Insufficienza renale acuta postchirurgica: interventi depurativi

Insufficienza renale acuta
postchirurgica: interventi
depurativi sostitutivi
F. Scolari
Il decorso postoperatorio rappresenta una delle condizioni più frequentemente complicate da
insufficienza renale acuta (IRA), caratterizzata da improvviso peggioramento della funzione renale
che, nel corso di poche ore o giorni, è in grado di determinare una riduzione dell´eliminazione
urinaria dei cataboliti azotati ed alterazioni del bilancio idrosalino e dell´equilibrio acido-base. È
stato stimato che circa il 25% delle procedure chirurgiche elettive non cardiache è complicato da
IRA di vario grado. Il riscontro di una forma di IRA molto severa, necessitante dialisi, è invece
osservabile in una percentuale più bassa, variabile dallo 0,4 al 7,5% dei pazienti sottoposti a
chirurgia cardiaca, e valutabile nello 0,6% dei pazienti sottoposti ad una procedura di chirurgia
generale.
Lo sviluppo di IRA del postoperatorio è strettamente dipendente dalla presenza di due importanti
fattori di rischio preoperatori: ischemia renale occulta (associata a comorbidità quali diabete, ridotta
performance cardiaca, malattia aterosclerotica renale) e insufficienza renale cronica secondaria a
nefropatia preesistente. In presenza di questi fattori di rischio preoperatori, l´esperienza chirurgica
per sé è in grado di indurre una vasocostrizione arteriolare renale, con ulteriore riduzione della
funzione renale. Se, in queste condizioni, il decorso postoperatorio è complicato da un evento
aggiuntivo di tipo nefrolesivo (reintervento, sepsi, esposizione a sostanze nefrotossiche, severa
deplezione volemica, insufficienza cardiaca), si può manifestare un quadro clinicamente evidente di
IRA.
In particolare, tre procedure chirurgiche presentano un elevato rischio di sviluppare IRA:
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la chirurgia dell´aorta addominale, in cui il fattore determinante è rappresentato da un
variabile periodo di ischemia renale totale quando sia richiesto un clampaggio sovraaortico;
la chirurgia cardiaca, in cui giocano un ruolo di concausa la cardiopatia di base,
l´ipotensione arteriosa e l´emolisi secondaria alla circolazione extracorporea;
la chirurgia dell´ittero ostruttivo, il cui decorso postoperatorio, rispetto ad altri interventi, è
associato a più severa riduzione del filtrato glomerulare, secondaria ad aumentato
assorbimento di endotossina dall´intestino che determina vasocostrizione renale.
Nella maggioranza dei casi, l´IRA del postoperatorio che richiede trattamento dialitico è pertanto
secondaria a un danno ischemico (da ipoperfusione) e/o tossico, a carico del tubulo renale, tale da
configurare un quadro anatomo-patologico di necrosi tubulare acuta. In ordine di importanza, il
ruolo causale maggiore è giocato da ipotensione, disidratazione ed impiego di aminoglicosidi. Ne
discende che il mantenimento di parametri emodinamici e di un volume intravascolare ottimale
durante e dopo l´atto chirurgico, unitamente alla riduzione dell´esposizione ad agenti nefrotossici,
possono diminuire in modo significativo il rischio di necrosi tubulare acuta del postoperatorio.
L´efficacia di misure preventive farmacologiche largamente impiegate nell´ultimo decennio, quali
mannitolo e furosemide ad alte dosi e dopamina a dosi "renali" subpressorie non è documentata ed
espone ad effetti collaterali.
In una minoranza dei casi, la causa di IRA è diversa dalla necrosi tubulare acuta. Nei pazienti
complicati da sepsi, che spesso presentano un quadro clinico da Multiple Organ Dysfunction
Syndrome (MODS), caratterizzato da insufficienza concomitante di vari organi (rene, polmone,
fegato e cuore), il danno endoteliale indotto dall´endotossina può innescare una coagulazione
intravascolare disseminata ed esitare in necrosi corticale renale. Inoltre, nel corso di interventi di
chirurgia vascolare, la manipolazione dell´aorta può determinare una embolizzazione di cristalli di
colesterolo provenienti dalle placche aterosclerotiche ulcerate, causando IRA secondaria ad
ostruzione dei vasi di piccolo calibro del rene. In questo caso, si associa usualmente ostruzione dei
piccoli vasi di altri organi addominali (colite ischemica) e delle estremità (sindrome delle dita blu).
Indicazioni alla dialisi
Esistono alcune indicazioni assolute e urgenti alla dialisi in corso di IRA. Esse sono:
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edema polmonare acuto refrattario alla terapia diuretica;
iperpotassiemia minacciosa per la vita (> 7 mEq/l) non corretta da appropriata terapia
medica (infusioni di glucosio e insulina e di bicarbonato; impiego di resine a scambio
ionico);
acidosi metabolica severa (pH < 7,2);
presenza di segni e sintomi da uremia (pericardite, nausea, vomito, encefalopatia uremica).
Un approccio moderno al trattamento dell´IRA dovrebbe consistere nell´evitare l´istituzione di un
trattamento urgente e pianificare una dialisi precoce, "profilattica", in modo da prevenire le
complicanze uremiche. Tuttavia, complessità del quadro clinico e necessità di bilanciare rischi (la
seduta dialitica può peggiorare l´instabilità emodinamica, aggravare l´ischemia renale, rallentando il
ricupero funzionale) e benefici del trattamento dialitico rendono difficile prescrivere linee-guida
rigide per l´inizio della terapia sostitutiva. Con queste limitazioni, pur in assenza di sintomi uremici
e di turbe idro-elettrolitiche, la presenza di oligo-anuria, il riscontro di valori di urea ematica > 200
mg/dl e di creatininemia > 10 mg/dl, in rapido peggioramento, possono essere considerati criteri che
giustificano l´inizio della dialisi.
Metodiche di dialisi
Fondamentalmente, si distinguono due tipi di dialisi: la dialisi extracorporea, di gran lunga la più
impiegata nel trattamento dell´IRA, e la dialisi peritoneale, che usa come membrana dialitica il
peritoneo.
Dialisi extracorporea
Emodialisi
È la tecnica più diffusa di trattamento sostitutivo; viene eseguita impiegando la circolazione
extracorporea, per cui richiede l´impiego di anticoagulante (eparina), e consiste di tre componenti:
la via ematica, il circuito che produce e convoglia il liquido di dialisi e il filtro di dialisi (Fig. 4.14).
Il sangue venoso del paziente, proveniente da un accesso vascolare centrale (vena femorale,
succlavia o giugulare) viene veicolato per mezzo di una pompa peristaltica, attraverso vie dotate di
misuratori di pressione e di flusso, ad un filtro di dialisi (dializzatore) e ritorna poi in una vena. Si
usa generalmente la stessa vena utilizzando un catetere a doppio lume o un sistema che alterna
aspirazione a restituzione del sangue. Nel filtro, il sangue viene a contatto con la soluzione
dializzante che scorre controcorrente rispetto al flusso ematico, e dalla quale è separato da una
membrana semipermeabile, a struttura reticolare, con spazi intermolecolari detti pori, di dimensioni
variabili; questi pori, a seconda del tipo di filtro scelto, possono lasciar passare molecole di peso
molecolare di qualche migliaia di Dalton, fino a molecole di circa 45.000 Dalton. L´apparecchio
(rene artificiale) provvede alla preparazione del liquido di dialisi (miscelando acqua deionizzata e
soluzioni concentrate), garantisce che le varie fasi del processo si svolgano a temperatura costante
ed è dotato di una serie di sistemi di controllo del circuito. Il passaggio dei soluti attraverso una
membrana semipermeabile obbedisce alle leggi del trasferimento di massa e può avvenire per
diffusione (secondo il gradiente di concentrazione) o per convezione (secondo un gradiente di
pressione idrostatica). Nell´emodialisi tradizionale, che impiega filtri di cellulosa, a bassa
permeabilità idraulica, il passaggio dei soluti avviene prevalentemente per diffusione: se un soluto
presente nel sangue del paziente è diffusibile, il suo allontanamento dall´acqua plasmatica viene
regolato dal gradiente di concentrazione, determinato dalla contemporanea assenza del soluto nella
soluzione di dialisi. Ovviamente, è possibile anche il trasferimento di un soluto in senso inverso
(dalla soluzione di dialisi al sangue), governato dallo stesso principio. Pertanto, durante la
circolazione extracorporea si ha un continuo scambio tra sangue e soluzione dializzante che porterà
da un lato ad una depurazione del sangue dai metaboliti azotati (urea, creatinina), dall´altro ad un
suo arricchimento con sostanze appositamente messe nella soluzione dializzante (bicarbonato,
calcio). La correzione del disequilibrio elettrolitico avviene agendo sulla composizione della
soluzione di dialisi, in modo da ottenere gradienti di concentrazione e quindi passaggio di elettroliti
in un senso o nell´altro.
Fig. 4.14. Circuito extracorporeo di emodialisi. Il sangue venoso (rosso) proveniente da vena
femorale viene veicolato da una pompa (P) al filtro di dialisi, dove viene a contatto con la soluzione
dializzante (azzurra), e, parzialmente depurato, ritorna alla vena. L´apparecchio provvede alla
preparazione del liquido di dialisi a partire da acqua deionizzata e particolari soluzioni concentrate
(sali). Il liquido di dialisi passa nel filtro una sola volta e viene eliminato (scarico).
Nell´emodialisi tradizionale, il trasporto convettivo avviene solamente sfruttando il volume di acqua
plasmatica che viene ultrafiltrato per rimuovere l´eccesso di volume extracellulare accumulato nel
periodo interdialisi. La deidratazione avviene grazie a un gradiente di pressione idrostatica
transmembrana, ottenuto aumentando la pressione idrostatica all´interno del compartimento ematico
e diminuendo la pressione nel compartimento della soluzione di dialisi. L´ultrafiltrazione apporta
anche un contributo, benché modesto, alla rimozione dei soluti, poiché l´acqua ultrafiltrata contiene
soluti in concentrazione uguale all´acqua plasmatica.
Negli ultimi 35 anni, l´emodialisi standard, intermittente, è stata utilizzata come terapia di prima
scelta per il trattamento dell´IRA. Nel paziente emodinamicamente stabile, questa scelta è ancora
condivisibile, in considerazione dell´efficacia depurativa e della familiarità del personale con la sua
gestione. La seduta dialitica standard prevede l´impiego di flussi ematici di 300 ml/min ed un flusso
del dialisato di 500 ml/min. La composizione del liquido di dialisi, simile a quella dell´acqua
plasmatica e variabile a seconda delle necessità, è la seguente: sodio 137-143 mEq/l; potassio 0-4
mEq/l; cloruro 100-111; calcio 3-3,5 mEq/l; magnesio 0,7-1,5 mEq/l; bicarbonato 30-35 mEq/l;
glucosio 0-0,25 g%. La frequenza delle sedute (trisettimanale o giornaliera) e la loro durata (in
media 4 ore) sono decise sulla base del quadro clinico, considerando entità del volume da sottrarre,
livelli di azotemia (da mantenere sotto i 200 mg/dl), quadro elettrolitico ed acido-base. Negli anni
Novanta, è stato proposto in corso di emodialisi tradizionale l´impiego di membrane noncellulosiche, sintetiche e biocompatibili, in alcuni studi associate a più rapida guarigione dell´IRA
per una minor attivazione di citochine, complemento e fattori della coagulazione.
Metodiche dialitiche extracorporee continue
Durante la seduta dialitica si possono verificare episodi di ipotensione, legati alla sottrazione di
volume e alla caduta dell´osmolarità plasmatica. Questa intolleranza dialitica, particolarmente
importante nei pazienti con IRA complicata da sepsi, insufficienza cardiaca e disfunzione
multiorgano, ha indotto a sviluppare tecniche extracorporee alternative a minor flusso e capacità
depurativa oraria, ma caratterizzate da un´elevata stabilità cardiovascolare. La metodica continua
più utilizzata è l´emofiltrazione veno-venosa continua a basso flusso (100-200 ml/min), nota come
CVVH (Continuous Veno-Venous Hemofiltration), il cui circuito è simile a quello dell´emodialisi,
ma nella quale non si sfrutta la diffusione, bensì solo il trasporto convettivo attraverso un filtro
sintetico ad elevata permeabilità idraulica. L´accesso al torrente ematico è realizzato, come per
l´emodialisi, tramite un catetere in una grossa vena. Un´altra tecnica continua sfrutta l´accesso ad
un´arteria e la restituzione in una vena (CAVH, Continuous Artero-Venous Hemofiltration), ma è
poco impiegata sia per il maggior rischio di complicanze, sia per il basso flusso ottenibile senza
utilizzare una pompa. L´elevato volume di ultrafiltrato (1 o più litri/ora) necessario per garantire
un´adeguata depurazione, deve essere in gran parte rimpiazzato da un´appropriata soluzione
bilanciata dal punto di vista elettrolitico ed acido-base e solo una piccola quota corrisponde alla
sottrazione di volume.
Questa metodica continua a basso flusso presenta una stabilità cardiovascolare migliore rispetto
all´emodialisi standard, grazie alla più lenta e graduale rimozione dell´urea e dell´acqua ed è
particolarmente indicata nei pazienti emodinamicamente instabili ricoverati nelle unità di terapia
intensiva. Qualora sia necessaria un´importante rimozione di tossine di piccolo peso molecolare
(per es. urea) si può associare, al trasporto convettivo, anche il trasporto diffusivo facendo passare
nel filtro una soluzione dialitica simile a quella dell´emodialisi (CVVHDF, Continuous VenousVenous Hemodiafiltration).
Dialisi peritoneale
Il movimento di acqua e soluti attraverso la membrana peritoneale è regolato dagli stessi principi
che controllano questi movimenti attraverso le membrane semipermeabili impiegate nella dialisi
extracorporea. Diversamente da queste, la membrana peritoneale è struttura vivente, le cui
caratteristiche sono variabili in risposta a fattori ormonali in grado di agire su perfusione e
permeabilità vascolare del letto capillare peritoneale. Pertanto, il principio fondamentale su cui è
basata la dialisi peritoneale è che la composizione dei soluti di una soluzione infusa nella cavità
peritoneale tende ad equilibrarsi con la composizione dell´acqua plasmatica della fitta rete capillare
peritoneale. La forza trainante che permette questa diffusione passiva è il gradiente di
concentrazione dei soluti ai due lati (acqua plasmatica e soluzione dializzante infusa nella cavità)
della membrana peritoneale. Inoltre viene creato un gradiente osmotico aggiungendo glucosio nella
soluzione dializzante, per cui si verifica un trasporto convettivo di fluido verso la cavità peritoneale.
Quindi, in dialisi peritoneale, l´ultrafiltrato è prodotto grazie ad un gradiente osmotico e non ad un
gradiente di pressione idrostatica come in emodialisi. Pertanto, la composizione dei soluti nel
liquido peritoneale è il principale strumento per rimuovere le tossine uremiche e l´acqua, correggere
gli squilibri elettrolitici ed acido-base e per fornire sostanze utili (calcio e tampone). La soluzione
dialitica deve aver contatto (indiretto, tramite mesotelio ed interstizio) con un´adeguata superficie
dialitica peritoneale che non si identifica con la superficie anatomica del peritoneo, bensì con quella
anatomica e funzionale dei capillari peritoneali perfusi. Essendo il liquido di dialisi relativamente
immobile nella cavità peritoneale ed il flusso capillare peritoneale modesto, è necessario un tempo
di contatto sufficiente perché le concentrazioni della soluzione dialitica si equilibrino con quelle
ematiche.
Praticamente, la dialisi peritoneale, che può essere intermittente o continua, comprende tre fasi. La
prima comprende la creazione di un accesso alla cavità peritoneale tramite la messa a dimora, con
tecnica chirurgica ed in condizioni di asepsi, di un catetere flessibile e cuffiato (catetere di
Tenckhoff, Fig. 4.15) la cui estremità interna raggiunge il cavo del Douglas; successivamente, viene
immessa in addome una soluzione di dialisi, preriscaldata a 37 °C, che staziona in addome per un
periodo variabile, durante il quale si realizzano gli scambi diffusivi; infine la soluzione, arricchitasi
delle scorie metaboliche cedute dal sangue viene drenata all´esterno e sostituita con una soluzione
di dialisi fresca.
Questi scambi vengono ripetuti con una frequenza determinata dall´entità della rimozione di soluti e
acqua necessari; può quindi variare da paziente a paziente. In genere il numero è di circa 24 al
giorno. L´entrata e l´uscita del liquido sono regolate da apparecchi semiautomatici. Il volume di
scambio, cioè la quantità di liquido instillata nella cavità peritoneale durante uno scambio, varia da
1 a 2,5-3 litri ed è in relazione, oltre che con la necessaria efficacia dialitica, con il peso del
paziente. Il tempo di stazionamento per favorire un´ottimale rimozione di urea e fluidi è di circa 30
minuti. La durata della seduta dialitica può variare molto, sempre in relazione con il quadro clinico
e la necessità di rimozione di soluti e acqua; una seduta media, comprendente 24-48 scambi,
ognuno dei quali richiede circa un´ora, può durare 24-48 ore. Tuttavia, sono necessari periodici
aggiustamenti di ritmo e durata degli scambi, in relazione con l´evolvere del quadro clinico. In
alcuni casi si può eseguire dialisi continuativamente per alcuni giorni, (come con le metodiche
extracorporee continue) salvo brevi interruzioni tecniche eventualmente necessarie.
Fig. 4.15. Catetere peritoneale flessibile e cuffiato (catetere di Tenckhoff) con estremità interna nel
cavo del Douglas.
In corso di IRA le indicazioni alla dialisi peritoneale, che un tempo erano numerose, si sono
progressivamente ristrette. Le due principali indicazioni tradizionali, e cioè l´impiego nei pazienti
con instabilità cardiovascolare (richiedenti sottrazioni lente del volume) e nei pazienti a rischio
emorragico (vista la non necessità di eparina) non hanno più carattere assoluto, in conseguenza
dell´introduzione delle metodiche extracorporee continue a basso flusso e della possibilità, oggi
concreta, di eseguire emodialisi senza eparina.
Un recente intervento chirurgico addominale controindica l´impiego di dialisi peritoneale, che
diventa problematico per la difficoltà a mantenere un bilancio idrico corretto per la presenza di
drenaggi; per il possibile leakage del dialisato dalla recente ferita; per la maggior facilità di
infezioni del cavo peritoneale. In particolare, un recente intervento di chirurgia vascolare
addominale (aneurisma aortico) controindica l´impiego di dialisi peritoneale per l´aumentato rischio
di infezione della protesi aortica. Ulteriori controindicazioni alla dialisi peritoneale sono la presenza
di una severa insufficienza respiratoria (l´aumento della pressione addominale dovuto al liquido di
dialisi limita le escursioni del diaframma) e uno stato ipercatabolico, in cui è richiesta una
depurazione intensiva, non assicurata dalla dialisi peritoneale (meno efficace della emodialisi), che
ha anche l´inconveniente, nei pazienti ipercatabolici, di determinare una perdita di oltre 10 grammi
di proteine al giorno, a causa dell´elevata permeabilità del peritoneo. Elemento positivo è la
continua cessione di glucosio al paziente che può fornire anche oltre 1/3 del fabbisogno calorico
giornaliero.
In conclusione, pur con le limitazioni sopraesposte, la dialisi peritoneale resta, in mani esperte,
un´opzione valida, quando le metodiche extracorporee non risultano di agevole esecuzione per
motivi tecnici e gestionali ed in pazienti selezionati, in particolari nei bambini piccoli, nei soggetti
con instabilità emodinamica e con problemi emorragici.
Prognosi
L´IRA è una condizione severa e l´evento che l´ha causata, unitamente alle comorbilità presenti, è il
maggior determinante della prognosi. Nel corso della II guerra mondiale, la mortalità nei soldati che
sviluppavano necrosi tubulare acuta era del 91%; con la introduzione della dialisi, la mortalità si è
ridotta al 60%. Negli ultimi quaranta anni, tuttavia, nonostante i progressi nell´antibiotico-terapia,
nella terapia nutrizionale e nelle tecniche dialitiche, non si è osservata un´ulteriore significativa
riduzione della mortalità e la sopravvivenza di un´IRA richiedente dialisi varia dal 10 (pazienti
ricoverati in terapia intensiva) al 50% (pazienti che hanno subito un trauma chirurgico).
L´aumento dell´età media dei pazienti e il diverso pattern di malattie causanti IRA spiegano la
mancata riduzione della mortalità. Fattore prognostico importante è la presenza, in aggiunta
all´IRA, di insufficienza di altri organi. In particolare, la necessità di ventilazione artificiale è
associata ad elevata mortalità. Benché la mortalità attuale sia simile a quella di 40 anni fa, essa non
è più dovuta ad iperpotassiemia ed edema polmonare, ma è attribuibile a problemi infettivi,
cardiovascolari, respiratori. Questo ha dato luogo all´aforisma che i pazienti non muoiono più per
IRA ma con IRA. La maggioranza dei pazienti che sopravvivono ad un episodio di IRA recuperano
una buona funzione renale. L´IRA da tubulonecrosi può durare da pochi giorni ad un mese
(mediamente 10-14 giorni); la non ripresa della diuresi dopo un mese impone una riconsiderazione
della diagnosi. La fase di guarigione può essere caratterizzata da importante poliuria, dovuta ad una
funzione tubulare non ancora completamente ristabilita. Tuttavia, modesti deficit funzionali, a
carattere subclinico, quali lieve riduzione del filtrato glomerulare ed incapacità a concentrare e ad
acidificare le urine, possono persistere in molti pazienti. Solo una piccola quota di pazienti (< 5%)
non recupera la funzione renale; si tratta in genere di soggetti anziani, con malattia renovascolare
sottostante, che hanno avuto un insulto ischemico severo e prolungato.