5/02 36 La città inv La città invisibile Pietro Del Soldà JEAN-LUC NANCY Globalizzazione e “morte di Dio” C Cosa significa essere liberi nel mondo globalizzato? Come cambiano due parole antiche come libertà e comunità, dinanzi al tramonto degli statinazione e dei confini che hanno segnato la storia antica e moderna? Su questi interrogativi getta luce l’opera di JeanLuc Nancy, la voce forse più nuova e profonda del pensiero francese di oggi. Nelle sue opere, da La comunità inoperosa (Napoli, 1992) sino a Essere singolare e plurale, testo del ’96 che Einaudi ha pubblicato nel 2001 introdotto da un dialogo con Roberto Esposito, l’occidente appare come un orizzonte determinato dalla ricerca di un fondamento dell’esistenza che doni senso alla vita. L’esito vano di questa ricerca, ciò che da Nietzsche in poi si chiamò la scoperta della “morte di Dio”, è l’esperienza propria dell’occidente, che diviene però esperienza del mondo intero. Per Jean-Luc Nancy, in questa esperienza, nella scoperta che non vi è un fondamento trascendente per questo mondo, né un fine ultimo che imponga un senso e una direzione alla storia, getta le sue radici l’unica autentica globalizzazione. “In questa esperienza, che viene prima di ogni forma di globalizzazione – ci dice Nancy muta radicalmente il significato della relazione tra gli uomini, della comunità, e, con essa, dell’idea di libertà. Tramonta l’immagine di un uomo-soggetto che dispone della relazione con gli altri uomini e che vive la libertà come una proprietà e come autosufficienza e indipendenza dalla comunità”. Professor Nancy, come cambia dunque l’idea di libertà di fronte all’annuncio della morte di Dio? Innanzitutto, per morte di Dio, espressione che spesso suona scioccante, non intendo la morte del dio della fede, ma la fine di un pensiero che pone un essere supremo come causa e fine del mondo. Di fronte a questo essere supremo, la libertà è vissuta come libertà di scegliere il bene e l’amore di dio contro il male e il rifiuto di dio. Allo stesso modo, in termini secolarizzati, questa libertà sta nella scelta del bene o del male secondo un certo fine della storia o una certa visione dell’umanità che si vuol realizzare. Questa è quella che io chiamo una “piccola libertà”, per distinguerla dalla “grande libertà”. Con la morte di dio il mondo non ha più né principio né fine, e la libertà emerge come il “fatto” di essere gettati nell’esistenza, senza più la necessità né di un principio né di un fine. Potrei dire che si tratta di una libertà d’invenzione e visibile non più di una libertà di scelta. La libertà di scelta, il libero arbitrio della tradizione occidentale, presuppone una conoscenza di cosa è bene e cosa è male che precede la decisione. Al contrario, ciò che io chiamo “libertà d’invenzione” non presuppone più alcuna conoscenza del principio o del fine della storia, su cui la mia decisione si possa fondare. Questa è la grande libertà, la libertà del rischio e della possibilità di uscire da sé verso l’ignoto, e come tale essa non può soggiacere all’idea di un ordine del mondo prestabilito ed imposto a tutti gli uomini. Il mondo globalizzato non si regge più su principi metafisici, su un’idea del bene che dall’alto domina le azioni degli uomini. La scomparsa “globale” di un principio metafisico comporta la fine della libertà come mera facoltà di scegliere tra il bene e il male che sono già definiti oltre i confini dell’esistenza. Il vero contributo della globalizzazione è di far emergere una libertà diversa: la libertà di creare di volta in volta la mia esistenza, le relazioni con gli uomini, la forma e l’organizzazione della comunità in cui vivo, senza un criterio metafisico già dato a cui far riferimento. La libertà di “inventare” il mondo è il contributo positivo di una autentica globalizzazione. Questa libertà d’invenzione, lei dice inoltre, non è più libertà “da” qualcosa, non è più dispensa da un obbligo imposto dalla comunità, anche se come tale, forse, continua ad essere proposta e vissuta nelle nostre democrazie liberali. Libertà e comunità, nelle sue parole, non sono più opposti e paiono quasi coincidere. La libertà d’invenzione è innanzitutto libertà che mi mette in rapporto con gli altri uomini e con tutto il resto del mondo. La libertà è la posizione di un rapporto che non ha un fine, che non ha un obbiettivo al di là di se stesso. La relazione con gli altri uomini emerge allora come qualcosa che precede e rende possibile il rapporto di ogni uomo con se stesso. La morte di dio è la scomparsa di un essere supremo che imponga alla comunità un principio ed un fine al di là della relazione. A partire dal momento in cui la comunità non è più qualcosa di donato dall’alto, governato da un essere supremo, vengono meno l’idea dell’uomo come individuo indipendente dalla relazione con gli altri uomini: la relazione stessa è l’origine. Si dissolve così l’immagine, che ha dominato la tradizione occidentale, dell’uomo 5/02 37 come soggetto che tende ad un fine che sta oltre la relazione con gli altri. Quando si esaurisce questa tensione metafisica, la relazione si manifesta come l’orizzonte unico ed insuperabile dell’esistenza, senza fine e sempre di nuovo inventata. Cerchiamo adesso di capire, professor Nancy, perché questo cambiamento radicale, questo emergere della relazione tra gli uomini come l’origine di tutto, è un’esperienza globale. Che c’entra cioè tutto questo con la globalizzazione dell’economia, delle tecnologie e dei diritti di cui si discute da Seattle a Porto Alegre? La “relazione sempre di nuovo inventata”, non più governata da principi metafisici, che raccoglie dentro i suoi confini l’intera esistenza, è un’esperienza universale, “globale”. L’occidente cioè, facendo esperienza dell’assenza di un fondamento supremo, pare aprire un cammino che coinvolgerà il mondo intero. La filosofia, la ricerca di un senso del mondo propria dell’occidente, non indaga più oltre i confini del mondo, ma viene a coinci- " 5/02 38 La città inv La città invisibile dere col mondo stesso, e in questo movimento, diventando “mondana”, da esperienza occidentale si fa esperienza mondiale. La mondanizzazione della filosofia coincide con la sua mondializzazione. E che rapporto c’è tra questa mondializzazione e la nozione comune di globalizzazione? La nozione “comune”, lei dice…è interessante notare come l’occidente conosca due sensi della parola comune, come relazione nel senso detto, ma anche come banalità, trivialità. Noi viviamo in un mondo che ha di se stesso, della comunità, una visione “comune” appunto, banale, volgare. Tale visione della società, ad esempio, americana, ci è proposta dal suo stesso cinema, e porta ad una condanna senz’appello della globalizzazione, del capitalismo che domina il mondo accrescendo la povertà. Tutto questo è vero, così com’è da condannare la fede cieca nelle “magnifiche sorti e progressive” della scienza e della tecnica. L’avanzamento della tecnica ha condotto infatti l’uomo, per la prima volta, di fronte alla possibilità del proprio annientamento. Con la seconda guerra mondiale si è conclusa la fede nella positività della tecnica, ci si è fatti consapevoli piuttosto della sua neutralità, della sua ambivalenza, per cui dalla tecnica possono provenire sia il peggio che il meglio per l’uomo. E tuttavia, insieme alla natura ambivalente della tecnica, diviene chiaro un altro aspetto fondamentale, e cioè che la tecnica non ha fine, e dunque ha il merito di esporre l’uomo all’assenza di un fine. La tecnica è la messa in atto di un’assenza di fine trascendente, che dal di fuori impone un senso e una direzione all’esistenza. In questo la tecnica offre all’uomo l’opportunità straordinaria di pensare “senza un fine”, di progettare, di inventare un mondo, una comunità, un’esistenza fondata solo sulla relazione e non più su un fine. Come la tecnica, anche la globalizzazione è allora ambigua, nasconde cioè in sé la libertà e il suo contrario? Bisogna chiedersi se la globalizzazione significa la scomparsa dalla storia di ogni altro agente all’infuori del capitalismo, con la sua tecnica e l’equivalenza monetaria, o se, invece, un sistema di scambio che raggiunge i confini del mondo, scambio non solo di merci ma degli uomini stessi e delle loro creazioni, non apra per l’umanità un cammino verso la libertà vera, la “grande libertà”. Analogamente Marx, se pur in termini differenti, non diceva semplicemente “abbasso il capitalismo”, ma sosteneva che il capitalismo ha una missione storica: pervenendo ad uno stadio mondiale, producendo un mercato mondiale, una dimensione mondiale dello scambio, fornisce in tal modo la possibilità oggettiva della rivoluzione. Infatti solo attraverso questa mondializzazione del capitalismo, pensava Marx, la rivoluzione della proprietà dei mezzi di produzione può offrire all’umanità intera la possibilità di gioire della produzione. Come giudica dunque il composito mondo definito, forse scorrettamente, no global, che da poco si è riunito di nuovo a Porto Alegre? Lo giudico positivamente, a condizione però che sia chiaro che non si tratta di essere contro la globalizzazione, ma a favore di una globalizzazione autentica, delle libertà e dei diritti. La straordinaria esperienza dell’assenza di un principio che dall’alto governa la comunità e le relazioni tra tutti gli uomini è proprio ciò su cui si fonda questa globalizzazione autentica. Un’idea nuova di comunità, una relazione tra gli uomini che sia vissuta come origine visibile e fine dell’esistenza, e non come uno strumento di cui l’individuo dispone per i suoi scopi, insomma tutto ciò che ho raccolto nell’espressione “libertà di invenzione”, si compierà solo quando diverrà un’esperienza globale. La globalizzazione delle tecnologie, in virtù del contributo che la tecnica può dare per scoprire che non c’è un fine trascendente che dà senso alla vita e alla comunità, può diventare un veicolo della libertà di invenzione. È dunque inevitabile opporsi alle ingiustizie prodotte dal mercato e dal dominio delle tecnologie occidentali, senza però dimenticare la fondamentale “ambivalenza” della tecnica che ho appena ricordato. In questa ambivalenza sta la radice di una libertà che sia autentica e dunque “globale”. Lo spettro di un conflitto di civiltà che oppone l’Occidente all’Islam è respinto da tutti ma continua ad aleggiare, mentre si teme l’allargamento del conflitto antiterrorismo ad altre regioni del pianeta in cui prevale la fede musulmana. Il pensiero occidentale può fare qualcosa per sconfiggere questo spettro? Non so se il pensiero occidentale possa evitare il conflitto. Ritengo però che vi sia un compito essenziale per il pensiero, quello di considerare che l’Islam è la terza parte del monoteismo, assieme all’ebraismo, e ha un ruolo storico molto importante nello sviluppo dell’occidente. Non credo quindi che si tratti di un conflitto di civiltà, ma piuttosto di una guerra civile, di un conflitto interno alla fede, all’Occidente e all’Islam. Se l’occidente rappresenta la tecnica, l’abbandono del divino, del senso religioso, rappresentato invece dalla tensione che unisce i musulmani, ebbene, dobbiamo capire che Occidente e Islam sono uniti in un comune destino che da occidentale è divenuto mondiale, e devono “tenersi insieme” per sopravvivere: l’Islam non so- 5/02 39 pravviverà senza la tecnica, come l’ebraismo e il cristianesimo, né la tecnica sopravviverà senza aprire uno spazio per il senso. Un senso non più donato dall’alto, un senso inventato, creato nel rapporto. Il problema più grave che sembra pesare sul futuro di un dialogo tra cultura occidentale ed islam parrebbe quello del rapporto tra religione e politica. Ma è poi vero che l’Islam non può esistere senza far coincidere queste due dimensioni? È una questione molto complessa. Non è affatto vero che nella storia dell’Islam il legame tra religione e politica sia stato costante e necessario. Nel mondo islamico si sono costituiti degli stati-nazione, come ad esempio il Marocco o l’Egitto, che hanno praticato una distinzione importante tra la religione e la politica, e che sono stati estremamente tolleranti sul piano religioso, mentre in altre aree dell’Islam si è prodotta una piena identificazione di religione e politica. Il cristianesimo ha prodotto " Illustrazione di Nevio De Zolt 5/02 40 La città invisibile La città invisibile una teoria completa, elaborata nei secoli, di doppio potere. Il potere europeo di diritto divino, il potere dello stato sovrano, è un potere essenzialmente non religioso. Lo stesso potere di Luigi XIV, ritenuto di diritto divino, è a suo modo un potere non religioso. Dunque, la separazione di religione e politica è possibile per tutti, ed è una grande acquisizione della cultura illuminista, e come tale va preservata. D’altro canto, tale separazione non può più essere mantenuta negli stessi termini, poiché religione e politica si trovano entrambe in uno stadio di grande trasformazione. Sono tutte e due molto stanche, molto invecchiate. Questo vale anche per l’Islam, anche se per il Cristianesimo ciò è più visibile. La religione non è più l’elemento che struttura la vita dell’uomo moderno, ed anche la politica ha ormai perduto il suo grande potere di strutturazione, di definizione del destino dei popoli. Quindi, ogni considerazione circa la separazione o la riunione di religione e politica dovrà supporre nell’avvenire dei termini totalmente differenti. Si tratta dunque di ripensare in profondità ciò che religione e politica possono significare. È evidentemente un lavoro enorme, che i giovani dovran! no affrontare. Jean Léonard Touadi Il tramonto dell’icona SENGHOR La voce poetica di Léopold Sédar Senghor, il massimo intellettuale senegalese del ventesimo secolo e uomo politico di primo piano, si è spenta lo scorso dicembre. Con lui scompare un’icona rispettata, venerata ma anche discussa della cultura e della politica africana. Si può davvero dire che la sua morte, avvenuta all’età di 95 anni, chiude il tormentato ventesimo secolo africano. È proprio Senghor che inaugura a Parigi, agli inizi degli anni ’20, la esaltante stagione letteraria detta della “Negritudine”, ossia l’orgogliosa affermazione della personalità e dell’identità dei popoli neri sottomessi politicamente e alienati culturalmente. In realtà il giovane intellettuale senegalese subisce, insieme ad altri studenti della diaspora nera d’origine caraibica e statunitense, il fascino irresistibile degli ideali del panafricanesimo promossi da W.E. Dubois negli Usa e dal vulcanico visionario della Giamaica, Marcus Garvey. Lo slogan coniato da quest’ultimo “Back to Africa” (ritorno in Africa) diventerà per tutti gli intellettuali della diaspora un paradigma ideale. Ritornare all’Africa come operazione catartica di purificazione delle scorie della dominazione coloniale e della sistematica negazione culturale operata dalla mentalità bianca della “Missione Civilizzatrice”, “Lo Studente Nero”, “Legittima Difesa” sono le riviste attraverso le quali Senghor e i suoi amici lanciano i proclami di riscossa del mondo nero nell’effervescente clima intellettuale parigino. Amico di Aimé Césaire, il brillante poeta della Martinica, autore del vibrante e famoso “Discorso sul Colonialismo”, Senghor inventa il moviFoto: Del Canale mento della “Negritudine” riprendendo e rivisitando in chiave psicoanalitica lo strumento, veicolo dell’offesa bianca per secoli, ossia la parola “Negro”, condensato di tutto il disprezzo che aveva colpito tutto un popolo il cui spazio e la sua storia furono negati dall’impresa coloniale. Léopold Sédar Senghor, ex presidente del Senegal