
e anima le realtà fenomenologiche, simboliche e virtuali del tempo
presente-futuro. Tutto ciò anche in funzione della necessità che abbiamo di progettare e realizzare processi educativi che nel dinamismo
culturale siano capaci di formare nuove identità del sé, di far fronte a
nuovi rapporti tra le configurazioni intersoggettive, affinché ognuna
di esse possa conservare un certo grado di significatività e di autoconservazione biografica, simbolica e comunicativa. Il luogo in cui
viviamo, probabil-mente, non sarà quello in cui moriremo. I giardini
in cui abbiamo giocato da bambini si sono trasformati in qualcos’altro. Vi è una crisi anche nell’architettura sociale dello spazio umano.
L’uomo europeo è ormai senza casa: in ciò risiede nel contempo il
suo dramma e la sua possibilità di riscatto. La globalizzazione degli
scambi economici fa del mondo una realtà differenziata con-divisa
soltanto sotto il segno del denaro, che è sempre più al centro dei
bisogni e dei desideri dell’uomo, che determina i suoi comportamenti, i suoi ritmi lavorativi e vitali: il denaro come “cifra relativa dell’essere”57, simbolo del valore relativo e scambiabile di tutte le cose,
dove alla qualità dell’essere si impone la quantità dell’avere, simbolo
ambivalente di relazione tra l’io e l’altro. La razionalità strumentale,
gli interessi del calcolo, il flusso freddo del denaro e del potere non si
fronteggiano semplicemente con il flusso caldo delle identità e delle
differenze, ma cercano di rapportarvisi funzionalmente.
Nei processi complementari di deterritorializzazione, deistituzionalizzazione e desocializzazione che connotano ampia-mente la nostra esperienza umana contemporanea, l’individuo si riduce sempre
più ad un mosaico di comportamenti diversificati, differenti, multipli:
un continuo scambio di ruoli caratterizza la struttura della persona.
Dell’io, dei suoi sentimenti, dei suoi valori è rimasta soltanto l’ombra di se stesso. In questa scissione che divide in uguali e diversi, in
inclusi ed esclusi, la dualizzazione tra identità e alterità, differenza
e diversità, separa il mondo della parola dell’io, che è quello della
57 Cfr. G. Simmel, Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, UTET, Torino 1984.
Sul pensiero di Simmel rinvio il lettore a A. De Simone, Georg Simmel. I problemi dell’individualità moderna, QuattroVenti, Urbino 2002; A. De Simone, Filosofia dell’arte. Lettura di Simmel,
Milella, Lecce 2002; A. De Simone (a cura di), Leggere Simmel. Itinerari filosofici, sociologici
ed estetici, QuattroVenti, Urbino 2004 e M. C. Federici - F. D’Andrea (a cura di), Lo sguardo
obliquo. Dettagli e totalità nel pensiero di Georg Simmel, Morlacchi, Perugia 2004.
Antonio De Simone
183
comunicazione e del dialogo con il tu e con il noi, da quello del sangue, cioè il mondo dell’esclusione, della solitudine, della marginalità,
del deficit, della sofferenza, della violenza, della repressione, della
morte. Si può vivere insieme uguali e diversi? Possiamo vivere con
e nelle nostre differenze? Possiamo imparare ad esistere con e nelle nostre diversità? L’enigma dell’identità e l’inquietudine del vivere
insieme nelle diversità permangono sino a quando non riusciremo a
gettare un ponte tra identità, alterità, differenza e diversità: un ponte
su quel grande “abisso” oltre il quale l’uomo intravede la possibilità
per una vita libera e giusta.
Ma, se non sappiamo più con certezza “chi siamo”, è difficile vivere insieme nelle differenze e nelle diversità. Cause naturali, sociali, culturali, economiche e anche (geo)politiche si intrecciano nella
scissione identitaria contem-poranea del soggetto e tra soggetti. La
scissione, la rottura del filo della vita dell’io, del tu, del noi ormai
c’è. Ne abbiamo non solo i sintomi e gli indici empirici, ma anche gli
indicatori sociali e le concrete e drammatiche testi-monianze reali.
Nell’agenda politica contemporanea si chiede urgentemente di invertire la tendenza: occorre perseguire concretamente strategie d’intervento che assumano democraticamente le “lotte per il riconoscimento” come punto di partenza qualificante l’educazione all’alterità, alla
differenza, alla valorizzazione della diversità in tutte le sue complesse costellazioni. Un salto di qualità ci attende perché nessuno può
salvarsi da solo.
Come dicevamo, però, la nostra società è sempre più con-fusa.
L’attore sociale nel theatrum publicum, nella scena contemporanea
della vita sociale, è sempre più “un personaggio in cerca d’autore”.
L’io è sempre più consistente e non più autentico e coerente con se
stesso. L’«unità» del personaggio si riduce sempre più a quella di
un’esperien-za contemporaneamente di compresenza e assenza nei
confronti del proprio sé. L’io, pur cercando un centro di gravità permanente, ri-trova semplicemente e soltanto uno spazio acentrico di
gravità mobile, incapace di comu-nicare con l’altro e con il diverso.
Lo scenario sociale è di-segnato da un acentrico polimorfismo delle
identità imperfette e delle nuove diversità. Il soggetto affabulato e deumanizzato dalla metafisica da supermercato58, seppur formalmente
libero, ricerca figure speculari del proprio sé, cercando di riconoscervi un principio di ordine e di salvezza. Tuttavia, il soggetto non ha
altro contenuto che il bricolage in cui tentare di ri-comporre vita,
58
Cfr. M. A. Toscano, L’ovvio quotidiano, cit., pp. 85-88.
184
Antonio De Simone
lavoro, economia, mercato, cultura, sentimenti, identità, differenza,
diversità, per cercare di dare un senso alla propria esperienza in un
mondo disincantato, politeista e plurale come diceva Weber59, in cui
edonismo ed individua-lismo estremi si fronteggiano con forme di
multiculturalismo radicali. In un mondo “secolarizzato” dove – à la
Nietzsche – “Dio è stato ucciso”, per cui se ne può fare a meno dell’ipotesi, tutto è permesso!60
4. Identità, ermeneutica del sé e polisemia dell’alterità
(tragitti da P. Ricœur)
Nel nostro tempo la teoria e la prassi devono accettare la sfida
dell’altro e della diversità. Ma in situazioni di meticciato culturale sempre più complesse, di commistioni e contaminazioni multiple, di mosaici di identità plurali, il pensiero è “realmente” capace
di pensare l’altro, la differenza, la diversità? Il pensiero filosofico
contemporaneo è capace di pensare oltre ad un’ermeneutica del sé
ed un’ermeneutica della finitudine intesa a chiarire «i limiti di un
ente finito (l’uomo) e a fondare le possibilità che lo costituiscono in
proprio»61, anche ad un’ermeneutica dell’altro, un’ermeneutica del
riconoscimento?62 È qui possiamo incontrare sia Ricœur che Lévinas
(v. infra § 5) e dialogare con il loro sforzo ermeneutico di comprendere l’alterità. Nella scena filosofica contemporanea l’opera di Paul
Ricœur63 Soi-même comme un autre64 ha cercato di offrire alcune
risposte a questo interrogativo. La crisi di autocertezza delle filosofie
soggettivistiche o idealistiche del cogito costituisce il quadro problematico entro il quale Ricœur rielabora la tematica dell’identità per59 Al riguardo, cfr. A. De Simone, Senso e razionalità. Max Weber e il nostro tempo, QuattoVenti, Urbino 1999.
60 Sul rapporto tra modernità, globalizzazione e secolarizzazione e sulla nozione di società
postsecolare, cfr. J. Habermas, “Fede e sapere”, in Il futuro della natura umana. I rischi di una
genetica liberale, trad. it. e cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, pp. 99-112. Sul rapporto tra
solidarietà comunicativa, religione e modernità nella teoria critica di Habermas, cfr. M. Rosati,
Solidarietà e sacro. Secolarizzazione e persistenza della religione nel discorso sociologico della
modernità, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 76-112. In generale sul tema della secolarizzazione, cfr.
P. Grassi, Figure della religione nella modernità, QuattroVenti, Urbino 2001. Su Nietzsche, cfr.
D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati
Boringhieri, Torino 2004.
61 Cfr. N. Abbagnano, Le origini storiche dell’esistenzialismo, Presentazione di G. Fornero, in
«Micromega. Almanacco di Filosofia», 5, 2001, p. 299.
62 Cfr. P. Ricœur, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris 2004.
63 Per un breve ritratto intellettuale di Ricœur, cfr. A. De Simone, “Ricœur”, in G. Fornero, S.
Tassinari, Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano 2002, pp. 1039-54; cfr. inoltre D. Jervolino, Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003.
64 Seuil, Paris 1990; trad. it. P. Ricœur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book,
Milano 1993.
Antonio De Simone
185
sonale del soggetto come problema dell’ipseità e della dialettica del
sé e dell’altro da sé.
Chi è il soggetto? In quanto soggetto, “chi parla?, chi agisce?, chi
si racconta?”. Rispondere a questi interro-gativi significa per Ricœur
riconoscere l’impossibilità per il soggetto di possedersi immediatamente secondo l’illusione delle filosofie soggettivistiche dell’io. Scegliendo la via di un’ermeneutica del sé, l’idea di fondo di Ricœur è
che se nessuno è dato a se stesso semplicemente e immediatamente
come io, ciascuno ha da interpretarsi da parlante e da agente come
un sé. La questione: “chi parla?” si intreccia con la questione: “chi
agisce?”, questo perché gli atti del discorso sono considerati a loro
volta come azioni. Ricœur sostiene che dire sé non è dire io. L’io si
pone – o è deposto. Il sé è implicato a titolo riflesso in operazioni
la cui analisi precede il ritorno verso di sé. Se l’io si installava nella
certezza incrollabile del cogito cartesiano, che gli permetteva di imporsi come fondamento di un sapere ultimo e autofondato, il sé può
pretendere soltanto alla certezza vulnerabile dell’attestazione, che
corrisponde al modo indiretto e frammentario di ogni ritorno a sé.
Frammentazione non significa dispersione, contingenza irriducibile,
ma pluralità degli atteggiamenti e degli sguardi sul mondo, umile
riconoscimento della nostra situazione, impegno responsabile che si
concretizza nell’azione, quale nucleo unitario di una vita autenticamente vissuta. L’attesta-zione di sé – ricordiamo che per l’italiano
«sé» designa un pronome riflessivo della terza persona – è, secondo
Ricœur, confidenza nel potere di dire, nel potere di fare, nel potere di
riconoscersi come personaggio del racconto che costruisce l’identità
narrativa di ciascuno. Infine, essa è confidenza nel potere di assumersi la propria responsabilità morale, di rispondere «eccomi!» all’appello che mi viene dall’altro, secondo una tematica cara soprattutto
a Lévinas. L’attestazione – conclude Ricœur – si può definire come
l’assicurazione di essere se stesso agendo e soffrendo: l’attestazione
è l’assicurazione di esistere nel modo dell’ipseità. Questo significa
che l’ipseità è attestata da un lato nella sua differenza dall’identità
o medesimezza cosale, ma dall’altro nel suo rapporto dialettico con
l’alterità. Quest’ultimo tema, cioè quello dell’alterità, che Ricœur
guadagna da Heidegger e da Lévinas, marca in modo irreversibile
il suo allontanamento dalle filosofie dell’io. All’auto-posizione assoluta dell’io, per Ricœur, si contrappone la relazione costitutiva del
sé all’alterità, la quale non si sovrappone ad esso dall’esterno, ma si
attesta come travaglio interno all’ipseità stessa, nella passività fondamentale dell’essere a quest’ultima. Ricœur si riferisce alla passività
186
Antonio De Simone
del corpo proprio; poi a quella implicata dal rapporto con l’estraneo
(l’altro da sé della relazione di intersoggettività), infine alla passività
dissimulata del rapporto di sé a sé che si realizza come coscienza in
senso morale. Per Ricœur occorre difendere la polisemia dell’alterità,
in quanto essa non si lascia tradurre univocamente nella relazione del
sé con un altro soggetto.
5. Filosofia ed etica dell’alterità (tragitti da E. Lévinas)
Da parte sua, Lévinas sostiene – nella sua filosofia dell’altro elaborata in molte sue opere, ma soprattutto nella sua summa filosofica
intitolata Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité65 – che il pensiero
della totalità ha dominato lungamente la riflessione filosofica occidentale sull’essere, ingabbiando l’alterità, il molteplice e il diverso
nell’ambito appunto di una “totalità” unitaria e soffocatrice di ogni
alterità, di ogni differenza: la filosofia occidentale ha ridotto l’Altro
al Medesimo. In altri termini, intendendo il conoscere alla stregua di
una neutralizzazione sistematica del diverso, il pensiero occidentale
della totalità ha ricondotto, con uno sforzo autocentrico, ogni cosa
entro l’orizzonte ultimo dell’essere: «La possibilità di possedere, cioè
di sospendere proprio l’alterità di ciò che è altro solo a prima vista
e altro rispetto a me – è il mondo del Medesimo». Al pensiero della
totalità Lévinas contrappone la tesi della rottura della totalità su basi
etiche: questa rottura della totalità è soprattutto un’esperienza esistenziale che si realizza nell’incontro concreto con l’altro. Tale rottura non si ha in virtù di una rivolta egoistico-vitale dell’io (a sua volta
fonte di assimilazione di ogni altro a se medesimo), bensì in virtù
dell’appello etico che mi proviene dalla radicale altrui alterità: «L’Altro in quanto altro è Altri». In altre parole, l’incontro con l’Altro,
lungi dal consumarsi nel cerchio magico dell’interiorità, implica uno
squarcio dirompente sull’esteriorità e si configura come una novità
assoluta irriducibile a qualsivoglia dialettica dello Stesso. Il concreto
manifestarsi dell’assoluta alterità d’altri si manifesta e proviene dalla
65 Nijhoff, La Hayve 1961; trad. it. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca
Book, Milano 1980. Sul pensiero di Lévinas, tra gli altri, cfr. G. Fornero, “Lévinas: dal medesimo
all’altro. L’etica come filosofia prima”, in Storia della filosofia, vol. IV, La filosofia contemporanea, t. 2, cit., pp. 245-68; AA.VV., L’“Altro” di Lévinas, «aut-aut», pp. 273-74, 1996; A.
Ponzio, Responsabilità e alterità in E. Lévinas, Jaca Book, Milano 1995; G. Ferretti, La filosofia
di Lévinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996; F. Camera, “Lévinas. Ermeneutica e trascendenza”, in L’ermeneutica tra Heidegger e Lévinas, Morcelliana, Brescia 2001,
pp. 145-264; F. Fistetti, I filosofi e la polis, cit. (su Lévinas: pp. 161-231); F. Polidori, “L’Altro
infinito. Scene da Lévinas (e da Cartesio)”, in P. A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità,
Bompiani, Milano 2004, pp. 41-63.
Antonio De Simone
187
alterità radicale del volto altrui, nell’incontro reciproco di faccia a
faccia. Per «volto» Lévinas non intende le fattezze esteriori di altri, come tali riportabili nell’ambito delle mie possibilità conoscitive,
bensì il suo rivolgersi a me nella sua «nudità» Il volto è autosignificante perché non è un segno che rinvia ad altro, ma una presenza
viva che si auto-presenta e auto-impone «di per sé». L’altro in quanto
volto si dà originariamente come linguaggio e discorso. La relazione
al volto è immediatamente etica, del tutto esteriore all’io, che ribalta
sia il mio atteggiamento conoscitivo sia il mio più profondo attaccamento egoistico all’essere, e che mi rende soggetto responsabile, non
più accentrato su di sé, ma decentrato verso altri, in relazione etica
con essi. La comprensione d’Altri è dunque un’ermeneutica.
La realtà dell’identità dell’io del soggetto non si costituisce unicamente come egologia, volta a ridurre l’esistente ad un tautologico
gioco del Medesimo, ma si costituisce anche come eterologia, impegnata a fare del rapporto con l’altro la struttura stessa della realtà:
«L’essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e in
Altro. Questa è la sua struttura ultima. È società e, quindi, tempo».
Il soggetto libero e consapevole è destinato, secondo Lévinas, a trovare il proprio senso solo «con l’Altro e di fronte all’Altro», ossia
nell’orizzonte temporale di un rapporto interumano che, al posto del
dialogo silenzioso dell’anima con se stessa e del conflitto infernale
degli egoismi, prevede l’esperienza dell’alterità d’altri. Per conferire
senso alla sua esistenza il soggetto responsabile si espone ad altri,
si fa suo prossimo, lo assume su di sé, giungendo a sostituirsi a lui
nella sua stessa responsabilità. La vera identità del soggetto responsabile non si ha quindi nel suo essere, bensì nel “disinteresse”, nel
suo atteggiamento di soggetto responsabile disponibile senza riserve
nei confronti dell’altro.
6. La “fragile identità” e il “principio di ragione insufficiente”:
orientazioni critiche e intrecci euristici per le scienze umane
La questione della “fragile identità”66 espressa dagli interrogativi:
“Chi sono io?”, “Chi siamo?”, “Cosa siamo, noi altri?” – collegata a quella del riconoscimento umano dell’altro e della convivenza
con l’altro (ivi compresa quella relativa alla rappresentazione e alla percezione dell’altro, che includono anche la tematizzazione dei
rapporti intersoggettivi che si instaurano tra io e altro) – spiega il
66 Cfr. P. Ricœur, L’identità fragile. Rispetto dell’altro e identità culturale, trad. it. di D. Jervolino, in «Alternative», 5, 2004, pp. 38-48.
188
Antonio De Simone
percorso critico, storiografico ed ermeneutico intrapreso nelle pagine
precedenti incentrate sull’analisi del rapporto tra identità, alterità e
riconoscimento: esse riflettono e risentono specularmente della complessa atmosfera storico-culturale, politica e sociale che gli scenari
antropo-logici contemporanei esprimono tragicamente nella transizione che dalla seconda metà del Novecento conduce a questo muoversi incerto e drammatico d’inizio di nuovo secolo. Tale transizione
attesta e registra problemati-camente l’odierna situazione nella quale
si manifestano segni cospicui, in alcuni casi vistosi, di scomposizione
e crisi del “razionalismo occidentale” e dimostra esplicitamente l’avvenuta consapevolezza di vivere in un mondo globale, in cui, come
ha detto Lévinas, «siamo tutti ospiti» e dove il pluralismo è divenuto ormai un dato di fatto nella cultura e nei rapporti tra i popoli
a livello planetario. Se è vero, come sostiene Francesco Fistetti, che
la razionalità «non è composta da criteri metastorici e, quindi, immutabili né di canoni transculturali» in quanto «non esistono criteri
invarianti a cui commisurare i nostri comportamenti né argomenti
epistemologici rigorosi con cui valutare i nostri vocabolari sia scientifici che morali»67, è altresì attendibile e verificabile il fatto che non
disponiamo di nessun “punto archimedico” su cui appoggiarci per
tentare qualsivoglia riforma della razionalità (moderna)68 «senza pretendere di ripartire da zero o di fare tabula rasa». Attraversando e
ricostruendo alcune delle mappe teorico-critiche del Novecento filosofico-politico, sociologico ed antropologico, si può registrare nel
clima culturale contemporaneo come si sia persuasivamente diffusa
in molti interpreti ed agenti la coscienza della finitezza connaturata
alla nostra razionalità tale che essa può essere espressa «come un
vero e proprio principio epistemologico» definibile come «il principio della ragione insufficiente»69, il quale specifica appunto che
«la consapevolezza dell’insufficienza della razionalità moderna non
nasce da un rifiuto pregiudiziale né da una critica romantica della
scienza e della tecnica, ma soprattutto dalla presa d’atto che la boria
scientistica dell’homo faber – l’esaltazione unilaterale della ragione
strumentale come l’unica forma di ragione valida – ha prodotto effetti
controintuitivi imprevisti e imprevedibili che non sempre l’intervenF. Fistetti, Introduzione a I filosofi e la polis, cit., p. 14.
Un’attenta ed accurata ricostruzione sul piano storico-filosofico del dibattito sulla razionalità
sviluppatosi nell’epistemologia delle scienze umane e sociali a cavallo tra gli anni Settanta e Novanta del XX secolo, con particolare riferimento al ruolo svolto dal pensiero del filosofo inglese
Peter Winch, si deve al recente volume di F. R. Recchia Luciani, Filosofia, scienze umane e razionalità. Peter Winch e il relativismo culturale, Pensa Multimedia, Lecce 2004.
69 F. Fistetti, Introduzione a I filosofi e la polis, cit., p. 21.
67
68
Antonio De Simone
189
to umano riesce a governare».70 In estrema sintesi, secondo Fistetti,
«dire “principio di ragione insufficiente” significa ammettere che la
scienza non è il sostituto mondano del punto di vista di Dio, come molti avevano creduto secolarizzando così il requisito teologico
dell’onnipotenza divina e l’ansia religiosa della salvezza. Quando un
atteggiamento analogo di onnipotenza o di superiorità viene adottato nei confronti delle culture altre, possiamo parlare di imperialismo
culturale».71 Se prendiamo sul serio il principio della ragione insufficiente, esso suggerisce, invece, di praticare nei confronti delle culture
altre il riconoscimento di pari dignità ad ognuna di esse: «Le culture,
per quanto tra loro diverse, sono reciprocamente confrontabili. C’è
in ciò il rifiuto netto della tesi dell’incommensurabilità forte secondo
cui le culture sono entità chiuse ed impermeabili».72 Da tutto ciò ne
consegue che, nella contingenza attuale, a livello sia teorico sia storico che quotidiano, il «lavoro ermeneutico di confrontare la nostra
cultura con se stessa in un processo interminabile di aggiustamento
riflessivo e di critica immanente diviene di gran lunga più difficile e
perfino doloroso quando entrano in gioco culture estranee alla cultura
occidentale»73, soprattutto a quell’Occi-dente contemporaneo sempre
più diviso, su cui in particolare l’ultimo Habermas74 ha riflettuto con
analisi molto acute che rimettono ulteriormente in discussione il modo critico di pensare il nostro presente.
In questo contesto “il principio della ragione insufficiente”, proprio perché «esclude che si possa dare una fondazione metafisica
assoluta delle nostre credenze, delle nostre conoscenze e dei nostri
criteri di razionalità», conferisce urgenza ed attualità all’invito sempre più cogente di «rendere la nostra cultura sempre più aperta all’alterità, cioè capace di interpretare e di tradurre – senza violentarli o
omologarli – altri idiomi e altre forme di vita, nella consapevolezza
da parte nostra che vi è una pluralità di “manuali della traduzione” e
che il lavoro interpretativo – tra saperi, culture, mondi simbolici – è
per antonomasia trans-duttivo».75 Emblematicamente, l’antica figura
mitologica di Ermes può diventare così «il simbolo di questa nuova enciclopedia della comuni-cazione, della mediazione e traduzione
Ivi, pp. 21-22.
Ivi, p. 22.
72 Ibid.
73 Ivi, p. 16.
74 Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005.
75 F. Fistetti, Introduzione a I filosofi e la polis, cit., pp. 22-23.
70
71
190
Antonio De Simone
di lingue e popoli differenti»76, dal momento che «tutti interpretano
perché sono traduttori, e viceversa».77 Fistetti dunque ci invita a considerare che la stessa comparazione eterotopica tra culture diverse
dimostra come la possibile “conversazione” tra Occidente e Oriente
non costituisca in assoluto un’endiadi indissociabile, bensì il terreno
d’esistenza di diversificate forme di vita all’interno delle quali si dà
una pluralità irriducibile di valori e di concezioni del mondo, nei cui
confronti «occorre non solo decostruire il suprematismo delle nostre
categorie e delle nostre forme di vita, a cominciare da quelle della sovranità statuale e della razionalità utilitaristica del mercato, ma contemporaneamente lavorare anche perché dall’altra parte si affermino
un atteggiamento di autocritica e un esercizio di autorelativizzazione
delle proprie tradizioni».78
Per la pratica filosofica e per le scienze umane, nel mondo globale, si apre problematicamente la possibilità di svolgere criticamente
un compito che da un lato sarà quello «di mantenere sempre vivo il
confronto della nostra cultura con se stessa alla ricerca di un soddisfacente “equilibrio riflessivo”, e dall’altro di imparare dalle culture
altre anche in termini di forme di vita, relativizzando l’universalismo
dei nostri criteri di razionalità e dei nostri standard di comportamento
o, ciò che è la stessa cosa, rendendolo sempre più aperto ed ospitale verso le differenze ed esponendolo ad un processo incessante
di apprendimento cognitivo e pratico-morale».79 Contem-poraneamente, «la ricerca di un “equilibrio riflessivo” va incoraggiata anche
nelle culture diverse dalle nostra affinché si aprano al dialogo, alla
traduzione e alla trasformazione delle proprie credenze e dei propri
“criteri” di razionalità».80 Ovviamente un “equilibrio riflessivo e dinamico” non si traduce in una “politica di potenza”, ma si dichiara
praticamente disponibile a «riconoscere nell’altro, al di là della sua
appartenenza identitaria, il volto singolare dell’umano e preservare
il pluralismo delle culture favorendo la loro traducibilità e la loro
osmosi»81, ovvero il dialogo, l’ascolto e il riconoscimento reciproco.
La scena della vita quotidiana contemporanea tra ordinario e
straordinario è afflitta dalla “fragilità del presente” che dilania l’homo eligens. Nel flusso impetuoso delle transitorie realizzazioni umaIvi, p. 23.
Ibid. Al riguardo, parallelamente, cfr. anche R. Bodei, Una scintilla di fuoco. Invito alla
filosofia, Zanichelli, Bologna 2005, pp. 32-33.
78 F. Fistetti, Introduzione a I filosofi e la polis, cit., p. 25.
79 Ivi, p. 26.
80 Ibid.
81 Ivi, p. 28.
76
77
Antonio De Simone
191
ne, la vita, privata della fiducia perché rimpiazzata dal «sospetto
universale», «è irta di antinomie e ambiguità, che non è in grado di
risolvere» (Bauman). Nelle logiche e nelle pratiche del dominio politico del nostro tempo fondate sulla forza e sulla proprietà di utere et
abutere (usare e abusare) della vulnerabilità e dell’incertezza umana,
l’alternativa per l’immediato futuro non è soltanto quella fra cittadino
e homo sacer, fra appartenenza ed esclusione, ma soprattutto quella
che è in grado di praticare concretamente il riconoscimento nella e
della pluralità, che è «la legge della terra».
VITO SANTORO
RICONOSCIMENTO E SOGGETTIVITÀ
NELLA FILOSOFIA PRATICA TEDESCA
Introduzione
Uno degli aspetti più interessanti della filosofia pratica tedesca degli ultimi vent’anni è il suo orientamento ad un programma di «allargamento antropologico dell’etica». Nella formula di Ludwig Siep bisogna vedere innanzitutto una presa di distanza dalla concezione moderna dell’etica e dal suo «scarso uso dell’antropologia». Se in questa
tradizione «le regole morali, che possono essere motivate nel modo
migliore, riguardano solo il rispetto reciproco tra individui umani,
tra individui autocoscienti e capaci di determinare autonomamente le
loro azioni, cioè tra persone»1, compito della filosofia pratica attuale
è quello di ampliare lo spettro di attribuzioni normative ad altre dimensioni dell’identità soggettiva, in qualche modo complicandone lo
statuto formale di ens mens sulla base della sua implicazione costitutiva alla natura interna ed esterna.2
Ad ogni modo, da un punto di vista di storia delle teorie, secondo
A. Barkhaus si è verificata nel Novecento una sorta di convergenza
spontanea tra queste due discipline che ha creato i presupposti per
l’introduzione di categorie antropologiche nel campo di competenza
dell’etica. Da una parte, l’affacciarsi sulla scena di istanze ecologiste, comunitariste, di teoria della comunicazione, fino al recupero del
tema del lavoro come dimensione pratica di realizzazione dell’uomo,
ha progressivamente sottratto terreno a una riduzione del discorso
1 L. Siep, “Ethik und Antropologie”, in A. Barkhaus (a cura di), Identität, Leiblichkeit, Normativität, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1996, p. 276.
2 Ivi, p. 282.
194
Vito Santoro
pratico a mera «logica della ragione», procedendo così ad una frantumazione della cornice di contenimento entro cui si era mantenuta la
definizione dell’uomo come “persona”, come individuo isolato nella
sua identità autoconservantesi e determinato esclusivamente al livello
di qualità universali condivise da tutti gli altri. Se volessimo generalizzare, potremmo dire che le diverse soluzioni teoriche hanno rivisto
lo statuto pratico del soggetto essenzialmente da due punti di vista:
sul piano orizzontale del rapporto intersoggettivo e secondo la condizione di radicamento “concreto” naturale dell’uomo. A questi due
fattori, come vedremo, è stato attribuito con diverse accentuazioni un
ruolo costitutivo nel processo di strutturazione dell’identità pratica
soggettiva.
Il cammino della scienza antropologica, d’altra parte, sembra per
molti versi analogo. Quest’ultima, forse meglio della filosofia, ha saputo mettere da parte una concezione cartesiana del soggetto umano,
caratterizzandosi per un atteggiamento radicalmente antidualistico.
Se nella tradizione moderna la concentrazione esclusiva sul cogito ha
significato l’isolamento surrettizio di un aspetto del soggetto, elevato
poi ad unico elemento di definizione dell’identità umana, die Frage
nach dem Mensch posta dall’antropologia di Gehlen o Plessner si
presenta invece come un’intenzione opposta a questa «unilateralizzazione», avendo di mira «una fondazione del pensiero umano nelle
funzioni del corpo o nell’esperienza vissuta».3
Non si tratta di negare un’immagine dell’uomo come ente capace
di spiritualità, di cultura, quanto di tentare un radicamento concreto, “materialistico” di questi dati per mezzo di un’attitudine scientifica alla coordinazione dei differenti contesti oggettuali in cui la
trattazione moderna dell’identità soggettiva è stata scissa.4 In questo modo l’antropologia agisce come un’istanza di dissuasione nei
confronti di una filosofia ridotta a mera teoria della conoscenza e
patrocina un rapporto di complementarietà tra scienze della natura e
dello spirito; alla loro limitazione reciproca si sostituisce un esercizio
scientifico di superamento dei confini epistemologici tra filosofia e
scienza così come tra i singoli settori scientifico-sperimentali, con il
fine di coordinare in un quadro unitario tutti i risultati delle diverse
discipline sull’uomo.5 È chiaro che l’antropologia, pur continuando
la critica alla riduzione idealistica della soggettività a partire da una
A. Barkhaus, Introduzione a Ead. (a cura di), Identität, Leiblichkeit, Normativität, cit., p. 14.
Ivi, p. 16.
5 F. Seifert, Zum Verständnis der anthropologischen Wende in der Philosophie, in «Blätter für
Deutsche Philosophie», Vol. 8, 1963, pp. 398-410.
3
4
Vito Santoro
195
maggiore attenzione alla sua dimensione corporea, e accostandosi da
questo punto di vista alle tendenze filosofiche di orientamento ontologico-esistenzialista o anche post-strutturalista6, rifiuta di queste
ultime l’esito di decostruzione radicale di qualsivoglia assiomatica
scientifica. Essa propende per una ridefinizione della natura umana
in base a categorie scientifiche alternative rispetto a quelle derivabili
da un paradigma soggettocentrico ma pur sempre metodologicamente
controllabili.
Ora, la teoria del riconoscimento - la cui origine possiamo far risalire pressappoco al 1979, anno di pubblicazione di Anerkennung als
Prinzip der praktischen Philosophie di Siep, e che si è vista potentemente sviluppata negli ultimi due decenni, anche in contesti diversi
da quello tedesco, fino a diventare quasi una nuova koiné del discorso filosofico - si situa proprio all’interno di questo quadro generale,
rappresentando uno dei tentativi di aprire il discorso etico, ed in generale filosofico, a istanze che provengono da settori disciplinari più
attenti alle dimensioni di “concretezza” del soggetto umano. E come
per l’orientamento generale cui si riferisce, anch’essa ha di fronte a
sé un formalismo da criticare e superare storicamente, anche se, per
così dire, si tratta di un formalismo di secondo grado: la Rehabilitierung della filosofia pratica.
Di quest’ultima si darà brevemente conto nella prima parte del
presente saggio. 1) L’«interesse ad una costruzione metodica di una
scienza pratica che può essere appresa e insegnata»7 conduce, a partire dagli anni Sessanta, a scartare criticamente un modello epistemologico fondato sulla relazione cognitiva soggetto-oggetto, e a favorire
l’avvicendamento di una forma di razionalità pratica di tenore linguistico-intersoggettivo. 2) Di questo modello, però, qualche anno più
tardi, si procederà a denunciare la sua portata limitata a «idealizzazione o formalizzazione di un unico tipo di agire: la comunicazione
linguistica», vale a dire ad una ridefinizione pratico-dialogica di quel
livello dell’esistenza umana in cui il soggetto si caratterizza soltanto
per ciò che ha di comune, universalmente condivisibile con tutti gli
altri soggetti. Non solo il «dialogo» ma anche «l’amore e il lavoro
diventano relazioni e forme d’agire» che devono essere regolate normativamente in un modo determinato.8 Da parte nostra si tratterà di
A. Barkhaus, Introduzione a Ead. (a cura di), Identität, Leiblichkeit, Normativität, cit., p. 15.
M. Riedel, Prefazione a Id. (a cura di), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, Vol. I,
Rombach, Freiburg 1972, p. 9.
8 L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, Albert, Freiburg - München
1979, pp. 17-18.
6
7
196
Vito Santoro
vedere, per lo meno di iniziare a vedere, fino a che punto la teoria del
riconoscimento assolve a questo compito o se, invece, non paga una
certa dipendenza categoriale dalla fase teorico-pratica precedente.
1. Rehabilitierung e intersoggettività
Con la Rehabilitierung der praktischen Philosophie9 non ci troviamo di fronte ad un movimento filosofico dotato di una omogeneità
teorica di scuola. Si tratta più che altro di una serie di interventi - più
o meno protratti per tutti gli anni Sessanta e Settanta - da parte di
autori provenienti da tradizioni filosofiche differenti e che arrivano a
soluzioni in buona parte diversificate. Una forma assolutamente non
secondaria di unità risulta, però, dalla condivisione del problema di
partenza: la fondazione razionale del valore delle norme dell’agire
umano, l’individuazione di una forma di razionalità specifica della
sfera pratica, distinta da quella teoretica. Evidentemente, alla base di
questa problematica si trova la consapevolezza dei limiti della tradizione etica moderna, del suo tentativo di applicare anche all’ambito
pratico un metodo che aveva dato i suoi risultati nel contesto delle
scienze naturali sperimentali. La Rehabilitierung, quindi, trova la sua
collocazione – ma anche il suo limite – in un ambito di discussione
prettamente epistemologico. Il problema che pone è quello di una
razionalità alternativa, che nella sua pertinenza metodologica al compito di una posizione di norme universalmente condivisibili sia in
grado di evitare gli effetti di razionalizzazione tecnica sulle questioni
pratiche dovuti ad un utilizzo estensivo dell’idea di ragione cognitivo-strumentale.
Non è un caso se questa tendenza alla rinascita della filosofia pratica classica abbia scelto come suo riferimento privilegiato l’etica
aristotelica. Aristotele è visto soprattutto come colui che per primo
fonda su basi proprie il sapere pratico, individuandone le articola9 M. Riedel (a cura di), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, cit., Voll. I e II (19721974). I prodromi diretti della Rehabilitierung possono essere individuati nel XV congresso heidelberghiano di sociologia del 1964 (Max Weber e la sociologia oggi, a cura di O. Stammer,
trad. it. di I. Bonali e G. E. Rusconi, Jaka Book, Milano 1972) e nel cosiddetto Positivismusstreit
(Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di H. Maus e F. Furstenberg, trad. it. di A. M. Solmi, Einaudi, Torino 1972). Sulla Rehabilitierung cfr. F. Volpi, “La rinascita della filosofia pratica
in Germania”, in C. Pacchiani (a cura di), Filosofia pratica e scienza politica, Aldo Francischi
Editore, Abano 1980; L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi. L’attuale dibattito sulla
filosofia pratica, Marsilio, Venezia 1987; E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma
1992, pp. 186-244; A. Baruzzi, Was ist praktische Philosophie?, Vögel, München 1976; H. J.
Werner, Positionen und Probleme der praktischen Philosophie, in «Philosophischer Literaturanzeige», XXXII, (1979), pp. 189-98; C. Wild, Skeptischer Einspruch gegen die Rehabilitierung der
praktischen Philosophie, in «Philosophisches Jahrbuch», LXXXI, (1974), pp. 137-246.
Vito Santoro
197
zioni categoriali interne e distinguendolo, nel complesso, dal sapere
teoretico.10 Mentre in Platone la filosofia pratica, vincolata metafisicamente all’idea di bene e al campo dell’immutabile, manteneva
un legame di dipendenza concettuale con la dottrina teoretica delle
forme ideali, con Aristotele essa si costituisce come un ambito filosofico autonomo e in sé concluso11, incentrato sulla forma di razionalità
segnatamente pratica della phronesis.12
Ma il compito di fondazione razionale del sapere pratico nel Novecento si è dovuto confrontare innanzitutto con un problema inedito
rispetto al passato: parliamo del pregiudizio scientistico dell’avalutatività di principio del sapere scientifico. Secondo P. Lorenzen, autore
tra i più rappresentativi di questo periodo, l’esigenza di capire come
«la ragione può essere pratica, se le norme possono essere fondate razionalmente […] siano più di mere decisioni soggettive», si imbatte
inevitabilmente nel postulato weberiano dell’avalutatività del sapere
positivo, secondo cui i metodi di quest’ultimo operano obbligatoriamente con categorie de-normativizzate. Ancora per l’Illuminismo un
problema del genere non sussisteva, «esso si trovava in uno stato di
innocenza in cui non si aveva ancora consapevolezza della differenza
tra ragione e intelletto […] tra ragione teoretica e pratica». In quel
momento storico l’applicazione del metodo galileano-newtoniano
aveva di per sé una consistenza pratica, essendo affermativo di valori
normativi quali la libertà e il progresso sociale.13 Ma è dopo Weber,
dopo il chiarimento sull’avalutatività della scienza, che la posizione
di norme diviene incompatibile con lo statuto metodologico del sapere scientifico, e viene di conseguenza costretto nei limiti di un mero
decisionismo soggettivistico. É noto come Weber, nel saggio “L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale”,
prendendo a pretesto i residui di metafisica organicistica romantica
rintracciabili in alcune tendenze scientifiche a lui coeve, svolgeva
una critica di principio all’introduzione surrettizia di criteri normativi
nella trattazione dei fatti empirici. La funzione delle scienze sociali
non è di produrre giudizi di valore sui comportamenti degli uomini
e sul corso della storia, non è suo compito «quello di fornire norme
vincolanti e ideali, al fine di derivarne prescrizioni per la prassi». Al
10 G. Bien, La filosofia politica di Aristotele, trad. it. di M. L. Violante, il Mulino, Bologna
1985, p. 11.
11 Ivi, pp. 78-79.
12 Ivi, pp. 124-35.
13 P. Lorenzen, “Szientismus versus Dialektik”, in Rehabilitierung der praktischen Philosophie,
Vol. II, cit., pp. 337-38.
198
Vito Santoro
contrario, «ogni riflessione pensante sugli elementi ultimi dell’agire
umano fornito di senso è vincolata innanzitutto alle categorie di mezzo e scopo».14
Per Weber, come per il neo-kantismo di Heidelberg, l’unica modalità di sfruttamento teorico dei valori nell’ambito delle scienze sociali,
nella misura in cui queste vogliono essere compatibili con i criteri
dell’oggettività scientifica, è costituita dalla Wertbeziehung. Infatti, la
ricerca scientifico-sociale, non potendosi limitare ad una mera descrizione o riproduzione del dato storico, si deve fornire preliminarmente
di criteri di scelta con cui orientarsi in modo selettivo nella molteplicità dell’empiria, criteri che si costituiscono propriamente sulla base
della «relazione al valore». Questo riferimento alle sfere di valore ha,
però, solo la funzione preliminare di selezionare il campo oggettuale
di applicazione del procedimento scientifico vero e proprio il quale,
dal canto suo, si fonda epistemologicamente in quel modello di spiegazione causale mutuato direttamente dai procedimenti delle scienze
naturali.
Il modello di ragione strumentale che ne viene fuori ha come caratteristica principale l’esclusiva concentrazione sul livello metodologico della scelta dei mezzi tecnicamente più efficaci per un’azione
orientata al successo, cioè l’applicazione del rapporto di causalità in
vista del perfezionamento del controllo e della manipolazione del
contesto di eventi e di cose di cui si interessa occasionalmente. Il
processo di oggettivazione della realtà, tanto naturale quanto sociale,
si realizza come un intervento che manipola, aggiusta, come direbbe
Honneth15, marca la caotica molteplicità degli stimoli sensoriali ambientali, ordinandoli secondo le esigenze di una identità formale che
ripete omologicamente se stessa.
È stata un’operazione abbastanza comune a tutta la tendenza della Rehabilitierung quella di volere ricondurre il tipo di razionalità
della disposizione strumentale sull’oggetto di natura alla tradizione
di pensiero della filosofia della coscienza, basata sul modello della
relazione cognitiva tra soggetto e oggetto. La distinzione cartesiana
tra res cogitans e res extensa ha il suo corrispettivo metodologico
in una teoria scientifica che, da un punto di vista epistemologico,
è interessata soltanto alla coerenza logica interna dei procedimenti
14 M. Weber, “L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale”, in Il
metodo delle scienze storico-sociali, trad. it. e Introduzione di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958,
pp. 58-59.
15 A. Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas,
Presentazione di F. Riccio, Postfazione di S. Vaccaro, Dedalo, Bari 2002, p. 96.
Vito Santoro
199
formali che mette in atto.16 Si inizia con una raccolta di osservazioni
ricavate per via deduttiva, e con queste si costruisce poi una compagine formalmente ordinata di proposizioni il cui unico criterio di
verità è la rispondenza interna al principio di non contraddizione. La
concentrazione esclusiva sulla coerenza formale delle proprie deduzioni, rende questo sapere del tutto indifferente al reale particolare,
determinandolo come un tipo di conoscenza che funziona riduttivamente secondo un modello astratto di universalità. Da una parte si ha
il sapere mentale logicamente rigoroso, dall’altra un oggetto naturale
la cui esplicabilità è condizionata dall’inserimento in quella rete concettuale elaborata a priori. Ora, però, una universalità separata dall’oggettività esteriore può ritornare conoscitivamente su quest’ultima
solo riducendone l’identità specifica per renderla compatibile con
la propria struttura assiomatica. La relazione soggetto-oggetto, causa-effetto è una relazione nella separazione; ma una relazione nella
separazione è sempre una relazione di dominio.17 Alla fine, la previ16 Sull’interpretazione procedurale della ragione in Weber, cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. di E. Agazzi ed E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1992. In riferimento all’idea weberiana della storia dell’Occidente come processo di razionalizzazione, Habermas parla
di un «processo di disincantamento grazie al quale in Europa una cultura profana è scaturita dal
disfacimento della immagine religiosa del mondo» (ivi, p. 1). Sulla base di questa razionalizzazione dei mondi della vita tradizionali, è sorta quella tendenza ad una articolazione delle diverse
sfere di valore da parte di una ragione che assume sempre più figura procedurale, alla frantumazione delle totalità normativamente vincolanti, una volta garantite dalle istanze unificanti della
metafisica e della religione, nei diversi campi di sapere, autonomizzati dal riferimento normativo
e categorialmente differenziati. Questa dinamica storica si è realizzata nei metodi delle scienze
sperimentali, nella pretesa universalistica del diritto e della morale, nei modelli individualistici
di formazione della volontà, nelle istituzioni democratiche degli stati costituzionali e nella forza
dirompente di più profonde esperienze estetiche (ivi, p. 116). «Nella modernità la vita religiosa,
lo Stato e la società quanto la scienza, la morale e l’arte si tramutano in altrettante incarnazioni
del principio della soggettività» (ivi, p. 18). Ma di questa ragione soggettocentrica viene da subito
indicato anche il suo carattere unilaterale e travisante: «Questo principio possiede bensì la forza
occorrente per produrre una formazione della libertà soggettiva e della riflessione, e per scalzare
la religione che fino ad allora si era presentata come la potenza unificatrice. Ma esso non è abbastanza forte per rigenerare la potenza unificatrice della religione nel medium della ragione» (ivi,
p. 21). Quella rete di connessioni e di analogie alla quale la religione deve la sua forza totalizzante cede il passo ad una concezione del mondo categorialmente scissa, e porta all’affermazione di
un’idea di scienza il cui unico interesse metodologico consiste nel perfezionamento della propria
coerenza logico-procedurale interna (ivi, p. 116) ai fini di un intervento di successo sulla natura
e sulla società.
17 Una costante di tutti gli scritti logici hegeliani è che la relazione causa-effetto è considerata
come superamento dialettico della categoria di sostanza. Da questa circostanza, Hegel fa dipendere il carattere di relazione nella separazione della categoria di causalità. Quest’ultima supera il
concetto di sostanza nella misura in cui essa si situa ad un livello del processo logico-dialettico in
cui si è più avanti, rispetto a ciò che è previsto nell’idea di sostanza, nel progressivo abbandono
delle determinazioni logiche caratterizzate da un elevato grado di irrelatività, cioè da un rapporto
accidentale degli elementi implicati. La relazione causa-effetto è molto più necessaria, costitutiva
che non quella della coppia sostanza-accidente. Ma di quest’ultima conserva la qualificazione
logica principale, giacché i termini in azione reciproca vengono ancora interpretati nel loro assoluto esser-per-sé in quanto sostanze, vale a dire nella loro esistenza indipendente e separata. In
questo modo la causalità appare sì come una relazione, ma tra poli già costituiti nella loro identità
200
Vito Santoro
sione e la spiegazione del dato empirico all’interno di un sistema di
leggi generali apriori, l’inserimento di sempre maggiori frammenti
del reale nella trama di proposizioni formali non significa altro che
un perfezionamento del potere di controllo teorico dei processi naturali e sociali nel loro complesso.
Ora, conformemente alle sue intenzioni epistemologiche, il compito della Rehabilitierung è stato innanzitutto quello di determinare
una forma di universalità non più astratta e con effetti di dominio sul
particolare, in qualche modo diversa da quella che dipende dal paradigma moderno delle filosofie del soggetto.
Questo modello di universalità, che si costituisce nell’applicazione18
stessa al particolare, metodologicamente dipendente dalla contingenza delle situazioni singole, consisterà fondamentalmente nella determinazione normativa di fini in base ad un accordo raggiunto comunicativamente, quindi controllabile in base ad argomentazioni, tra
soggetti nella loro particolarità. Questa universalità che definisce se
stessa nella mediazione col particolare, è possibile solo come identità dell’io con l’altro19, come medio universale che si realizza in un
accordo intersoggettivo mediato linguisticamente tra soggetti individuati che muovono dalla peculiarità dei loro interessi.
Se è vero che la Rehabilitierung si divarica da subito in due diverse tendenze20 - la prima con tratti più o meno conservativi: il neoaristotelismo di Gadamer, Bubner, Ritter; la seconda con intenzioni
chiaramente critico-progressiste: Habermas, Apel, scuola di Erlang
- resta possibile, almeno da un certo punto di vista, parlare di una acquisizione più o meno comune a tutto il movimento, cioè l’affermazione del riferimento costitutivo alla comunicazione intersoggettiva
per la fondazione di una universalità pratica.
sostanziale, in cui ciascuno è per sé e non sulla base del suo riferimento all’altro. Il rapporto conoscitivo che ne deriva è sbilanciato dominativamente in quanto il principio causale, assolutamente
separato dall’oggetto reale, impone la propria identità all’altro da sé. A tal riguardo cfr. G. W. F.
Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804/05), trad. it a cura di F. Chiereghin, Verifiche, Trento
1981, pp. 318-33; sempre di Hegel vedi anche Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, Laterza,
Roma-Bari 1994, pp. 626-32.
18 Sulla rilettura del concetto aristotelico di phronesis in funzione della categoria ermeneutica
dell’applicazione, da cui consegue la definizione dell’universalità pratica come «un sapere e una
ragione che non sono staccati da un essere divenuto, bensì sono determinati da questo essere e
sono determinanti per lui», cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G. Vattimo, Milano,
Bompiani 1972, p. 363.
19 J. Habermas, Lavoro e interazione, trad. it. e saggio di M. G. Meriggi, Feltrinelli, Milano
1975, p. 26.
20 E. Berti, Aristotele nel Novecento, cit., pp. 213 e sgg.; in riferimento al carattere conservativo
della filosofia di Gadamer e Ritter, cfr. H. Schnädelbach, “Was ist Neoaristotelismus?”, in W.
Kuhlmann, Moralität und Sittlichkeit, Frankfurt a. M., Suhrkamp 1986, pp. 38 e sgg.
Vito Santoro
201
Nella sua ricostruzione della storia dell’etica contemporanea sulla scorta del concetto di Lebenswelt, W. Schulz descrive il periodo
storico a ridosso degli anni Sessanta come una fase in cui si verifica un vero e proprio «cambiamento di paradigma, una trasformazione nei fondamenti filosofici. Ciò si compie come distacco dalla
filosofia della coscienza»21 e come affermazione del nuovo principio
della comunicazione intersoggettiva: «la filosofia del soggetto deve
essere superata per mezzo della comunicazione, senza rinuncia alla
ragione».22 Ad una definizione riflessiva della soggettività come pura
relazione con se stessa, come astrazione da tutti i possibili oggetti del
mondo e posizione del sé in quanto unico oggetto dell’esperienza filosofica, viene sostituita la dialettica dell’io con l’alterità nell’ambito
dell’intersoggettività, in cui l’altro della relazione non è l’io stesso
scisso riflessivamente, ma un altro io. Il soggetto, lungi dall’essere
costituito da sempre nella sua identità, dipende per la determinazione
del suo sé dall’esperienza dell’interazione con un altro io. Come ha
scritto Habermas, «l’io comunica con l’altro io [...] entrambi si costituiscono reciprocamente come soggetti. La coscienza sussiste come
medio in cui i soggetti si incontrano; perciò essi non potrebbero sussistere come soggetti se non entrassero in relazione».23
Da questo punto di vista, la Rehabilitierug prosegue la contestazione delle filosofie moderne del soggetto, dell’idea di un’autocoscienza
riflessa monologicamente in se stessa. Secondo Schulz, le filosofie
dell’esistenza della prima metà del Novecento hanno certamente radicalizzato la critica alla concezione formale dell’identità soggettiva
- a partire da quella struttura dell’esistenza umana che egli raccoglie nella categoria generale di mondo-della-vita e considera come
il punto attorno al quale ruotano teoricamente tutte le maggiori prospettive etiche contemporanee. Di fatto, però, i problemi teorici che
sorgevano in quel contesto venivano risolti all’interno del medesimo
paradigma solipsistico; «il singolo» continua a stare al centro «e il
rapporto intersoggettivo viene o privatizzato o completamente nascosto [...] cosicché la negatività diventa l’elemento determinante».24 In
questo senso, esse restano legate alla tradizione della filosofia del
soggetto, costituendone soltanto una versione a negativo, che ne de21 W. Schulz, Grundprobleme der Ethik, Neske, Weinsberg 1989, p. 243. Anche Severino parla,
in relazione a questa fase storico-culturale, di una svolta paradigmatica dalla filosofia del soggetto ad una teoria dell‘intersoggettività. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Adelphi, Milano 1988, pp. 87-111.
22 W. Schulz, op. cit., p. 246.
23 J. Habermas, Lavoro e interazione, cit., p. 25.
24 W. Schulz, op. cit., p. 213.
202
Vito Santoro
costruisce la struttura categoriale senza saperla ricompattare in un
nuovo modello di universalità.
Invece, per Schulz, con l’affermarsi della teoria della comunicazione intersoggettiva e con l’identificazione del mondo-della-vita con le
tradizioni linguistico-culturali in cui i soggetti già sempre si muovono e all’interno delle quali si possono orientare a proposito delle reciproche aspettative di comportamento, la filosofia pratica si procura la
possibilità, con lo strumento razionale di una pragmatica comunicativa
universale, di «salvare la razionalità»25, di razionalizzare i mondi-della-vita riparandosi dal pericolo di quella critica negativa totalizzante.
Si potrebbe dire, utilizzando una terminologia habermasiana, che
il risultato ultimo cui la Rehabilitierung perviene è la distinzione tra
lavoro e interazione: il lavoro come razionalizzazione tecnico-formale dell’oggettività naturale da parte di una soggettività astratta, e l’interazione come rapporto mediato linguisticamente tra soggetti individuati, all’interno del quale soltanto si forma la loro stessa identità.
Ma se questa distinzione vale per tutta quella tendenza di pensiero
che si sviluppa in Germania per alcuni decenni a partire dagli anni
Sessanta, allora, la critica che in seguito la filosofia del riconoscimento le rivolgerà può venir estesa allo stesso modo a tutto il movimento della Rehabilitierung.
Secondo Honneth, l’introduzione della teoria dell’intersoggettività
sicuramente ha comportato il vantaggio di evitare le incongruenze a
cui un concetto d’agire, modellato esclusivamente sul dominio della
natura, va incontro se applicato alla definizione dei processi sociali.
Nella misura in cui i processi di razionalizzazione strumentale vengono limitati al solo contesto tematico del rapporto con la realtà naturale, si apre lo spazio per attribuire all’ambito di pertinenza dell’agire
pratico-sociale una forma di razionalità alternativa, basata sui processi
d’intesa intersoggettiva. Ma, di pari passo, quella stessa separazione
tra interazione e lavoro, fa sì che tutto ciò che riguarda il rapporto
dell’uomo con la natura venga tenuto fuori dal campo di considerazione analitica del riconoscimento normativo. Non solo la relazione
con gli oggetti esterni naturali nel lavoro, ma la stessa «dimensione
fisico-corporea [...] il corpo umano […] perde in questo modo ogni
valore per questa teoria sociale».26 La strategia del riconoscimento, che
in generale consiste in un processo di reciproca maturazione armonica
Ivi, p. 247.
A. Honneth, Critica del potere, cit., p. 362. Sull’argomento cfr. Id., “Arbeit und instrumentales Handeln”, in A. Honneth - U. Jaeggi (a cura di), Arbeit, Handlung, Normativität, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1980, pp. 185-233.
25
26
Vito Santoro
203
dell’identità dei soggetti in interazione, non si estende fino agli aspetti
dell’implicazione verticale dell’essere umano con la sua natura interna
e con quella esterna del mondo-ambiente. La relazione dell’uomo al
corpo proprio e alla natura nel lavoro sono dimensioni dell’esistenza
che non vengono riguardate da questo modello di razionalità pratica;
ciò che si può anche esprimere dicendo che, in linea di principio, non
è prevista la possibilità di una normativizzazione dell’apertura del soggetto alla sua corporeità e alla natura in generale, un riconoscimento
della sua originarietà naturale, che comunque costituisce l’aspetto più
individualizzante della struttura identitaria.
Da ciò dipende la difficoltà di principio della Rehabilitierung ad
accedere ad una impostazione teorica «allargata antropologicamente». Alla fine, è come se essa rimanesse ferma ad una mera ridefinizione in chiave intersoggettiva del medesimo spazio problematico
aperto dall’etica moderna, quello dell’autonomia della persona, di
una dimensione etica che inerisce solo a qualità universali condivise
da tutti gli uomini.
Non è un caso se negli anni Settanta la rinascita della filosofia pratica aristotelica si è accompagnata ad un rinnovato interesse per l’etica di Kant. Il dato di fatto dei molti studi dedicati al pensiero pratico
kantiano27 in questo periodo, da una parte dipende dalla circostanza
che la stessa idea di criticismo, con il suo concetto di ragione scissa
nei momenti della facoltà teoretica, pratica e del giudizio estetico e
legati ciascuno ad un proprio fondamento, corrispondeva alle intenzioni epistemologiche della Rehabilitierung; dall’altra è sintomatico
del fatto che la teoria della comunicazione intersoggettiva è stata per
lo più utilizzata ai fini di una ricostruzione, con strumenti metodologicamente più aggiornati, della medesima prospettiva etico-formale
in cui è situato l’imperativo categorico e, in generale, la tradizione
del diritto naturale. È forse possibile affermare che, in qualche modo,
un’etica della comunicazione tiene meglio conto di quell’evoluzione nel diritto occidentale moderno che ha portato negli Stati nazionali più avanzati ad una maggiore compensazione procedurale tra i
diritti di libertà del giusnaturalismo moderno e i diritti di giustizia
caratteristici dello Stato sociale del secondo dopoguerra.28 Tuttavia,
27 Cfr. F. Kaulbach, Das prinzip Handlung in der Philosophie Kants, De Gruyter, BerlinNewYork 1998; K. H. Ilting, “Anerkennung”, in M. Riedel (a cura di) Rehabilitierung der praktischen Philosophie, vol. II, cit., pp. 353-68; e anche la ricostruzione habermasiana del principio di
universalizzazione dell‘imperativo categorico in chiave di etica del discorso: J. Habermas, Etica
del discorso, trad. it. a cura di Emilio Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 64-121.
28 R. Finelli, “Il diritto ad una prassi futura”, in R. Finelli, F. Fistetti, F. R. Recchia Luciani, P.
Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, p. 15.
204
Vito Santoro
in questo modo non si è ancora varcata la soglia di una antropologia
della penuria verso un’antropologia del riconoscimento. L’unica dimensione che viene normativizzata da questa teoria è ancora quella
relativa all’aspetto formale della “persona”, mentre il rapporto del
soggetto all’oggetto di natura resta modellato, in modo poco problematizzato, dal condizionamento autoconservativo della sua “bisognosità naturale”. Non si procede ad una normativizzazione, vale a dire
ad un riconoscimento del vettore verticale della relazione al proprio
sé corporeo, emozionale.29
2. Teoria del riconoscimento e corpo
La teoria del riconoscimento – probabilmente l’espressione più significativa del clima filosofico-pratico post-Rehabilitierung che si è
imposto in Germania negli ultimi vent’anni – sembra ripetere, ad un livello metodologico più evoluto, la stessa operazione d’“ampliamento”
che Hegel svolse, circa duecento anni fa, nei confronti di Fichte e del
suo tentativo di rivedere la concezione giusnaturalistica di persona
alla luce del concetto di riconoscimento.
Innanzitutto, va ricordato che questa teoria rappresenta l’elemento
centrale della concezione sistematica hegeliana del cosiddetto periodo jenese, ed attesta il suo rinato interesse per la filosofia moderna
del soggetto. Dopo una fase in cui, sotto l’influsso delle filosofie della riconciliazione, Hegel aveva criticato i presupposti atomistici del
diritto naturale moderno a favore del principio «antico» della totalità
etica, almeno a partire dal Sistema dell’eticità si assiste ad una nuova concessione di significato sistematico al concetto di individuo. Il
compito davanti al quale Hegel adesso si trova è quello di trovare
una possibile mediazione tra i due diversi principi dell’individualità
e della totalità. La comunità etica verrà interpretata proprio come il
luogo dell’unità vivente tra libertà individuale e libertà universale,
come opportunità di realizzazione della libertà individuale in una organizzazione sociale basata sul riconoscimento della peculiarità identitaria di tutti da parte di tutti. Ma ciò che contraddistingue la posizione hegeliana è che questa modalità di conferma intersoggettiva non
viene più limitata al riconoscimento reciproco delle qualità formali
implicite nel concetto d’autonomia personale; essa verrà estesa anche
al riconoscimento di quegli aspetti che ineriscono meglio alla particolarità storico-vitale di ciascun individuo.
29
Ivi, p. 24.
Vito Santoro
205
La teoria del riconoscimento fa la sua apparizione nel Diritto naturale fichtiano del 179630, dove verrà utilizzata, in modo inedito nella
storia della filosofia giuridica, ai fini di una deduzione razionale del
concetto di diritto. Per Fichte, dedurre il concetto di diritto significa
«mostrare che questa azione è una condizione dell’autocoscienza»31,
di modo che, attraverso la mediazione della deduzione trascendentale
del diritto, il riconoscimento si pone come base di giustificazione
filosofica dell’idea stessa di persona. Mentre per tutto il giusnaturalismo, partendo dal presupposto di individui reciprocamente isolati,
già da sempre costituiti nella loro identità autoconservantesi, lo stato di diritto non rappresenta altro che una mera conferma giuridicocontrattualistica di un’identità quasi-normativa posseduta per natura,
per Fichte, invece, «il concetto di individualità è [...] un concetto di
relazione [...] esso è possibile, in ogni essere razionale, solo nella misura in cui viene posto come completato da un altro: esso non è mai
mio, ma [...] mio e suo; suo e mio - un concetto comune, in cui due
coscienze vengono riunite in una».32 Di conseguenza, la comunità
con l’altro non è più interpretata come limitazione, in favore dell’altro, dell’originaria libertà naturale; essa diventa piuttosto il luogo di
una «esortazione [...] ad una libera attività»33, cioè si realizza come
rapporto intersoggettivo esso stesso costitutivo dell’autonomia individuale. Il riconoscimento da parte dell’alter ego è ormai avvistato
come un dispositivo necessario alla costituzione dell’ego stesso.
Tuttavia, anticipando una soluzione per molti versi simile a quella
della Rehabilitierung, anche da Fichte l’applicazione di questa teoria viene utilizzata esclusivamente allo scopo di una giustificazione
trascendentale del concetto di persona. Il movimento del riconoscimento costituisce certamente un momento di novità nei procedimenti
di fondazione del diritto naturale, rispetto alla impostazione di base
delle teorie morali individualistiche; e tuttavia, una sorta di restrizione di principio impedisce di varcare i confini dell’ambito d’analisi su
cui si era concentrato lo stesso pensiero etico moderno.
L’operazione di Hegel, al contrario, sarà quella di recuperare il
presupposto fondamentale del concetto di riconoscimento - l’idea di
30 Per il rapporto Fichte-Hegel in relazione al concetto di riconoscimento cfr. L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., pp. 26-36; A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C. Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002, pp.
21-30; A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, Klett, Stuttgart 1982, pp. 287-383; F. Fischbach,
La reconneisance, PUF, Paris 1999.
31 J. G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza,
trad. it. a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 8.
32 Ivi, p. 43.
33 Ivi, p. 33.
206
Vito Santoro
un soggetto che si costituisce ritornando in se stesso dall’altro da sé
- ma, in un certo modo, di applicarne le risorse metodologiche a contesti tematici diversi da quelli tradizionali. L’idea di riconoscimento non servirà più soltanto per dedurre in chiave intersoggettiva il
concetto stesso di autonomia personale; verrà anche applicata a quegli aspetti che più precisamente ineriscono alla relazione strutturale
che il soggetto intrattiene con la natura oggettiva interna ed esterna.
Come scrive Honneth, «la particolarità del principio hegeliano sta
nella tesi, di molto più ampia di quella fichtiana, che [...] accanto
al riconoscimento giuridico» vanno aggiunte «altre […] forme del
reciproco riconoscimento, alle quali devono corrispondere anche particolari livelli dell’autorelazione individuale». «I soggetti si devono
riconoscere reciprocamente anche nella peculiarità dei loro bisogni
naturali e [...] in quelle caratteristiche che possono contribuire alla
riproduzione dell’ordine sociale».34
La filosofia pratica tedesca, a partire più o meno dagli anni Ottanta, si è rifatta proprio a questa estensione contestuale del concetto di
riconoscimento. A tal fine, il recupero del pensiero etico classico non
è più avvenuto nella direzione della determinazione epistemologica
di una razionalità pratica alternativa a quella strumentale. Questa
limitazione problematica aveva fatto sì che il riferimento verticale
del soggetto alla natura restasse fuori dal campo di applicazione del
dispositivo del riconoscimento, e venisse relegato all’ambito di pertinenza di una ragione formale con effetti di dominio sull’oggetto
naturale. Adesso, invece, la concezione aristotelica della comunità
etica, come ciò che per natura è superiore al singolo e dalla quale
dipendono le condizioni della stessa autorealizzazione individuale,
viene estesa anche alla spiegazione di quelle forme concrete di autoriferimento pratico grazie alle quali al soggetto viene riconosciuta
una libertà «che non equivale semplicemente alla mancanza di coazioni o di influenza esterna», come per il concetto di persona, «ma
deve allo stesso tempo significare assenza di blocchi interiori, di inibizioni e angosce psichiche».35 Il concetto di «vita buona» non viene
più connesso direttamente all’indagine sulla forma distintiva di razionalità pratica, alla distinzione tra ragion pratica e ragion teoretica;
serve, piuttosto, a introdurre nel contesto delle discussioni etiche la
questione sulla felicità dell’uomo, a chiarire come il riconoscimento
intersoggettivo renda possibile e, in qualche modo, compatibile con
34 A. Honneth, “Zwischen Aristoteles und Kant”, in Das Andere der Gerechtigkeit, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 2000, p. 178.
35 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 203.
Vito Santoro
207
se stesso, la vita felice in quanto «possibilità di una libera articolazione dei propri bisogni».36 Il filosofo moderno di riferimento non potrà
più essere Kant ma, evidentemente, Hegel con la sua teoria delle forme concrete di riconoscimento dell’amore e del lavoro.
Si capisce, allora, in che senso il progetto di teoria pratica che
Honneth ha progressivamente chiarito, soprattutto a partire da Lotta per il riconoscimento, ha come suo presupposto fondamentale il
«concetto formale di vita buona o […] di eticità». Un approccio pratico di questo tipo si dovrebbe staccare «dalla tradizione risalente a
Kant in quanto non prende in considerazione soltanto l’autonomia
morale dell’uomo, ma anche le condizioni complessive della sua autorealizzazione: perciò la morale, intesa come il punto di vista del
rispetto universale, diventa uno fra i molti dispositivi normativi».37
Contro la portata “ristretta” di un’idea morale incentrata sull’obbligo
universalistico di portare a tutti i soggetti lo stesso rispetto in quanto
persone autonome e di tenere in eguale considerazione i loro diversi
interessi38, Honneth concepisce un rapporto di riconoscimento articolato nelle tre diverse dimensioni dell’amore, del diritto e della solidarietà. Ciò permette l’accesso ad un campo pratico in cui il soggetto
è valorizzato normativamente anche e soprattutto nella particolarità
della sua condizione vissuta in proprio, mediante l’approntamento di
strategie normative che lo interpretano non solo nella sua identità
universalmente generalizzabile di persona, vale a dire in ciò che si
potrebbe definire la sua identità pratico-universale, ma sono in grado
di riconoscerlo anche nella sua peculiare identità pratico-vitale.
Il punto di vista morale in senso kantiano fondamentalmente ruota
attorno al concetto di Gleichbehandlung, «trattamento eguale» per
principio estendibile, secondo il verdetto dell’imperativo categorico,
spazialmente e temporalmente a tutti gli uomini. Secondo Honneth,
«se si tratta di quella forma di riconoscimento attraverso la quale
viene rafforzata l’autonomia morale del singolo, sussiste allora una
obbligazione reciproca ad un eguale trattamento universale; tutti i
soggetti sono obbligati l’un l’altro a rispettarsi e trattarsi come persone alle quali spetta l’identica capacità di imputazione morale».39 Ora,
la percezione pratica diretta da un principio di universalizzazione formale trova il suo limite proprio quando è questione dell’accesso ad
Ivi, p. 205.
Ivi, p. 203.
38 Ivi, pp. 200-01.
39 A. Honneth, “Zwischen Aristoteles und Kant”, cit., p. 189.
36
37
208
Vito Santoro
una dimensione del riconoscimento dell’identità soggettiva nella sua
“esistenza peculiare”, nella sua “insostituibilità”.
Il concetto di dignità della persona rappresenta un’attribuzione
normativa riguardante esclusivamente il riconoscimento di qualità
formali condivise universalmente da tutti gli uomini. Il problema
della «felicità», intesa come autorealizzazione integrale dell’identità
soggettiva, viene completamente trascurato nell’esigenza kantiana di
un’astrazione da tutte le condizioni materiali, naturali del riferimento
pratico a sé. Per converso, è nell’amore e nella solidarietà, che l’essere umano viene normativamente valorizzato anche nel suo «bisogno e
desiderio», così come nelle sue «concrete qualità e attitudini» individuali che hanno un «valore costitutivo per una comunità concreta».40
Il riconoscimento della solidarietà è una strategia normativa la cui
riuscita permette al soggetto di sapersi stimato nelle sue prestazioni
e capacità singolari in quanto «riconosciute dagli altri membri della
società come ricche di valore».41 Va da sé che, in questa relazione,
è sì questione delle «qualità particolari che caratterizzano le persone
nella loro specificità»; ciò nondimeno, il valore della loro peculiarità
è stabilito in tutto sul piano della relazionalità orizzontale poiché «si
commisura a quanto esse appaiono in grado di concorrere alla realizzazione delle finalità sociali».42
Diversamente stanno le cose per l’amore. Questa modalità di reciproco riconoscimento si riferisce al livello esistenziale più profondo, più individualizzato dell’identità soggettiva, «poiché i soggetti
si confermano reciprocamente nella loro concreta natura di esseri
bisognosi».43 Qui, la presenza protettiva dell’altro dovrebbe permettere l’acquisizione di una fiducia interiore in se stesso che dà all’individuo sicurezza nell’articolazione dei propri bisogni44, che consente
un rapporto più mediato e meno dominativo, più armonico e meno
scisso con la dimensione emozionale e corporea. Il riconoscimento
nell’amore dell’essere umano come “soggetto del desiderio” conduce, secondo Honneth, che recupera a tal fine alcuni aspetti della filosofia di Adorno, ad una «definizione dell’identità dell’io priva
di coercizione, a partire dalla peculiarità di un rapporto non basato
sul dominio tra spirito e natura. L’io autonomo è perciò soltanto il
correlato di una natura riconosciuta nella sua peculiarità; esso acIvi, p. 187.
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 156.
42 Ivi, p. 148.
43 Ivi, p. 118.
44 Ivi, p. 128.
40
41
Vito Santoro
209
quisisce libertà nella misura in cui affida in modo non coercitivo il
suo patrimonio strutturale interno alla molteplicità sensoriale delle
impressioni ricevute dalla natura».45 Ora, è proprio questa possibilità
pratico-esistenziale ad essere impedita da quel modello antropologico che interpreta l’“apertura” naturale della soggettività alla luce del
principio di autoconservazione.
Tra i filosofi che maggiormente hanno influito sulla definizione
problematica di questo aspetto della teoria del riconoscimento bisogna sicuramente menzionare Adorno.
Nella filosofia di quest’ultimo, come ha mostrato M. Jay, si dà
luogo ad una sorta di curvatura antropologica del nesso dialettico tra
universale e particolare. Considerando l’evoluzione semantica, nella
tradizione hegelo-marxista, del concetto di reificazione, Jay afferma
che da Adorno essa non viene più intesa nell’accezione storico-sociale lukácsiana di «oggettivazione alienata della soggettività, riduzione
di un processo fluido a cosa morta», ma - e qui diventa chiaro il
debito nei confronti di Nietzsche - «la reificazione significa ormai la
soppressione dell’eterogeneità in nome dell’identità. […] L’inverso
[…] doveva significare la restaurazione della differenza e della nonidentità». Soprattutto, questo concetto non indica più soltanto «una
relazione tra gli uomini, ma anche una relazione che implica il dominio dell’alterità del mondo naturale […] reificato in campi quantitativamente fungibili per il controllo e la manipolazione».46
È a questa linea interpretativa che Honneth si riallaccia. Egli sottolinea come nella filosofia critica di Adorno e Horkheimer viene
fissato un rimando funzionale tra il dominio della natura, mediante
la sua oggettivazione in «fenomeni ricorrenti che rispondono a propositi di intervento basati sulla manipolazione», e l’interpretazione di
essa in base al principio di autoconservazione: «il processo attraverso
cui gli uomini sotto l’imperativo dell’autoconservazione si rendono
accessibile il loro ambiente naturale, appare da questo punto di vista
come il pendant di una natura diventata pura oggettività».47
Nella preparazione della natura «dal punto di vista prioritario dell’autoconservazione», questa viene purificata da ogni eccedenza incontrollabile, neutralizzata in tutto ciò che è amorfo, spontaneo, polisemico, nella sua «abbondanza di impressioni sensibili […] attraverso l’esclusione della natura viva».48 L’autoconservazione, da questo
A. Honneth, Critica del potere, cit., p. 102.
M. Jay, Theodor W. Adorno, trad. it. di S. Pompucci Rosso, il Mulino, Bologna 1987, p. 73.
47 A. Honneth, Critica del Potere, cit., p. 97.
48 Ivi, p. 99.
45
46
210
Vito Santoro
punto di vista, rimanda categorialmente ad un concetto di identità
privo di differenze. Ma in un contesto dialettico, dove la teoria del
riconoscimento in linea di principio si colloca, la riduzione dell’identità all’universalità astratta importa la soppressione immediata della
verità in proprio dell’“altro” in generale, che si riduce così a sostrato
per la ripetizione omologica del sé.
Ora, la limitazione delle potenzialità naturali nello schema operativo dell’autoconservazione non è senza ripercussioni sullo stesso rapporto che l’uomo intrattiene con il corpo proprio: «il dominio della natura dà l’avvio ad un processo di abnegazione umana;
l’oggettivazione della natura […] viene a declinarsi col processo di
auto-oggettivazione umana».49 Il momento del controllo sviluppato
dall’attitudine autoaffermativa dell’uomo verso la natura esterna si
estende al modo in cui l’uomo si relaziona alla sua natura interna;
cosa che, come ricorda Honneth, è espressa nella Dialettica dell’Illuminismo dalla metafora chiave di Ulisse, il quale «muovendo da
considerazioni razionali mirate a respingere il desiderio, si lega spontaneamente all’albero della nave: attraverso il controllo degli impulsi
si ripete allo stesso modo, come assoggettamento individuale della
natura interna, il processo di dominio della natura».50 L’istanza autoconservativa retroagisce sulla molteplicità delle dinamiche istintuali
del soggetto nel senso che questi può valorizzare solo quegli impulsi istintuali che possono essere canalizzati in prestazioni strumentali
utili alla conservazione.51
Ma se la teoria del riconoscimento condivide con questa impostazione la stessa esigenza di valorizzazione filosofica del problema del
corpo proprio, in tutt’altro modo, però, stanno le cose per quel che riguarda l’esito più caratteristico della dialettica adorniana in relazione
alla questione del rapporto ragione-corpo. Honneth utilizza a tal proposito la formula di negativismo filosofico, formula che in altri luoghi della sua opera estende anche ad alcune tendenze filosofiche contemporanee di orientamento più o meno ontologico-esistenzialista.52
L’idea di un corpo “liberato”, valorizzato nella sua spontaneità, fa tutt’uno con la critica della categoria di ragione strumentale
e con la notificazione degli effetti di violenza che l’idea di razionalizzazione che caratterizza la scienza moderna esercita sulla naIvi, p. 106.
Ivi, p. 104.
51 Ibid.
52 Cfr. A. Honneth, “Kampf um Anerkennung. Zu Sartres Theorie der Intersubjektivität” in Die
Zerrissene Welt des Sozialen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 144-55.
49
50
Vito Santoro
211
tura umana: «la costruzione del concetto di razionalità strumentale
guadagna il suo senso integrale dal rimando alla dimensione vitale
del corpo umano, che viene presupposta come una sfera irrazionale e
dalla quale il principio della razionalità strumentale fa violentemente
astrazione».53 Ora, Adorno, soprattutto a partire da Dialettica dell’illuminismo, procede ad una sorta di identificazione generalizzante
della struttura del pensiero discorsivo in quanto tale con la categoria
della razionalità strumentale: «la scienza stessa, non una delle sue
interpretazioni, è, per principio, legata alle condizioni dell’azione
orientata al controllo».54 In questo modo, nessun principio metodologico-razionale resta immune da questa critica totalizzante, in quanto
è «la semplice operazione concettuale» ad essere «figura elementare della ragione strumentale».55 Ciò significa che il tema del corpo
proprio, il cui senso viene falsificato in una conoscenza fondata sul
mero interesse alla conservazione, non è più definibile all’interno di
un discorso di ragione. Come sostiene Honneth, la valutazione adorniana «delle conseguenze gravose della razionalità strumentale non
la si deve, evidentemente, ad un concetto più ampio di razionalità
[…] alla dimensione altra della razionalità sociale, quanto ad un vago
concetto di soggettività vivente» che trova le sue coordinate definitorie in una «teoria estetica della formazione riuscita dell’io».56
Ma, scoperta la connivenza del discorso di ragione in quanto tale
con l’atto di dominio della natura, alla filosofia non viene più chiesta l’elaborazione di strategie metodologiche meglio rispondenti ad
un corpo da riconoscere nella sua spontaneità naturale. Il tema del
corpo viene, per così dire, cooptato da una teoria estetica e la stessa
filosofia, se vuole ancora assolvere al compito di pensare il rapporto
alla spontaneità naturale, si deve mettere alla scuola di questa teoria
estetico-irrazionalistica; non le resta assegnato che il ruolo negativo
di interpretarsi come critica di se stessa, critica della ragione, «versione negativa di una […] teoria della conoscenza».57
La teoria del riconoscimento ha tra i suoi obbiettivi espliciti proprio quello di evitare l’impasse di una riduzione negativista del discorso filosofico, che si era imposta ad Adorno quando ha preteso
di dar conto del tema del corpo. In un certo senso, essa ripete la
stessa situazione in cui, un decennio prima, si era trovata la filosofia
A. Honneth, “Foucault und Adorno”, in Die Zerrisene Welt des sozialen, cit., p. 82.
A. Honneth, Critica del potere, cit., p. 118.
55 Ivi, p. 120.
56 A. Honneth, “Foucault und Adorno”, cit., pp. 84, 90.
57 A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p 103.
53
54
212
Vito Santoro
pratica tedesca quando aveva affrontato la questione di una razionalità pratica alternativa a quella strumentale. È vero che essa tenta
in modo originale di estendere l’esigenza pratica del riconoscimento
intersoggettivo anche alla dimensione corporeo-emozionale, ma per
farlo continua a stare in qualche modo nella tradizione teorico-comunicativa inaugurata proprio dalla Rehabilitierung.
Quel tipo di scienza il cui modello epistemologico ha «abbandonato
il presupposto teorico della motivazione razionale allo scopo di ogni
azione umana»58, viene individuato nel pragmatismo di Mead; esso
servirà come punto di riferimento per ritrascrivere in termini scientifico-empirici l’originario modello hegeliano del riconoscimento.59
Alla base della filosofia sociale di Mead si trova l’idea di una
intersoggettività originaria, cioè della costituzione sociale dell’identità dell’io nella sua integrità. Il modello di teoria sociale meadiano è categorialmente così ampio che può «inserire nel quadro delle
proprie ricerche anche quelle istanze dell’io il cui soddisfacimento
non è legato alla condizione della crescita dell’autonomia personale
ma al presupposto delle chance di autorealizzazione individuale».60
L’idea di una intersoggettività costitutiva dell’io viene così estesa
anche alla dimensione biologica, pulsionale del soggetto, di modo
che il vettore orizzontale d’interazione con l’altro assume un ruolo
teorico-esplicativo di riferimento, al quale dar conto anche per la determinazione del rapporto verticale alla natura corporea. Il livello di
profondità esistenziale al quale questa relazione può essere analiticamente condotta, resta condizionato dall’interesse esclusivo a forme di
interazione che comportano sempre un certo grado, anche se minimo,
“primario”, di universalità o, come anche si può dire, di condivisione
di “ruoli”. L’impressione è che, in questo modo, la teoria del riconoscimento non riesca ad attingere con i suoi strumenti concettuali gli
strati più profondi dell’identità naturale dell’uomo, quella dimensione della sua esistenza che il soggetto non condivide con nessuno, in
cui davvero egli si presenta nella sua identità “insostituibile”.
C’è un’altra versione della teoria del riconoscimento, alla quale
abbiamo già accennato, in cui si è proceduto ad una denuncia, per
così dire, inconsapevole del condizionamento epistemologico che la
orienta in modo privilegiato verso forme della originarietà corporea
soggettiva in qualche modo già sempre socializzate.
Ivi, p. 74.
Ivi, p. 84.
60 Ivi, p. 107.
58
59
Vito Santoro
213
In Kampf um Anerkennung, probabilmente la prima trattazione
esplicita del rapporto tra principio di autoconservazione e riconoscimento, Siep cerca di capire fino a che punto è condivisibile la tesi
che «la concezione hegeliana della lotta per il riconoscimento […]
è influenzata in modo decisivo da Hobbes».61 A ben vedere, più che
dell’«analisi di un influsso» si dovrebbe parlare di una «differenza
fondamentale che si mostra proprio nel nesso tra i primi progetti
del diritto naturale razionale moderno e la filosofia dello spirito hegeliana», che proprio contro questi ultimi definisce la sua identità
teorica.62
Resta valida la tesi che per lo Hegel jenese la lotta per il riconoscimento rappresenta un confronto esplicito con la dottrina dello «stato
di natura» hobbesiano. Ma questo rapporto diretto, o l’apparente vicinanza in alcuni esiti, non può far dimenticare la fondamentale differenza delle due posizioni nei presupposti antropologici di base. In
Hobbes, la lotta nello stato di natura è una lotta per l’autoconservazione, e l’abbandono di questo stato a favore del diritto e dell’unione
statale, è, «in ultimo, ancora al servizio dell’autoconservazione»63,
come prosecuzione ma con strumenti razionali dello stesso principio autoconservativo che funzionava nella condizione naturale prepolitica. In Hegel, invece, la lotta è una lotta per l’onore. L’onore è
la possibilità di fare «astrazione da tutti i riferimenti ad alcunché di
esteriore»64, persino dal proprio sé naturale, per dare prova, in una
lotta per la vita e per la morte, di una libertà assoluta dalla necessità
di natura. E l’esito della lotta è l’apertura all’altro, la convalida intersoggettiva per l’affermazione della «totalità del singolo», vale a dire la rinuncia all’identità autoconservantesi della singolarità naturale
nella mediazione con l’altro, nell’«unità di sé e dell’altro»: «al posto
di autoconservarsi, la totalità del singolo stesso è superata. Essa si
può intuire nell’altra coscienza come totalità solo superandosi nella
sua singolarità: come coscienza universale».65 Il riconoscimento, per
mano dell’altro, dell’individuo nella sua identità non è mai senza una
forma di rinuncia a sé, all’interpretazione del proprio sé naturale in
termini di mera sussistenza.66
61 L. Siep, Der Kampf um Anerkennung. Zu Hegels Auseinandersetzung mit Hobbes in den
Jener Schriften, in «Hegel-Studien», Vol. 9, 1974, p. 155.
62 Ivi, p. 155.
63 Ivi, p. 157.
64 Ivi, p. 163.
65 Ivi, p. 179.
66 Ibid.
214
Vito Santoro
Ora, tutto sta a vedere fino a che punto questo concetto di negazione si deve riferire esclusivamente all’interpretazione autoconservativa della naturalità del soggetto. Se così fosse, esso, a ben vedere,
non escluderebbe la possibilità di liberare l’accesso alla fondazione
di un rapporto dialetticamente più armonico dell’io con gli strati più
profondi della propria identità corporea, ciò che poi significa un riconoscimento reciproco dei soggetti nella loro particolarità incondivisibile. Ma, nei fatti, questo concetto si generalizza in qualche modo
in una forma di trascuratezza dell’originarietà corporeo-naturale in
quanto tale, in una sorta di “trasvalutazione socializzante” delle profondità verticali dell’identità soggettiva; e, a partire da ciò, è possibile rendersi conto degli effetti del prevalere nella teoria del riconoscimento di una epistemologia che sbilancia il suo peso teorico sul
rapporto orizzontale intersoggettivo.
Se c’è un luogo dei primi sistemi hegeliani, dove il soggetto sembra essere riconosciuto nella sua individualità insostituibile, questo
è l’eticità naturale.67 Nel lavoro e nella famiglia il soggetto si afferma nella sua peculiarità di «io» naturalmente individuato. Tuttavia,
già nella forma di istituzionalizzazione «primaria» dell’amore - e a
maggior ragione per il lavoro - l’individualità è tale solo come unità
di particolarità e universalità, come «intelligenza», soggettività assoluta. In questa struttura interrelazionale viene di certo mantenuto e
valorizzato il rapporto d’implicazione con la dimensione naturale, ma
questa si realizza ultimamente «come capacità di trasformare la natura
in qualcosa di soggettivo, nella puntualità dell’esser-per-sé singolo»;
persino in rapporto all’eticità familiare si può parlare di «indipendenza dalla natura».68 Nella famiglia il singolo viene sì preso dal lato
della sua particolarità naturale, ma questa non diventa mai contenuto
o scopo del riconoscimento. La convalida intersoggettiva della propria identità, fosse anche quella della propria unicità storico-vitale,
comporta sempre, anche a questo livello, un processo di formazione
nel quale l’individuo viene comunque considerato come «concetto,
intelligenza». Il sé riconosciuto è sempre un sé formato, «che si è
liberato dalla sua particolarità naturale non ancora formata».69
Se ne potrebbe concludere che se da un punto di vista antropologico l’idea di applicare la categoria del riconoscimento anche alla relazione verticale al corpo, rappresenta una novità rispetto al periodo
storico-filosofico precedente, da un punto di vista epistemologico la
L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., p. 241.
Ivi, p. 244.
69 Ivi, p. 243.
67
68
Vito Santoro
215
teoria del riconoscimento è però ancora condizionata dalla scoperta fondamentale del movimento della Rehabilitierung, vale a dire la
categoria della razionalità comunicativa. Ora, tutto sta a vedere in
che modo questa eredità epistemologica, modellata sul rapporto orizzontale ego-alter ego e, alla sua origine, capace soltanto di rifondare
intersoggettivamente quella dimensione pratica in cui i soggetti sono
assunti in ciò che hanno di eguale, comune, di condiviso universalmente con gli altri soggetti, si può conciliare con l’esigenza di presa
teorica sul rapporto verticale mente-corpo. È probabile che la filosofia del riconoscimento paghi il prezzo di un apparato categoriale sbilanciato analiticamente verso il vettore orizzontale dell’interazione
sociale, e che in questo modo si precluda l’accesso alle dimensioni
più profonde della struttura esistenziale soggettiva, restando ferma
alla prospettiva analitica di un sé colto, nella migliore delle ipotesi,
nella sua naturalità socializzata.
SERGIO ALLOGGIO
DIRITTI E GLOBALIZZAZIONE.
SU ALCUNI RECENTI CONTRIBUTI
In quell’immensa industria testuale riguardante la globalizzazione,
e che sforna incessantemente opere su molte delle quali dovrebbe
abbattersi il buon vecchio rasoio di Ockham, si segnalano due libri
pubblicati in Italia nel 2004. Il primo è: N. Chomsky, V. Shiva, J. E.
Stiglitz e altri, La debolezza del più forte1, mentre il secondo, curato
da Paolo Costa, si intitola Il diritto di avere diritti.2
La debolezza del più forte raccoglie e sistematizza le Oxford Amnesty Lectures del 2003, un ciclo di conferenze svoltosi appunto a
Oxford. Cominciate nel 1992, queste Lectures sono ormai diventate
un celebre e annuale appuntamento per tastare il polso al dibattito
internazionale sui diritti umani. Lo scopo del volume, come scrive il
curatore Matthew J. Gibney nell’Introduzione, è «considerare l’impatto della globalizzazione sulla diffusione e sul rispetto dei diritti umani».3 Punto comune a tutti gli interventi, potremmo dire con
l’Heidegger di Sein und Zeit, è quello di essere mossi e guidati, anche senza averne sempre una chiara definizione, da ciò che si cerca
di capire, in questo caso il fenomeno della globalizzazione in tutta la
sua stringente attualità.
Susan George, autrice del primo intervento, si concentra sul cortocircuito fra espansionismo neoliberista e incapacità di sviluppare
1 N. Chomsky, V. Shiva, J. E. Stiglitz e altri, La debolezza del più forte. Globalizzazione e
diritti umani, a cura di M. J. Gibney, trad. it. di G. Amadasi, Mondadori, Milano 2004.
2 P. Costa, Il diritto di avere diritti, Libri Scheiwiller, Milano 2004.
3 N. Chomsky, V. Shiva, J. E. Stiglitz e altri, op. cit., p. 11.
218
Sergio Alloggio
un conseguente allargamento dei diritti umani, sottolineando come
il termine globalizzazione non sia altro che una copertura linguistica
sfruttata ideologicamente per suscitare «l’impressione che gli abitanti
dell’intero globo siano in qualche modo coinvolti in un unico movimento, in un fenomeno che abbraccia tutto e tutti, e che stiano marciando insieme verso una sorta di futura Terra Promessa».4 Attenendosi agli sconcertanti e dolorosi dati sulla sperequazione fra il Nord
e il Sud del mondo, la George sembra alludere alla globalizzazione
neoliberista come ad una specie di nemesi dei diritti umani. Cerca,
inoltre, di mantenere la propria analisi su un livello politico, l’unico
che riesca a evidenziare come nella post-modernità in questione non
ci sia più la gerarchia del potere, né la spartizione di esso, ma solo
la sopravvivenza del più forte: «si tratta della questione estrema dei
diritti umani: chi ha il diritto di vivere e chi no?».5 Il primato dell’homo oeconomicus, estendendosi rizomaticamente per mezzo della
globalizzazione, deve essere fermato da politiche democratiche che,
secondo la George, ne ridimensionino la famelicità. Il vero bersaglio
è costituito dalla punta di diamante della globalizzazione del capitale,
le multinazionali: «le imprese dovrebbero accettare di avere responsabilità nei confronti degli azionisti ma anche degli impiegati, dei
fornitori e delle comunità e nazioni in cui sono situate, così come
dell’ambiente».6 Alla George replica Michael B. Linosky che accettando in toto, quando si discute delle ambigue dinamiche della globalizzazione, la «frattura tra la rappresentazione ideologica e la pratica
del mondo reale», focalizza la propria attenzione sulla «genesi dello
Stato oligarchico filoimprenditoriale nel XX secolo e della sua diffusione internazionale».7 Fenomeno, quello della «oligarchizzazione
dello Stato», generatosi nella Guerra Fredda grazie all’attività di settori deviati della politica e dell’economia privata. Ma la vera causa
dell’emergere negli anni Ottanta dello Stato oligarchico è stata la distruzione del Welfare State. Un margine di manovra è però ancora
possibile per Linosky, poiché se è «il sistema politico che ratifica il
sistema economico, l’oligarchia è vulnerabile a una rivendicazione
del diritto di controllo da parte dei cittadini, a cui davvero appartengono le istituzioni».8
Ivi,
Ivi,
6 Ivi,
7 Ivi,
8 Ivi,
4
5
p.
p.
p.
p.
p.
26.
35.
44.
49.
56.
Sergio Alloggio
219
Il saggio di Noam Chomsky, Riconoscere i diritti: un percorso
accidentato, è tra i più corposi della raccolta e prosegue sulla linea
fortemente critica che l’autore persegue da decenni: «nonostante
l’aggressione relativista, la Dichiarazione universale è da difendere.
Ma senza illusioni: il paese più potente del mondo è stato un leader
del partito relativista».9 Con la fine della Guerra Fredda, l’ordine deciso a Bretton Woods è obsoleto, come anche la Carta delle Nazioni
Unite, e per questo «il principio riconosciuto è la legge della forza».
Infatti, «negli anni di Clinton, si sono lasciate cadere tutte le finzioni» che ancora permettevano di mascherare qualunque violazione del
diritto internazionale da parte degli Stati Uniti. In tutto ciò, le conseguenze peggiori si riflettono sulla reale protezione dei diritti umani,
sfruttati invece da «Stati autodefinitisi “illuminati e “civilizzati”»,
che in tal modo «possono tornare alla loro missione storica, sotto
sembianze che non sono affatto nuove».10 Altro fenomeno di questo
ribaltamento ideologico è per Chomsky la possibilità, attuata dalle
multinazionali e non, di definire se stesse come “persone giuridiche
collettive”: perfette figure immortali e immateriali generate al solo
fine di proteggere meglio i propri interessi transnazionali. Alan Ryan,
al quale è affidato il compito di replicare al noto studioso statunitense
del linguaggio, è in disaccordo sull’impostazione stessa del saggio
di Chomsky, poiché esso rimanda a un «funzionalismo di sinistra»,
una posizione basata sulla legge che «le società capitaliste funzionano in modo da proteggere gli interessi del capitalismo d’impresa,
del “sistema”».11 Principio questo che in Chomsky spesso si trasforma nella ben nota “teoria del complotto”, secondo la quale il potere
manipola e deforma sistematicamente le informazioni per eliminare
qualsiasi capacità critica.
Anche Vandana Shiva non si allontana da temi a lei cari12, e in Diritti alimentari, libero commercio e fascismo, partendo dalla grande
elisione avvenuta nel secondo dopoguerra fra diritti socioeconomici e
libertà civili, evidenzia come il diritto umano fondamentale sia quello
alla vita, o, meglio, la possibilità di essere liberi dalla fame. Un tipo
di diritto sistematicamente cancellato da quelle «finzioni giuridiche»
che sono le imprese multinazionali tramite la barbara pratica della
brevettazione delle sementi. Il presupposto criminale alla base della
Ivi, p. 72.
Ivi, p. 90.
11 Ivi, p. 110.
12 Cfr. per esempio V. Shiva, Il mondo sotto brevetto, trad. it. di G. Pannofino, Feltrinelli,
Milano 2002.
9
10
220
Sergio Alloggio
bio-brevettazione è che «la conoscenza è una proprietà privata, anche
in settori dove viene creata collettivamente», come per esempio nelle
società contadine. Allora, secondo la Shiva, «introducendo il concetto
di proprietà sui cicli vitali, dichiarando che le specie sono “invenzioni” e brevettandole come proprietà, siamo degradati nel nostro essere
uomini».13 Il controllo monopolistico sul livello alimentare produttivo e distributivo, eliminando così la diversità culturale dell’alimentazione, si trasforma in un vero e proprio «biototalitarismo». A tutto
ciò va contrapposto per la Shiva il principio dell’indivisibilità dei
diritti umani fondamentali, perché «senza cibo e acqua, non si può
esercitare nessun altro diritto». La replica a Vandana Shiva è di Yogi
Sikand, che sposa senza mezzi termini l’apparentamento fra globalizzazione, liberismo e fascismo alimentare, fenomeni tutti riconducibili alla vecchia, ma sempre attiva, categoria del colonialismo. Ciò
che viene profondamente criticato della Shiva è il modo in cui ella
pretende di far discendere dalla globalizzazione la frammentazione
e l’odio ancora circolante fra le etnie indiane. L’errore della Shiva,
secondo Sikand, è una mancata interrogazione della fondamentale
nozione di dharma e un insufficiente studio storico sulla divisione in
caste della società, un tipo di problema presente in India ben prima
dei multiformi processi noti sotto il termine globalizzazione.
A questo punto del volume si incontra Joseph E. Stiglitz, autore di
uno dei saggi più densi dell’intero volume, poiché dall’ex-vicepresidente della Banca mondiale vengono riassunti in modo convincente
i primi due interventi e le rispettive repliche. Incentrandosi sui flussi
informativi, sul dibattito pubblico e sull’importanza della trasparenza, Stiglitz, servendosi anche della propria esperienza di consulente
economico, affresca un quadro molto preciso delle dinamiche governative che presiedono alle varie scelte delle democrazie occidentali.
Tutto il suo intervento può essere letto come un forte atto d’accusa
contro la segretezza – il vero male delle democrazie –, in quanto «la
segretezza è corrosiva: è antitetica ai valori democratici e mina alle
fondamenta i processi democratici. Si basa sulla mancanza di fiducia
tra governanti e governati e, allo stesso tempo, peggiora ulteriormente il rapporto tra le parti».14 L’informazione, a qualunque livello, è
un diritto assoluto del cittadino e solo in determinati casi, come per
la privacy e la sicurezza nazionale, essa può essere mantenuta nascosta. Una buona governance richiede trasparenza e pubbliche disami13
14
N. Chomsky, V. Shiva, J. E. Stiglitz e altri, op. cit., p. 120.
Ivi, p. 148.
Sergio Alloggio
221
ne; altrimenti, autoalimentandosi, la segretezza produce corruzione,
una stampa asservita e competizioni politiche distorte, oltre ad essere
nutrice di sfrenati interessi privati. L’imponente stratificazione dello
Stato contemporaneo ha bisogno di istituzioni credibili, e, poiché la
segretezza permette di nascondere errori e falsità, le pubbliche agenzie vi ricorrono regolarmente per poter continuare a sussistere. Ma
se per Stiglitz «la fallibilità umana è una delle pietre angolari della
creazione della nostre istituzioni politiche»15, allora l’unico antidoto conosciuto per non scivolare in forme degradate di potere è una
«cultura dell’accessibilità», a sua volta diffusa e rafforzata da forti
dibattiti su «tutte le decisioni collettive» – le stesse eccezioni alla
trasparenza devono passare il vaglio di pubblici confronti. Trasparenza e «accessibilità dell’informazione», definiti valori intrinseci, sono
quindi gli antidoti per il mantenimento della cultura del buon governo, poiché «è dietro la cappa della segretezza che vengono abrogati
i diritti degli individui».16 Il furto o il mascheramento a fini privati
del pubblico sapere è, infine, «un’appropriazione indebita di un bene
comune paragonabile a ogni altro furto».17 Nella sua breve replica
a Stiglitz, B. S. Chimni vorrebbe estendere la ricerca di trasparenza
anche agli organismi internazionali e soprattutto alle multinazionali,
al fine di bloccare lo sfruttamento che queste ultime perpetuano nei
confronti degli Stati del Terzo Mondo.
Con gli ultimi due saggi di Homi K. Bhabha e di K. Anthony Appiah, rispettivamente Il diritto alla scrittura e Cittadini del mondo,
si abbandonano questioni meramente economiche e di mercato per
giungere su un terreno molto vicino ai cultural studies. Centrando la
propria attenzione sulle identità culturali, sulla lotta per il riconoscimento e sui diritti umani che le comunità minoritarie devono continuamente contrattare nell’ombra delle nazioni18, Bhabha si domanda:
«I milieu culturali parziali hanno una risonanza pratica per la politica
del riconoscimento in un contesto nazionale o globale?».19 La risposta risiede nelle «narrazioni storiche» che i vari gruppi, una volta inseriti nelle società multiculturali complesse, propongono per rendere
Ivi, p. 183.
Ivi, p. 188.
17 Ivi, p. 190.
18 Su questi temi di scottante attualità, come prime letture introduttive segnaliamo Ch. Taylor,
Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, trad. it. di G. Rigamonti, Anabasi, Milano
1993; W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, trad. it. di G. Gasperoni, il Mulino, Bologna
1999; A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C.
Sandrelli, il Saggiatore, Milano 2002.
19 N. Chomsky, V. Shiva, J. E. Stiglitz e altri, op. cit., p. 210.
15
16
222
Sergio Alloggio
manifesti i propri obiettivi e valori. Rifiutando di assumere la politica
come mera «polarizzazione binaria delle identità – sé/altro, maggioranza/minoranza –», e cercando al contrario di «pensare alla politica
come a un’operazione che crea connessioni tra milieu culturali parziali», l’agone delle relazioni umane e culturali si orizzontalizza in
un grande e perpetuo «processo di revisione e di rigenerazione». Se i
soggetti sono costitutivamente intessuti da variegati «ambiti di prossimità delle differenze» (razza, genere, ma anche professione, fede
religiosa, politica, ecc.), allora per Bhabha la corretta strutturazione
delle forme sociali è quella di «doppi chiasmatici», che di riflesso
comporta una «solidarietà chiasmatica, trasversale, “fianco a fianco”
in cui le differenze non aspirano a essere rappresentate in autonomia
sovrana».20 Evidenziando come nella prospettiva multiculturalista di
Charles Taylor sia presente un rimando evoluzionistico per quanto riguarda la sopravvivenza delle culture – con relativa damnatio memoriae per quelle perdenti –, Bhabha innalza «il diritto alla narrazione»,
permesso dalla letteratura, a vero e proprio strumento di mutamento
delle condizioni storiche del presente: «Con “diritto alla narrazione”,
intendo tutte quelle forme di comportamento creativo che ci permettono di rappresentare le vite che conduciamo, di interrogarci sulle
convenzioni e i costumi che ereditiamo, di discutere e di propagare le
idee e gli ideali che giungono a noi spontaneamente e di osare prendere in considerazione le più audaci speranze e paure sul futuro».21
Vige quindi l’obbligo di garantire tutte le condizioni di accesso a tale
diritto: libertà di pensiero e di parola, ma anche condizioni materiali
come il libero accesso a «scuole, università, musei, librerie, teatri».
Infine, il presupposto insopprimibile del saggio di Bhabha si rivela
essere il fatto che «l’“umanità” o essenza umana è una categoria di
traduzione e di transizione». E allora, «tradurre l’“umano” significa porre l’essere umano agli “incroci”, in uno spazio dialogico dove
esso, come “valore umano” o “libertà culturale” o “autoconsapevolezza”, richiede che ogni momento di riconoscimento sia una difficile “doppia esposizione” al tempo e alla storia».22 Taylor, dopo aver
puntualizzato la propria teoria sul rapporto fra società intere e milieu
parziali, condivide nella sua risposta a Bhabha la profonda esigenza
di dialogicità ibrida che quest’ultimo formula. Scrive infatti Taylor:
«In una conversazione davvero fruttuosa finiamo con l’essere da più
di una parte»; e poco più avanti:«È fondamentale per la condizione
Ivi, p. 217.
Ivi, p. 222.
22 Ivi, p. 225.
20
21
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umana che questa articolazione di parole non possa essere fatta correttamente da soli».23
Il saggio Cittadini del mondo di K. A. Appiah chiude il volume e
marca il mutamento moderno che investe la citizenship: dal villaggio
come fonte epistemica principale, nel quale l’individuo era perfettamente inserito, agli odierni Stati nazionali, assunti come veri e propri
depositari delle identità sociali grazie al pervasivo vincolo di «storie
comuni» vigente fra i suoi cittadini. Gli Stati contemporanei, però,
dovendo presentare il proprio mythos nazionale come una «storia di
una nazione tra tante, una narrazione inter-nazionale», e venendo a
mancare una legittimazione extrastorica, si trovano senza un collante di fratellanza universale che permetta di cementificare le loro varie epopee in un destino di generale progresso. Si domanda Appiah:
«Perché il mondo non dovrebbe essere un’unica polis?».24 Solo il cosmopolitismo sembra aspirare a tale compito e sembra riuscirvi senza
piegare la diversità politica presente nei vari continenti in un omogeneo governo mondiale. La cosmopoli, errata postura presente fra
certi teorici del cosmopolitismo, invece, «rischia di imporre proprio
quel tipo di uniformità al quale il cosmopolitismo si oppone».25 Per
far questo, Appiah, memore anche della lezione scettica di Richard
Rorty, deve cercare di fondare la ricerca di universalismo senza aggrapparsi a identità esclusive o fondative. Abbandonando la ricerca
di princìpi, «ciò che impariamo viaggiando, ma anche leggendo racconti o vedendo film di altri luoghi, è che possiamo identificare punti
d’accordo più contingenti e più locali».26 È sul terreno del confronto
concreto che va ricercato uno sfondo comune per innalzare progetti
di fratellanza inclusiva: «Invece che affidarci a una comprensione comune della nostra natura umana o a un’espressione comune (attraverso princìpi) della sfera morale, spesso la nostra reazione nei confronti
degli altri consiste in giudizi condivisi su questioni particolari».27 E
questi vengono promossi da una «logica narrativa» e non dalla mera
ragione. Quello di Appiah sembra essere un “cosmopolitismo poliglotta”, costituito, è vero, da narrazioni eterogenee, ma tutte tendenti
ad un medesimo programma di conversazione multiculturale: «Impariamo qualcosa sull’umanità rispondendo ai mondi che le persone
evocano con le parole nella cornice narrativa del romanzo, o con le
Ivi,
Ivi,
25 Ivi,
26 Ivi,
27 Ivi,
23
24
pp. 230-31.
p. 242.
p. 245.
p. 255.
p. 258.
224
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immagini nella struttura del film; impariamo la straordinaria diversità
delle risposte umane al nostro mondo e le migliaia di punti di intersezione di queste risposte».28 Punto fermo del saggio è la sottolineatura
dell’«immaginazione narrativa», intesa come capacità di innovazione
continua e pluralista delle democrazie liberali, poiché quello democratico è l’unico contesto in cui la costruzione del sé e l’identità sono
lasciati alla libera scelta e all’iterazione pratico-dialogica con gli altri. Soltanto il liberalismo, per esempio nella declinazione che ne ha
dato J. S. Mill29, sembra estendere pari dignità a tutti i suoi cittadini.
La globalizzazione allora deve imboccare la strada di un liberalismo
cosmopolita, nel quale le differenze non vanno cancellate, perché per
Appiah «talvolta è proprio la differenza che mettiamo in campo a
rendere interessante l’interazione».30 Rorty cerca subito di eliminare
le distanze che Appiah aveva preso nei suoi confronti, poiché, come
scrive nella sua replica, le sottili differenze teoriche vanno accantonate se si è «già dalla stessa parte su tutte le questioni che potrebbero
avere un peso pratico». Rorty – ecco la sua originale proposta – partendo dall’assunzione che se nella «costruzione di un’utopia il dono
della narrativa è il più importante»31, candida i racconti fantascientifici (science-fiction) a ottimi strumenti per soddisfare «il bisogno
di narrazioni sulla nostra specie, piuttosto che sulla nostra tribù o
nazione». Ponendo il genere umano come già unito e tendente verso
il meglio, le narrazioni della fantascienza, suggerendo anche in quali
errori l’umanità potrebbe incappare, assolvono il ruolo di grandi narrazioni morali in una prospettiva però assolutamente post-filosofica.
Cifra portante dei primi tre saggi de La debolezza del più forte
(George, Chomsky e Shiva) è quel tipo di approccio al fenomeno
della globalizzazione che John Baylis e Steve Smith, nella loro Introduction a The Globalization of World Politics32, definiscono come
Marxist theories. Privilegiando appunto la sfera economica su quella
militare, sulle connessioni internazionali o sulla sovranità statale si
sceglie di appartenere all’eterogenea famiglia definita dai due autori
“teorie marxiste”. Mentre gli ultimi tre interventi (Stiglitz, Bhabha e
Appiah) si inscrivono a pieno titolo nell’ampia terza classe di riferiIvi, p. 260.
J. S. Mill, Saggio sulla libertà, prefazione di G. Giorello e M. Mondadori, trad. it. di S.
Magistretti, Net, Milano 2002.
30 N. Chomsky, V. Shiva, J. E. Stiglitz e altri, op. cit., p. 277.
31 Cfr. su questi temi R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, trad. it. di G. Boringhieri, Laterza,
Roma-Bari 1998, specialmente la terza parte.
32 J. Baylis - S. Smith (eds.), The Globalization of World Politics. An introduction to international relations, Second edition, Oxford University Press, New York 2001, p. 5.
28
29
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mento teorica del Liberalism, nella quale il progresso e la cooperazione sono da perseguire esclusivamente in una cornice democratica.
Il punto debole del volume si rivela essere la mancanza di reale critica, salvo rari casi, che caratterizza la parte dedicata alle repliche dei
singoli interventi. Il più delle volte chi dovrebbe entrare nel merito
della proposta, e sviluppare così mosse antitetiche, si ritrova a sposare non solo l’impianto principale del saggio al quale risponde, ma
anche ad estenderne la proposta verso campi o direzioni che l’autore
da criticare non aveva preso in considerazione. Resta comunque felice la scelta di impostare un volume secondo un modello dialogico,
specialmente per temi come quelli della globalizzazione e dei diritti
umani sui quali il “conflitto delle interpretazioni” è di non facile soluzione.
Paolo Costa, autore e curatore del secondo volume qui in analisi, con il suo titolo arendtiano (peraltro, non dichiarato) Il Diritto di
avere diritti, sceglie di porsi nell’ottica di un Liberalism federalista a
forti venature “cittadine”. Quello che realmente interessa a Costa è la
cittadinanza on the spot, continuamente rinvigorita dalle prospettive
universalistiche promosse dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
e infine dalla giovane Carta Europea dei Diritti dell’Uomo nella Città
promulgata a Saint~Denis nel 2000. Documenti tutti utilmente riportati nell’Appendice del volume.
Davanti al mattatoio della storia, l’impostazione polifonica del libro – che tra i numerosi interventi contiene anche quelli di Pat Cox,
Giovanni Maria Flick e Giuseppe Caccia – sembra suggerire che la
migliore soluzione che gli esseri umani hanno spontaneamente deciso di creare sono stati i vari documenti internazionali. Ma questi strumenti, impeccabili nella loro formulazione e fondati inequivocabilmente sul sempre maggiore consensum gentium che riescono a suscitare, non riescono però a «dare corpo ai diritti». In fondo per l’autore
è questa la questione politica fondamentale della contemporaneità,
poiché «ogni problema che la comunità umana si trova ad affrontare
oggi è riconducibile al linguaggio dei diritti».33 E proprio la politica
internazionale è chiamata a frenare il continuo attacco che le oligarchie economiche globalizzate sferrano alla normatività democratica
dei vari Stati. Un tipo di pratica, quella delle concrete politiche internazionali, che sembra aver raggiunto nel 2002 con la creazione della
Corte Penale Internazionale permanente un risultato notevole, se non
33
P. Costa, Il diritto di avere diritti, cit., p. 13.
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fosse per il continuo e strumentale ostruzionismo che gli Stati Uniti
oppongono per renderla effettivamente vincolante.
Se la multilevel citizenship è ormai un destino ineludibile, l’autore sostiene che il luogo deputato per concretizzare il programma
dei diritti siano le città, quelle comunità locali che parlano il linguaggio della quotidianità: «Nelle città, nelle megalopoli come negli
agglomerati urbani minori, si gioca oggi sia la partita dello sviluppo
– quello post-industriale in particolare – sia quello dell’inclusione/
esclusione sociale e multiculturale dei nuovi cittadini messi in movimento dai processi di globalizzazione».34 Il fronte dei diritti, della
solidarietà e della sicurezza ha un unico scenario di applicazione:
le città, il reale «laboratorio della democrazia e della sussidiarietà».
Proprio in quest’ottica le città, oltre ad aver costituito fra loro una
rete di dialogo che scavalca gli obsoleti Stati-nazione e le tentennanti
organizzazioni internazionali, si sono munite anche di una propria
Carta che, pur non possedendo reale forza vincolante, è però una
spinta a sviluppare concretamente e parallelamente un ethics through
law e una conseguente democracy through law. Estendere il diritto
di voto amministrativo ai migranti residenti da due anni nella città,
istituire consulte per immigrati e proteggere e riconoscere le comunità minoritarie straniere sono alcuni fra gli obiettivi che dovunque le
oltre duecento città firmatarie si propongono di raggiungere. Scopo
della ratifica della Carta è dar vita ad una good governance sul piano
locale, un prerequisito necessario per imprimere materialmente una
svolta democratica alla globalizzazione.
In conclusione, i due volumi qui presentati, La debolezza del
più forte e Il diritto di avere diritti, seppur differenti per contenuto
e forma, sembrano poter essere accostati in maniera complementare
per quanto riguarda il loro approccio critico al presente. Infatti, il
primo testo interviene su un piano astratto e generale come quello
della globalizzazione, mentre il secondo si addentra in un’efficace
disamina dello “stato nascente” del più quotidiano dei livelli normativi presenti nella vita comunitaria, quello dell’homo civicus. Analisi
accumunate anche dall’unico vero imperativo che rende effettive le
urgenti proposte glocal in essi contenute, quello del by doing.
34
Ivi, p. 80.
Finito di stampare nel mese di Maggio 2005
da Ragusa Grafica Moderna – Bari
L
a rivista vuol essere un luogo aperto di interrogazione, di confronto
e di critica delle scienze del nostro tempo, soprattutto di quelle scienze
nei cui paradigmi epistemologici e nelle cui tradizioni di ricerca si è
sedimentato il sapere dell’umano con le sue forme peculiari di razionalità.
Riteniamo che oggi la pratica della filosofia non possa ridursi ad una
“ruminazione” storiografica fine a se stessa, ma debba incontrare sul suo
stesso terreno gli archivi e le sfide del tempo. Sotto questo profilo, il
prefisso “post-”, per quanto inflazionato, allude da un lato al pluralismo
degli orientamenti e delle prospettive filosofiche come un dato di fatto
incontestabile della nostra attualità, dall’altro ad un movimento di torsione
interna alla tradizione filosofica nella ricerca di nuovi linguaggi e di nuove
categorie in grado di pensare e comprendere il nostro presente. Su questo
punto siamo d’accordo con Deleuze e Guattari quando affermano che
“non si può ridurre la filosofia alla propria storia, perché la filosofia non
smette di divincolarsene per creare nuovi concetti che pur ricadendovi
non ne derivano” (G. Deleuze - F. Guattari, Che cos’è la filosofia?). Si tratta
di intraprendere un lavoro di delimitazione critica della storia della filosofia
(e, dunque, della metafisica) che non sia fine a stesso, vale a dire tale che
non sfoci né in una ripetizione tautologica del medesimo (come avviene
in Heidegger), né in una mera ricostruzione delle branche speciali in cui
la pratica filosofica si è via via strutturata (ontologia, gnoseologia, etica e
così via) diventando così una disciplina accademica. Il lavoro di delimitazione
critica consiste nell’accettare le sfide del pensiero e del mondo in cui
viviamo sul terreno della sperimentazione filosofica facendo emergere
volta per volta la fecondità e i limiti dei concetti che la pratica filosofica
ci ha trasmesso. Così intesa, la pratica filosofica conserva la sua connotazione
intrinseca di sapere storico (per riprendere un’espressione cara a Eugenio
Garin), ma in un’accezione pregnante rispetto al rischio sempre incombente
di una sua museificazione o riduzione a mero reperto erudito. In questo
orizzonte, il filosofo si troverà ad affrontare, a nostro avviso, almeno tre
compiti: 1) riattraversare con un approccio critico-genealogico, e a partire
dalle aporie del presente, il processo storico che dalla nascita della filosofia
in Grecia ha condotto alla proliferazione delle conoscenze specialistiche
proprie delle scienze umane o sociali: dal politico al religioso, dal sociale
al giuridico, dall’economico allo psicologico; 2) esplorare il retroterra
filosofico (metafisico, scientifico, teologico-politico), da cui è sorta e si è
sviluppata la concettualità diffusa della nostra epoca, a cominciare da
parole-chiave come “democrazia”, “cittadinanza”, “diritti umani”,
“multiculturalismo”, ecc.; 3) raccogliere ed elaborare sul piano della teoria
le istanze di verità e di giustizia che provengono da un mondo “uscito
fuori dai gangli”, mantenendo accesa la debole luce della ragione e
dell’utopia.
Roberto Finelli e Francesco Fistetti
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