Istituzioni e Libertà. Su “Il diritto della libertà” di Axel Honneth di Pierfranco Pellizzetti «Se dobbiamo tener fede alla nostra identità dobbiamo immergerci nelle nostre tradizioni per come sono e non per come nostalgicamente desideriamo che siano. Per noi, in quanto membri delle società più moderne, queste sono tradizioni di mutamento, di diversità, di controversia e di riflessione». Jeremy Waldron «Il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io, che a un tempo appiattisce e restringe le nostre vite, ne impoverisce il significato e le allontana dall’interesse per gli altri e la società». Charles Taylor «Libertà è parola ambigua», scriveva Michelangelo Bovero nel dizionario “Alla ricerca della politica” curato anni fa da Angelo d’Orsi. Dunque termine polisemico, carico di una molteplicità di significati, la maggior parte dei quali sono generici, imprecisi ed equivoci. Di conseguenza il pensiero della/sulla Libertà è non solo ambiguamente molteplice, ma anche contraddittorio. Oggetto di controversie insanabili e aggettivazioni arbitrarie. Forse la meno opinabile è quella che propone uno spartiacque tra scuole-mondi già altre volte oggetto di analoghe operazioni tassonomiche: anglosassoni e continentali. Una divergenza relativa alla definizione del comune concetto di individuo, tradotta in due tradizioni di pensiero. Come ricorda l’antropologa Mary Douglas, «i filosofi francesi erano interessati alla conquista della libertà all’interno dell’ordine sociale, al ruolo svolto dalle credenze condivise nel conferimento dell’autorità e ai fattori che determinano la solidarietà sociale. Lungi dal voler liquidare il concetto di individuo, essi temevano che l’atomizzazione della società spianasse la strada alla forza bruta. […] Dal canto loro, i liberali inglesi del diciottesimo e diciannovesimo secolo avevano un altro programma: stabilire i criteri che avrebbero creato una sfera d’azione privata e che l’avrebbero protetta dall’azione dello stato». In sostanza, per i francesi, critici dell’Utilitarismo, il ruolo delle norme sociali era centrale nelle loro speculazioni, quanto era assente nel programma filosofico-politico d’oltre Manica (e negli immaginari dominanti nelle colonie americane). Come ora ci conferma anche Axel Honneth (nell'appena tradotto Il Diritto della Libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, Codice Edizioni, Torino 2015) va 1 sempre tenuto presente che «a partire dalla rivoluzione francese lo Stato moderno è stato per lo più concepito dai contemporanei illuminati come un organo intellettuale […] mediante il quale la volontà del popolo, contrattata democraticamente, trovava un’adeguata ed efficace applicazione pragmatica» (pag. 436). La tradizione che in terra di Francia verrà sussunta nel “fatto sociale” di Émile Durkheim, mentre in quella di Germania acquisirà i marcati tratti statolatrici dell’egemonia intellettuale hegeliana, cui il nostro stesso autore fa costante riferimento nella sua opera attuale. Proprio ricordando la convinzione del filosofo di Stoccarda dell’avvenuto compimento della storia morale dell’umanità grazie all’istituzione della famiglia nucleare borghese, del mercato disciplinato corporativamente e – innanzi tutto – dello Stato. Osservando a volo d’uccello come “il trionfo della borghesia” sia coinciso con l’instaurazione di un ordine liberal-capitalista, declinata in una sorta di narcisismo individualista, questo ha determinato la prevalenza della tradizione anglosassone in materia di Liberalismo sul deuteragonista continentale. Tanto da indurre autori come Philip Pettit a circoscrivere la nozione di “libertà liberale” alla sola non ingerenza; consegnando il restante alla categoria di “Repubblicanesimo”. Particolarmente nel momento in cui – all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso – iniziò il dominio ideologico di un egoismo assiomatico. Lo stesso momento in cui si aprì la discussione innescata dalle critiche comunitarie a tale tradizione che aveva rimosso la coscienza del “noi”; l’attenzione prioritaria all’idea di “eguali libertà civili”: «una società libera, la quale ha dunque bisogno di richiedere una forte lealtà spontanea da parte dei suoi membri, sfugge alla premessa indispensabile di tale lealtà: una forte identificazione dei cittadini intorno a un senso del bene comune» (Charles Taylor). Critiche cui proverà a dare replica, pur nei suoi limiti di astrattezza e formalismo, la teoria del discorso e dell’agire comunicativo di Jürgen Habemas; la fondazione di una teoria della giustizia da parte di John Rawls, che valga per democrazie pluralistiche in cui non vige alcun principio condiviso del bene. A fronte – per inciso - della opposta difficoltà degli autori comunitaristi di fornire una convincente definizione del concetto di comunità, nel mai totalmente chiarito rapporto con “il progetto della modernità”. Aporia di cui essi stessi sembrano consapevoli quando proclamano la loro accettazione del principio pluralistico, che pure contrasta con l’essenza di un aggregato umano (la Gemeinschaft) che si presenta come omologazione aggregata dal pregiudiziale consenso conformistico. Intanto la ristrutturazione dell’ordine a Occidente evolveva verso tutt’altra sponda: l’imposizione di un ordine plutocratico, giustificato/mascherato attraverso manipolazioni massmediatiche e lo scatenamento di guerre tra poveri. Movimenti e poste in gioco nello spirito dei tempi che il volume editato da Codice declina in alta speculazione. Ma a questo punto, rispetto alle questioni che innalzano la riflessione al ciel dei cieli del pensiero che si compiace delle proprie sottigliezze, specchiandosi nella Verità filosofica, l’autore di queste note percepisce il preoccupante sfrigolio della cera che fissa le penne alle proprie fragili ali. Quindi sceglie un rapido abbassamento di quota riportando l’esame del testo di Honneth in una dimensione più praticabile; nel 2 dibattito politico del tempo presente. Ossia, migrando verso la concreta osservabilità del sociale. Operazione in qualche misura accreditata dal fatto che l’autore, da buon francofortese, ha doppio passaporto: da filosofo ma anche da sociologo. Dal punto di vista storico-sociale “Il Diritto della Libertà” è un potente sintomo di periodi giunti al termine: quelli che Piketty chiama “i quaranta ingloriosi”, su cui campeggiava l’affermazione fatta da una Lady di ferro dell’inesistenza della società. Infatti il testo di Honneth è un vigoroso appello contrario: l’idea di giustizia in quanto modo di realizzare «valori che in un certa epoca vengono generalmente accettati all’interno di una società e sono perciò responsabili della sua legittimazione normativa» (pag. 77). Le istituzioni come “medium della libertà”. Contro le follie degli Stati minimi e degli anarco-liberalismi, cari a quanti propugnano la finanziarizzazione del mondo. Al tempo stesso il nostro autore rifiuta il principio stesso del baratto freudiano libertàsicurezza, oggi tanto di moda. Lo fa rileggendo classiche distinzioni delle libertà al plurale - come quella proposta da Isaiah Berlin tra “negativa” (da) e “positiva” (di), giustamente criticata da Robert Dahl («al contrario di Berlin, sono incline ad affermare che un individuo, per essere libero, deve essere capace di esercitare sia autonomia sia controllo») - per proporcene una tutta sua: “negativa”, “riflessiva” e “sociale”. Questa “libertà sociale” che va in controtendenza rispetto al (declinante?) spirito dei tempi ma che è anche la presa di distanza dalle democrazie discorsive del proprio maestro Habermas. Perché Honneth rappresenta (con qualche pulsione edipica?) la terza generazione della scuola di Francoforte, ben nota per l’approccio critico e un suo non risolto rapporto con il Moderno. Ma anche per lo stile iniziatico di scrittura; tra una sorta di marchio di fabbrica e il tic del distanziamento esoterico. Perché quando il Nostro verga con la penna d’oca che «il processo di autolegislazione (individuale o cooperativa) deve essere descritto come se consentisse, attraverso il distanziamento riflessivo da tutte le norme date, di raggiungere una prospettiva dalla quale valutare senza alcun preconcetto – e in questo senso in modo imparziale – la generalizzabilità dei principi morali» (pag. 138), per affermare qualcosa di tutto sommato ovvio (i principi per essere fatti valere abbisognano di approvazione generale), al lettore malizioso torna in mente il lontano ottobre 1961; quando a Tubinga andò a congresso la Società tedesca di sociologia, chiamando a svolgere le relazioni introduttive Karl R. Popper e Theodor W. Adorno, l’antesignano del nostro Axel Honneth. Le testimonianze dell’epoca riferiscono che nella prima sessione il sussiegoso Adorno svolse il proprio intervento in perfetto stile francofortese. A seguire fu il turno di Popper, il quale cominciò a tradurre lo script di chi lo aveva preceduto con l’abituale pedanteria e una punta di arroganza: «la totalità sociale non conduce affatto una vita propria, al di sopra di quella di ciò che essa raccoglie e di cui essa consiste» diventava così nella revisione popperiana «la società consiste di relazioni sociali». E via andare sul beffardo... Corre ancora voce che la vicenda finì a botte, tra supporter dei due maestri: Habermas contro Hans Albert, con Ralf Dahrendorf a fare da paciere… 3 Testi utilizzati Aa.Vv. Comunitarismo e Liberalismo (a cura di A. Ferrara), Editori Riuniti, Roma 2000 Aa. Vv. Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972 H. Albert, Difesa del razionalismo critico, Armando, Roma 1975 I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989 M. Bovero, “Libertà”, Alla ricerca della politica (a cura A.d’Orsi), Bollati Boringhieri, Torino 1995 R. A. Dahl, I dilemmi della democrazia pluralista, EST, Milano 1996 M. Douglas, Credere e pensare, il Mulino, Bologna 1994 J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1984 P. Pettit, Il repubblicanesimo, Feltrinelli, Milano 2000 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1983 C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma/Bari 1994 4